Conte a Grillo: “Io e M5S rispettiamo vittime e pm”

L’avvocato che era premier ha parlato, con sillabe da giurista: “Comprendo l’angoscia del padre, ma l’autonomia della magistratura va sempre rispettata, come vanno protetti la presunta vittima e i suoi familiari”. Tradotto, Giuseppe Conte ha preso le distanze dal Garante che ha detto l’intollerabile, da Beppe Grillo, con cui ieri – dicono – si è anche sentito.

Non poteva più tacere Conte, su quel video che ha fatto diventare rosso di imbarazzo tutto il M5S e che preoccupa molto il Pd. Una grana anche per il rifondatore Conte, a cui ora il suo Movimento come i dem chiedono di accelerare, di chiudere appena possibile il suo piano di rifondazione, perché entro aprile vanno definiti gli accordi per le Comunali di ottobre. E se fino a lunedì i giallorosa sussurravano di un Conte “troppo lento”, ora dopo il video di Grillo tutti pensano che il tempo sia già scaduto: perché con quel filmato per difendere il figlio dell’accusa di stupro, il Garante si è messo fuori dal gioco politico, e ora serve che l’avvocato prenda la guida per tenere assieme i 5Stelle, l’altra metà dei giallorosa. Per il Pd lo dice chiaro e tondo il vice segretario, Peppe Provenzano.

Mentre anche a Palazzo Chigi cresce la preoccupazione per un partito della maggioranza senza una direzione chiara. Nell’attesa, ecco la lunga nota di Conte. Prima, per tutta la giornata, era stato subissato di messaggi dai parlamentari del M5S: “Giuseppe, dicci cosa bisogna fare, aiutaci”. L’avvocato promette che si farà sentire. Di certo avrà letto anche la pioggia di agenzie al veleno dei dem contrari all’intesa con il M5S, tra cui l’ex capogruppo in Senato, Andrea Marcucci, che gli rinfaccia il silenzio del giorno prima. E Matteo Renzi, che tira in ballo anche Luigi Di Maio. Conte capisce che non si può più rinviare. “Lavorava al testo da lunedì, lui ha i suoi tempi” sostiene un big. Così la nota appare nel tardo pomeriggio. “Sono ben consapevole di quanto questa vicenda familiare lo abbia provato e sconvolto – scrive l’ex premier – ma non possiamo trascurare che in questa vicenda ci sono anche altre persone, i cui sentimenti vanno assolutamente rispettati, vale a dire la giovane ragazza direttamente coinvolta e i suoi familiari”. Non solo: “Con il Movimento mi accomunano da sempre due convinzioni: di ritenere indiscutibile il principio dell’autonomia della magistratura e di considerare fondamentale la lotta contro la violenza sulle donne”. E qui parla già da capo, Conte. Anche se non si decide a presentare il suo piano. Forse anche perché va ancora risolta la battaglia con Davide Casaleggio e Rousseau, che pretende 450mila euro di arretrati e che al M5S ha dato un ultimatum che scade domani. Nell’attesa, ha già detto no al M5S che gli chiedeva di pagargli una singola votazione sull’organo collegiale che dovrebbe affiancare Conte (o di cui dovrebbe far parte, come primus inter pares). Ma il tempo stringe, anche per il Movimento che ha già individuato la sua sede a Roma in piazza del Parlamento, accanto a un ristorante giapponese.

Al Nazareno invece lavorano alle Amministrative. È ormai sdoganato il principio – anche tra i 5Stelle – che si possa procedere non per un pacchetto, ma per scelte disgiunte. A Bologna sono partite le primarie del centrosinistra con Isabella Conti, lanciata da Renzi, che corre in proprio contro il candidato dem, Matteo Lepore. Si va verso i gazebo anche a Torino, dove un accordo col M5S pare difficissimo. A Napoli, invece, l’unità della coalizione dovrebbe reggere: in prima fila, Roberto Fico. Resta Roma: la presentazione delle candidature è stata fissata al 10 maggio, per permettere a Nicola Zingaretti di ripensarci. Lui e il segretario si sentono continuamente. Ma il governatore del Lazio cerca ulteriori garanzie: una parte dei voti dei Cinque Stelle, magari già al primo turno; un accordo sul suo successore con il Movimento: è pronto Alessio D’Amato, suo Assessore alla Sanità. Se alla fine le condizioni non ci saranno le primarie con Roberto Gualtieri saranno parecchio affollate: ci pensa anche Monica Cirinnà. Intanto Goffredo Bettini il 29 lancia le sue Agorà: sul palco ci saranno tutti, da Letta a Conte. Chissà se con qualche nodo irrisolto in meno.

