Il calcio è cosa loro: arriva la SuperLega dei super-indebitati

Nel pallone dei ricchi, i club più ricchi giocano solo con i ricchi, per diventare ancora più ricchi. Non che il calcio moderno delle pay-tv e del fair-play finanziario avesse ancora molto di popolare. Ma rimaneva almeno il luogo comune dello sport che appartiene ai suoi tifosi, la retorica di Davide che può battere Golia. Con la Superlega, nemmeno quello. Nel progetto di Agnelli, Florentino &C., il calcio sarà sempre meno sport e sempre più spettacolo, non ci saranno più tifosi, soltanto consumatori. Dopo aver saturato il mercato, speso più di quanto potevano permettersi ed esser stati affossati dal Covid (i debiti sono esplosi), i patron vogliono portarsi via il pallone e dividersi da soli la torta miliardaria che garantiranno sponsor, televisioni e un finanziatore d’eccezione come la banca d’affari JP Morgan.

Era un progetto chiacchierato da anni. Adesso la Superlega è un annuncio, forse una realtà, forse una minaccia per strappare condizioni ancora migliori dalla Uefa. Chi può dirlo. Un campionato internazionale a 20 squadre: 15 soci-fondatori, 5 qualificate ogni anno. Fase iniziale a gironi, con due gruppi da 10 e andata e ritorno, poi eliminazione diretta fino alla finale. 193 match in totale, da 18 a 23 per ciascuna squadra. Insomma, Real-Liverpool e Juve-Barcellona ogni settimana invece che una volta l’anno. Tutti gli altri restano fuori, nelle vecchie coppe e campionati svuotati di valore.

La rivoluzione sarebbe sportiva, filosofica: trasformare il calcio europeo in uno show globale, stile Nba con tanto di salary cap al 55% del fatturato), che alle migliaia di tifosi della provincia italiana o inglese preferisce milioni di spettatori asiatici o americani. La ragione è solo economica. I grandi club guadagnavano tanto, la Uefa gli aveva promesso ancora di più con la nuova Champions a 36 squadre e minimo 10 partite a testa (approvata comunque ieri), ma non è mai abbastanza. La Superlega potrebbe valere 4 miliardi l’anno solo di diritti tv. Da spartire fra pochi eletti e non tutta la periferia del pallone, direttamente nelle mani dei club e non più della Uefa.

Il Fatto ha potuto visionare documenti riservati sui piani di distribuzione. Ci saranno 3 miliardi a stagione per una decina di squadre. Le partecipanti saranno 20, e solo il 65% degli introiti sarà diviso in teoria in “parti uguali” (in realtà quasi il 90% andrà ai 15 fondatori). Un 20% in base ai piazzamenti (in gran parte in base alla classifica dei gironi, e solo l’1% andrà al vincitore) e un 15% “commerciale” di cui le 5 invitate non prenderanno nulla. Nemmeno i soci-fondatori saranno uguali fra loro (chissà come verranno considerate le italiane). La sostanza è che ci sarà una torta più ricca, con meno teste da sfamare: almeno 200 milioni a testa, quando in Champions se ne potevano incassare massimo un centinaio in caso di vittoria. E qui incentivi a vincere di fatto ce ne sono pochissimi.

La vera chiave di volta, però, è nel passaggio dal sistema aperto (merito sportivo) a quello chiuso (a inviti). È per questo che le 12 congiurate hanno fatto lo strappo: eliminare il principio di qualificazione sul campo, a cui la Uefa non ha mai voluto derogare. Invece i grandi club, che non sono più squadre ma aziende, pretendono di cancellare il rischio sportivo di rimanere fuori per colpa di una stagione disgraziata e ritrovarsi con un ammanco di decine di milioni (come potrebbe capitare alla Juve, ma anche ad Arsenal e Tottenham, persino al Liverpool).

Con una Lega chiusa, avrebbero un flusso di cassa stabile. E pure un incentivo alla firma, un assegno una tantum di 3,5 miliardi di euro, coperto da JP Morgan. Ufficialmente per investire in infrastrutture, ma servirà soprattutto a ripianare le perdite della pandemia. Il Barcellona ha debiti superiori al miliardo, Juve, Inter, Manchester per centinaia di milioni: con gli stadi chiusi e la fuga degli sponsor, il baraccone non sta più in piedi. Vista così, sembra la Superlega dei falliti più che dei ricchi. Il prestito non sarà uguale per tutti, a chi 350 milioni, a chi solo 100. A tutti però basterà per lasciarsi alle spalle l’incubo del Covid: grazie a questo finanziamento e alle entrate garantite ogni anno, i bilanci dei top club avranno un’iniezione immediata di 300-400 milioni e non saranno mai più in pericolo.

