Allarme Sud: Sicilia, Calabria, Campania e Puglia a rischio alto

La prima ondata aveva travolto quasi esclusivamente le regioni del Nord, poi l’epidemia si è estesa a tutto il Paese. Ma ora sembra colpire soprattutto il Sud, con l’unica eccezione della Valle D’Aosta – zona rossa insieme a Puglia e Sardegna – e della Toscana.

In attesa del nuovo decreto del governo, con il ripristino delle zone gialle e la riapertura delle attività, a partire da bar e ristoranti con servizio esclusivamente all’aperto, sono sei le regioni per le quali l’allarme resta alto, sia per quanto riguarda la propagazione del virus sia per l’incidenza dei casi per 100mila abitanti (la zona rossa scatta quando viene raggiunta la soglia di 250).

Tra queste, stando all’elaborazione dei dati provenienti dal ministero della Salute realizzata della Fondazione Gimbe, ci sono Sicilia, Basilicata, Puglia e Campania. Mentre la maggior parte delle regioni del Nord e del Centro mostrano dati più incoraggianti. Per quanto attiene l’incidenza, Gimbe ha elaborato i dati, aggiornati a ieri, a partire dal 6 aprile; dal 13 per l’incremento dei casi. La Valle d’Aosta quasi si avvicina ai 600 contagi per 100mila abitanti, con un incremento di poco superiore al 3%. Spicca il caso della Puglia (siamo a circa 500 casi sempre per 100mila abitanti, con un tasso di incremento che si colloca tra il 4 e il 5%), ma anche quello della Basilicata, che supera i 400 casi, con una percentuale di aumento del 5,5%. La Puglia, che dall’inizio della pandemia ha avuto quasi 222 mila positivi, ieri ne ha registrati 1.180 nuovi; la Basilicata, che dall’inizio ne conta 22.400, sempre ieri ne ha riscontrati 146 in più.

Ci sono poi la Campania e la Sicilia. La prima con circa 450 contagi per 100 abitanti e un tasso di incremento vicino al 4%, la seconda con una incidenza ampiamente superiore a 300 e una percentuale di aumento dei casi vicina al 5%. A sua volta la Toscana che ieri ha avuto 644 casi in più (dall’inizio della pandemia sono saliti a quasi 218mila), è vicina a una incidenza di 400 casi sempre per 100mila abitanti con una percentuale di aumento nettamente superiore al 3%. Tutte queste regioni sono state collocate dalla Fondazione Gimbe in un quadrato rosso, per indicare come l’allarme sia tutt’altro che cessato.

Quanto alla Calabria svetta per la percentuale di incremento (sfiora il 6%), con una incidenza che supera i 300 casi. Mentre la Sardegna, che finora ha totalizzato poco più di 52mila contagi e ne ieri ne avuti 271 in più, ha un tasso di aumento pari a circa il 4,5%. Anche il Piemonte si avvicina a quasi 400 casi per 100mila abitanti, ma con una percentuale di incremento di poco superiore al 2per cento.

“Noi ci atteniamo ai dati della cabina di regia nazionale – prende posizione lo staff dell’unità di crisi della Campania –. Questa settimana abbiamo un indice Rt a 1, è diminuita notevolmente la pressione sulle terapie intensive e anche sulle degenze ordinarie. Siamo rigidi e rigorosi e sarà fatto tutto quello che è consentito dal nuovo decreto del governo”. In Puglia per lo staff del governatore Michele Emiliano il trend è comunque decrescente. E ieri la Regione è riuscita a primeggiare in Italia per percentuale di vaccini somministrati in rapporto alle dosi distribuite: 92,9%. Un risultato che rivendica anche alla luce del divario storico, sotto il profilo delle risorse e del numero degli operatori sanitari, che la separa da regioni del Nord come l’Emilia-Romagna, che ha più o meno lo stesso numero di abitanti.

“Significa che la macchina è spinta al massimo – spiegano dallo staff di Emiliano –. Adesso bisognerebbe anche colmare il gap che si è creato nella distribuzione dei vaccini cominciato con il V-Day, quando le Regioni del Nord, avendo più medici e infermieri, hanno ricevuto più dosi. Un riequilibrio non c’è mai stato”. L’area dove si nota, al contrario, il minor tasso di incremento di nuovi contagi è quella di Bolzano: non arriva nemmeno all’1%, con una incidenza che non raggiunge i 200 casi.

Prefetti, percentuali e trasporti: stessi problemi un anno dopo

Come un film già visto, si torna a discutere sempre delle stesse cose. Ad oggi, l’unica cosa che è cambiata è la prospettiva che la copertura vaccinale della parte più fragile della popolazione possa, una volta conclusa, rendere l’eventuale circolazione del virus dal ritorno a scuola meno pericolosa per nonni e persone fragili. Così come la quasi totale vaccinazione dei docenti, quella che avrebbe dovuto far ripartire le scuole al massimo della capacità e che invece si è scontrata contro problemi immutati.

La proposta emersa dall’incontro tra le Regioni, ieri – propedeutico a quello con gli esponenti di governo arrivato in serata – era di una sostanziale deroga a quanto prevedeva la bozza circolante del prossimo decreto, con un rientro praticamente totale degli studenti a partire dal 26 aprile. A fine giornata, la nuova bozza era stata modificata con una percentuale di studenti in presenza per le superiori tra il 60 e il 100 per cento nelle zone gialle e arancioni . Nessuna deroga per le Regioni ma, anche in questo caso, salvo “eccezionale e straordinaria gravità” o comunque casi di focolai.