 

“Non è una pensione per i poveri, ai condannati va tolto il vitalizio”

“La Commissione contenziosa ha esercitato poteri superiori a quelli della Corta costituzionale, senza averne i requisiti”. Il costituzionalista Michele Ainis, oggi componente dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, è netto: la decisione dell’organo del Senato che ha restituito i vitalizi ai condannati presenta grossi problemi “di forma e di sostanza”, motivo per cui, come richiesto dal Fatto con una petizione avviata in queste ore, il provvedimento dovrebbe essere appellato. Anche perché, è il parere del giurista, i parlamentari condannati in via definitiva vengono meno a quei doveri di “disciplina e onore” indicati dall’articolo 54 della Costituzione.

Professor Ainis, partiamo dalla forma. Cosa c’è che non va nella decisione della Commissione contenziosa?

Per prima cosa, rispetto alla delibera del 2015, ovvero quella che negava il vitalizio ai condannati, la Commissione si è comportata come si comporterebbe la Corte costituzionale nei confronti di una legge ritenuta illegittima, che può essere annullata erga omnes dalla Consulta. Ma l’annullamento di una delibera del Consiglio di presidenza del Senato, come in questo caso, è una nota stonata, anche perché gli atti regolamentari di Palazzo Madama hanno un rango persino superiore a quello delle leggi ordinarie. In altre parole, il colpo di cannone della Commissione travolge un atto normativo che la stessa Corte costituzionale non potrebbe toccare.

Non ne aveva i requisiti?

Il problema è che alla Corte costituzionale è riconosciuta una certa indipendenza, non si diventa giudici costituzionali per caso. La Commissione contenziosa invece è composta da un piccolo drappello di parlamentari e non può garantire gli stessi requisiti di terzietà della Consulta, né ormai è espressione degli equilibri parlamentari. In più, la Commissione ha finito per contraddire se stessa con questa decisione.

In che senso?

I componenti dicono di aver restituito il vitalizio in nome del principio di uguaglianza, richiamando l’articolo 3 della Carta, ma così facendo paradossalmente hanno creato una palese disuguaglianza tra Camera e Senato: se un condannato percepiva l’assegno dalla Camera, in questo momento non lo percepisce più in virtù della delibera Boldrini, analoga a quella di Grasso e ancora in vigore; se invece lo percepiva al Senato, l’assegno gli è stato appena restituito.

In caso di ricorso alla Consulta l’autodichia rende però difficile capire chi sia il soggetto titolato a sollevare il conflitto di attribuzione.

Questo è vero, ma negli ultimi tempi la Corte costituzionale ha un po’ allargato la platea di coloro i quali possono sollevare il conflitto, dunque potrebbe essere un ostacolo superabile.

Per restituirlo ai condannati, la Commissione ha paragonato il vitalizio al reddito di cittadinanza.

Al di là di ogni valutazione, c’è un presupposto sbagliato: quello del parlamentare non è un lavoro, come peraltro ci indica la Costituzione e come lo avevano inteso i Padri costituenti durante i lavori dell’Assemblea. Si tratta di un servizio reso ai cittadini, non di un lavoro. Di conseguenza, il vitalizio non è una pensione, perciò viene meno ogni parallelo con il reddito di cittadinanza, anche senza considerare che quello restituito non è certo un contributo a favore degli indigenti, ma un assegno molto più corposo.

Possibile che 7.000 euro al mese passino per un’assistenza sociale?

Non mi è mai piaciuto il vento anti-casta, ma bisogna trovare soluzioni bilanciate caso per caso, non generalizzare. Un paragone con il reddito di cittadinanza ha senso solo se qualche ex parlamentare avesse davvero bisogno di un sostegno per non essere in difficoltà.

C’entra anche un discorso etico?

A questo riguardo il Senato mi chiese un parere tecnico qualche tempo fa. Abbiamo a che fare con un servizio ai cittadini – e non un lavoro, come si è visto – condizionato da alcuni presupposti sanciti dalla Costituzione, che all’articolo 54 richiede “disciplina e onore” a chi ricopre incarichi pubblici. Non solo: l’articolo 48 prevede che si possa perdere il diritto di voto in caso di “indegnità morale”. Direi che il vitalizio rientra nei diritti che circondano il mandato parlamentare e dunque quelli di elettorato attivo e passivo. Per questi motivi ero favorevole alla delibera del 2015 (quella che tolse il vitalizio anche ai condannati per reati contro la Pubblica amministrazione, ndr) e da allora non ho certo cambiato idea.

L’“altra Ilva” inquina nel silenzio. E nessuno vuol vedere i malati

“C’è un tabù, in Lombardia, di cui non si deve parlare”, dice il dottor Paolo Ricci. È il cortocircuito tra inquinamento e patologie a Cremona, 80 chilometri da Milano. Una situazione epidemiologica allarmante: alto numero di malattie respiratorie, tumori al polmone, leucemie, nascite pre-termine. In un territorio dove sono concentrati un inceneritore, una discarica, due fabbriche di mangimi e soprattutto le acciaierie Arvedi, il secondo polo siderurgico italiano dopo l’Ilva di Taranto. Dell’Ilva si è molto parlato, discusso, polemizzato. Arvedi resta invece invisibile ai media. Intoccabile. Per anni il dottor Ricci – direttore dell’Osservatorio epidemiologico della Ats di Mantova e Cremona – ha cercato di completare uno studio epidemiologico sulla situazione cremonese. “Le istituzioni non mi hanno dato retta e, dopo anni di insistenze, non mi è rimasto altro che andare in pensione anticipata”.