Loro la chiamano sostenibilità finanziaria. Per tutti gli altri rischia di essere la morte del calcio. Il progetto è pensato per sostituire la Champions, ma fagocita anche i campionati, svuotati di risorse e interesse, devastati dal gap che si aprirebbe con l’elite o da una possibile secessione. Siamo alla guerra mondiale del calcio, che per un giorno ha fatto dimenticare la pandemia, monopolizzato l’agenda, unito politici di partiti e Paesi differenti: da Letta a Salvini, da Draghi a Macron, dalla Commissione Ue al Regno Unito di Boris Johnson, tutti contro la Superlega.

Cosa riusciranno a fare è da vedere. I governi sbraitano, ma potranno intromettersi nell’autonomia sportiva? Germania e Francia per il momento non hanno aderito (e senza Bayern e Psg la Superlega è meno super), ma resteranno così? La Fifa a parole è contraria, ma ha davvero l’intenzione di bandire i giocatori coinvolti dalle nazionali e dai Mondiali? Le Leghe minacciano di cacciare i ribelli da coppe e campionati, ma cosa ne sarebbe di una Champions senza le big, di un campionato senza Juve, Inter e Milan? C’è chi dice sia tutto un bluff, e che basterà una nuova trattativa con la Uefa, un po’ di soldi e qualche wild-card in più nella prossima Champions, per scongiurare il peggio. Pure la Serie A si interroga. Soliti insulti di Ferrero e Cairo, Lotito tace, Agnelli spiega di voler finire la stagione e non aver intenzione di abbandonare la A. “Non ho mai conosciuto una persona capace di mentire come lui”, ha detto il n.1 dell’Uefa (nonché padrino di sua figlia) Ceferin, uno che ha fatto per 20 anni l’avvocato penalista nell’Est Europa. Vatti a fidare di questa gente.

Stellantis, rischiamo un’altra beffa: l’hub dell’elettrico finirà in Spagna

Si parlerà di Stellantis, e del futuro elettrico dell’auto in Italia, nell’incontro di oggi tra Draghi e le parti sociali? La speranza è che l’argomento compaia sul tavolo almeno per iniziativa dei sindacati. Il tempo scorre veloce e l’occasione del Recovery Plan è cruciale perché la più grande iniziativa privata del nostro Paese, l’acquisizione di Fca da parte di Peugeot, possa offrire prospettive per l’innovazione e per l’occupazione.

L’ad del nuovo colosso mondiale, Carlos Tavares, ha scoperto le sue carte la scorsa settimana. La strategia di Stellantis è netta: il futuro immediato sarà la sostituzione del motore termico con modelli elettrici, capaci di raggiungere il 70% della produzione entro il 2030. Per farlo, ha precisato, bisognerà attrezzare degli hub per la ricerca e la produzione di batterie elettriche di nuova generazione che assicurino l’indipendenza dal mercato asiatico. Stellantis, forte di un precedente accordo per gli aiuti tra lo Stato francese (socio col 6,5%) e quello tedesco, ha già previsto due giga-factory in Francia e in Germania, con la collaborazione di Total, e ha annunciato che, entro il 2025, ne serviranno altre due: negli Stati Uniti (per Chrysler) e in Europa.

Sarà l’Italia della Torino della Fiat e del presidente di Stellantis, John Elkann, la scelta per quella europeo? Il segretario piemontese della Fiom, Giorgio Airaudo, non nasconde le difficoltà. “Il nostro governo si deve muovere e in fretta. Tavares ha spiegato che la produzione delle batterie è legata ai volumi di vetture. E su questo fronte, c’è un Paese che ci batte con numeri elevati: la Spagna. Lì, nel 2020, sono state prodotte 2 milioni e 250 mila auto, nonostante un calo del 19,6% per la pandemia, e con la presenza di quattro marchi: Seat, Peugeot, Renault e Ford. Dal solo stabilimento Peugeot di Vigo, sono uscite 500 mila vetture. In Italia invece c’è un solo produttore, Stellantis, che nel 2020 ha messo assieme 500 mila auto, 450 furgoni commerciali e un saldo negativo delle vendite. Cifre che parlano da sole”.