L’organizzazione ricalca in pieno i protocolli messi in atto finora e pensati per il ritorno in classe a gennaio. L’identificazione delle percentuali sarà affidata a una prassi già consolidata, ovvero i tavoli con i prefetti che – tenendo conto delle peculiarità e dell’organizzazione del territorio ma soprattutto del trasporto pubblico locale che continuerà a circolare al 50 per cento della capienza – di volta in volta stabiliscano la percentuale di rientro in classe basandosi sulla disponibilità del trasporto pubblico locale e la possibilità di prevedere entrate scaglionate e organizzazione degli orari delle altre attività. A occuparsene erano già state le ex ministre dei Trasporti Paola De Micheli, dell’Istruzione Lucia Azzolina e dell’Interno Luciana Lamorgese.

Sempre in modalità déjà-vu, la ministra Mariastella Gelmini ha proposto di “istituire quanto prima un tavolo sul trasporto pubblico locale presso la Conferenza unificata” con gli stessi ministri “anche in vista dell’avvio del nuovo anno scolastico a settembre”. Soluzioni di buon senso, insomma, tali anche prima del cambio di governo e che fanno presupporre che finora non ci sia stata grossa continuità e che le medesime problematiche siano state cristallizzate per essere rimesse sul tavolo ancora una volta, ma di fronte a un nuovo governo. Finanche le contestazioni sono le stesse se si tiene conto che Calabria, Puglia e Campania hanno espresso dubbi sul limite minimo di presenza, considerato troppo alto. La Campania, ad esempio, ha tempestivamente diffuso il numero dei contagiati di ieri mentre la Puglia ha ribadito la volontà di riproporre la soluzione della “scuola in presenza” a scelta, così come la Calabria.

Torna anche la solfa dei tamponi o dei test salivari a tutti gli studenti, da mesi proposti ma mai realizzati. A dicembre le Regioni erano addirittura arrivate a un accordo con il Miur, e si contava su una distribuzione di 5 milioni di test acquisiti e distribuiti alle Regioni dalla struttura commissariale poi, complici anche le chiusure, mai arrivati nelle aule. Sia le Regioni che il governo sanno che distribuire e gestire test per 8 milioni di studenti richiede un impiego sensibile di risorse e di personale, mentre le soluzioni fai-da-te non sono ancora completamente affidabili. Per avere una idea, nella bozza del decreto ristori poi naufragata con la crisi di governo, erano previsti almeno 450 milioni di euro per le scuole affinché potessero anche autonomamente fare accordi con i privati per testare gli studenti. Ad oggi, infatti, si può fare ma solo accordandosi con le Asl, le stesse già oberate tra tracciamenti e vaccini.

Resta il coprifuoco alle 22. Le scuole aperte ma a metà

Sulla scuola passa la linea delle Regioni (e della Lega), non si riapre al 100% ma solo ad “almeno il 60%” degli allievi delle superiori nelle nuove zone gialle e in quelle arancioni. Era stato più di tutti Mario Draghi a spingere per riaprire le scuole il più possibile e anche lui ha dovuto fare un passetto indietro. Sul cosiddetto coprifuoco e i locali al chiuso la Lega promette battaglia oggi al Consiglio dei ministri.

Il confronto è già andato in scena ieri all’incontro tra le Regioni e i ministri Mariastella Gelmini e Roberto Speranza. Il ministro della Salute ha ribadito il divieto di circolazione dalle 22 rimane e i locali al chiuso saranno riaperti solo il 1° giugno: così dice la bozza del decreto che ripristina le zone gialle (abolite a marzo) e i servizi di ristorazione all’aperto anche la sera (sono chiusi da 5 mesi) dal 26 aprile , lunedì prossimo. Oggi il governo dovrebbe approvarlo. I presidenti delle Regioni, specie di centrodestra, chiedevano di consentire di muoversi fino alle 23. “Con il coprifuoco alle 22 i clienti non hanno nemmeno il tempo per mangiare”, ha detto Massimiliano Fedriga, il salviniano che guida il Friuli-Venezia Giulia e ora anche la Conferenza delle Regioni. È la stessa posizione del ligure Giovanni Toti: con il coprifuoco alle 23 “è inutile aprire i ristoranti la sera”. Anche qui Speranza è stato irremovibile. Matteo Salvini assicura che non molla: “La Lega proporrà in Consiglio dei ministri e in Parlamento, la riapertura dai primi di maggio anche delle attività al chiuso e l’estensione almeno fino alle 23 della possibilità di uscire”.

Anche sul coprifuoco gli fanno sponda i renziani (“va allentato dove possibile” dice il deputato Luciano Nobili) e Forza Italia, ma la ministra Gelmini è più tiepida. Dice un leghista molto vicino al segretario sulla bozza del decreto: “Abbiamo dimostrato che in consiglio dei ministri possiamo modificare le norme annunciate poche ore prima”. Sono pressati dai ristoratori a cui avevano promesso di riaprire tutto e subito. Del resto secondo la Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) il 46,6% di ristoranti e bar, cioè circa 116 mila, non hanno la possibilità di utilizzare spazi esterni. Ieri i “disobbedienti” di #Ioapro hanno annunciato che il 26 apriranno lo stesso “senza rispettare il coprifuoco” e Giorgia Meloni che è tornata ad attaccare il governo, per lei “il coprifuoco alle 23 è un contentino” e quella rimane “una misura liberticida”.