Qualche dato lo ha comunque raccolto. Ed è preoccupante. Nell’area di Cremona ci sono ben dieci insediamenti pericolosi, soggetti all’obbligo di Aia (Autorizzazione integrata ambientale). Uno di questi, la raffineria Tamoil, ha chiuso le attività, ma fino al 2013 ha emesso 140 tonnellate all’anno di polveri sottili e circa 30 mila tonnellate di composti organici volatili. Degli altri nove insediamenti, l’acciaieria Arvedi è quella che inquina di più: emette 5,633 milioni di metri cubi di fumi all’ora, a cui si aggiungono i 442 mila di Arvedi Area Nord, dove vengono trattati i metalli, e i 425 mila di Arvedi Tubi Acciaio, che produce tubi. Altri 467 mila provengono dai due produttori di mangimi: il Consorzio Agrario (367 mila) e Ferraroni (100 mila). L’inceneritore locale – da cui era partita l’analisi di Ricci – aggiunge emissioni per 90 mila metri cubi all’ora. In più, la grande discarica di Crotta d’Adda raccoglie oltre 1 milione di metri cubi di rifiuti classificati come inerti, provenienti dalla Arvedi, che si aggiungono alle 300 tonnellate all’anno conferite all’interno dello stabilimento e ai 2 mila metri cubi di scorie nere destinate a essere trattate. Completa il quadro inquinante il traffico dell’autostrada Cremona-Brescia, che libera 1 tonnellata all’anno di polveri e di composti organici volatili.

Lo studio preliminare realizzato dal dottor Ricci e dai suoi collaboratori dell’osservatorio epidemiologico dell’azienda sanitaria locale ha rilevato più di una anomalia nella situazione sanitaria degli abitanti nel Comune di Cremona. Le ospedalizzazioni per patologie respiratorie sono risultate il 14 per cento in più rispetto a quelle della provincia di Cremona. L’incidenza di tumore al polmone il 7 per cento in più. La mortalità per tumore al polmone addirittura il 17 per cento in più. L’incidenza delle leucemie il 23 per cento in più. Le nascite pre-termine (possibili segnali di forte inquinamento ambientale) il 26 per cento in più. “Le malattie polmonari”, spiega il dottor Ricci, “sono compatibili con l’esposizione a polveri sottili, le leucemie con l’esposizione a benzene, le nascite premature con una esposizione a contaminanti ambientali”.

Per avere certezze sulla relazione tra insediamenti inquinanti e salute a Cremona dovrebbe essere completato lo studio epidemiologico avviato dal dottor Ricci e che oggi molte associazioni hanno chiesto a gran voce, anche con una lettera inviata al direttore generale della Ats Valpadana Salvatore Mannino, all’assessore al Welfare della Regione Lombardia Letizia Moratti e al ministro della Salute Roberto Speranza.

“Avevamo bisogno della collaborazione di un centro di ricerca, per incrociare e sviluppare i nostri dati”, racconta Ricci. “I burocrati ce lo hanno negato”. Il medico ha esperienza: in passato ha coordinato, per l’Associazione italiana dei registri tumori (Airtum), il progetto “Sentieri” dell’Istituto superiore di sanità, che ha monitorato 44 siti inquinati italiani detti “d’interesse nazionale”. Ma a Cremona non è riuscito a smuovere la situazione, a bucare il muro di gomma. “Io venivo dalla Ats (Azienda territoriale sanitaria) di Mantova. Quando questa fu unificata con la Ats di Cremona, fui considerato un po’ un marziano, perché al momento di rilasciare le autorizzazioni per le attività produttive cominciammo a considerare anche i rischi per la salute; e provammo a estendere anche a Cremona l’Osservatorio epidemiologico già sperimentato a Mantova”. Missione (quasi) impossibile. “Tutto il personale cremonese dell’omologo servizio fu destinato ad altri compiti, allora cercammo di lavorare almeno con i dati che ci arrivavano da quattro registri: mortalità, tumori, malformazioni congenite, patologie croniche. Per fotografare la situazione complessiva e analizzare l’andamento delle malattie in una popolazione, studiandone le cause e valutandone percorsi diagnostico-terapeutici, al fine di adeguare sia l’assistenza, sia la prevenzione. Questo, del resto, dovrebbe essere il lavoro di ogni Ats”. Poi sono però andati via via in pensione i pochi medici che facevano questo lavoro, senza la possibilità di passare il testimone ad altri. Infine è arrivata anche la pandemia da Covid-19. “Oggi il ritardo nell’aggiornamento dei registri di patologia è diventato incolmabile. L’Osservatorio è stato di fatto smantellato, a causa di una gestione meramente burocratica delle risorse umane”.

