L’aborto è una colpa. La storia di Alice nel paese degli orrori

Da qualche mese Alice Merlo, una ragazza di Genova che ha scelto di fare la testimonial della pillola abortiva, viene insultata sui suoi profili social e pure alla vecchia maniera, cioè con scritte offensive sui manifesti affissi in molte nostre città. Lo slogan della campagna nazionale promossa dall’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) in favore della RU486, la pillola abortiva che evita il ricovero ospedaliero e l’intervento chirurgico è “Aborto farmacologico, una conquista da difendere”. L’associazione ha contattato Alice dopo aver letto un post su Facebook in cui lei spiegava di avere abortito, di stare bene e di essere serena. Dopo la sua testimonianza in tantissimi le hanno inviato parole d’affetto e gratitudine, ma le sono arrivate anche offese terribili (“puttana assassina”). E minacce: “A marzo ho ricevuto vere e proprie minacce di morte e, ogni giorno, mi ritrovavo a segnalare o bloccare haters. Addirittura, mi hanno addebitato la morte dei loro figli”, ha spiegato la ragazza a MicroMega, che ha raccontato la storia sul suo nuovo sito (www.micromega.net). Dove si legge che nelle ultime settimane il suo profilo Instagram è stato colpito da un “bombardamento digitale”: i suoi post sono stati sommersi da commenti denigratori di utenti anonimi o riconducibili a fantomatiche sigle politiche: no, Alice non vive nel Paese del Paese delle meraviglie. Ad agosto dell’anno scorso il ministero della Salute ha riformulato le linee guida per l’accesso alla pillola Ru486, eliminando l’obbligo di ricovero per l’interruzione volontaria della gravidanza, tramite aborto farmacologico (linee guida rimesse in discussione da alcune Regioni, come Marche, Umbria, Piemonte). “A mio avviso è necessario normalizzare la narrazione sull’aborto, eliminando il tono giudicante e gli stereotipi che ci colpevolizzano. Interrompere la gravidanza è, a volte, una scelta difficile ma è anche una scelta liberatoria e fatta in serenità. Nel mio caso lo è stato. Perché non dirlo?”: così Alice ha spiegato la sua scelta di metterci la faccia per una campagna sacrosanta in un Paese con il 70 per cento di medici obiettori (in alcune Regioni si arriva anche al 90). A Vanity Fair che le chiedeva quali sono gli insulti che più l’hanno offesa, ha detto: “Quelli che vorrebbero essere dalla mia parte ma mi giudicano, magari dicendo ‘sono favorevole alla 194 ma l’aborto è sempre un dramma’. Mi spiegano come dovrei sentirmi e cercano di impormi il senso di colpa e di vergogna”.

Un paio di settimane fa, a Piacenza, una studentessa che aveva appena abortito è diventata il bersaglio di biglietti anonimi, affissi sulla porta della sua aula, in tutto il piano in cui si trova la classe. Fogli con un feto disegnato e scritte come: “Ho bisogno di afFeto”; “Questo eri tu”. A seguito di un’indagine interna la dirigente scolastica ha “chiuso il caso” dicendo che si era trattato di una “nefasta coincidenza” e che la persona che aveva affisso i manifestini non sapeva che la studentessa avesse abortito, né intendeva mettere in discussione il diritto all’aborto come tutto faceva (e fa) pensare. Come è evidente, a 43 anni dalla legge 194, c’è ancora moltissimo da fare: a troppi non è chiaro che la battaglia per una piena applicazione della legge non è un invito ad abortire, ma la difesa dell’autodeterminazione delle donne. Aiuterebbe che il sistema dell’informazione si appassionasse meno alle cazzate (tipo le supposte offese alla comunità cinese da parte di due conduttori televisivi) e più a questioni che incidono nella vita della società e nell’applicazione dei diritti garantiti dalla legge.

 

Pass vaccinale. Soluzione ben pensata per non essere operativa mai e poi mai

Non è facile vivere in un Paese eternamente sospeso tra il Medioevo e la fantascienza, tra l’eterno film di Totò e Matrix, dove si sognano sviluppi incredibili e futuristici e intanto ci si dibatte con un presente che arranca. Qualcuno ricorderà l’app Immuni, per fare un esempio, che di questa sindrome dei piedi ben piantati nella palude e del dito che indica le stelle fu una metafora perfetta. La propaganda dei primi mesi di pandemia (tutti i giornali e i media, tutti i politici, tutti) tendevano a colpevolizzare i cittadini perché non installavano questa benedetta app, che ci avrebbe avvertito di contatti ravvicinati con gli infetti. Si agitò il fantasma della privacy (“Vergogna! Date i vostri dati a Facebook e poi vi allarmate per un’app che vi salva la vita!”), si accusarono gli italiani di diffidenza e di scarsa collaborazione, con un copione che la pandemia ha santificato e applicato alla lettera ogni giorno: dare la colpa ai cittadini.