Il decreto proroga al 31 luglio lo stato d’emergenza, che scadrebbe il 30 aprile. Su questo il governo ha chiesto il parere del Comitato tecnico scientifico, che è “favorevole”, ha scritto in una nota il portavoce Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità, ricordando gli “scenari epidemiologici”, il “sovraccarico attuale dei servizi territoriali ed ospedalieri” e la necessità di “supportare la campagna vaccinale”. Decadrebbero, senza lo stato d’emergenza, i poteri del commissario Francesco Paolo Figliuolo e anche i suoi provvedimenti. Per il resto il Cts non è stato consultato, ha solo proseguito la discussione sul cosiddetto pass verde, previsto nella bozza: per il momento sarà una certificazione cartacea o digitale di avvenuta vaccinazione o di guarigione/negativizzazione (valide queste per 6 mesi) o di tampone negativo (questo solo per 48 ore) che consentirà di superare i confini delle Regioni arancioni o rosse; tra quelle gialle (o bianche, quando ci saranno) ci si muoverà liberamente. C’è però il limite di una sola visita ad amici e parenti, in ambito regionale se in zona gialla o comunale in arancione.

Le scadenze indicate nella bozza sono quelle note: 15 maggio, sempre in zona gialla, riaprono le piscine all’aperto e i centri commerciali nei weekend, il 1° giugno palestre e ristoranti al chiuso, il 1° luglio congressi, terme e parchi tematici. Il decreto prevede possibili modifiche alle restrizioni con “deliberazioni” dello stesso Consiglio dei ministri.

Due errori e un diritto

L’altroieri non ho commentato il video di Beppe Grillo che difende il figlio Ciro dall’accusa di stupro di gruppo: da padre di un ragazzo e di una ragazza, ho vissuto per anni nell’incubo che potesse accadere loro qualcosa in una serata alcolica. Quindi sì, un po’ mi sono immedesimato. Ora però molti lettori mi chiedono che ne penso. Grillo non ha sbagliato a difendere suo figlio. E fanno ribrezzo quanti, col ditino alzato, deplorano la sua rabbia: vorrei vedere loro, al suo posto. Gli errori sono altri. Primo, far intendere che la consensualità del rapporto sessuale sia dimostrata dal ritardo di 8 giorni con cui la ragazza ha sporto denuncia: a volte possono passare anche mesi, e giustamente la nuova legge del “Codice rosso” (firmata dal “suo” ministro Bonafede e dalla Bongiorno) ha raddoppiato i tempi per le querele da 6 mesi a 1 anno. Il secondo è l’assenza di una parola di vicinanza alla ragazza, che comunque, se ha denunciato, si sente vittima. Potrebbe esserlo, come pure non esserlo: alcune denunce di stupro si rivelano fondate e altre infondate.

Sarà il gup a decidere se Ciro e i suoi tre amici vanno processati e altri giudici stabiliranno se fu stupro o no. Invece tutti parlano come se lo stupro fosse già certo, senza non dico una sentenza, ma neppure un rinvio a giudizio. E lo deducono, pensate un po’, dal fatto che Grillo ha fondato il M5S e il M5S è “giustizialista”. Sono gli stessi che ai loro compari applicano la presunzione di non colpevolezza anche dopo la condanna in Cassazione (tipo B. e Craxi) ed esultano per i vitalizi a Formigoni&C. Infilare la politica in un processo per stupro è quanto di più demenziale, anche perché Ciro Grillo non fa politica. La fa suo padre, il quale non risulta aver mai detto che si è colpevoli prima della sentenza (al V-Day elencava i parlamentari condannati in via definitiva). Chi paragona il suo video agli attacchi di B. o di altri impuniti alla magistratura non sa quel che dice. Grillo non ha detto che la Procura di Tempio Pausania è un cancro da estirpare o un covo di toghe antigrilline, né ha incaricato il suo avvocato (che fra l’altro non sta in Parlamento) di depenalizzare lo stupro di gruppo. Ha posto una domanda legittima: perché quattro presunti stupratori di gruppo sono a piede libero da 2 anni col rischio che lo rifacciano? E si è dato una spiegazione alla luce del filmato di quella notte che uno dei quattro ha sul cellulare: secondo Grillo e la moglie, insieme a successivi scambi di messaggi fra la presunta stuprata e i presunti stupratori, dimostrerebbe la consensualità. È la tesi difensiva. Noi, che il filmato e i messaggi non li abbiamo visti, non abbiamo nulla da dire sul punto. Se non che gli indagati hanno il diritto di difendersi e i loro genitori di difenderli.

Quattro passi con Beethoven nella foresta

Italiano. Beethoven parlava più facilmente l’italiano che il francese.

Passeggiate. Le celebri passeggiate di Beethoven, anche di notte, senza neanche tornare a casa per giorni e giorni.

Natura. “Di buon mattino, venne da me Beethoven… ‘Devo riprendere le forze nella natura incontaminata, e purificarmi l’animo. Come si sente oggi? Vuol venire con me? Andiamo a trovare quelli che sono i miei amici immutabili, i verdi cespugli, gli alberi che si slanciano verso il cielo, le verdi siepi e gli angoli remoti, dove mormorano i ruscelli. E anche a vedere i vigneti che dai colli tendono i grappoli al sole, perché li maturi. Ci sta, amico mio? Lì non c’è invidia, non c’è inganno. Venga, venga! Che splendido mattino, promette una bella giornata!’. E allora ci avviammo di buon passo in direzione dell’Helenental” (testimonianza di Johann Andreas Stumpff).

Napoleone. Beethoven aveva scritto “Bonaparte” sul frontespizio della Terza, poi ribattezzata Eroica, quando vennero a dirgli che Napoleone s’era proclamato imperatore, e allora andò su tutte le furie: “Anche lui non è altro che un uomo volgare! Diventerà un tiranno!”. Strappò quindi la prima pagina della sinfonia e la riscrisse.

Viennesi. Suo disprezzo per i viennesi: “Rossini, Rossini, per voi non c’è nient’altro. Quel vostro cantare e strimpellare senz’anima, quelle vostre cosette abborracciate…”.

