Quel gran narcisista di Mann. Un europeista poco convinto

Al 173 di boulevard St. Germain sorge oggi la casamadre parigina di Ralph Lauren. Nel gennaio 1926 il palazzo albergava il Centro europeo per la Pace tra le Nazioni, e ospitò una memorabile conferenza di Thomas Mann, giunto in treno insieme alla moglie Katia con il ruolo di “ambasciatore culturale” della Repubblica tedesca, e sceso all’Hôtel Palais d’Orsay.

Nel Resoconto parigino, che gli fruttò aspre critiche di “tradimento” in patria e che viene tradotto ora per la prima volta in italiano, Mann racconta la storia di quel viaggio, di quel discorso e degli otto giorni seguenti passati tra cene, ricevimenti e discussioni con intellettuali e politici accorsi a riverire il grande scrittore (da Mauriac a Romains): pur condito da un forte narcisismo, è un diario di grande densità per approfondire la Montagna magica (uscita due anni prima), per ricostruire l’atmosfera della Parigi Anni 20, e per saggiare le dinamiche del continente.

Il Resoconto è ancora pervaso da un certo imbarazzo per le Considerazioni di un impolitico, che nel 1918, alla fine della guerra mondiale, avevano collocato Mann nella schiera dei reazionari nazionalisti ostili all’idea di civilisation, al pacifismo, alla “propaganda della virtù messa in atto dalla democrazia”: una posizione che era valsa a Thomas anche un furioso dissidio con il fratello Heinrich, ardente pacifista repubblicano, e sincero fautore della fratellanza europea. Se in patria l’adesione di Thomas alla democrazia di Weimar si era compiuta già nel ’22 con lo scritto Della Repubblica tedesca, in cui intravvedeva per la Germania un ruolo di mediazione tra l’oriente bolscevico e il formalismo dell’occidente, il viaggio in Francia era un modo per ribadire al nemico di sempre la nuova fede in una mutua comprensione tra i popoli, in un continente in cui “parleremo francese e parleremo tedesco, e ci comprenderemo benissimo a vicenda”. È la fiducia, mutuata da Heinrich, nell’idea di un’Europa unita. Tuttavia, accanto a questi principi che gli fruttano facile consenso, e la cui fragile base è ben chiara a intellettuali più lungimiranti e radicali come Tucholsky o Brecht, il Resoconto parigino è interessante soprattutto per le scorie di contraddizione che conserva. Accanto all’ambizioso progetto internazionalista e paneuropeista del conte Coudenhove (del quale Mann celebra il magnetico fascino), ritorna la sfiducia nel “pacifismo massonico dei congressi” e si affaccia a mezza bocca l’idea che il crollo del Reich “avrebbe finito per rimandare il consolidamento dell’Europa alle calende greche”.

Accanto alla proclamazione dell’imminente ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, e alla condanna del paganesimo etnico e della retorica del “vecchio dio prussiano” che fa presa su una parte della gioventù, vi è la pensosa conferma delle resistenze strutturali che porrebbero la natura tedesca in contrasto con l’ideale democratico. Cruciali in questo senso, da parte di Mann, il recupero e la difesa del pensiero di Nietzsche, che annuncerebbe un superamento del romanticismo, della democrazia e del fascismo; ma significativa anche l’insistenza sull’irriducibilità del carattere tedesco, moralista e austero, rispetto a quello gaudente e “di mondo” dell’uomo francese.

Ancora, accanto alla sbandierata fiducia nel futuro del continente fa capolino la convinzione che quella europea sia “una civiltà votata alla morte, anzi in realtà già morta, in procinto di essere inghiottita e sepolta dalle ondate proletarie provenienti da oriente”: e, tra le irrazionalità, è proprio il pericolo bolscevico che sembra spaventare Mann, che si immagina un giorno esule al pari di Ivan Bunin (premio Nobel nel 1933, quattro anni dopo lo stesso Mann). Il Resoconto pullula di rifugiati: anzitutto i russi (Sestov, Smelev…), ma anche più anonimi italiani che denunciano i crimini del regime fascista: il fascismo tornerà nel ’30 in Mario e il mago. Non è forse un caso che proprio l’esilio sia al centro del grande romanzo storico cui Mann pone mano in questi mesi del ’26, Giuseppe e i suoi fratelli (ristampato nel 2000 nei Meridiani Mondadori, che oggi fanno uscire il II e ultimo volume dei Romanzi).

Ma non fu Mann, bensì il rivoluzionario Tucholsky a capire lucidamente, proprio nella Parigi del 1926, che tutto stava precipitando verso un nuovo conflitto, perché “questo ordine economico… necessita della guerra per poter vivere”.

Ucciso Deby, il dittatore “utile” contro i jihadisti

Idriss Déby è morto in uno scontro con i ribelli: per il Ciad si chiude una pagina lunga trent’anni. Déby era stato appena rieletto presidente con il 79,32% dei voti al primo turno delle elezioni dell’11 aprile scorso. Si preparava dunque a guidare il Paese per il sesto mandato consecutivo e per altri sei anni. La sua vittoria non era stata una sorpresa.