Naturalmente la privacy non c’entrava niente, quel che fece naufragare malamente l’app immuni fu semplicemente il salto troppo lungo (da Totò a Matrix, appunto), con la pretesa che una segnalazione dell’app arrivasse alla Asl in tempo reale, e da quella partissero lancia in resta, in pochi minuti, falangi di tracciatori in grado di individuare, che so, tutti quelli seduti su un tram a una certa ora. Pura fantascienza e, com’era ovvio, non se ne parlò più.

Siccome non si impara mai veramente dalle esperienze negative (che si preferisce dimenticare, piuttosto che usarle per trarne lezione), ecco ora la favola bella del pass vaccinale. Buttato lì quasi per caso, tra le righe, dal presidente del Consiglio Draghi, il pass vaccinale non si sa esattamente cosa sia, chi lo debba rilasciare, come funzionerà nella pratica. Il sogno, ovvio, sarebbe avere memorizzata sulla tessera sanitaria la propria situazione in relazione al Covid, se l’hai fatto, se sei vaccinato, se hai fatto un tampone di recente. In sostanza, la cosa è piuttosto facile da dire, ma piuttosto difficile da fare: fornire un documento credibile (cioè non falsificabile, emesso da qualche ente con tutti i crismi dell’ufficialità) a cinquanta milioni di italiani, e farlo entro l’estate, in meno di due mesi, è un progetto bellissimo che ha la stessa fattibilità di portare fuori il cane su Saturno.

Senza contare le ricadute sulla vita di ognuno di noi. La nonna vaccinata può viaggiare, il figlio cinquantenne aspetta il vaccino, quindi no, i nipoti sotto i diciott’anni li vaccineranno forse nel 2023, i tamponi molecolari hanno bisogno di prenotazioni, tempo e file, bisogna aspettare l’esito e partire entro 48 ore, sennò bisogna rifarlo. Aggiungete a piacere, magari immaginando una macchina che parte verso il Sud per le vacanze con a bordo, un vaccinato, due no, un ragazzino, un tamponato. Ognuno con il suo documento a portata di mano per i controlli. Senza contare i costi: se fai il tampone vai in vacanza (o al cinema? A un concerto?), altrimenti no, che è – da qualunque parte la su guardi – una discriminazione anche economica, perché il mercato dei tamponi impazza e i prezzi sono molto diversi da città a città (con Milano più cara di tutti, che ve lo dico a fare). Insomma, la soluzione è ben pensata per non essere operativa mai, oppure operativa con qualche milione di eccezioni, che è lo stesso, e ci rimarrà tra le mani la vecchia cara autocertificazione che ci facciamo noi, con le nostre manine, come ai vecchi tempi dell’app Immuni, parlandone da viva.

 

Movimento: il problema sono gli elettori delusi

Colpisce a volte la superficialità e la sufficienza, dissimulate dietro l’ostilità o il cerchiobottismo, di certi colleghi che scrivono dei 5Stelle sui “giornaloni” o sui giornaletti della stampa padronale.

Il manifesto di Conte, il suo eventuale ritorno a Palazzo Chigi, la rifondazione del Movimento, il Neo-Movimento che – come il neo-classico o il neo-barocco – fa pensare a un déjà vu, a uno stile passato di moda. A colpire è in particolare la malcelata indifferenza per gli oltre dieci milioni di elettori che nelle ultime elezioni del 2018 hanno votato per loro, consegnando ai seguaci di Beppe Grillo il 32 per cento dei voti e il titolo di maggior partito in questo Parlamento.

Ora è vero che i sondaggi attribuiscono oggi al M5S circa la metà di quei consensi. E chissà se ed eventualmente quanto potrà risultare controproducente l’improvvida arringa dell’ex comico in difesa del figlio accusato di stupro. Per il resto, conosciamo tutti i limiti e i difetti mostrati dai “grillini” nella prima parte della legislatura, in particolare nell’esperienza di governo con la Lega: infantilismo, impreparazione, estremismo verbale, populismo e soprattutto mancanza di una cultura politica.