Italiani. Rossini lo andò a trovare nel 1822, accompagnato dal comune amico Giuseppe Carpani. Beethoven stava correggendo una bozza musicale e non alzò neanche la testa. Finalmente, si riscosse: “Ah, Rossini, l’autore del Barbiere di Siviglia! Mi congratulo con lei. È un’opera eccellente. Non cerchi mai di scrivere nient’altro che opere come quella; sarebbe proprio sfidare il destino, se lei volesse cercare il successo in un altro genere. L’opera seria non è nella natura degli italiani. Per trattare il vero dramma, non hanno sufficiente scienza musicale: e come la si potrebbe acquisire, in Italia?”.

Tarchiato. “La vista di lui aveva messo a disagio anche me. Non l’aspetto esteriore, trascurato, quasi inselvatichito, non i folti capelli neri che gli pendevano arruffati intorno alla testa e così via, ma l’insieme del suo aspetto. Immagina un uomo di circa cinquant’anni, di statura più bassa che media, ma di corporatura molto robusta e tarchiata; il colorito roseo e sano, gli occhi irrequieti, sfavillanti, anzi, quando fissa lo sguardo, quasi pungenti. O non si muove affatto o si agita. Nell’espressione del volto, specialmente nello sguardo vivace e arguto, puoi notare una mescolanza e un mutamento talvolta repentino di cordiale bonarietà e di diffidenza. Da tutto il suo portamento traspare quella tensione, quell’inquieto e apprensivo tendere l’orecchio, tipico del sordo, e profondamente sensibile. Ora butta lì una parola allegra, subito dopo ripiomba in un cupo silenzio” (Johann Friedrich Rochlitz).

Mozart. Portato da Mozart a 16 anni, suonò un pezzo mandato a memoria, che lasciò Mozart assai freddo. Beethoven lo pregò allora di suggerirgli un tema per una libera fantasia. Suonò allora in modo da lasciar di sasso Mozart, il quale alla fine andò quatto quatto dagli amici che stavano nell’altra stanza: “Tenete d’occhio questo giovane: un giorno farà parlare di sé il mondo” (Otto Jahn).

Pianoforte. Beethoven morente disse a Gerhard von Breuning che gli sarebbe piaciuto scrivere un metodo per il pianoforte, “sarebbe stato completamente diverso dai soliti metodi”.

 

 

“L’amico geniale: Battiato”

Innanzitutto, La voce del padrone. Chi sarebbe capace di marchiare un’opera discografica con un titolo così potente?

I padroni e le voci: protagonisti della storia di un mondo immerso, ancora oggi, nel pantano della dialettica tra dovere e diritto. Tra voglia e paura.

La voce contro il padrone.

Era l’annuncio di qualcosa che scotta.

Correva l’anno 1981 e quel vinile veniva solcato dalle puntine dei giradischi di tutti. Tutti. È stato uno dei dischi più graffiati, scavati, corrosi dall’amore nel Bel Paese. E poi in Francia, Olanda, Germania.

Fu tramite alcuni amici spagnoli che scoprii che – proprio in seguito alla pubblicazione de La voz de su amo – la Spagna decise di arruolare Battiato nelle fila dei più grandi artisti della Movida madrileña: la new vawe ispanica, il più grande movimento musicale e di liberazione degli anni Ottanta iberici.

In una Spagna che solo da pochi anni si era lasciata alle spalle il regime di Francisco Franco – nemico di tutto ciò che non fosse di provenienza iberica, anche nella musica – Battiato (che non era esattamente nato a Burgos) era conteso dai programmi che all’epoca andavano per la maggiore, come La edad de oro e La Bola de Cristal.

Un record più potente del milione di copie vendute, quello de La voce del padrone. Qui parliamo di deragliamento culturale vero e proprio.

Quando ho conosciuto Franco Battiato di persona, una piovosa sera di fine settembre del 2007, dopo un suo concerto a Logroño – nella Rioja spagnola –, mi ha obbligato a chiamarlo per nome e a dargli del tu già durante i primi trenta secondi. Aveva chiuso il concerto dichiarando al pubblico del teatro SOLD OUT, in perfetto spagnolo: “Devo andare, ho un appuntamento per cena con Tiziano Ferro!”.

Dritto nel palmarès delle Cose che Non Scorderò Neanche Mai, insieme al giorno della laurea, alla volta che ho visto l’Etna in eruzione, al sapore della pizza di mia nonna… Non so se rendo l’idea.

“Franco, ma come facevi a esibirti in tv guardando fisso la telecamera senza muoverti e semplicemente cantando la tua canzone?” è stata la prima cosa che gli ho chiesto. Come se quella domanda mi fosse rimasta inchiodata nella testa dal 1983, quando ipnotizzato lo guardavo esibirsi sulla Rai, con La stagione dell’amore. E lui: “Non ci avevo mai pensato, grazie per lo spunto di riflessione”. Non penso fosse vero, ma la sua sofisticata modestia è stata un’indimenticabile lezione di stile.

Con La voce del padrone Franco Battiato dichiarò che aveva le idee chiare e una personalità maestosa: vuoi la dignità e la severa, elegante educazione siciliana, vuoi il carattere e la curiosità. Vuoi il genio.

Genio. La parola più abusata dei nostri tempi, in ogni accezione e declinazione. Quando vogliamo sembrare abili dissertatori e “recensiamo” un film, una scelta, un artista di qualunque arte: “Un genio!”, “genialoide”, e – la più usurpata – “geniale!”.

Ma Franco Battiato, alla luce de La voce del padrone, è proprio quello: riga per riga, letterale, la definizione del dizionario Treccani.

Gènio: fig. Essere immaginario o forza astratta a cui si attribuiscono certi eventi della nostra vita o l’ispirazione di risoluzioni prese.