Tacciono la pubblica amministrazione e la politica. Protestano le associazioni ambientaliste. Fa sentire la sua voce Marco Degli Angeli, consigliere regionale Cinquestelle: “I dati sanitari e ambientali della nostra provincia sono da brivido. Il Covid ha evidenziato ancor di più la fragilità dei nostri cittadini. E quello che fa più rumore è il silenzio e l’inerzia delle istituzioni. Il Comune di Cremona non ha mai fatto sentire veramente la sua voce per pretendere il completamento dello studio epidemiologico e Regione Lombardia è rimasta come al solito alla finestra non fornendo ad Ats il supporto dovuto. È mancata completamente la volontà politica di capire che cosa succede a Cremona. Da anni chiediamo risposte, ma purtroppo nulla sembra scalfire il silenzio ovattato della nostra provincia”.

Riforma carceri, il copia-incolla/2 della Cartabia

Se sulla riforma del Csm, in particolare del sistema elettorale, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha istituito un gruppo di lavoro perché tiene molto a fare la sua proposta, per quanto riguarda, invece, riforma civile, investimenti in assunzioni ed edilizia giudiziaria-carceraria, soprattutto grazie ai soldi del Recovery Plan, la ministra ha praticamente fatto un copia e incolla della riforma dell’ex ministro Alfonso Bonafede, riconoscendo il suo valore. Ma certi giornali continuano a spacciare per novità clamorose quanto già era previsto dal governo Conte, perché l’operazione mediatica “Draghi santo subito” deve andare avanti. E così l’ultima novità diventa la costruzione di 8 nuovi padiglioni all’interno di carceri, cioè quanto già progettato dall’ex ministro della Giustizia con l’ex sottosegretario Giorgi, che, però, non aveva ancora ottenuto l’ok da Bruxelles per usare una parte dei soldi del Recovery, mentre adesso sarebbe favorevole. In ogni caso, Bonafede era intenzionato a proseguire il progetto, già intrapreso, di ampliare le carceri, anche con altri investimenti: a Milano-Opera, Rebibbia, Trani, Taranto, Cagliari, solo per citarne alcuni. Ma in queste settimane le finte novità su Giustizia e Recovery Plan sono state diverse: la digitalizzazione degli archivi; l’ufficio del processo e gli investimenti per assunzioni: “2,29 miliardi per 16.500 nuovi assunti a tempo determinato”. Ovvero quanto si poteva leggere nel piano di Bonafede (2,3 miliardi, 16 mila assunti) che avrebbe dovuto illustrare a Camera e Senato, a fine gennaio, nella relazione annuale, ma che saltò per la crisi di governo. Un’altra finta novità riguarda gli investimenti per l’edilizia giudiziaria. Abbiamo letto titoli roboanti per la decisione della ministra di investire 426 milioni per costruire palazzi di Giustizia o ristrutturarli. Peccato, però, che nella relazione di Bonafede c’era scritto che erano previsti quasi 470 milioni proprio per l’edilizia giudiziaria.

Fondi Covid, truffa alle banche per 40 milioni

Sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, alla truffa ai danni degli istituti di credito, alla truffa sui fondi straordinari legati all’emergenza Covid, alla bancarotta fraudolenta e all’autoriciclaggio i 21 arrestati ieri mattina dai finanzieri del comando provinciale di Milano, coordinati dalla Procura di Monza. Per 6 di loro si sono aperte le porte del carcere, altri 15 sono ai domiciliari. Circa 40 milioni di euro tra immobili, quote societarie, conti correnti e contanti sono stati sequestrati; 58 complessivamente gli indagati. Attraverso un sistema di 42 società fittizie o effettivamente attive tra le province di Milano, Monza, Piacenza, Bergamo, Como e Pavia, avrebbero fatturato oltre 100 milioni per operazioni inesistenti dal 2013, creando all’occorrenza anche bilanci apparentemente floridi ad hoc. In questo modo sono riusciti ad accaparrarsi finanziamenti per oltre 8 milioni di euro, 4 dei quali garantiti dallo Stato; fondi che venivano poi dispersi nella rete di contatti commerciali creata, lasciando fallire le società debitrici con l’Erario e con le banche. Al centro del sistema sarebbero stati un commercialista milanese, un consulente fiscale di Cologno Monzese (Mi) e un imprenditore calabrese attivo a Bergamo e già sottoposto a misure cautelari in passato a seguito di indagini della Direzione distrettuale antimafia di Milano su gruppi legati alla ‘ndrangheta e al traffico di droga. Nei mesi dell’emergenza, il meccanismo era ripartito per accedere ai fondi garantiti dal decreto Liquidità e ai contributi a fondo perduto del decreto Rilancio, del decreto Agosto e dei dl Ristori e Ristori bis. Gli accertamenti svolti presso lo studio del consulente in tale circostanza hanno svelato che alcune delle società da lui domiciliate erano in realtà “scatole vuote”. Sono scattate quindi le indagini, che hanno portato poi all’operazione condotta nella giornata di ieri.