Ma al momento chi può esibirne una degna di questo nome? Forse il Partito democratico, ancora in bilico fra l’anima di sinistra e quella cattolica democratica, “un amalgama mal riuscito” secondo la sentenza di Massimo D’Alema? E nel centrodestra, a parte la “coerenza” professata quotidianamente dall’ex fascista o post-fascista Giorgia Meloni, quella stessa Meloni che a suo tempo votò per Ruby “nipote di Mubarak”, qual è la cultura politica della Lega nazional-sovranista o dei superstiti di Forza Italia, il partito-azienda di Silvio Berlusconi?

A differenza delle forze che provengono dalla cosiddetta Prima Repubblica, il M5S è – per l’appunto – un movimento: cioè un soggetto in transizione, in via di evoluzione e trasformazione. Prodotto originariamente da un’istanza di rinnovamento, di giustizia sociale, di trasparenza e onestà. Non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscere che finora molte di queste istanze sono andate deluse. Ma tutto ciò non può impedire di ammettere che nella seconda parte della legislatura, dal governo Conte bis al governo Draghi, i 5Stelle siano cresciuti e maturati sul piano istituzionale dando prova di responsabilità e senso dello Stato. Anche a rischio, magari, di omologarsi in qualche caso ai partiti tradizionali.

La questione, allora, non riguarda tanto i “big” in carriera che rappresentano il M5S dentro o fuori il Parlamento o fuori: Di Maio o Di Battista, Fico o Crimi, Raggi o Appendino. Bensì quei dieci milioni e passa di cittadini italiani che appena tre anni fa hanno affidato a loro le proprie aspettative, speranze, illusioni.

Questo è il problema politico che l’ex premier giallorosso, se ne avrà la forza e la capacità, deve cercare di risolvere. Questa è la “domanda” di fondo a cui bisogna dare una risposta concreta e praticabile.

E ammesso pure che quegli elettori si siano ridotti o dimezzati, e che da qui alle prossime elezioni il Neo-Movimento rifondato da Conte non riesca a recuperarne almeno una parte, resta il fatto comunque che qualcuno dovrà pure farsene carico. Magari per evitare che finiscano a ingrossare le file dell’astensionismo. O peggio ancora, quelle della destra “di protesta e di governo”, incline a soffiare sul fuoco dell’epidemia, del malcontento e della jacquerie all’italiana.

 

Accuse di razzismo, gag, politicamente scorretto e la libertà di satira

Ieri abbiamo visto che si può essere razzisti involontari, quando la sociocultura in cui viviamo rende normali degli stereotipi discriminanti, che assorbiamo e ripetiamo senza dar loro peso. Sbaglia chi, accusato di razzismo per una gag, replica appellandosi al politicamente scorretto e alla libertà di satira: il razzismo non c’entra col politicamente corretto, e non c’è libertà di razzismo. Per essere nel merito, la risposta deve spiegare perché quell’occorrenza non è razzista: per esempio, la gag su Laura Boldrini, ripresa da Striscia, non è razzista poiché il linguaggio razzista messo in bocca al personaggio Boldrini, interpretato da Paolo Kessisoglu, che rispondeva alle domande di una voce fuoriscena (Luca Bizzarri), serviva a tratteggiare come fasullo il suo impegno umanitario. Si può trovare fessa quella satira su Boldrini, dato che la sua attività politica a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo è meritoria; e strumentale l’uso dello sketch come commento a una notizia relativa alle accuse mosse a Boldrini da alcune sue ex-collaboratrici; ma la gag di Giass non era razzista: dava della razzista a Boldrini (con divertimento sommo, immagino, dei leghisti, che non facevano mistero di disprezzare la sua politica inclusiva).

Fra le reazioni sbagliate all’accusa di razzismo, toccano il nadir gli insulti e le minacce di morte di cui è stato fatto bersaglio Louis Pisano, il giornalista di Harper’s Bazaar che ha stigmatizzato su Instagram la gag di Striscia (shorturl.at/bqAOP). Ne riporto alcuni campioni: “Sta’ zitto, negro”, “Il tuo culo negro cerca di vincere ogni evento delle Olimpiadi della vittima”, “Abbiamo la frocia permalosa”, “Che schifo mi fate con questo politically correct, veramente i soggetti come @louispisano dovrebbero essere eliminati dalla faccia della terra”, “beduino ignorante”, “sei una povera scimmia stupida, grazie a dio la gente come te non può riprodursi”, “Se avessi 1 pistola ti sparerei”, “Sei lo scarto del mondo: nero, gay e francese. Ma muori”, “Vai a fanculo ricchione”, “Sei proprio un negro di merda frocio”, “se muori stappo”.