Non agganciare la filiera auto italiana all’innovazione elettrica potrebbe essere fatale almeno per una parte dei sette stabilimenti del gruppo. “Non significa solo batterie, ma anche accumulatori e cambi sia elettrici che meccanici per i veicoli plug-in, con delle forti prospettive per l’indotto – continua Airaudo –. Bisogna agire, coinvolgendo gli aiuti del Recovery e gli operatori dell’energia, imitando gli accordi franco-tedeschi con la Total, a cominciare dall’Eni e dall’Enel che sta dialogando con la Volkswagen. Perché non potrebbe farlo anche con Stellantis? Per la sede della giga-factory italiana, Mirafiori potrebbe poi avere una chance anche grazie alla ricerca del Politecnico di Torino, assieme a un progetto su come riutilizzare per la città la parte non più produttiva”.

L’ultima svolta dovrebbe arrivare sul fronte della transizione ecologica. “Produrre batterie significa anche allestire una linea per lo smaltimento di quelle vecchie, con procedure non inquinanti per il recupero dei materiali rari, mentre il governo dovrebbe pensare a degli incentivi mirati al futuro elettrico. In Francia lo Stato è azionista, in Italia invece Stellantis è solo privata. Ma Draghi non può rinunciare ad avere un ruolo in questa partita decisiva per il mantenimento dell’occupazione. Serve e presto un contatto con Tavares per bloccare l’insidia spagnola”.

Pnrr, Meloni da Draghi e Renzi fa anticamera

Mentre Mario Draghi ascolta la delegazione di Fratelli d’Italia e prende nota delle istanze che gli porta Giorgia Meloni, quella di Italia Viva, guidata da Matteo Renzi, aspetta giù. L’immagine è plastica: la Meloni è diventata la leader da temere. Renzi, dopo aver fatto cadere Conte e aperto la porta a Draghi, è del tutto marginale. L’unica opposizione sta dentro per oltre un’ora e mezza, rispetto ai 40 minuti previsti. D’altra parte, la Meloni esce e dice quello a cui tutti gli altri girano intorno: “Il Pnnr è sconosciuto, il governo non ha ritenuto di illustrarlo”. Con tanto di affondo: “Il Parlamento ha discusso di un piano del governo Conte. In teoria il Pnrr va presentato entro il 30 aprile, il presidente Draghi verrà in Aula il 26 aprile, quindi 4 giorni prima. Il rischio che il Parlamento e l’opposizione non abbiano la possibilità di giudicare il Piano sono molto alti”. In effetti, è proprio così. Nessun voto è previsto alla Camera e al Senato. Nessuno dei partiti convocati ha visto il Piano. E neanche i ministri non direttamente coinvolti. Per vararlo, è previsto un Cdm, forse venerdì. Resta ignota anche la governance sulla quale cadde Conte. Varie ipotesi allo studio: la più gettonata è il “modello Cipe”, ovvero dovrebbero guidare Palazzo Chigi e i ministri coinvolti, con possibili aggiunte di volta in volta a seconda dei temi trattati e dei ministri competenti.

Draghi non ha alcuna intenzione di rimandare la presentazione del piano. Anche perché da Bruxelles comincia a trapelare l’impressione che l’Italia sia in ritardo, tanto da poter far slittare la consegna fino al 15 maggio (come riportava la Reuters domenica). Ma c’è anche una certa pressione e qualche preoccupazione. Peraltro, forse la palese volontà del premier di porsi come il primo leader europeo (dalla critica ai contratti sui vaccini stipulati dalla Commissione alla definizione di Erdogan come “dittatore”) comincia a creare qualche fastidio. Dieci giorni fa Draghi e Paolo Gentiloni, commissario agli Affari Economici, si sono incontrati ma non hanno fatto filtrare neanche uno spiffero. Silenzio significativo. I due sono in contatto continuo, l’esame formale della Commissione avverrà dopo la proposta.

Nessun problema però da Iv. Nessun faccia a faccia scoppiettante tra Draghi e il fu Rottamatore. Anzi, l’incontro viene descritto come “molto noioso”. Sentire Maria Elena Boschi alla fine: “Aspettiamo che il governo trasmetta al Parlamento la versione nuova” che ha elementi di forte differenza rispetto a quello di Conte “su governance, monitoraggio, semplificazione”. Peccato che poi ammetta che sul Piano le sue conoscenze sono molto relative: “Abbiamo rimarcato al premier la necessità di vederlo”. Però è pronta a rivendicare la “priorità” data alla sanità e il capitolo infrastrutture.