I genitori: “Bene fico, ha chiuso con il Cairo”

“Le istituzioni italiane dopo la morte di Giulio? Abbiamo apprezzato il presidente della Camera, Roberto Fico, andato nel settembre 2018 a confrontarsi con il presidente-dittatore Al Sisi”. Lì Fico “ha tenuto il punto” e, subito dopo “il Parlamento italiano ha interrotto i rapporti con quello egiziano”. Paola Deffendi e Claudio Regeni (nella foto), i genitori di Giulio, ieri mattina sono intervenuti in una video-chat organizzata dal blog Il Sottosopra e hanno risposto alle domande dei ragazzi dell’Istituto “Blaise Pascal” di Foggia. In vista dell’udienza preliminare del 29 aprile presso il Tribunale di Roma, i Regeni ora si augurano che “il giallo”, il colore del movimento che chiede “verità per Giulio”, adesso “pervada l’Italia”. Un “popolo giallo, che è anche scorta mediatica”, il “nostro asso nella manica”. E ai bastian contrari che dicono che “Giulio se l’è andata a cercare”, i signori Paola e Claudio mandano un messaggio molto chiaro: “Possiamo capire che sia difficile immaginare tutte le torture che Giulio ha subito, che sia difficile avere empatia del dolore”. Ma, allo stesso tempo: “È comodo dire che se l’è andata a cercare, implica che non si metta in discussione il modello economico, politico e sociale”.

“Le contraddizioni di Sharif per non farsi coinvolgere nel caso”

“Contraddizioni tra le dichiarazioni” e il tentativo di “adattare la realtà all’esigenza di recidere ogni collegamento con la vicenda Regeni”. Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, 37 anni, maggiore in servizio presso la National Security Agency, è l’unico dei quattro 007 egiziani accusato anche dell’omicidio di Giulio Regeni. Secondo i magistrati capitolini, Sharif, “in concorso con altri soggetti allo stato non identificati (…) cagionava mediante una violenta azione contusiva (…) imponenti lesioni di natura traumatica” al ricercatore italiano, “da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte”. Anche per l’ufficiale, come per gli altri tre imputati, si porrà in vista del 29 aprile la questione dell’irreperibilità: l’Egitto infatti non ha mai risposto alla rogatoria italiana in cui si chiede l’elezione di domicilio degli imputati. Di certo la vicenda ha avuto eco internazionale. Tanto che i carabinieri del Ros hanno raccolto in un’informativa tutti gli articoli pubblicati dalla stampa internazionale e pure in Egitto proprio per dimostrare che gli imputati non possono non essere a conoscenza del procedimento penale a loro carico. Per di più sono stati anche sentiti.

Il maggiore Sharif è stato interrogato due volte dalle autorità egiziane: il 19 maggio 2016 e poi l’11 giugno 2017. Gli investigatori gli hanno chiesto conto dei rapporti con Said Mohammad Abdallah, il sindacalista che, secondo le ricostruzioni degli inquirenti romani, avrebbe segnalato Regeni alla sicurezza nazionale egiziana. “La segnalazione di Mahammad Abdallah – dice Sharif – non è stata trascritta, ma era stata riferita solo oralmente, quindi era stata riferita ai miei capi ed ero stato incaricato di esaminarla e informarli dei risultati tramite una nota ufficiosa”. Sharif poi aggiunge: “Il mio esame consisteva nell’appurare l’attendibilità della segnalazione di Abdallah contro Regeni. Gli accertamenti consistevano nell’appurare il motivo della presenta di Regeni in Egitto, la natura dei suoi studi e delle sue ricerche e la non pericolosità delle sue attività di ricerca”. Il maggiore però smentisce di esser stato lui a fornire il registratore con il quale il sindacalista ha documentato l’ormai noto incontro con il ricercatore italiano. “Non c’è stato alcun mio intervento in proposito!”.

Sharif poi parla anche dei suoi rapporti con gli altri indagati nell’inchiesta romana. Ed è su questo punto che secondo il pm Sergio Colaiocco – come riportato nella memoria depositata il 13 aprile in vista dell’udienza preliminare – si sarebbe contraddetto. “Il tentativo di Sharif di adattare la realtà all’esigenza di recidere ogni suo collegamento con la vicenda Regeni – scrive Colaiocco – emerge in tutta la sua grossolanità in una contraddizione tra le dichiarazioni dello stesso raccolte in due momenti diversi. L’11 giugno 2017 infatti l’ufficiale, escusso in ordine al suo rapporto di conoscenza con il colonnello Husam Helmi (indagato a Roma per il sequestro di Regeni, ndr) rispondeva di non conoscerlo ma di sapere che ‘…è un ufficiale presso il dipartimento di sicurezza nazionale…’, affermazione in antitesi rispetto a quanto egli stesso aveva dichiarato il 19 maggio 2016”. In quell’occasione sullo stesso punto – annota il pm – Sharif precisava che “…non vi è nessun ufficiale del dipartimento che si chiami Hussam…”.