Le altre reazioni sbagliate che ho letto sono fallacie induttive (cfr. Ncdc 4 settembre):

“E allora Charlie Hebdo? Ha preso in giro gli italiani morti nel terremoto!”: infatti sbagliò anche Charlie Hebdo. Gli italiani che s’indignarono per quella vignettaccia ne avevano tutte le ragioni. La satira è un giudizio innanzitutto su chi la fa, e ogni reazione dipende dalla propria ideologia e dalla propria cultura: se ti piace chi sfotte le vittime invece dei carnefici, per esempio, non sei di sinistra (cfr. Qc # 9);

“Tutto il mondo prende in giro noi italiani con pizza pasta mandolino mamma mia, mica ci offendiamo”: il problema non è che uno si offende, ma che si è razzisti;

“Era una gag innocente, per ridere”: purtroppo, le gag che rafforzano gli stereotipi razzisti hanno come conseguenza quella di banalizzare il razzismo, col risultato, per esempio, che a scuola i bulletti umiliano certi compagni ripetendo a sfottò i tormentoni, apparentemente innocenti, di questo o di quel comico tv;

“Anche Totò recitò in blackface”: ma era un’altra epoca, e infatti oggi per fortuna non potrebbe farlo, perché è una gag razzista. (Vanno cancellate dunque le opere razziste del passato? No, questo è revisionismo stupido, poiché impone al passato i parametri contemporanei). Sensibilizzare sul problema, come fanno i movimenti per i diritti civili, aiuta insomma tutti quanti a migliorare questo stato di cose. Sembrano argomenti lapalissiani, eppure anche menti brillanti sono cadute nella trappola giustificazionista, come vedremo.

(2. Continua)

 

Non lo si usi più: è un prefisso che porta iella

Se adoperato come prefisso, “super”, profuma di bufala e spesso porta iella. Frequente nella titolazione dei giornali per merito della sua brevità (come “ira”, “choc”, “blitz”, e similari acuti del non senso) è stato abusato nell’attesa di Mario Draghi, sì l’invocato SuperMario che come il baffuto idraulico del videogioco avrebbe riparato l’Italia. Non solo Draghi è privo di baffi, ma adesso forse avrebbe voglia di querelare i superlecchini che gli hanno attribuito inesistenti facoltà paranormali.

Ultima arrivata è la Superlega, che domenica scorsa era uno squillante Supercalcio e ieri un già possibile Superflop. Un baraccone messo su da alcuni presidenti super-ricchi, gravati da superdebiti e dove si aggirerebbe un supergiuda (il presidente della Juventus, Andrea Agnelli a detta del presidente Uefa, Aleksander Ceferin).

“Che il calcio sarebbe andato a morire di overdose – mi dice Massimo Fini – lo scrivevo già alla fine degli anni Novanta, quando sembrava che la gallina delle uova d’ora fosse inesauribile, e adesso ci siamo quasi”. Il pessimismo di Massimo, che è anche il mio, non si basa tanto sullo spettacolo business (in fondo c’è sempre stato) o sulla inettitudine dei padroni del vapore che strapagano attaccanti bidoni (già nel 1970, Alberto Sordi era il presidente-macchietta del “Borgorosso Football Club”). No, la novità è la quasi totale indifferenza dei tifosi. Che assistono imbambolati a partite mediocri nel vuoto allucinante degli stadi. Sempre più taglieggiati dalle tv a pagamento. Che per moltiplicare gli abbonamenti varano tornei assurdi, a cominciare dai maestrini dell’Uefa che si sono inventati una Conference Cup riservata agli scarti della Serie A. Per il tifoso normale un incubo da cui fuggire urlando.

A parte la guerra tra federazioni e i club scissionisti, con gigantesche grane legali all’orizzonte, l’idea che un disgraziato oltre a versare quattrini a Dazn per il campionato, a Sky per le svariate Coppe europee, alla Rai per la Coppa Italia, debba mettere mani al portafoglio per foraggiare il superlunapark pallonaro dalle tasche bucate non è abbastanza demenziale? Più che una Superlega, una Supercazzola.