“Dissociato” dai clan scrive al “Riformista”. Arrestato per camorra e tentato omicidio

Un dibattito serio sull’annunciata abrogazione dell’ergastolo ostativo, sollecitata da una sentenza della Consulta, non potrebbe non tenere conto della storia di Rosario Giugliano, detto ’o minorenne. Giugliano è tra i destinatari di una misura della Dda di Napoli eseguita ieri, 26 arresti che hanno sgominato un paio di clan di camorra e i loro affari nel racket e nella droga.

Vecchia gloria del clan Alfieri-Galasso, capace di accumulare condanne per 227 anni, 7 mesi e 28 giorni di reclusione, Giugliano era libero di circolare per strada, sottoposto solo alla sorveglianza speciale. L’ergastolo era stato convertito in 30 anni (13 al 41-bis), conclusi nel 2020. Motivo? La sua partecipazione alla “strategia della dissociazione” ideata dai Moccia di Afragola: prendere le distanze dalla camorra e dai propri delitti, senza dire una parola sui correi.

Giugliano era uno di loro. Il 21 febbraio scorso ha scritto una lettera strappalacrime sui suoi trascorsi di galeotto: “Proprio nelle catacombe del 41-bis, nonostante le angherie di quel regime, la mia riflessione e la voglia di cambiare si rafforzarono sempre di più. Una “luce” si era accesa nel mio animo. Essendo di estrazione cattolica mi piace pensare che dall’alto “qualcuno” abbia voluto prendermi per mano e accompagnarmi in una nuova vita”. Giugliano si lamentava del fatto che il questore di Napoli avesse annullato i funerali della madre per motivi di ordine pubblico. “Tranne la colpa di avermi messo al mondo, è stata trattata come una delinquente (…). Comunque, a parte l’amarezza, il mio percorso me lo tengo stretto, perché ritengo oggi di essere una persona migliore. Non so se questo Stato senza grazia e senza pietà può dire lo stesso di sé”. Chi poteva pubblicare questa lettera? Il Riformista di Piero Sansonetti, campione del garantismo senza se e senza ma. Peccato che Giugliano il 13 aprile successivo abbia tentato di uccidere con 14 colpi di pistola a San Marzano sul Sarno un tale, Carmine Amoruso, per prenderne il posto negli affari criminali dell’Agro-nocerino. Il decreto di fermo della Dda di Salerno, anch’esso notificatogli ieri, cita la lettera al Riformista come un pezzo di una “strategia mediatica”, sostenendo che “il costante richiamo a un percorso rieducativo solo evocato e mai realmente perseguito” sia stato uno strumento “per cercare di creare un clima che consentisse al vecchio camorrista di ritornare sul territorio di pertinenza mantenendo quel carisma criminale”. Sono soddisfazioni.

Conti ha detto sì: sarà la candidata di Renzi a Bologna

Alla fine, come ampiamente previsto, Isabella Conti ha detto sì: la sindaca di San Lazzaro sarà la candidata renziana alle primarie di Bologna, dove sfiderà i due uomini del Pd, Matteo Lepore e Alberto Aitini. L’ha annunciato con un video su Facebook: “Lancio la mia campagna senza bandiere, senza simboli, indipendente e trasversale”.

In realtà, Conti una bandiera ce l’ha eccome: quella di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi al quale ha aderito nell’ottobre del 2019, pochi mesi dopo esser stata rieletta (con il Pd) con oltre l’80% dei consensi per il secondo mandato a San Lazzaro. La giovane età di Conti (37 anni), la sua vittoria plebiscitaria e le sue battaglie amministrative (contro il consumo di suolo e per gli asili nido gratuiti) hanno acceso i riflettori su di lei. Renzi, che pubblicamente la chiama “Isa”, ha fiutato la possibilità di lanciare la sua candidatura per indebolire, ancora una volta, il Partito democratico (da cui Conti si era sempre sentita snobbata in questi anni). La prima parte del piano è riuscita, la seconda passerà per i gazebo.