Déby, che aveva 68 anni, ha comandato col pugno di ferro dal colpo di Stato del 2 dicembre 1990, quando prese il potere rovesciando il dittatore Hissene Habré, grazie anche all’appoggio della Francia. Con l’avvicinarsi dello scrutinio, il clima sociale nel Paese si era fatto incandescente. Da mesi Déby aveva messo il bavaglio alle opposizioni, reprimendo nella violenza le manifestazioni pacifiche dei giovani che chiedono la svolta democratica nel Paese, arrestando in modo arbitrario, censurando Internet e i social e impedendo con tutti i mezzi possibili ai leader dei partiti di opposizione di presentarsi contro di lui alle elezioni. Molti di loro avevano lanciato appelli a boicottare lo scrutino. Al Fatto, il sociologo Roland Marchal, ricercatore a Sciences Po-Parigi, sentito a marzo, aveva previsto il risultato: “I ciadiani non credono più nelle elezioni – aveva detto –. Tutti sanno che il cambiamento in Ciad non verrà dalle urne, non fintanto che Déby sarà vivo”. L’11 aprile, giorno del voto, il gruppo ribelle FACT, Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad, ha dunque lanciato un’offensiva entrando in Ciad dalla vicina Libia per contestare l’inevitabile rielezione di Déby e rovesciarne il governo.

Gli scontri si sono concentrati nelle province di Tibesti e di Kanem, regolarmente teatro di guerra, a circa 300 chilometri a nord dalla capitale N’Djamena. Il 19, l’esercito ciadiano ha annunciato di aver ucciso almeno 300 ribelli e di averne fatti prigionieri altri 150. Il FACT, circa 1.500 uomini, già impegnati in Libia contro il generale Haftar, ha a sua volta annunciato di aver preso Kanem e fatto circolare la notizia che il presidente Déby era rimasto ferito sul fronte. Le forze armate ciadiane hanno poi confermato la morte del presidente-maresciallo a causa delle ferite riportate in zona di guerra, ma senza fornire maggiori precisioni sui fatti.

Ieri il governo e il Parlamento del Ciad sono stati sciolti. Ora il Paese è in mano a un Consiglio militare comandato dal generale Mahamat Idriss Déby, uno dei figli del presidente ucciso, 37 anni ma già – sulle orme del genitore – una lunga esperienza nelle forze d’élite dell’esercito. Per il Ciad si apre una fase di transizione di 18 mesi che dovrebbe sfociare in elezioni “democratiche”. Déby lascia un Paese chiuso tra Libia, Sudan e Niger, in preda alle tensioni interne e alle minacce di Boko Haram. Un Paese povero, malgrado le risorse, al 187° posto su 189 dell’indice di sviluppo umano dell’Onu. Con Déby muore anche uno dei principali alleati, e dei più imbarazzanti, dell’Onu nel Sahel, e in particolare della Francia, da cui l’ex colonia ha ottenuto l’indipendenza nel 1960.

Déby era riuscito a rendersi indispensabile nella lotta contro il terrorismo investendo mezzi, soldi e uomini nel preparare il terreno in Mali all’operazione militare Serval (poi diventata Barkhane), lanciata dall’ex presidente francese François Hollande nel 2013. Da allora, malgrado fosse alla testa di un regime corrotto, autoritario e liberticida, Déby non ha mai perso l’avallo politico di Parigi. Già nel 2008, e l’ultima volta ancora nel 2019, è stato l’esercito francese a intervenire per respingere le offensive ribelli che avanzavano su N’Djamena.

A febbraio, Déby aveva presieduto un G5 Sahel durante il quale Emmanuel Macron, partecipando in videoconferenza da Parigi, aveva riconfermato la presenza delle truppe francesi nel Sahel. Il rischio per Parigi ora è un’instabilità nella regione con effetti nefasti sulla lotta all’estremismo islamico. Il Ciad “perde un grande soldato” e la Francia “un amico coraggioso”, ha scritto l’Eliseo in un comunicato, sottolineando “l’importanza di una transizione politica pacifica”.

Al regime di Assad piace vincere facile: al voto senza sfidanti

A dieci anni dall’inizio del devastante conflitto che ha provocato la morte di quasi mezzo milione di siriani e la fuga della metà della popolazione nei Paesi limitrofi e in Europa, l’appello del presidente Bashar al-Assad a recarsi alle urne il prossimo 26 maggio per il rinnovo del Parlamento e della presidenza è l’ennesima dimostrazione che l’ex oculista mantenuto al potere dalla Russia e dall’Iran, non ha alcuna remora a dimostrarsi per quello che è: un dittatore. Assad non ha ammesso alcuna contrapposizione reale. Per questa ragione ancora una volta la chiamata alle urne è una farsa, come ha sottolineato anche la nuova Amministrazione americana. Del resto, da quando ben mezzo secolo fa il clan alawita (confessione islamica vicina allo sciismo iraniano) degli Assad si è impossessato della Siria, non si sono mai tenute elezioni democratiche.