Somma potenza creatrice dello spirito umano, propria per virtù innata di pochi ed eccezionali individui, i quali per mezzo del loro talento giungono a straordinarie altezze nell’ambito dell’arte o della scienza”.

E qui un altro aneddoto personale – vorrei promettere che sarà l’ultimo, ma non garantisco.

1983. Ho tre anni e finisco in ospedale dopo una crisi di asma. All’epoca le regole erano rigidissime: il paziente, anche se infante, doveva starsene chiuso in un letto-scatola con pesanti tende di plastica spessa per limitare l’ingresso dell’aria esterna. E lì dentro c’era un generatore di ossigeno, rumoroso come un aliscafo. Visite di genitori e parenti: esclusivamente un’ora al giorno, e poi ciao.

Mia cugina Angela, durante una di queste ore di visita, mi lasciò – da perfetta adolescente introversa dell’epoca qual era – il suo walkman con dentro una cassetta, la sua preferita.

Stavo là: un bimbo di tre anni asmatico, terrorizzato dall’ospedale, isolato in un letto-scatola col walkman e un’unica cassetta che era, ebbene sì, La voce del padrone di Franco Battiato.

Play. Gira cassetta. Rewind. Play. All’infinito.

Che se nel 1983 fossero esistite le piattaforme digitali, La voce del padrone sarebbe tornato in classifica anche solo grazie al mio milione di “clic”.

Summer on a Solitary Beach, quel “mare, mare, mare”, mi portava altrove, in una dimensione parallela nella quale si poteva pensare alla spiaggia come a qualcosa di crepuscolare, grigio, senza togliere niente alla sua bellezza. Anzi. Senza la fluorescenza di Vamos a la playa, il mare mi sembrava ancora più bello. A tre anni non pensavo fosse possibile.

Ma me lo sarei chiesto un altro milione di volte, scrivendo anche le mie di canzoni. Come si esce fuori dall’estetica di una parola, scompaginando l’immaginario collettivo e rimanendo fedele alla semantica? La prima lezione di semiotica della mia vita.

Esiste ancora qualcuno che pensa Battiato non sia un Maestro? Due o tre forse, ma non abbiamo notizie di loro, per fortuna.

Bandiera bianca. “Mr Tamburino non ho voglia di scherzare/ Rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare”. Come lo direbbe questo, nel 2021, un artista di trentacinque anni? “Fake”, “Poser”. Ancora, lui lo cantava già senza girarci intorno: replicanti di musica bella, smettetela. Non bastano il tamburino e una traduzione alla bell’e meglio per sembrare credibili. Serve la potenza della musica popolare, la semplicità motivata da un’urgenza vera. E quella – “Uomo tamburino” – non la puoi contraffare.

Centro di gravità permanente. “Non sopporto i cori russi/ La musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese/ Neanche la nera africana”.

“Dissing”. Ecco come si fa. Argomentando con classe arguta. Disdegno ed eleganza. Pure rispetto. Ed era il 1981.

All’epoca, Battiato spaventò quei giornalisti che avevano già il tesserino ingiallito. Ha obbligato loro e molti altri al rispetto per la musica che va alta in classifica. Franco Battiato, con La voce del padrone, ha ridisegnato l’identità del pop.

Bandiera bianca, Cuccurucucù, Centro di gravità permanente hanno spiegato agli scettici che una canzone che puoi fischiettare in metrò può avere un altissimo contenuto emotivo, intellettuale e stilistico.

E lo hanno fatto ben oltre Ventimiglia, colonizzando culture scettiche e Paesi con un’identità musicale che allora sembrava impermeabile.

Volete divertirvi? Cercate in rete “Franco+Battiato+español”. Milioni di articoli, dal 1980 al 2020. Vuol dire che il Maestro è come un manuale, un testo base, e che l’interesse per lui è sempre vivo.

Quanti artisti mondiali, cantando in una lingua che non sia l’inglese, possono vantare gli stessi record?

Nel 2008, poco dopo quel primo incontro in Spagna, ho vissuto il privilegio di scrivere e cantare una canzone con Franco Battiato – Il tempo stesso.

Quando dovevamo registrarla io ero a Milano e lui a Londra per un corso di inglese (e già su questo ci sarebbe così tanto da dire che potrei scrivere un articolo a parte).

Franco incise la sua parte dal telefono fisso della sua stanza d’hotel.

Perché questo fa un Maestro con la “M”: cambia il metodo e insegna, ma senza mettersi in cattedra. Gli bastano una camera d’albergo a Piccadilly Circus e quella voce da padrone generoso, divertente, matto, bello, curioso, testardo, esilarante, intelligente, visionario, profondo, barzellettiere, orgoglioso, romantico, epico e – ahimè, devo scriverlo perché mai come per lui è vero – geniale.

Battiato è rimasto l’idolo di mia cugina Angela, che a un certo punto ha aperto un ristorante vegano a Milano. Un giorno mi sono presentato a pranzo accompagnato da Franco e altri amici, lei voleva sotterrarsi dalla gioia.

Quindi grazie, cugina. Grazie per quando, nella follia dei tuoi quindici anni, decidesti di lasciare un walkman nel letto di un bambino asmatico, chiuso in ospedale, da solo.

Scatenando la rivoluzione.