La Superlega non è super: il progetto sta già crollando

Le proteste dei tifosi, i governi di traverso, gli sponsor spaventati, i club che cominciano a ripensarci: il grande castello della Superlega sembra già crollare. Non sono stati i comunicati della Uefa, le minacce di esclusioni e cause legali, armi tutte un po’ spuntate. È quello che sta succedendo in giro per l’Europa, dalla Francia alla Germania contrarie al progetto, fino all’Inghilterra, il campionato più sano e tradizionalista al mondo, che si rende conto di non aver così bisogno del nuovo torneo. L’Italia resta sempre periferia dell’impero: s’accoda passiva, sale sul carro, scenderà se del caso. Mentre andiamo in stampa è convocata una riunione tra i 12 ribelli, magari ex a questo punto.

Forse questo è l’ultimo sussulto del pallone che reagisce alla secessione dei ricchi, il progetto di Real Madrid, Juventus & C. di farsi una coppa tutta loro, dove decidere chi gioca e spartirsi da soli la torta. È una strana resistenza, quella in cui la difesa dello spirito del gioco è affidata a imbarazzanti carrozzoni travolti dai peggiori scandali degli ultimi decenni, come Uefa e Fifa, e viziati paperoni che guadagnano milioni (dall’allenatore del City Pep Guardiola al centrocampista del Real Toni Kroos). Ma il calcio moderno era ancora calcio, la Superlega a inviti sarebbe proprio un’altra cosa.

Così al grido di “a morte i traditori” l’intero sistema, preoccupato per la sua sopravvivenza, ha dichiarato guerra al torneo. In modo un po’ confuso, senza saper nemmeno con quali armi. Cosa si può fare del resto a un gruppo di società private, che si organizzano per giocare una partita durante la settimana, come fosse il calcetto del mercoledì sera fra amici, solo con 3-4 miliardi di montepremi? I più bellicosi vorrebbero cacciarli addirittura dalle competizioni in corso, a partire dalle semifinali di Champions e Europa League, in programma fra una settimana. Strada difficile da percorrere, sul piano legale e pure su quello sportivo: la Uefa colpirebbe gli avversari, ma devasterebbe i suoi stessi tornei. Per la Champions significherebbe sostituire 3 semifinaliste su 4 o consegnare direttamente la coppa al Paris Saint-Germain. Magari escluderli dalla prossima stagione: lo ha proposto il Parma (che guarda caso così eviterebbe la retrocessione) nell’ultima assemblea di Serie A, ma la discussione è durata 30 secondi. Ve la immaginate una Serie A senza Juve, Inter e Milan? Il valore crollerebbe, bisognerebbe stracciare tutti i contratti, a partire da quello per i diritti tv che manda avanti il carrozzone: Dazn non pagherà 840 milioni l’anno per un campionato zoppo.

Venerdì si riunirà l’esecutivo Uefa per dettare la linea, ma potrebbe non essercene nemmeno bisogno. La Superlega sta franando da sola. Prima le voci sui dubbi del Chelsea, poi il dietrofront del Manchester City, le dimissioni del n. 2 dello United Ed Woodward, lo spettro di un referendum tra i soci a cui sarebbe condizionato il sì del Barcellona, i ripensamenti dell’Atletico Madrid. Il fantasmagorico torneo che doveva riunire le migliori del continente già perde pezzi.

In realtà, li avevi persi ancor prima di partire: il no di Paris Saint-Germain e Bayern Monaco, che oggi rappresentano la vera élite del calcio continentale, molto più delle spagnole decadute o delle italiane allo sbando, è stato un duro colpo; senza Germania e Francia (e i loro mercati) la Superlega sarebbe molto poco super.

Il resto l’ha fatto l’Inghilterra: doveva essere il punto di forza del torneo, con addirittura 6 club, ma è diventato subito l’anello debole. La Premier League è l’unico campionato che funziona veramente, viaggia su giri d’affari paragonabili a quelli della Superlega, rappresenta un patrimonio storico per la popolazione ed economico per il Paese. Persino Boris Johnson è sceso in campo, minacciando nuove leggi per bloccare l’arrivo dei campioni, imporre vincoli o oneri fiscali alle proprietà. Insomma, da essere il progetto del futuro la Superlega si è ritrovata tutti contro. E gli sponsor detestano le guerre: Amazon Prime (indicata come possibile distributore delle partite) ha sentito la necessità non solo di smentire, ma proprio di dissociarsi dal progetto.