“Torture su Regeni”: ecco 2 nuovi testimoni

“Giulio… dove hai appreso le tecniche per affrontare gli interrogatori?”. Tra il 28 e il 29 gennaio 2016, tre giorni dopo la scomparsa, Giulio Regeni si trova nel carcere di Nasr City al Cairo, “una struttura detentiva ‘informale’”. Gli agenti egiziani insistono, sono convinti che sia la spia che non è mai stato. Lo interrogano per due giorni. E lo torturano. “Erano nervosi” e “anche quando non rispondeva, usavano la scossa elettrica e lo torturavano”. Ad ascoltare quelle domande e quel dolore c’erano due detenuti, due uomini, che solo poche settimane fa hanno fornito agli investigatori italiani che indagano sul sequestro e sull’omicidio del ricercatore italiano, nuovi dettagli sugli ultimi giorni della sua vita. La loro testimonianza è agli atti dell’inchiesta capitolina di cui è titolare il sostituto procuratore Sergio Colaiocco. I pm romani per quattro agenti della National Security Agency (i servizi segreti egiziani) hanno chiesto il processo: l’udienza preliminare è fissata per il prossimo 29 aprile.

Già molte persone si erano fatte avanti negli ultimi mesi raccontando nuovi elementi del sequestro. E a questi ora si aggiungono i teste “Eta” e “Theta” (così vengono indicati negli atti della Procura di Roma che ne vuole tutelare l’identità). Entrambi furono arrestati nell’agosto del 2015 poco dopo il loro ingresso in Egitto attraverso la Striscia di Gaza. La loro detenzione nella struttura di Nasr City è durata oltre due anni ed è negli ultimi giorni di gennaio che, a loro detta, vedono in quello stesso edificio Giulio Regeni. La loro versione è stata raccolta da un giornalista della testata Al Araby, in quattro video-interviste, ancora non pubblicate ma già acquisite dagli investigatori italiani. “Il luogo dove eravamo rinchiusi – racconta “Eta” – è sito nella città del Cairo, a Nasr City (…) sede dell’intelligence militare egiziana”. “Era un carcere destinato alla sicurezza nazionale e non un carcere statale… (…) Nessuno sapeva che lì all’interno vi era un carcere. (…) La maggior parte dei presenti nel carcere, detenuti insieme a noi, erano persone fatte sparire in modo coattivo (rapite, ndt) di cui nessuno sa nulla”. Il teste “Eta” dice di aver visto Regeni il 28 e il 29 gennaio 2016. “L’avevo avvistato diretto verso il luogo dell’interrogatorio. Non l’avevo visto di viso in modo diretto. Era… possiamo dire… bendato… ammanettato. L’avevo avvistato di profilo, mentre transitava dal corridoio”.

Qui secondo il teste “Eta” il 28 gennaio 2016 Regeni viene sottoposto a un primo interrogatorio durato circa sei ore: “Le domande che l’investigatore rivolgeva a Regeni – rivela – erano incentrate… riguardavano il motivo principale per il quale si era recato in Egitto. Il discorso era incentrato sul fatto che (Regeni, ndt) si era recato in Egitto in un momento delicato (del Paese, ndt), o ancora se era in contatto o meno con qualcuno all’estero”. Quel giorno, racconta il testimone, Regeni “era normalissimo, non riportava segni di torture”. Durante l’interrogatorio però “aveva subito forti torture, tra cui le minacce, la scossa elettrica, le percosse. Dopo essere uscito (dall’interrogatorio, ndt) (…) mostrava segni di affaticamento, ma non si notavano particolari segni sul viso o sul corpo”. Il 29 gennaio c’è un nuovo interrogatorio, stavolta di circa 4 ore. “Si differenziava dal primo giorno dal modo in cui (Regeni, ndt) ne era uscito, perché questa volta portato a braccia, tanto era provato e affaticato”.

Questa versione viene confermata da un altro testimone, indicato come “Theta”. Quest’ultimo vede il ricercatore italiano solo il 29 gennaio 2016: “Noi vedevano il suo volto bendato e ammanettato con le mani indietro. Lo vedevano dalla finestra del bagno quando transitava”. Durante l’interrogatorio “Theta” dice anche di aver carpito alcune domande: “Dove hai conseguito il corso per affrontare l’interrogatorio?”. E ancora: “L’Italia non ti può salvare”.