Nascita, splendore e declino di Renzi (e dei suoi renziani)

Erano giovani, entusiasti, toscani. Si contrapponevano ai dinosauri stanziati a Roma, dipinti come ferraglia da portare allo sfasciacarrozze, sassi umani sul binario delle riforme nell’Italia che ripartiva. “Poche chiacchiere”, intimava il più giovane presidente del Consiglio d’Italia (più giovane pure di Mussolini, battuto di pochi mesi con scaltra manovra effrattiva), citando chissà se involontariamente il motto affisso sulla casa del Fascio. Circondato da una piccola corte di indigeni eredi del Rinascimento (avvocati di provincia, allenatori di squadrette del Valdarno, soci di municipalizzate del Comune che amministrava, vigilesse di Firenze), prendeva possesso delle stanze del potere, cavalcando un’estetica amorale e futurista. C’era un’epica, dietro ai dettagli: device Apple ultimo modello, pranzo al sacco di Eataly, la Smart, i Consigli dei ministri alle 7 di mattina, i selfie, i tweet, le slide, i post, il blog, i video, tutte epitomi della comunicazione rapida, disintermediata, da “premier” a utente, da Matteo a Lucciola85. Con lui, il “Giglio magico”, i giovani riformatori: Lotti, Boschi, Bonifazi e a latere, in un ruolo mai chiaro, Carrai, intervistatissimo dai giornali liberali, affascinati dalle amicizie del “royal baby”, quale prototipo dell’imprenditore del futuro tra il Chiantishire e la Silicon Valley, molto chic perché allergico a tutto, forse celiaco. “Tocca a noi, siamo una nuova generazione”, e intendeva “noi ingenui ma genuini, noi capi-scout d’Italia”, e mai “noi” ha voluto dire tanto “io”. “Non contano le conoscenze, ma la conoscenza”, e intanto piazzava affini e contigui nelle partecipate e ai ministeri; Carrai, console onorario di Israele per Lombardia, Toscana e Emilia-Romagna, lo voleva alla cybersecurity, nientemeno.

Dopo la caduta rinfaccerà: “Gli stessi che prima elemosinavano una parola, un sms, uno sguardo sono spariti”. Impossibile querelarci, lo ha detto lui: “Centinaia di beneficiati hanno ricevuto, osannato, adulato”, stipendiati da noi.

Poi erano i baccanali neolib della Leopolda: una maratona di tre giorni forsennati, lui tedoforo con la fiamma del futuro in mano; ai “tavoli”, imprenditori, banchieri, squali della finanza, astronauti, atleti (che poi cominciarono a declinare: temendo i suoi auguri come la peste) e vip, per lo più compagni di scuderia dell’agente Presta. Compatizione, darwinismo dei “migliori” (la Bellanova, Scalfarotto). E lo “storytelling” deflagrava in epos: il Rolex in regalo dai sauditi (già allora!), le camicie giallo-blu dei partigiani del “25 aprile Tutto blu”, gli aeroporti di Pisa e di Firenze, il dream team per il Giubileo, il trolley, le periferie, i millennials, il modello Scampia, l’inaugurazione della Salerno-Reggio Calabria (20 km: piuttosto l’inaugurazione della Laino Borgo-Campotenese). Nel 2017, già in declino, il già autista di camper prese in affitto un treno, sì, un treno speciale Trenitalia, a spese del Pd cioè nostre, su cui percorse l’Italia in 108 province (quelle che lui voleva abolire). Con lui Bonifazi, Richetti, Rosato, Delrio, persino Zingaretti, e giornaliste in solluchero; trionfo della comunicazione populista, politica accoppata; poi furono costretti a non comunicare più le tappe perché alle stazioni venivano subissati dai fischi e dagli insulti: un calvario. I giovani idealisti si rivelavano vieppiù pescicani, figli di intrighini e di funzionari di banche in declino per cui da ministri trattavano acquisizioni, parvenu del potere, rancorosi, facili alla querela. Oggi un massone dice di aver promesso alla Boschi (e a Renzi, e a Verdini) un milione di voti in cambio della promessa di far cadere Conte. Lotti, ex ministro (dello Sport: era allenatore nella categoria pulcini) ha parecchie grane: Consip su tutte, e ora l’accusa di corruzione per la Fondazione Open (oltre che di finanziamento illecito, per cui sono indagati pure Bianchi, Boschi, Carrai e Renzi stesso). E lui, individuo apicale di questo consorzio, motore primo della fabbrica del nulla che è stato il renzismo, si dà non all’ippica, come da più parti auspicato, ma agli affari con le petromonarchie sanguinarie, e li lascia chi più chi meno nelle pesti. Benché egli neghi (ma piuttosto: siccome nega), potrebbe stare per mollarli. I 45 di Italia viva in Parlamento (renziani Dop più varie figure sopraggiunte, tra cui un massone e qualche 5Stelle), eletti con un altro partito e migrati nel gruppo a cui il Partito Socialista (alla faccia della rottamazione) ha dovuto subaffittare un pezzo di simbolo, temono che si metta a pensare ai fatti suoi, che poi è esattamente quel che ha fatto finora, ma stavolta col 2% invece che col 40 a cui era dato per certo; vanno piagnucolando che costui, che intanto è diventato milionario, li sta per abbandonare al loro destino, che è quello di sparire nel nulla; sentono l’horror vacui di non saper fare altro nella vita che “i renziani”.

Fuoriclasse, purosangue, dicono di lui: perché ha mandato al governo Brunetta, Garavaglia e Gelmini. Da un anno tentava di far cadere tutto, ma nel febbraio 2020 la gente invece che alle sue bizze si è messa a pensare ai parenti intubati. Ha dovuto lavorare di lima sorda, ogni giorno un ricatto, finché, intuendo la caduta psicologica di una nazione, ha provocato la crisi che si è goduto da Riyad, svenevolissimo col mandante di un omicidio, chiedendo il Mes e il Ponte sullo Stretto, che da Draghi, stranamente, non vuole. “Un capolavoro”, dicono quelli smart come lui; e in effetti un numero gli è riuscito, quello di sparire, Houdini del 2%, nel Paese che amava al punto da volerne svecchiare la Costituzione, che a lui e alla moritura e già gagliarda oligarchia gigliata non piaceva (meglio quella saudita): “Piaccia o non piaccia”, “Un passettino alla volta”. Un passettino alla volta, gli italiani hanno capito il grande bluff umano e politico che è stato il renzismo e, quanto al suo artefice, hanno imparato a detestarlo, e i più saggi – tra i quali non siamo – a ignorarlo, come si fa con un rumore molesto.