Fermare i ribelli con gli avvocati e le minacce sarebbe stato difficile, ma si stanno fermando da soli. Se il progetto davvero naufragherà, allora si tornerà a trattare sulla nuova Champions, appena varata dalla Uefa: 36 squadre anziché 32, più partite e più ricavi. Le big chiedevano potere e garanzie: ciò che davvero le terrorizza è la prospettiva di restare fuori per una stagione disgraziata e perdere decine di milioni. La Uefa gli aveva già concesso due “wild card”, ora potrebbero aumentare. E poi, ovviamente, ancora più soldi, magari con l’ingresso di un fondo d’investimento nel torneo. Che sia Champions o Superlega, sempre di quello si tratta. Ma almeno rimane calcio.

Avrà 50 miliardi dal Recovery Plan: è partita la guerra per la guida di FS

La guerra non tanto fredda per la guida di Ferrovie dello Stato è ormai aperta anche in pubblico. Ieri nientemeno che il Financial Times ha ripreso una notizia pubblicata mesi fa sulla stampa italiana (da Il Domani per la precisione): l’esistenza di un’inchiesta a Roma sui rapporti tra FS e Generali nell’ipotesi che la compagnia assicurativa sia stata favorita in questi anni come fornitore della società pubblica; in questo contesto – altro fatto noto – si parla di due risarcimenti per malattia pagati all’ad Gianfranco Battisti, all’epoca a capo dell’Alta velocità, per oltre 1,7 milioni di euro. Effettivamente un’enormità, ma l’attuale numero 1 di Ferrovie, in corsa per la riconferma a maggio, non era indagato mesi fa e non è indagato ora, come specifica anche il FT.

E allora perché un’inchiesta vecchia di mesi e un fatto (i risarcimenti a Battisti) che fu oggetto di interrogazioni parlamentari di Matteo Renzi e soci addirittura nell’ottobre 2019 finisce ora sul più importante quotidiano finanziario europeo? Perché entra nel vivo la partita delle nomine pubbliche: il cda di Ferrovie dello Stato, attorno a cui da oltre un anno e mezzo si combatte una battaglia senza esclusione di colpi, va in scadenza a maggio ed è una poltrona che oggi fa persino più gola di prima. Come raccontato sul Fatto di lunedì, Rfi – cioè la società di Ferrovie che costruisce e gestisce le linee – ha progetti d’investimento di suo per 79 miliardi nei prossimi anni, mentre nella versione del Recovery Plan del governo Conte c’erano investimenti in ferrovie per 26,7 miliardi, che saranno pressoché raddoppiati – secondo indiscrezioni – dall’extradeficit da 30 miliardi in sei anni voluto dall’esecutivo Draghi. Non solo: “Cresce ancora la quota delle Ferrovie”, ci informava ieri Il Sole 24 Ore senza spiegarci di quanto. Il motivo per cui “cresce”, però, è assieme chiaro e bizzarro: “Le ferrovie sono considerate da Bruxelles un investimento 100% green e il rafforzamento di questo capitolo aumenta la possibilità per l’intero piano di superare ‘l’esame’ di ecologia”. In sostanza a Bruxelles ritengono che ogni investimento ferroviario sia un bene per l’ambiente: un non sequitur da antologia di cui nessuno dovrebbe stupirsi visto che è alla base, per dire, del sì all’alta velocità Torino-Lione.

In sostanza, Ferrovie dello Stato sarà il principale investitore singolo del Piano di ripresa italiano, motivo per cui la poltrona di amministratore delegato fa oggi ancora più gola di prima: al netto di eventuali appetiti illegittimi, per così dire, è un posto dal quale si può disegnare un pezzo del futuro del Paese e, ovviamente, aggregare un non disprezzabile sistema di potere. Battisti – che finora è stato discretamente speranzoso nella riconferma, al contrario del suo nemico interno, il presidente Gianluigi Castelli – è figlio della stagione “gialloverde” e fu nominato in quota M5S: da allora Matteo Renzi e l’area a lui più vicina del Pd, prima e dopo la scissione, gli hanno fatto la guerra sognando il ritorno dell’ex amministratore delegato Renato Mazzoncini, ahilui azzoppato da un paio di disavventure giudiziarie, o almeno di qualcuno a lui vicino (c’è chi fa il nome del dirigente Fabrizio Favara).