La maggior parte della gente è sempre stata costretta a recarsi alle urne per evitare ritorsioni da parte dei potentissimi e capillari servizi segreti che spiano senza sosta chiunque per stroncare sul nascere qualsiasi forma di dissenso. Ciò che rimane della popolazione siriana non ha altra motivazione se non quella di tentare di evitare di finire nel mirino dei vari servizi di intelligence (in Siria sono quattro) e subito dopo di finire nelle carceri dove la tortura è l’unico pane quotidiano sicuro. In seguito alle sanzioni economiche imposte l’anno scorso dall’ex presidente americano Donald Trump, per gli sfollati interni siriani, così come per chi non fa parte dell’entourage degli Assad, la vita è sempre miserabile. Certo, ormai non cadono più le bombe dal cielo, a parte la regione di Idlib, ma la qualità della vita è sempre pessima e migliaia di persone non hanno cibo a sufficienza per nutrire i figli. Nei campi profughi ai confini le cose non vanno tanto meglio, mentre nel centro e sud est del Paese sta risorgendo con successo l’Isis proprio a causa dell’odio che milioni di siriani nutrono nei confronti di Assad. Che li guarda dai muri sbrecciati delle case o dalle vetrine dei negozi vuoti con il suo ineffabile mezzo sorriso sormontato dal baffetto a mosca di hitleriana memoria. In giacca e cravatta da sartoria a favore della cartellonistica elettorale, l’effigie di colui che nell’anno Duemila ascese al vertice del potere spacciandosi per progressista moderato incanta solo gli abitanti di Damasco che gli sono sempre rimasti al fianco per difendere i privilegi e i posti di lavoro conquistati nel settore pubblico servendo il clan. Ormai gran parte della Siria è tornata sotto le sue grinfie e il terzo mandato di questo satrapo dall’accento british, come la sofisticata consorte londinese Asma, è scontato.

Le “candidature” si chiuderanno tra dieci giorni, ma i candidati saranno pochi e del tutto inoffensivi. I membri dei vari gruppi di opposizione invece non potranno partecipare dovendo aver vissuto in Siria negli ultimi 10 anni. È il tragicomico stratagemma elaborato dalle menti pensanti del regime per impedire alle figure chiave dell’opposizione di presentarsi dato che si trovano in esilio, alcune da prima dell’inizio del conflitto in seguito alle persecuzioni contro gli oppositori politici.

La principale alleanza di opposizione sostenuta dalla Turchia, il cui esercito ha invaso la fascia settentrionale siriana compresi i cantoni curdi ha respinto l’annuncio. “Riteniamo che il Parlamento di Assad non abbia legittimità. Questo è teatro e uno sforzo disperato per reinventare questo regime criminale ”, ha detto Mustafa Sejari, una figura di spicco dell’opposizione.

L’inviata dell’Onu, Linda Thomas-Greenfield, ha denunciato al Consiglio di Sicurezza che “queste elezioni non saranno né libere né eque”.

I sostenitori di Assad dicono invece che Washington e i suoi alleati stanno cercando di abbatterlo con le sanzioni paralizzanti che hanno imposto. “Nonostante le aspettative dei nemici della Siria, il ballottaggio presidenziale andrà avanti. I nostri governanti per fortuna non hanno seguito i dettami di Washington o Israele”, ha detto Husam al Deen Khalsi, un politico della provincia di Latakia, baluardo del clan Assad e città costiera dove sorge la base militare navale russa di Tartus, l’unica che Mosca possiede sul Mar Mediterraneo e motivo per cui il Cremlino è entrato a piedi uniti nel conflitto dalla parte di Assad. Putin non avrebbe rinunciato a questo cruciale avamposto nel bacino del Mare Nostrum per alcun motivo.

Il mandato che Assad otterrà durerà sette anni. I siriani all’estero potranno votare nelle ambasciate dal 20 maggio.

Nel precedente voto del 2014, fu possibile per la prima volta che qualcuno diverso da un membro della famiglia Assad si candidasse alla presidenza. Ma i due candidati non erano conosciuti e non poterono giovarsi, come i loro due sconosciuti emuli di questa tornata, della pubblicità di cui ha goduto e gode il dottor Assad. Allora il risultato non era in dubbio, ma il futuro del presidente Assad lo era. Allora era ancora possibile che potesse essere sconfitto e costretto a uscire di scena. Oggi è il contrario, ma il deterioramento continuo dell’economia sta provocando di nuovo proteste e sabotaggi. La Siria, insomma, rimane un Paese destabilizzato e distrutto e la riconferma di Assad non porterà cambiamenti in meglio per i più deboli tra gli abitanti. Anzi.

 

Frigoriferi, Spirlì e Cipollino: la seconda variante “Coviddi”

Nomi, persone e cose post pandemici. Oltre la linea dei virologi, ormai firme dello star system, ecco una quota di vippaggine secondaria e affluente che gonfia il pancione dell’Italia. Quel che leggerete è una breve rassegna dei sub-protagonisti dell’anno di sofferto confinamento. Sperando che la lista non debba allungarsi con nuovi ingressi o, come scrive Nino Frassica, di altri vipp.

Gabriele Albertini. Recuperato in zona Cesarini nella hit parade pandemica dei politici neomelodici, anche grazie a colpi televisivi ben assestati (il più noto: “Sui vaccini abbiamo fatto mosse improvvisate, più da napoletani che da lombardi”) il sindaco che guidò Milano tra il 1997 e il 2006, è in pole per candidarsi al tris. La strada è in discesa. Rincuorato il mondo della moda che lo fece sfilare in mutande per dare forza espressiva alla fashion week meneghina e Teo Teocoli che, imitandolo, ha campato di rendita per il decennio successivo.