“Moro, Craxi disse che Gelli era alle riunioni del Viminale”

Silenzi e depistaggi hanno ‘intrappolato’ il caso Moro. Sandra Bonsanti, cronista che ha ingaggiato una sorta di ‘corpo a corpo‘ contro il potere occulto, ha un ricordo preciso al riguardo: “Otto giorni dopo l’uccisione di Aldo Moro, Giacomo Mancini andò a Palazzo Chigi da Andreotti: ‘ero convinto’, mi disse, ‘che dovevamo far partire subito una commissione d’inchiesta. Andreotti mi disse di no. ‘Non è questo il momento’”. Passarono così giorni e mesi preziosi, tutto era immobile. Il ministro dell’Interno Cossiga, durante il sequestro, aveva perfino chiesto ai magistrati di riferire solo a lui: non avrebbe potuto. Anche Rino Formica ricorda quei giorni. Esponente di primo piano del Partito socialista, membro della Commissione Anselmi: il suo collega di partito Mancini parlò anche a lei della faccenda? “Sì, è vero che Andreotti bloccò il dibattito. La Dc non sarebbe stata in grado di affrontare un confronto che avrebbe esasperato la ragione di noi ‘trattativisti’”. Sandra Bonsanti ripensa a quel che non fu fatto: “È scandaloso che a 44 anni di distanza, non rimanga che rileggere le interrogazioni che si ammucchiavano una sull’altra, senza risposta. I comunisti, soprattutto, volevano sapere quale fosse stato il ruolo della P2. ‘Gelli ha partecipato ai comitati di crisi?’ chiedeva Napolitano”.

Per molto tempo l’Italia si è illusa che quel Comitato dei saggi voluto da Cossiga al Viminale, tutti piduisti, si riunisse davvero per salvare il presidente della Dc. Ma Craxi svelò a Bonsanti che anche Gelli partecipava alle loro riunioni. “Eravamo in piazza Navona, mi confidò che anche il capo della P2 aveva preso parte direttamente alle riunioni. Poi gli eventi cancellarono tutto, il momento non era ancora arrivato”. Formica ricorda quelle voci? “Non ne ho mai parlato con Craxi che so ne fosse convinto. Ma io ho una visione mia: se partecipò in quel contesto portava il caffè. Fa comodo ancora oggi riportare la P2 alla personalizzazione del capo, ma Gelli era solo uno spregiudicato, con il compito di mettere ordine alle frontiere, intorno a lui c’erano molte altre persone”. “Era il gran maestro, non c’è dubbio. Altra cosa è il potere intorno a lui. Alcuni ambienti – dice Bonsanti – guardavano con sospetto Lelio Lagorio (il cui nome non risultò negli elenchi P2 anche se il gran maestro Lino Salvini alla Commissione P2 disse che c’era anche lui). C’è ancora un appunto dell’epoca. Tina (Anselmi, presidente della Commissione P2) mi disse che Gianni Agnelli le aveva mandato a dire tramite sua sorella Suni di stare attenta a Logorio perché era lui il capo della P2”. Formica alza le spalle: “Forse da buon toscano Lagorio era legato ad alcuni circoli ma non ho mai sentito nulla riguardo. Posso dire che era un uomo della Nato, questo senz’altro”. Ma da ministro della Difesa fu il garante dei militari piduisti… “In ogni ministero venne istituita una commissione ad hoc e ovunque fu scelta l’indulgenza. No, quelle voci su Lagorio non mi convincono affatto. Anche perché sono convinto che il vero capo della P2 fosse un altro. Francesco Cosentino”. “Cosentino, un uomo di gran potere. Non posso sopportare – dice Bonsanti – che sia in quella foto, dietro al presidente De Nicola che firma la Costituzione. Ha sempre agito dietro le quinte. Mancini mi disse, ancora, che Gelli si presentò un giorno a casa sua portato dal segretario generale della Camera, Francesco Cosentino, poi in una altra occasione dal socialista Vanni Nisticò. Capisci? Il segretario generale con Gelli!”. Rino Formica ha una idea precisa del personaggio: “Cosentino è espressione del ‘Partito del Quirinale’”. Cosa intende? “Qualche anno prima di Moro, Giacomo Mancini fece un discorso alla conferenza d’organizzazione del Psi a Firenze nel quale propose di scrivere la storia dei settennati, dei presidenti della Repubblica. Ma nessuno lo capì: lui era convinto che tutto si giocasse al Quirinale, e che il partito del Quirinale fosse centrale nella normalizzazione del Paese. Oggi possiamo dire che aveva ragione: il vero ‘capo’ della P2 in Italia era Cosentino, lui scrive il famigerato Piano di Rinascita, lui era il garante internazionale e lui era espressione del Partito del Quirinale. Nei diari di Luciano Barca si racconta che nei giorni in cui si stava votando Leone al Quirinale (dicembre ’71) fu avvicinato da Carmelo Spagnuolo (alto magistrato, piduista e amico di Sindona) che gli disse: ‘Noi siamo disposti a votare Pertini invece di Leone, ma Pertini deve portare con sé al Quirinale Cosentino’. Solo Cossiga riuscì a non essere influenzato da quel partito ma perché lui ne era parte”. Una chiave d’analisi che Sandra Bonsanti condivide ma sembra proprio non bastarle: “È passato quasi mezzo secolo e la magistratura sta ancora oggi indagando, persino sulle riunioni che i brigatisti tenevano nella mia Firenze. Se il toscano Senzani abbia avuto un ruolo, ancorché i processi lo abbiano escluso (nell’inchiesta in corso a Roma, prosecuzione di quella della Commissione Moro 2 presieduta da Beppe Fioroni, è stato prelevato anche a lui il Dna). Verrà da un mozzicone di sigaretta la verità? Verrà finalmente buttato giù il muro del silenzio di Stato? Serve cercare con pazienza i testimoni di allora, quelli che avevano gli strumenti per seguire le mosse sulla scacchiera”.