Dell’Utri: “Tre stent al cuore dopo i libri sequestrati”

Quarantamila volumi mi sono stati sequestrati mentre io ero detenuto a Parma e la cosa mi ha fatto un male che lei non ha idea (…), ho dovuto mettere tre stent per questa cosa, perché mi ha fatto più danno questo che la stessa carcerazione”. Lo disse Marcello Dell’Utri in aula il 1º dicembre scorso, durante una delle ultime udienze del processo a Napoli dal quale è uscito assolto per accuse di peculato, in relazione alla vicenda dei furti dei libri nella biblioteca dei Girolamini. Le motivazioni dell’assoluzione sono state rese note ieri ed evidenziano in calce alla penultima delle 46 pagine queste dichiarazioni dell’ex senatore di Forza Italia.

Secondo i giudici del Tribunale, le intercettazioni tra Dell’Utri e Massimo Marino De Caro – l’ex direttore dei Girolamini condannato con sentenza definitiva per il furto di quei libri – avrebbero dimostrato che tra i due non ci fu un accordo a monte e che Dell’Utri non era a conoscenza della provenienza delittuosa dei volumi pregiati.

Vivendi vince il 1° round contro Mediaset in tribunale: ora Berlusconi dovrà far pace

Com’è noto, Silvio Berlusconi ha un rapporto controverso col Tribunale di Milano: ieri è stata una delle volte in cui gli è andata male, avendo perso di fatto le cause intentate contro si soci/nemici di Vivendi. Il Biscione chiedeva 3 miliardi per il mancato acquisto nel 2016 della malandata Premium – cui i francesi si erano impegnati – e risarcimenti per la scalata di Vivendi alla stessa Mediaset (dal 3 al 29% delle quote) ritenuta da Cologno Monzese illegittima sia per la legge Gasparri sia per il contratto tra le due parti (sempre quello di Premium). I giudici hanno ritenuto legittima la scalata, ricordato che la legge Gasparri è stata smontata, quanto all’incrocio tv-tlc (Vivendi è primo azionista di Tim), da una sentenza della Corte di Giustizia Ue del settembre 2020 e condannato infine i francesi per il mancato acquisto della pay-tv del Biscione a 1,7 milioni di risarcimento, una cifra sicuramente inferiore al costo di avvocati e perizie per questa causa. Insomma, il finanziere bretone Vincent Bolloré per ora ha sconfitto il suo ex amico Berlusconi in tribunale e questo avrà effetti a catena su una vicenda complicatissima. La gran parte dei diritti di voto di Vivendi in Mediaset, infatti, è sospesa fino a giugno: il fattaccio successe nel 2017, dopo una delibera dell’Agcom basata appunto sulla legge Gasparri, di fatto annullata dalla già citata sentenza di settembre della Corte Ue seguita al ricorso dei francesi; a quel punto era arrivato, al solito, un “emendamento salva-Mediaset”, che – senza entrare nei dettagli – ha congelato la situazione fino a giugno, quando l’Agcom dovrà decidere se Vivendi può o non può essere azionista con pieni diritti del Biscione (e non si vede, a questo punto, come possa decidere di bloccare i francesi e con che scusa). Ricapitolando, fra un paio di mesi Bolloré potrà far valere il suo 30% in Mediaset bloccando ancor più di quanto non abbia fatto finora (ad eempio seppellendo in tribunale il progetto “Media for Europe”) i piani della società italiana e questo mentre gioca da protagonista col governo la partita della rete unica come primo socio di Tim. Silvio Berlusconi sa da tempo che l’unica via d’uscita a questa situazione è trovare un accordo coi francesi che preveda, in un certo lasso di tempo, il passaggio del controllo a Bolloré: questa causa era l’ultimo tentativo di resistere all’inevitabile, adesso avrà molte meno armi da far valere anche nella trattativa sul prezzo, l’unica possibile.

49 milioni, la Lega paga i debiti con i soldi pubblici

Ufficialmente i partiti sono due, distinti e indipendenti fra loro. Da una parte c’è la vecchia Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, la storica casa dei leghisti. Dall’altra parte c’è Lega Salvini Premier, il partito fondato da Matteo Salvini nel 2017. È sulla base di questa netta separazione che è stata decisa la vicenda dei 49 milioni di euro. Il debito con lo Stato è infatti in capo alla sola Lega Nord. Così è risultato da un accordo tra Salvini e la Procura di Genova, del settembre 2018, con cui il Carroccio ha ottenuto di poter restituire il maltolto ai cittadini italiani a condizioni speciali: rate da 600 mila euro all’anno, per una dilazione in quasi 80 anni, senza interessi. Condizioni rarissime, accordate in nome del rischio democratico, cioè di eliminare nei fatti un partito politico togliendogli tutti i soldi. C’è però qualcosa che stride con questa narrazione. Se i due partiti sono distinti e indipendenti tra loro, se cioè non esiste continuità giuridica, perché alle ultime elezioni politiche la Lega si è presentata con il simbolo del partito nuovo e con lo statuto di quello vecchio?