Per quanto imbarazzante, va registrato che il nuovo articolo con vecchia storia del FT non ha scatenato il solito profluvio di dichiarazioni. A sera – piccolo segnale – l’unico dichiaratore risultava il capogruppo Pd in commissione Trasporti della Camera Davide Gariglio, piemontese e pasdaran pro-Tav, già renziano, oggi nella riserva degli ex detta Base riformista (Lotti, Guerini, etc.): “Le indagini sugli indennizzi milionari versati per infortuni occorsi ai manager del Gruppo Ferrovie dello Stato gettano un’ombra sull’operato degli attuali vertici dell’azienda”, la sua stentorea presa di posizione.

Particolare che segnala il vero problema di questa vicenda: non è chiaro su quali basi, discutendo con chi e attraverso che criteri Mario Draghi – che ha già fatto capire che nominerà da solo i vertici delle principali partecipate – sceglierà il prossimo ad di Ferrovie. Influirà un articolo del Financial Times, giornale con cui ha avuto storicamente ottimi rapporti e che ha ospitato il suo lungo intervento sulla pandemia?

 

Pnrr, Draghi resta ancora muto. E il Parlamento voterà sul nulla

Pierpaolo Bombardieri, leader della Uil, s’era presentato a Palazzo Chigi pieno di speranze: “Dovremmo avere la possibilità di vedere il piano, perché noi abbiamo lavorato sul piano del precedente governo. Noi riconosciamo solo a Omero la possibilità di descrizione orale”. All’esito dell’oretta di colloquio, il nostro ha dovuto aggiungere il nome di Mario Draghi a quello di Omero: il premier non ha presentato ai segretari dei confederali nessun testo e, a differenza dell’aedo greco, ha parlato pure poco, limitandosi perlopiù ad ascoltare.

La stessa scena ripetuta coi partiti, le imprese e chiunque si sia presentato a Palazzo Chigi per parlare del Recovery Plan italiano in via di spedizione a Bruxelles (entro il 30 aprile). Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl) e appunto Bombardieri hanno ad esempio chiesto al premier se sono stati calcolati gli impatti occupazionali di ogni singolo progetto del Pnrr: no, ha detto Draghi, magari se tornate dopo il 1° maggio vediamo. Quanto al prolungamento del blocco dei licenziamenti, il trio ne ha illustrato l’imprescindibilità, il premier ne ha preso atto e rinviato gli ospiti al ministro del Lavoro Andrea Orlando, con cui si vedranno oggi.

Come detto, non è che ai partiti sia andata meglio. Ieri c’è stato l’ultimo incontro, quello con la delegazione di LeU. I capigruppo, Federico Fornaro e Loredana De Petris, uscendo hanno raccontato di non aver visto il piano. E hanno sottolineato la necessità di un maggior coinvolgimento del Parlamento: “Le risoluzioni parlamentari sono la strada” e, visti i tempi, “sarà una corsa”. La strada individuata, però, è più formale che sostanziale.

È stata la capigruppo della Camera a decidere, su proposta di Stefano Fassina, che sul piano Draghi dovrà fare non “un’informativa”, come previsto in un primo momento, ma delle “comunicazioni”, che implicano un voto. Il Senato si è adeguato. Qui, però, finisce la battaglia dei partiti di maggioranza per il coinvolgimento delle Camere, almeno in questa fase. Per adesso, nessuno ha ancora iniziato a lavorare sulle risoluzioni. L’unica cosa che appare certa è che saranno il più generiche possibile. Anzi, magari ci si limiterà alla formula usuale dedicata al passaggio prima di un Consiglio europeo: “Sentite le comunicazioni del presidente la Camera (o il Senato, ndr) approva”.

Di certo, non si entrerà nel dettaglio. “Non siamo d’accordo su molti punti”, per dirla con Annamaria Bernini, capogruppo di Forza Italia in Senato. Quindi non c’è altra scelta. A meno che qualcuno in questa settimana che manca per il passaggio in aula non decida di sollevare qualche problema. Riccardo Molinari, capogruppo della Lega a Montecitorio, si lascia una possibilità: “Prima di decidere se presenteremo una risoluzione, sarebbe utile leggere il piano”. Per adesso, niente più di una speranza.