Angela (Nun c’è coviddi). La signora palermitana, prima ancora che gli scienziati Bassetti e Zangrillo, spiegò l’estate scorsa agli italiani dalla spiaggia di Mondello che l’età del Covid era terminata. L’urlo, simile per forza espressiva a quello di Munch, arrivò fino alle orecchie di Barbara D’Urso. Angela (di cognome Chianello) fu subito messa sotto contratto da Lele Mora. Conquistata la Rete si aprì la speranza di un acquartieramento nel trash televisivo e oltre. Invece, e improvvisamente, il buio. Angela – ripudiata da Lele e dimenticata da Barbara – si è ritrovata infettata dall’autunno carogna insieme al marito “e pure a mio figlio”.

Antonio Bassolino. Classe 1947, sindaco dal 1993 al 2000, protagonista del cosiddetto rinascimento napoletano, tentò già nel 2016 di conquistare il tris, ma tutto finì a carte bollate col Pd. Ora, anche in ragione della confusione politico-virale, si propone per il quater.

Guido Bertolaso. È – oltre ogni ragionevole dubbio – la riserva perfetta del centrodestra. Qualunque sciagura, compresa quella di trovare un nome per il Campidoglio, gli viene intestata. L’amico di Silvio risulta purtroppo tuttora infognato nella questione lombarda. Lo stato d’animo, da quel che trapela, non è dei migliori. Forse fuggirà all’estero. In Africa, giurano.

Bicicletta. La vera vip della pandemia è la bici. Guadagni stellari per i produttori, quadruplicato il fatturato, esaurite le scorte. Pedalare, ovunque e comunque.

Biscotti. Durante i mesi di cucina coercitiva siamo stati chiamati a un esercizio di degustazione dolciaria forzata. Qualche tempo fa un travolgente desiderio di massa obbligò la Ferrero a raddoppiare i turni di lavorazione dei Nutella biscuits. La ricerca riunì l’italia in una coesa campagna di individuazione dei punti vendita ancora forniti.

Massimo Boldi. Cipollino, interrotto il circuito da cinepanettone, divorziato da Christian De Sica e ormai comico in disarmo, ha avuto l’idea, nel pieno della pandemia, di dire, avendone ogni titolo, una sciocchezza. “I potenti padroni del pianeta vogliono terrorizzare il mondo e tapparci la bocca con le mascherine da Pecos Bill”. La forza e la solennità con la quale si è speso contro le potenze straniere hanno colpito non poco il governatore della Lombardia Fontana che l’ha voluto testimonial della Regione in uno spot nel quale, per far colpo, Cipollino si scaccola amabilmente.

Ce la faremoooooo! Ormai nessuno ricorda più, ma il re dei balconi ha un nome e un cognome: Fabio Silvestri da Casal Bruciato. Già nel primo pomeriggio del primo giorno dello storico lockdown, quando le canzoni, tipo “Abbracciame” del neomelodico Andrea Sannino, non avevano ancora colpito i cuori dell’Italia, e l’inno di Mameli o il rumore gioioso del pentolame da finestra a finestra erano una speranza ma non ancora una certezza, la voce di Fabio stabilizzò la resistenza. Quell’urlo trafisse la periferia romana e planò in Rete costruendo una connessione nazionale con gli urlatori di ogni luogo.

Frigoriferi. Nel grande sforzo di memoria bisogna trovare il posto che merita a questo elettrodomestico e soprattutto un produttore, la Desmon di Nusco. Quando Pfizer annunciò il vaccino, il grande sollievo fece subito posto a un grande sconforto. Come avremmo mai fatto a custodire le fiale alle temperature prescritte, tra meno 50 e meno 70 gradi? Domanda legittima e questione davvero complessa. Si scopri però che a Nusco, nelle terre di De Mita, una fabbrica, appunto la Desmon, produceva frigo alle temperature necessarie. Stupore e anche gioiosa rivalutazione dell’opera demitiana.

Lievito di birra. Star indiscutibile dell’ultimo anno e vero cult della pandemia. Immaginiamo che chi lo produce sia adesso alle Cayman.

Antonio Pappalardo. Potevamo dimenticare il generalissimo? Il capo della breve ma pungente stagione dei “gilet arancioni” e la sua giacca, ton sur ton, resteranno momenti indimenticabili. La verve con la quale ha combattuto l’ordine pandemico si è purtroppo spenta nelle ultime settimane dopo che i raduni successivi a quello romano, piuttosto partecipato, hanno fatto flop. Attualmente disperso, ma non disperiamo.

Nino Spirlì. “Sono ricchione alla vecchia maniera”. Cattolico devotissimo, il leghista Nino Spirlì, in ragione della prematura scomparsa della presidente Jole Santelli e poi della perdurante pandemia, si è trovato a governare la Calabria. Noto soprattutto per aver aperto riflessioni sul disagio del nostro tempo: “Non si può più dire zingaro, negro, ricchione”, ha spiegato indicando le ingiustizie provocate dalle nuove “costruzioni linguistiche” delle elité. I calabresi – impegnati sul fronte del virus – sanno che comunque lui non arretra: non si piegherà mai “alla lobby frocia”.