Lo raccontano i documenti depositati al ministero dell’Interno. Alle Politiche del marzo 2018, Salvini si è presentato con il nome e lo statuto del vecchio Carroccio, ma con il simbolo di Lega Salvini Premier. Il contrassegno del nuovo partito è stato depositato da Roberto Calderoli nel gennaio del 2018, quando la Lega Salvini Premier era appena stata creata. Per partecipare alle elezioni, un nuovo partito doveva raccogliere almeno 375 firme per ogni collegio elettorale (64 in totale). La decisione di Salvini fu di presentarsi come Lega Nord, ma di usare il nuovo marchio come vetrina. Come se i due partiti fossero la stessa cosa. Mossa contraria alla logica applicata pochi mesi dopo alla restituzione del debito verso lo Stato dei 49 milioni, rimasto invece in carico solo al vecchio Carroccio.

Oggi la Lega Nord è ormai a tutti gli effetti una bad company, con pochissime entrate e moltissimi debiti, mentre Lega Salvini Premier gode di ottima salute finanziaria. Lo raccontano gli ultimi bilanci disponibili, quelli del 2019. Lega Nord ha incassato in tutto 1,4 milioni. La metà arriva dal 2 x 1000, denaro che ogni cittadino può decidere di versare, invece che allo Stato sotto forma di Irpef, al proprio partito preferito. È con questi soldi che Salvini sta ripagando il debito dei 49 milioni. Un paradosso: così facendo Lega Nord ripaga allo Stato il suo debito usando denaro sostanzialmente pubblico: la norma sul 2 x 1000 prevede infatti che, nel caso in cui il contribuente non effettui una scelta sulla destinazione della quota Irpef, la somma vada allo Stato.

Nel bilancio della Lega dunque le entrate sono pari a 1,4 milioni. Ma le spese, 1 ,7 milioni in totale, portano il risultato finale in rosso per 292 mila euro.

Tutt’altra musica per Lega Salvini Premier: nel 2019 il nuovo partito ha incassato 9,7 milioni di euro. Qui ora arrivano buona parte delle donazioni fatte da cittadini e aziende (5,8 milioni) e del 2 x 1000 (3 milioni). Salvini ha insomma spostato quasi tutte le finanze sul nuovo partito, lasciando al vecchio i debiti e quelle minime entrate necessarie per saldare le rate da 600mila euro all’anno di debito verso lo Stato. Anche le spese sostenute da Lega Salvini Premier sono rilevanti (8,8 milioni), ma il risultato finale, cioè la differenza tra entrate e uscite, è positivo per 875 mila euro.

Numeri che contano, perché nell’accordo sulla rateizzazione del debito è previsto che, oltre ai 600 mila euro annui che Lega Nord deve restituire, venga anche sequestrata “la differenza tra i ricavi dati dalle somme future incassate e le spese, risultanti dal bilancio certificato o comunque accertato”. In altre parole, se la Lega Nord si ritrovasse con un po’ di utile a fine anno, il denaro avanzato andrebbe allo Stato. Cosa che però non succede, perché Lega Nord chiude in rosso. Proprio grazie allo spostamento di tutti gli incassi sulla nuova creatura, Lega Salvini Premier.

Su questo presunto gioco delle due carte potrebbe essere presto un giudice a esprimersi. In un atto di citazione indirizzato al Tribunale di Milano, in cui chiede che gli vengano pagate 6,3 milioni di euro di parcelle legali mai saldate, l’ex avvocato della Lega Nord e di Umberto Bossi, Matteo Brigandì, denuncia infatti la continuità finanziaria dei due partiti.

Brigandì – che si considera un creditore del movimento – chiede le parcelle mai saldate a entrambi i partiti, la vecchia e la nuova Lega. “La Lega Salvini Premier, in buona sostanza, è la stessa associazione di Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, si legge nell’atto di citazione. Per l’ex avvocato di Bossi gli elementi per dimostrare la continuità giuridica tra i due movimenti sono parecchi: la coincidenza delle sedi (sono entrambi registrati al 41 di via Bellerio), il fatto che “l’intera dirigenza dei due partiti sia la medesima” e poi Brigandì allega alla causa civile un’intervista rilasciata da Salvini nel 2018 a uno studente per la sua tesi di laurea.