 

#poltronegirevoli, parte oggi la nuova campagna per i sostenitori del Fatto.it

Ex ministri che diventano lobbisti pagati dai privati per rappresentare interessi su cui hanno legiferato fino a qualche mese prima. Ex parlamentari assoldati da imprenditori per sfruttare al meglio la loro rete di contatti. Tutto perfettamente legale perché una legge, almeno in Italia, non c’è. Questo groviglio di interessi che la politica non ha mai voluto districare è il punto di partenza della nuova campagna per i Sostenitori de ilfattoquotidiano.it, che hanno ricevuto in anteprima esclusiva un report inedito realizzato da The Good Lobby (organizzazione che si batte per la trasparenza dei processi decisionali): la partnership continua da oggi sul sito, con una serie di approfondimenti a firma di Giuseppe Pipitone sui casi più clamorosi di “poltrone girevoli” in Italia. E la battaglia è solo all’inizio: le segnalazioni dei nostri Sostenitori saranno necessarie per realizzare un’inchiesta ricca e partecipata. Oggi alle ore 17 sulla nostra pagina Facebook partecipate alla diretta #poltronegirevoli.

Rai, Meloni vuole tutto il “panino” nei tg

Scintille ieri in commissione di Vigilanza Rai tra Daniela Santanchè (FdI) e il direttore del Tg1 Giuseppe Carboni sulle presenze degli esponenti meloniani nel telegiornale della rete ammiraglia. “Vorrei sapere dove ha preso i dati che sta citando… Perché a me non risulta che il Tg1 ci dedichi il 9% di spazio. È molto meno!”, è esplosa Santanchè dopo l’intervento di Carboni.

“Sono dati che mi ha fornito la Rai. Di spazio ve ne diamo a sufficienza…”, le ha risposto il direttore, in collegamento solo audio, oltretutto assai difficoltoso, con il sonoro che andava e veniva, causa di ulteriore nervosismo con gli esponenti meloniani.

Protagonista della Vigilanza è stato, dunque, il “panino”. Il famoso modus operandi sugli spazi dei politici nei tg inventato dal mitico Francesco Pionati e “cencellizzato” dall’ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria: un terzo alla maggioranza, un terzo all’opposizione, un terzo al governo. In forza del fatto di essere l’unico partito all’opposizione del governo Draghi, da settimane FdI pretende più tempo di parola nel pastone politico, mirando all’intero 30% che, per prassi, spetta all’opposizione. Contro Draghi ci sono anche esponenti di Sinistra Italiana (Nicola Fratoianni) ed ex pentastellati ma, non facendo gruppo parlamentare, non possono vantare diritti nei tg. “Questa è solo una prassi, non sono regole codificate, che in Rai esistono solo in regime di par condicio, nelle settimane che precedono le elezioni”, spiega il presidente della Vigilanza, Alberto Barachini.

Sulla questione viene interpellata l’Agcom che, con una delibera, rigetta la richiesta di FdI, chiedendo solo “un adeguato rilievo alle posizioni delle forze politiche che non sostengono l’attuale maggioranza di governo”. Concetto ribadito in audizione pure dal suo presidente Giacomo Lasorella (fratello della giornalista Carmen). Insomma, un terzo del tempo alla Meloni è troppo, ma comunque le va garantito più spazio.

A questo punto, in attesa di un’indicazione della Vigilanza, la commissione, su iniziativa del senatore pentastellato Primo Di Nicola, ha ritenuto utile un confronto coi direttori. Che però, nonostante le buone intenzioni, si è rivelato lacunoso. In primis perché si è tenuto a porte chiuse, quando la maggior parte delle sedute sono in diretta streaming. Poi tutti i direttori erano collegati da remoto e alla fine, coi tempi stretti per l’Aula, oltre a Carboni sono riusciti a intervenire Simona Sala (Gr), Alessandro Casarin (Tgr) e Giuseppina Paterniti (direttrice editoriale offerta informativa). Con Sangiuliano (Tg2) e Orfeo (Tg3) costretti a fare da spettatori muti. Ora Carboni, su richiesta di Barachini, dovrà fornire una relazione sui dati citati. Perché secondo FdI “siamo ben sotto il 5%”. “Va bene il pluralismo, ma dev’essere coniugato con le notizie!”, hanno sottolineato in coro Sala e Paterniti. “I miei tempi sono perfetti. E io a FdI do già l’11%”, fa sapere Sangiuliano. “Il 30% solo a FdI è una richiesta abnorme che non sta né in cielo né in terra”, osserva il renziano Michele Anzaldi.

Mentre Casarin, il direttore dei tiggì regionali (quota Lega), ha spiegato la sua ricetta: “Faccio parlare il governatore e poi un sindaco importante”. “Sì, ma quest’ultimo dev’essere di un partito diverso!”, gli viene rinfacciato. Sempre di panino si tratta, ma in salsa regionale.