“Dott. Bernabè, chieda a Mittal il reintegro di Riccardo. Licenziato per avere pensato”

Libertà è partecipazione…”. Dottor Bernabè, se lo ricorda Gaber, vero? Anche noi, sempre. Anche adesso che qualcuno vorrebbe appunto negare la libertà di pensare. Di pensare che attraverso una fiction televisiva, uno spettacolo teatrale, una canzone, un dipinto ci si possa confrontare, mettersi in discussione, raccontare un fatto. A Taranto, Riccardo lo ha fatto. Lo ha fatto con noi. Con noi, che nella fiction televisiva – Svegliati amore mio – avevamo raccontato il dramma di chi cammina sul filo sospeso tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, in primis dei bambini. Riccardo però non è un attore e il suo licenziamento non è lo snodo di una fiction: è stato davvero licenziato da ArcelorMittal per aver consigliato su un post la visione della nostra serie; è stato licenziato per avere annodato la sua storia alla nostra e non aver ritenuto opportuno chiedere pubblicamente scusa, come preteso dalla Azienda, peraltro, mai citata nel post condiviso. Ora, dottor Bernabè, Lei è stato appena nominato dal governo presidente dell’ex Ilva in quota Invitalia, cioè una società governativa, pubblica. Lei rappresenta il nostro Paese ma soprattutto rappresenta Riccardo, licenziato per aver pensato. Paradossalmente proprio nei giorni in cui il ministro Franceschini riesce a ottenere l’abolizione della censura cinematografica, un episodio increscioso come questo, sembra voler censurare le idee e lo fa con il ricatto più temibile per un padre di famiglia, quello del lavoro, il cui diritto è uno dei capisaldi della nostra democrazia. Le chiediamo pertanto, Dottor Bernabè, di intervenire con la società ArcelorMittal affinché venga reintegrato subito Riccardo Cristello, visto che è già passato troppo tempo da quando quest’ultimo ingiustamente è stato allontanato dal suo posto di lavoro. Con stima e fiducia, rimaniamo in attesa di un Suo gentile riscontro.

Il risibile auto-invito dei “migliori” pallonari

Con che faccia, Agnelli? La domanda s’impone. Nel giorno in cui i Paperoni del calcio europeo, trainati dal presidente della Juventus, formalizzano la presentazione del loro progetto di torneo di eccellenza detto “Superlega” (già di per sé stesso destinato a un’ondata di critiche, e anche alle feroci prese di posizione degli organi calcistici continentali), il calciatore ucraino Ruslan Malinovskyj, uno dei punti di forza dell’Atalanta, segna il gol dell’1-0 ai bianconeri, che così vengono scavalcati in classifica: Atalanta stessa terza (dopo Inter e Milan) a 64 punti, Juve quarta a 62, Napoli quinto a 60. Come è noto, per qualificarsi alla Champions League bisogna arrivare fra le prime quattro squadre: quella di Agnelli rientra ancora nel quartetto, ma con un vantaggio molto esiguo, che (mancando 7 giornate) potrebbe non bastare. Quindi, come può la Juve, che non è nemmeno sicura di essere ammessa alla prossima competizione continentale ufficiale, pretendere di aver diritto di far parte di un torneo super-elitario? In base a che cosa può essere proprio il suo presidente a caldeggiarlo? Una buona dose di faccia tosta la dimostrano anche Inter e Milan: anch’esse aspirano a far parte di quella discutibile élite, ma se è vero che attualmente occupano il primo e secondo posto del nostro campionato, nello scenario continentale non brillano di luce intensa: quest’anno, per esempio, nessuna delle due ha fatto molta strada né nella Champions (Inter) né nell’Europa League, secondo torneo continentale (Milan).

Insomma, non solo è antisportivo e – diciamolo pure – odioso proporre un “torneo dei Migliori”, ma è anche un po’ ridicolo autoinvitarsi a farne parte senza averne alcun titolo. Comunque vada a finire, quali che siano le prese di posizione e le decisioni delle autorità ufficiali, per colpa di quelle tre arroganti società, il calcio italiano ha già fatto una pessima figura.

Pd e 5Stelle, uguali si perde

Nei giorni scorsi Conte ha dichiarato che il neo-Movimento 5 Stelle resta post-ideologico, cioè né di destra, né di sinistra.

Letta se ne è mostrato soddisfatto sia perché in tal modo il Pd, che si definisce “di sinistra”, può egemonizzare il campo progressista, sia perché, almeno a livello definitorio, si evita un’eccessiva sovrapposizione tra i due partiti che altrimenti finirebbero per pescare nello stesso segmento elettorale trasformandosi da alleati in concorrenti. In tal modo il Pd si colloca almeno a parole sulla sinistra del neo-Movimento mentre questo, incastrato tra Pd e Lega, si logorerà in una perenne indecisione identitaria.

Un tale scacchiere è plausibile in astratto, ma confligge con la storia perché negli ultimi anni è stato il Pd a spostarsi verso destra, mentre il Movimento faceva il percorso inverso. Secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo, alle elezioni politiche del 2018, quando i 5 Stelle ottennero il 32,4% dei voti, quasi il 45% di quei voti venivano da elettori di sinistra; il 37% degli operai e il 38% dei disoccupati avevano votato per il Movimento.

Durante il governo gialloverde di Conte, il Movimento si è liberato dei suoi elettori di destra, passati con Salvini e poi ha promosso gli unici provvedimenti “di sinistra” realizzati in Italia negli ultimi anni: reddito di cittadinanza, decreto dignità, politiche ambientali, bonus vari. In tutte le elezioni amministrative i 5 Stelle hanno ottenuto molti più voti nelle periferie urbane che nei centri delle città.