“Se Regeni avesse risposto o meno, questo non lo avevamo sentito – racconta “Theta” – Quelli che insistevano su questo punto erano nervosi. Anche quando non rispondeva, usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente elettrica”. “Nel secondo giorno in cui lo avevo visto – aggiunge ancora “Theta” –, il 29 gennaio quando era uscito a fine interrogatorio, versava in pessime condizioni, portato e trascinato dalle guardie carcerarie”. E poi aggiunge: “Come ho saputo che si trattava di Giulio Regeni? Durante l’interrogatorio li sentivo ripetutamente chiamare e pronunciare: ‘Regeni… Regeni’”. Di quel carcere “Theta” fornisce anche altri dettagli: “(…) Io non so se vi era un fascicolo personale su di me o altro. Io ero entrato nel carcere. Ero stato rapito. Sono stato interrogato. Infine sono uscito dal carcere senza sapere il come, il perché ero stato rapito e chi vi era dietro! Non posseggo un fascicolo, non sono stato accusato di niente e non ho subito nessun processo in tribunale!”.

Grazie a queste nuove testimonianze gli investigatori sono riusciti anche a ricoprire quelli che finora erano dei buchi vuoti della vicenda. Di Regeni infatti si perdono le tracce il 25 gennaio 2016. Secondo i testimoni “Eta” e “Theta” dal 28 al 29 gennaio, il ricercatore viene portato nella sede dei servizi militari di Nasr City “un istituto – è annotato in un’informativa dei carabinieri dei Ros – deputato a detenere prigionieri politici”. Qui Regeni viene interrogato e torturato per due giorni. Per gli investigatori del Ros il racconto di “Eta” e “Theta” è attendibile: “Riporta uno scenario perfettamente coerente con quello che emerge dai risultati delle indagini condotte in Italia”.

Non solo, ma le nuove testimonianze collimano con quanto detto da un altro uomo, l’egiziano “Epsilon” il quale ha riferito che il 28 o il 29 gennaio 2016, “in orario serale” era andato nella sede della National Security a Lazoughly e lì, al primo piano, nella stanza 13, ha visto “Regeni sdraiato a terra, nudo e con evidenti ferite al viso e sul corpo”.

Scrivono i carabinieri: “L’ipotesi che è possibile formulare alla luce di tali evidenze è che Regeni possa essere stato trasferito da Lazoughly a Nasr City per essere interrogato e che il 29, non avendo più la forza di camminare (come affermato dai due testimoni), sia proprio la data nella quale ‘Epsilon’” dice di averlo visto. “D’altronde – continuano gli investigatori – l’ipotesi di un trasferimento di Regeni da un luogo a un altro” trova conferma proprio nelle parole del nuovo testimone, “Eta”, quando riporta la frase di uno dei suoi carcerieri: “Chi entra qui non esce, ma viene trasferito altrove”.

Dopo gli interrogatori e le torture, ciò che è avvenuto a Giulio Regeni è noto: secondo la perizia disposta dagli inquirenti italiani, viene ucciso tra il 31 gennaio e il 2 febbraio. Il suo corpo viene ritrovato il 3 febbraio lungo l’autostrada che collega il Cairo ad Alessandria. Da quel momento le indagini italiane, con scarsa collaborazione da parte dell’Egitto, hanno provato a rimettere insieme, grazie anche a queste nuove testimonianze, i tasselli della terribile vicenda. E ora i magistrati sono pronti ad affrontare l’udienza del 29 aprile.

Sardegna, due indagini sui furbetti del pranzo. E Solinas non li caccia

Lettere anonime, dimissioni annunciate ma mai ufficializzate; licenziamenti con possibili liquidazioni d’oro e due procure che aprono fascicoli. E, sullo sfondo, una legge che moltiplica poltrone e stipendi. Sono alcuni degli ingredienti che arricchiscono il già grasso menu del Sardaragate, lo scandalo che ha investito la giunta del governatore sardo Christian Solinas.

Uno scandalo scoppiato dopo la scoperta del pranzo clandestino – perché tenuto il 7 aprile scorso, in piena zona arancione all’hotel Nuove Terme di Sardara – al quale hanno preso parte una quarantina tra dirigenti regionali, manager di Asl, vertici di enti strumentali, politici e militari. Una festa della quale Solinas ha sempre negato di sapere alcunché, nonostante vi abbiano partecipato il suo portavoce Mauro Esu (100 mila euro di stipendio annuo, per 5 anni), il fratello di Esu, Stefano (anch’egli titolare di una ricca consulenza con l’assessorato agli Enti locali) e il dg dello stesso assessorato, Umberto Oppus, compagno di partito di Solinas. Ieri la Procura militare di Roma ha acquisito gli atti del fascicolo aperto sul pranzo dal pm Giangiacomo Pilia. I magistrati con le stellette indagano la posizione del colonnello Marco Granari, comandante del 151° Reggimento della Brigata Sassari, che era già stato sentito dalla Procura di Cagliari. La domanda è perché fosse lì.

Una risposta, forse, la dà la missiva anonima che ieri ha ricevuto la capogruppo M5s in Regione, Desirè Manca. “Non posso comunicarne il contenuto – spiega – il pm mi ha chiesto riservatezza, essendoci un’indagine in corso. Posso solo dire che la lettera conteneva la lista dei partecipanti e le motivazioni della riunione”.