Rispondendo alla domanda “Si può dire che in questo momento esistano due Leghe?”, l’ex ministro ha argomentato: “Mi sento di rispondere di no. Esiste ‘la Lega’, con la sua storia, il suo presente e il suo futuro. Un movimento capace di aggiornare la sua agenda ai tempi che cambiano”. “Dal punto di vista elettorale”, chiede lo studente, “al momento esistono due Leghe. Quando e come verranno fuse in un unico partito?”. E Salvini: “Sarà un processo entusiasmante che prenderà il via a breve”. Per Brigandì è la dimostrazione che i debiti della Lega devono essere onorati anche da Lega Salvini Premier. La decisione del Tribunale di Milano dovrebbe arrivare il 28 luglio.

“54 milioni di dosi”, però nessuno sa di quali vaccini

Il contratto siglato dalla Ue con la casa farmaceutica AstraZeneca per il vaccino a vettore virale Vaxzevria scade il 30 giugno. La commissione europea potrebbe non rinnovarlo. Troppi ritardi, troppi tagli alle forniture concordate, come ha rilevato ieri il commissario per il mercato interno Thierry Breton. Ma è evidente che pesa anche quello stop and go – con la sospensione e il nuovo via libera dell’Ema dopo i rari casi di trombosi presumibilmente legati alla somministrazione del vaccino – che ha alimentato diffidenza. Pesa che anche il monodose Johnson&Johnson, sia finito per lo stesso problema sotto la lente di ingrandimento dell’Ema: oggi il verdetto.

Uno scenario che spiega il tentativo del governo Draghi (scrive ieri dal Financial Times) di verificare con Moderna, l’azienda statunitense che produce l’omonimo vaccino basato sull’mRna, la possibilità di impiantare in Italia una produzione di sieri sviluppati con questa biotecnologia, la stessa di Pfizer Biontech. Ma l’autonomia produttiva sembra per ora una speranza remota. Il premier Mario Draghi avrebbe parlato con l’ad di Moderna, Sthepane Bancel, senza avvicinarsi a un possibile accordo: l’azienda non è in grado di supervisionare il trasferimento nei siti produttivi italiani della tecnologia necessaria. Così, nulla di fatto. Il governo ha contattato anche la multinazionale svizzera Novartis e l’italiana Reithera. La prima ha già firmato un accordo con Pfizer per avviare una produzione che dovrebbe partire in giugno; ha siglato una intesa anche con la casa farmaceutica tedesca CureVac (anch’essa sta sviluppando un siero mRna), che sta ancora portando avanti la fase 3 della sperimentazione (per l’autorizzazione dell’Ema bisognerà attendere fino a giugno). Novartis non conferma né smentisce i contatti.

Stessa cosa fa Reithera, azienda italiana con proprietà svizzera, che alle porte di Roma sta sviluppando in collaborazione con lo Spallanzani un altro vaccino che utilizza l’adenovirus. Reithera è dotata di un bioreattore, necessario per produrre i sieri. Attenzione, però: solo quelli a vettore virale. Quindi AstraZeneca e Johnson&Johnson. Oppure il russo Sputnik, che per la prima dose usa l’adenovirus dello scimpanzè e per la seconda quello umano. Non può quindi produrre vaccini mRna. E anche gli annunci del ministro allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti per l’individuazione di siti italiani per la produzione non avrebbero portato a nulla: con Reithera non è stato fatto alcun passo ufficiale. L’azienda sta completando la fase di sperimentazione 2/3, iniziata il 18 marzo scorso con 900 volontari, randomizzata contro placebo per confermare il profilo di sicurezza e la risposta immunitaria. Ha ricevuto 8 milioni di finanziamenti dalla Regione Lazio, 49 da Invitalia per un investimento industriale e di ricerca da 81 milioni.