Navalny, la beffa del ricovero dentro la stessa colonia penale

Il dissidente Aleksej Navalny, che ha iniziato lo sciopero della fame il 31 marzo scorso, è stato trasferito nel reparto ospedaliero della colonia penale dove sconta una pena di quasi tre anni. Ufficialmente il detenuto è stato spostato “per un trattamento vitaminico”, riferiscono le autorità penitenziarie. Non era quello che avevano chiesto familiari e collaboratori: per i suoi medici di fiducia, la vita dell’oppositore è gravemente in pericolo: l’accusa rivolta al Cremlino dalla squadra di Navalny è quella di “omicidio al rallentatore” e di “tortura”. Per questo era stato chiesto il trasferimento in un ospedale civile. Entra in gioco anche la Corte europea dei Diritti dell’uomo: Navalny si è appellato ai giudici di Strasburgo denunciando maltrattamenti, deprivazioni del sonno, violenza psicologica e verbale e mancata nutrizione in cella. I togati chiedono al Cremlino chiarezza sulla salute del blogger, ma Mosca ha invece deciso di secretare ogni documento che lo riguarda. Negli ultimi giorni leader politici, istituzioni e perfino celebrità hanno inviato numerosi appelli al presidente russo Putin affinché permetta al dissidente di curarsi. Ma, ha risposto ieri il portavoce di Putin, Dimitry Peskov, “lo stato di salute dei prigionieri russi non dovrebbe essere di loro interesse, non prendiamo in considerazione queste dichiarazioni in nessun modo”. Domani previste proteste in tutte le città russe: a organizzarle è stato il Fondo anti-corruzione, organizzazione creata dall’oppositore dieci anni fa, che ora i procuratori di Mosca vorrebbero far rientrare nella lista dei gruppi estremisti come Isis e al Qaeda. Un altro fronte si è aperto nella Repubblica Ceca: le autorità di Praga hanno accusato agenti segreti della Federazione – membri dell’agenzia Gru, la stessa ritenuta responsabile dell’avvelenamento di Serghey Skripal in Gran Bretagna – dell’esplosione di un deposito di munizioni nel 2014. Espulsi 18 diplomatici russi dall’ambasciata. In risposta, Mosca ha subito cacciato 20 diplomatici cechi.

Post-Merkel, l’Unione in panne

È stato il weekend più difficile degli ultimi 15 anni per la Cdu, il partito cristiano democratico. Dopo tre lustri di potere incontrastato di Angela Merkel, ripetutamente candidata vittoriosa del partito conservatore alla Cancelleria tedesca, il duello tra il neo segretario Armin Laschet e Markus Söder, leader della Csu, il partito fratello “minore” bavarese, sembra destinato a durare ancora. La sfida tra i due candidati cancellieri dell’Unione cristiano democratica tedesca – costituita dai due partiti – va avanti da mesi. “Se i due non si accordano, deciderà l’Unione entro oggi” hanno fatto trapelare fonti interne al blocco cristiano conservatore. Ciò potrebbe significare che il candidato designato alla Cancelleria in vista delle elezioni legislative del 26 settembre potrebbe essere dopo decenni un leader della Csu, in questo Söder. Il motivo è l’appoggio ricevuto dal governatore della potente Baviera da parte della Junge Union, la federazione giovanile dell’Unione, come ha spiegato il leader Tilman Kuban.

Lo smacco più grande per Angela Merkel, che ha scelto come suo successore alla guida del partito il fedelissimo Laschet – che ieri sera ha presentato in extremis una proposta per uscire dallo stallo – è venuto però dalle fila del proprio partito a Berlino. La Cdu ha riaffermato il proprio sostegno a Söder, come espresso in modo chiaro dal presidente del partito per il Land Berlino, Kai Wegner. Vedere candidato il leader del partito gemello, seppur minore, bavarese dopo decadi non è l’uscita di scena che Merkel avrebbe voluto per sè. La decisione tuttavia deve essere presa in tempi rapidi visto il poco tempo a disposizione per la campagna elettorale, un’esigenza che lo stesso Laschet ha recentemente sollevato. L’urgenza è dovuta al fatto che l’Unione necessita di un rilancio dopo il crollo dei consensi a seguito di recenti scandali di corruzione (acquisto di partite di mascherine anti Covid) legati alla gestione della crisi pandemica. Nella lite tra fratelli-coltelli è intervenuto anche il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, ex temuto ministro delle Finanze, a favore di Laschet. “La leadership richiede a volte di andare contro il trend dei sondaggi e di convincere” ha detto al quotidiano berlinese Tagesspiegel. I sondaggi continuano a dare in grande vantaggio Soeder. Il tabloid Bild ha reso noto il contenuto di una conversazione telefonica tra Laschet e Schäuble, in cui il presidente del Bundestag ha messo in chiaro che non è possibile rinunciare alla candidatura per la cancelleria senza rimettere anche il mandato da presidente del partito. Intanto i Verdi, che in base ai sondaggi tallonano la Cdu, collocandosi al secondo posto, hanno scelto i propri candidati: Annalena Baerbock o Robert Habeck, entrambi leader del partito.