Ben diversa è stata la storia del Pd. Dalla caduta del fascismo fino a Berlinguer, il Pci rimase un partito prevalentemente comunista nelle idee e nelle azioni. I protagonisti successivi – da Napolitano a Veltroni – lo traghettarono dal comunismo alla socialdemocrazia; in fine Renzi lo spinse dalla socialdemocrazia al neo-liberismo riducendolo a quel poltronificio di cui Zingaretti si è vergognato abbandonandone la segreteria. Negli ultimi anni il Pd si è deprivato di personaggi progressisti come Bersani e Bassolino per infarcirsi di neo-liberisti come Renzi e Calenda, ma anche ora che questi se ne sono andati, resta un partito a vocazione governativa e borghese, che ha perso ogni contatto con le sue radici proletarie e sottoproletarie. Letta ha proposto di modificare queste connotazioni ma se anche lo volesse fare e glielo facessero fare, occorrerebbe del tempo.

Invece, nel suo discorso all’assemblea dei 5 Stelle, Giuseppe Conte ha rimarcato la necessità di muovere “secondo logiche e strategie mirate a ridurre le tante diseguaglianze”, spingendo “tutta l’Unione europea a convergere su una ‘economia eco-sociale di mercato’”. Praticamente ha fatto del Movimento, esplicitamente, un antagonista di quel neo-liberismo al quale molti nel Pd tuttora si rifanno.

Sia Letta che Conte hanno dismesso termini come classe, proletariato, sottoproletariato, ecc. ma la maggiore attenzione di Conte per le disuguaglianze e il retaggio del reddito di cittadinanza fanno del neo-Movimento un più credibile portavoce e difensore della marea di disagiati che preme ai confini del mercato del lavoro e che, fra qualche mese, sarà ulteriormente gonfiata dalla tempesta perfetta che si abbatterà su questo mercato.

Il numero dei disoccupati sta per aumentare a dismisura per effetto congiunto dei fallimenti aziendali causati dal Covid, dello sblocco dei licenziamenti, dei posti di lavoro distrutti dal progresso tecnologico e dalle delocalizzazioni, ma anche dagli effetti dello smart working e dalla possente digitalizzazione incentivata con il Recovery plan. Chi si farà più carico di questa marea, il Pd o il neo-Movimento?

Fra giorni Conte esibirà la Carta dei principi e dei valori dalla quale sarà possibile trarre indizi più precisi sulla sua collocazione ideologica. In Europa nessun capo di governo è riuscito a elaborare un paradigma con cui mettere a sistema le trasformazioni della società postindustriale, tutti limitandosi a esibire scampoli ideologici presi di volta in volta in prestito dal neo-liberismo o dal cristianesimo. È improbabile che Conte e Letta facciano eccezione.

Se il neo-Movimento e il Pd difficilmente si differenzieranno in base al modello più o meno progressista della società che ciascuno di essi propone, è altrettanto difficile che si differenzino in base a una diversa struttura organizzativa. Insieme alla Carta, Conte renderà noto anche lo Statuto ma ha già detto che, nel loro rifondarsi e rigenerarsi, i 5 Stelle debbono “evitare di ricadere nei limiti della forma-partito tradizionale, che mostra evidenti segnali di crisi e varie inadeguatezze”. Perciò Conte non ha mai parlato di “partito” ma solo di “neo-Movimento”, intendendo forse una compagine politica capace di coniugare la razionalità del partito con l’emotività del movimento.

Della struttura partitica Conte ha adottato anzi tutto il presupposto logico che la giustifica, cioè la democrazia rappresentativa al posto della democrazia diretta. Ha rinunziato, così, al tratto distintivo dei 5 Stelle che lo avrebbe reso più inconfondibile rispetto al Pd. Ha poi promesso un’organizzazione ramificata sul territorio, indispensabile sia per esercitare le funzioni di proselitismo e formazione, sia per raggiungere anche quegli 11 milioni di italiani che non hanno Internet. Ma anche questa organizzazione territoriale accentuerà le somiglianze con il Pd e la sua rete di “circoli”.

Per distinguersi dal Pd, i 5 Stelle potrebbero valorizzare, invece che perdere, la loro anima movimentista, che garantirebbe una giusta dose di spregiudicatezza innovativa e di effervescente dinamica, contrastando ciò che Robert Michels chiamava “la legge ferrea dei partiti”, cioè la burocratizzazione e il clientelismo. Non a caso Togliatti si teneva Pajetta dentro il Pci, o De Gasperi si teneva La Pira e Dossetti. Perdere Di Battista e il suo gruppo consente una navigazione più tranquilla ma, recuperandoli, si eviterebbe di intorpidire il Movimento nella stessa bonaccia del Pd.

In fine, l’asso nella manica del neo-Movimento per distinguersi da tutti gli altri partiti potrebbe essere la piattaforma digitale. Conte ha ammesso: “La democrazia diretta, soprattutto in forma digitale, è la novità più importante, l’aspetto più rivoluzionario introdotto dal Movimento. Va promossa e perseguita”. Probabilmente, ciò dicendo, pensa alla piattaforma come semplice strumento per votare questioni cruciali. Invece Davide Casaleggio ne ha fatto una macchina politico-digitale che svolge ben 19 funzioni e che ha accumulato tutto il know how necessario per costruire la platform society teorizzata nel Manifesto ControVento. Per raggiungere con altri informatici la stessa potenza della piattaforma Rousseau, oggi il neo-Movimento avrebbe bisogno di altrettanto tempo e altrettanta passione. Se, come pare, divorzierà dall’eco-sistema Rousseau, finiranno per rimetterci entrambi.