Ora anche su Reithera pesa però l’incognita rappresentata dai casi Johnson&Johnson e AstraZeneca. “Stiamo seguendo con attenzione tutte le informazioni relative ai vari vaccini per Covid-19 sviluppati utilizzando diverse tecnologie e quindi anche quanto sta emergendo dall’utilizzo di quelli basati su adenovirus “, conferma Reithera. “Anche se in generale – prosegue – va detto che si tratta di vaccini relativamente giovani. Tutti, compresi quelli basati sulla tecnologia mRna, che quindi necessitano di un monitoraggio attento, approfondito e costante per un tempo sufficiente al raggiungimento di quelle statistiche che ne definiscono le caratteristiche: pertanto sarà corretto chiarire i dubbi che sono emersi recentemente, attraverso i necessari approfondimenti”. Nel frattempo sempre il commissario europeo Thierry Breton ha annunciato che in Italia, nell’arco dei prossimi tre mesi, arriveranno 54 milioni di dosi. Come saranno ripartiti tra Pfizer, Moderna, AstraZeneca ancora non è stato definito.

“Su AstraZeneca e J&J è un errore restare prigionieri di troppe cautele”

Professor Silvestri, una settimana fa i nuovi contagi erano al -26%, negli ultimi sette giorni al -1%? Aprire il 26 aprile è presto?

Sono scelte difficili, e bisogna ragionare in termini di rischi sia del virus che degli effetti delle chiusure prolungate. Con l’aumento progressivo dei vaccinati, soprattutto nelle categorie fragili, diventeranno sempre più gestibili i carichi ospedalieri, e presto cominceremo ad avvertire l’effetto della bella stagione che riduce la circolazione dei virus respiratori.

Negli Usa come va?

In lento ma costante miglioramento. Siamo arrivati a oltre 133 milioni di persone vaccinate, di cui 86 milioni hanno fatto due dosi, e si marcia a ritmo di 3-4 milioni di immunizzazioni al giorno, quindi si va verso la fine del tunnel.

L’Ue ha annunciato l’invio in Italia di 54 milioni di dosi.

Essere ottimisti è un dovere per noi scienziati. Però è indubbio che in questa particolare situazione l’Unione europea stia andando a rilento in confronto non solo a Stati di grandi risorse come gli Usa, il Regno Unito ed Israele, ma anche rispetto ad alcuni Paesi di risorse più limitate, penso a Cile, Uruguay, Bahrein, Emirati Arabi Uniti o lo stesso Buthan. Mi preoccupa non solo la lentezza dei progressi, ma anche la scarsa coordinazione tra Paesi, forse un problema più ampio nell’Ue.

Con le riaperture come bisognerà comportarsi?

I vaccinati trasmettono il virus pochissimo, è lecito che queste persone riprendano una vita normale. I non vaccinati devono mantenere le precauzioni, dopo l’estate ritorna l’autunno.

Ingiustificati i timori per AstraZeneca e J&J?

Per AstraZeneca e J&J il rischio di effetti avversi severi, in particolare questa trombosi delle vene cerebrali causata da anticorpi contro il Pf4 (che assomiglia clinicamente alla piastrinopenia trombotica associata all’uso di eparina), è molto basso: un caso su un milione di persone vaccinate. Il rischio di rimanere prigionieri di cautele eccessive non è da sottovalutare.

Quale vaccino le è stato somministrato?

Ho usato Moderna, ma Pfizer sarebbe stato lo stesso, gli altri non erano un’opzione a gennaio.

Il Financial Times ha scritto del dialogo fra Draghi e Moderna per una produzione in Italia di vaccino mRna, è la strada giusta?

Giustissima, anche se non semplice, perché la produzione di questi vaccini richiede un know-how non indifferente. I vaccini a mRna hanno una performance superiore a quella degli altri vaccini (che pure non sono affatto male, beninteso!) in termini di efficacia e sicurezza.

In autunno sarà finita?

Ne saranno fuori i Paesi in cui la percentuale di vaccinati sarà sufficientemente alta da ridurre in modo importante la circolazione del virus. Dove si saranno vaccinate soprattutto le persone a rischio si potrebbe avere un calo sostanziale della mortalità pur in presenza di livelli importanti di circolazione virale. Il che sarebbe comunque un risultato positivo, ma rischioso in quanto si potrebbero selezionare varianti del virus meno sensibili al vaccino.


A cosa sta lavorando?

A questo punto le aree più importanti su cui lavorare sono un vaccino universale contro SarsCov2 (e magari contro tutti i sarbecovirus), anticorpi monoclonali ed antivirali sempre più potenti e facili da somministrare, migliorare la nostra comprensione della interazione tra virus ed ospite, soprattutto in relazione al cosiddetto “Covid severo”, e spiegare alcuni aspetti epidemiologici dell’infezione che ancora ci sfuggono, tipo il fenomeno dei superdiffusori.