Cosa facessero a Sardara i 40 potentati (19 gli identificati) è l’interrogativo che si pone sia la procuratrice Maria Alessandra Pelagatti, che ieri ha terminato il primo giro degli interrogatori (12 le persone sentite, ma oggi si riprende), sia la politica, sia le migliaia di sardi che hanno firmato la petizione per chiedere le dimissioni dei funzionari coinvolti su Change.org.

Molti legano la riunione alla spartizione delle poltrone che creerà la legge 107, quando dal nulla “germineranno” oltre 60 nuove posizioni apicali, per un costo di 6 milioni di euro (pubblici) l’anno.

Solinas non ha ancora fatto dichiarazioni ufficiali. Si è limitato a far trapelare che prenderà provvedimenti contro i partecipanti titolari di un incarico regionale. Ma solo dopo l’approvazione definitiva del legge 107. Ma potrebbero volerci settimane, considerato che l’aula ha impiegato sette giorni solo per discutere gli emendamenti al primo articolo e che il testo è stato poi accantonato a favore del ddl sui ristori per 73 milioni.

Una decisione che pone più di un dubbio: in base l’art. 50 della legge del 1998 che “Disciplina del personale regionale e organizzazione degli uffici”, la Regione ha 10 giorni di tempo per licenziare per giusta causa un dipendente, senza incorrere in penali. Il conteggio scatta da quando l’istituzione è venuta a conoscenza dell’illecito. Trascorsi i 10 giorni, al lavoratore va riconosciuto un anno di stipendio. A rischiare il licenziamento – oltre ai fratelli Esu, che però hanno incarichi fiduciari – sono i due dg di altrettanti assessorati: Oppus – che, dopo l’interrogatorio in procura aveva promesso di dimettersi, ma che non ha mai firmato una lettera ufficiale – e Alessandro Naitana. Entrambi guadagnano 110 mila euro l’anno più bonus. Se venissero cacciati, scatterebbe l’indennizzo, visto che del pranzo si è saputo l’11 aprile. La maggioranza sottolinea come nella legge 107 sia prevista “la conferma o la revoca dei Dg entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge” e come si eviterebbe la penale, se applicata. Ma il provvedimento non potrebbe essere retroattivo. E la ricca buonuscita per i dg sembra assicurata.

Fratelli di firme farlocche online contro Speranza

“In 48 ore abbiamo raccolto più di 100 mila firme alla nostra mozione di sfiducia al ministro Roberto Speranza” esultava lunedì Giorgia Meloni. Un bel sostegno popolare che ha incoraggiato i senatori di FdI a presentare, con l’aiutino di Italexit e degli ex M5S, tre mozioni di sfiducia nei confronti di Speranza. Tornando alla petizione però molti dubbi nascono sull’autenticità di quelle firme. E quindi anche su quante persone l’abbiano effettivamente sottoscritta.

Sì perché come ha accertato il Fatto, con un semplice trucchetto la stessa persona può firmare la petizione quante volte vuole con lo stesso indirizzo email. Solo ieri, in pochi minuti, abbiamo firmato ben cinque volte dallo stessa casella di posta creata per l’occasione (pippo6927@gmail.com) cambiando ogni volta i dati anagrafici. Per firmare si deve inserire una email, nome, cognome, regione e provincia di provenienza.E qui c’è la prima falla: la piattaforma non è predisposta per verificare che la provincia indicata faccia parte della regione corretta. Il Fatto la prima volta ha firmato con un generico “Francesco Bianchi” abitante della Lombardia in provincia di Reggio Calabria (sic!). L’unica verifica che viene fatta è sull’indirizzo email. Una volta aggiunto, si deve confermare l’autenticità della firma dalla propria casella di posta e poi il signor Francesco Bianchi si aggiunge agli oltre 100 mila cittadini che chiedono le dimissioni di Speranza. A quel punto ogni utente può firmare la petizione con più indirizzi email diversi e lo stesso computer (non c’è controllo sull’indirizzo Ip) ma soprattutto, con un semplice stratagemma, può sottoscrivere la petizione quante volte vuole usando la stessa casella di posta. Nel nostro caso pippo6927@gmail.com.

Basta chiedere di aggiornare i propri dati al sistema inserendo un indirizzo email differente, anche inesistente (come 3358@3358.it, 34@34.it, 44@44.com), e un attimo dopo sottoscrivere la petizione con la mail di partenza. La piattaforma non si accorgerà di niente e aggiungerà un’altra firma. Così ieri il Fatto ha firmato altre quattro volte come quattro cittadini diversi: Francesco Bianchi (Lombardia), Alberto Conti (Toscana) Laura Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare (Veneto) e Pippo Sforza (Trentino). Solo che erano tutti fittizi: così ad arrivare a 100 mila firme non ci vuole molto.