Allo stato dei fatti, dunque, sembra che il neo-Movimento e il Pd tendano a sovrapporsi nella proposta, nella struttura e nell’immagine finendo per pescare nello stesso segmento elettorale e rischiando, così, di perdere le elezioni.

 

A letto presto sì, ma almeno dopo Conti

“Noodles, che cosa hai fatto in tutti questi anni?” “Sono andato a letto presto”. L’immortale battuta di Robert De Niro in C’era una volta in America, considerata la più bella battuta della storia del cinema girato in 35 millimetri (c’era una volta il cinema), continua a rimbombare da un anno a questa parte nelle nostre teste. “Che cosa avete fatto in tutti questi mesi?” “Siamo andati a letto presto”. E lo credo bene, perché non si può fare altrimenti per legge.

Di tutto il garbuglio di divieti, protocolli e misurazioni lavorate all’uncinetto dal leggendario Comitato Tecnico Scientifico, quella più devastante negli effetti e più difficile da comprendere è il cosiddetto coprifuoco alle 22. Per quale ragione il coronavirus sia un zuzzurellone tiratardi, un nottambulo impenitente, e quindi noi ci si debba ritirare sottocoperta (tuttavia padroni di salire in metropolitana alle cinque del mattino) è un mistero di cui nessun guru della virologia potrà mai convincermi.

Anzi; a lume di buon senso, più spalmi gli orari e assecondi i diversi stili di vita, più scongiuri gli assembramenti; più gli orari li comprimi e li imponi, e più favorisci la calca.

Ma torniamo a nostro fratello Noodles. È andato a letto presto quando era a Buffalo, d’accordo, ma poi? Qualcosa avrà pur fatto prima di prendere sonno. Non sappiamo cosa offra la città di Buffalo, ma sappiamo cosa abbiamo fatto noi; abbiamo fatalmente guardato molta tv, che infatti ha aumentato i propri ascolti e ha fatto slittare le prime serate in concomitanza con il coprifuoco. E così, la meravigliosa, proustiana battuta di Noodles dobbiamo adattarla alle circostanze pandemiche. “Che cosa avete fatto in tutti questi mesi?” “Siamo andati a letto presto e abbiamo guardato L’isola dei famosi”. “E poi?”. “Abbiamo guardato Carlo Conti”. E poi? “Abbiamo guardato Barbara D’Urso”. Illustre, megagalattico Comitato Tecnico Scientifico, abbia pietà di noi. Ci permetta di rincasare dopo la partenza di Carlo Conti.

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Quattro ore sotto il sole: vaccinarsi in Lombardia

Voglio raccontare al Fatto, di cui sono assidua lettrice, la mia storia. Dopo aver preso appuntamento per il giorno 19 aprile, alle ore 12:05 presso il centro vaccinale di via Verdi 5 a Vizzolo Predabissi (Milano), dove mi sono presentata puntualmente, ho dovuto rinunciare a fare il vaccino, di fronte all’assurda e umiliante situazione che ho dovuto registrare. Sono stata bloccata e incolonnata in una coda di tre chilometri. Dopo aver constatato la situazione allucinante, ho lasciato mio marito in auto e cercato di risalire la fila di automobili per arrivare al centro vaccinale. Lungo il percorso alcuni volontari e accompagnatori di persone anziane, stimavano un ritardo di 3-4 ore; alle 12:30 stavano vaccinando le persone che avevano appuntamento alle 9:40. Questa è la tanto sbandierata sanità lombarda; una popolazione di anziani al sole per ore, all’ora di pranzo, senza cibo e senza nessuno che offrisse loro una bottiglietta d’acqua. È una vergogna. Lascio a voi il commento.

Iolanda Medici

 

Gli annunci dei Migliori hanno davvero stancato

E ridàgli con gli annunci. L’ultimo riguarda il pass per circolare. Non c’è data di avvio; non si sa come sarà fatto (cartaceo, app, Qrcode?)… E poi: lo avranno i vaccinati, ma quali vaccinati? Soltanto quelli che hanno già fatto il richiamo o basterà la prima dose? Il governo dei Migliori Annunci!

Cesare Sartori

 

Chi vuole il Mattarellum ha la memoria corta

Uno dei nodi cruciali che il governo Draghi ha il compito di sciogliere è quello relativo alla riforma della legge elettorale. E mentre il MSS sembra preferire un sistema proporzionale, Letta ripropone (lo ha fatto poche settimane fa da Fazio) il Mattarellum, perché “ha funzionato bene e permetteva ai cittadini di scegliere”; e perché offre “la possibilità di confrontarsi tra due coalizioni”. Se Letta abbia intenzione di riaprire in questo modo la strada ad un governo con i 5 stelle, arginando la coalizione di centrodestra, è prematuro escluderlo o darlo per certo al momento; ma la sua analisi sui meriti del Mattarellum dal punto di vista storico e politico è completamente errata. Quanto alla possibilità di scegliere che esso offriva ai cittadini, ricordiamo sommessamente che la legislatura terminò con un governo D’Alema sostenuto da Cossiga, Cossutta, Buttiglione e Scognamiglio, che ovviamente nessun elettore aveva voluto; e quanto alla sua efficacia, ci restituì soltanto governi privi di stabilità e soggetti ai ricatti dei piccoli partiti che tenevano in piedi la maggioranza. Inoltre, a proposito delle intenzioni dei legislatori del Mattarellum, è il caso di ricordare quello che disse Montanelli poco prima che si tenessero le elezioni del ‘94: “hanno fatto, o creduto di fare, gli interessi del proprio partito. Hanno fatto la legge prima che venisse il diluvio universale di Tangentopoli, convinti che, siccome loro erano il partito di maggioranza relativa, spazzavano via l’Italia; poi è venuta Tangentopoli, e ora piangono”. Viene da piangere anche a noi al pensiero che i nostri politici non hanno mai nulla da imparare dalla Storia.

Jacopo Ruggeri

 

La destra e la sinistra ai tempi del Covid-19

Rimpiango i tempi in cui viveva Giorgio Gaber: ci aveva insegnato, per esempio, che il bagno nella vasca è di destra mentre la doccia è di sinistra. Per fortuna ora c’è Matteo Salvini che ci fa sapere che il lockdown è di sinistra mentre le aperture sono di destra. Devo dedurne che se fosse sopravvissuto il regime nazionalsocialista che aveva fama di essere estremista tutte le aperture sarebbero concesse. Analogamente si comporterebbe un regime fascista: guai a vietare ai bar e ai ristoranti la chiusura prima delle due di notte: una spia dell’Ovra avvertirebbe dell’avvenuta mascalzonata. Ma qui nasce il problema: se uno è un libero professionista le chiusure comportano difficoltà economiche e perciò nascono le proteste, ma per uno statale o un pensionato non è conveniente andarsi a beccare il Covid-19: chi ce lo fa fare? E se uno resta protetto in casa evitando i contatti rischia forse di fare la figura di bolscevico nostalgico di Stalin?

Antonio Fadda

 

La giustizia al contrario sui permessi ai mafiosi

Leggo la notizia che la Prima sezione della Corte di Cassazione si sta occupando di come alleviare le sofferenze dei mafiosi ergastolani. Sono veramente sconfortato (giuro) e stufo di vivere in un mondo al contrario, ma soprattutto sono arrabbiato perché questa cosa mi ha portato a riconsiderare un’affermazione del mio piu detestabile nemico. Berlusconi. Quando disse (vado a memoria) che per fare il giudice bisognava essere disturbarti mentalmente. E questo è più di quanto io possa sopportare.

Giovanni Medri

 

Per onorare Dante, eliminiamo gli anglicismi

Onoriamo degnamente e quotidianamente Dante per il suo lascito. Il Fatto promuova una campagna contro gli anglicismi. Vi lascio immaginare le perplessità dei vecchietti. Le ascolto quando vado a visitarli (sono medico in un paesino del sub-Appennino Settentrionale). Il quotidiano potrebbe fregiarsi oltre che della “decontaminazione” dagli sponsor anche di quella dagli anglicismi! Una ventata di libertà e civiltà oltremodo salutare!

Mario A. Querques

 

Fascismo, guai a ignorare i passi di Salvini&Meloni

C’è assembramento oltre la Costituzione. Salvini frequenta con ostentata disinvoltura Orbán. Meloni intanto non ha niente da dire davanti all’apologia del nazista Degrelle pubblicata dai giovani veronesi di Fratelli d’Italia. Due episodi purtroppo non isolati. Che ribadiscono che il fascismo è tra noi. Nonostante la Costituzione antifascista italiana e l’Europa della democrazia. Pesa chiamare le cose con il loro nome, per non turbare l’armonia artificiale fondata sulla finzione di una destra presentabile. Una pigrizia molto pericolosa, che presenta sempre il conto.

Massimo Marnetto

“Per errore mi hanno regalato l’assegno: l’ho dato in beneficenza”

Gentile redazione, vi racconto questa mia personale esperienza “a proposito dei ristori”.

Sono un ingegnere in pensione che svolge ancora la libera professione come consulente. Il mese scorso la mia commercialista mi avverte che, avendo nel 2020 un fatturato diminuito di circa il 35 per cento rispetto al 2019, avrei diritto a un “ristoro” di mille euro. Ma come? Percepisco una pensione annua di 63 mila euro (lordi)! Non ritengo di aver diritto ad alcun ristoro! Questa la mia risposta.

Comunque do disposizione alla mia commercialista di fare richiesta. Incredibilmente lo scorso 12 aprile ho ricevuto sul mio conto corrente la cifra di mille euro dall’Agenzia delle entrate, cifra che ho donato il giorno stesso a una onlus legata all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.

La mia vicenda, come altre simili, sta a dimostrare come i cosiddetti “ristori”, o “sostegni”, come piace chiamarli ora, vengano assegnati con criteri a dir poco originali. Era così difficile, dopo la vergogna dei parlamentari beneficiati l’anno scorso, basare l’assegnazione non solo sulla diminuzione del fatturato, ma anche sul reddito totale del percipiente? L’attuale ammucchiata di governo prosegue con gli stessi errori di quello precedente, senza soluzione di continuità (e senza la scusa della fretta), altro che cambio di passo! Già, ma questo è il governo dei migliori…

Massimo Guerrini