Vaccinati, guariti e negativi. Pass viaggi al vaglio del Cts

Contano di fare presto, in un mese, anche prima del “green pass europeo” promesso dal commissario Ue Thierry Breton per il 1° giugno e destinato a consentire i viaggi tra i Paesi dell’Unione. Puntano a un pass digitale, caricato sulla tessera sanitaria o su apposita card, e già tremano le gambe pensando al flop di Immuni. Ieri a Palazzo Chigi c’è stata una riunione dei tecnici della Presidenza del Consiglio, della Salute, del Mef, ma anche del nuovo ministero dell’Innovazione tecnologica e Transizione digitale; oggi ne discuterà il Comitato tecnico scientifico.

Al pass avranno diritto i vaccinati, gli ex positivi negativizzati o guariti con certificazione medica, i titolari di tampone negativo eseguito nelle precedenti 48 ore. Si discute anche della possibile gratuità del test, sollecitata dal M5S e dal sindaco di Firenze Dario Nardella, che ne ha parlato con il ministro della Salute Roberto Speranza. La card servirà a spostarsi tra le regioni rosse o arancioni, dovrebbe essere possibile dai primi di maggio secondo il nuovo decreto legge che il governo discuterà domani, ma forse anche per accedere a eventi culturali o sportivi e locali. All’inizio, ovviamente, si partirà con un pass cartaceo: certificazione o autocertificazione. I movimenti tra regioni gialle dovrebbero invece essere consentiti dal 26 aprile, lunedì prossimo, giorno in cui Mario Draghi ha promesso il ritorno al giallo che era stato abolito ai primi di marzo per far fronte ai maggiori contagi dovuti alla variante inglese ormai prossima al 100% dei nuovi casi. Sono almeno 11 le Regioni che puntano al giallo perché hanno Rt sotto 1 e rischio definito basso o moderato: Abruzzo, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Umbria e Veneto, più le province autonome di Trento e Bolzano. Si vedrà con il monitoraggio di venerdì. Lo stesso decreto dovrebbe prorogare al 31 luglio lo stato d’emergenza in vigore dal 30 gennaio 2020, che altrimenti scadrebbe il 30 aprile cancellando la struttura commissariale e i suoi provvedimenti. Lo smartworking semplificato potrebbe essere prolungato fino a settembre.

I l decreto consentirà, in zona gialla, la riapertura di bar e ristoranti solo all’aperto ma, per la prima volta da novembre, fino alle 22. Dopo quell’ora rimane il divieto di circolazione. Il Cts esaminerà oggi i protocolli per queste riaperture: le Regioni propongono un metro di distanza tra le persone sedute a tavoli diversi; fino a 2 metri nei locali al chiuso che dovrebbero riaprire il 1° giugno secondo la road map faticosamente approvata venerdì scorso dalla cabina di regia ministeriale.

L’altra novità immediata sarà la scuola: lezioni in presenza per tutti negli istituti di ogni ordine e grado delle regioni gialle e arancioni; fino alle scuole medie in zona rossa, dove alle superiori saranno ammessi solo tra il 50 e il 75% degli alunni e gli altri faranno didattica a distanza. I problemi con i trasporti difficilmente saranno risolti. Diverse Regioni non vogliono troppi ragazzi a scuola, come ha ribadito il neo presidente della Conferenza delle Regioni, il leghista Massimiliano Fedriga, e oggi si confronteranno di nuovo con il governo. Draghi non intende arretrare sulla scuola, c’è l’ipotesi di lezioni all’aperto in alcune circostanze.

Infine, da lunedì 26, riapriranno non solo i musei, come nelle vecchie zone gialle, ma anche cinema, teatri e altri spettacoli, per i quali il Cts ha già validato venerdì i protocolli promossi dal ministro della Cultura, Dario Franceschini. Saranno ammessi nelle sale al chiuso fino a 500 spettatori, ma comunque non oltre il 50% della capienza, fino a mille all’aperto ma senza superare il 25% dei posti. Le stesse regole varranno per gli stadi e gli eventi sportivi in genere. Sono allo studio linee guida per gli eventi speciali come gli Europei di calcio (il governo si è impegnato con la Uefa per consentire l’accesso di circa 17 mila persone all’Olimpico di Roma, il 25% della capienza appunto, in occasione delle quattro partite ospitate dal nostro Paese a partire da Italia-Turchia dell’11 giugno) e gli Internazionali di tennis al Foro italico, eventualmente con ingressi riservati ai possessori della “green card”. Dal 26 aprile tornano il calcetto e gli sport di contatto all’aperto e senza uso degli spogliatoi, secondo protocolli in attesa di validazione del Cts. La road map del governo prevede poi dal 15 maggio la riapertura delle piscine all’aperto e degli stabilimenti balneari, dal 1° giugno delle palestre e di bar e ristoranti a chiuso, dal 1° luglio di fiere, congressi, terme e parchi tematici.

È tornata l’anima

A grande richiesta, mentre cominciavamo a domandarci che fine avesse fatto, è tornata l’“anima”. Quella che il governo Conte-2 non aveva, sprovvisto com’era anche di “visione”. Ce lo ricordavano ogni giorno Repubblica, Stampa ed Espresso: non sapendo che altro imputare a un buon governo che se l’era cavata benino come apripista dell’Europa sulla pandemia, lo picconavano quotidianamente per spalancare la strada alla Superlega dei Migliori. Dài e dài, alla fine l’hanno ottenuta. Il governo che ha riportato al potere la Lega e B. Il governo che “accelera”, in alta uniforme, sui vaccini (infatti ne fa la metà di Francia e Germania, mentre prima l’Italia le batteva entrambe). Il governo del “Draghi riapre l’Italia” (La Stampa), peraltro mai chiusa dal maggio 2002. Il governo che ci regala un bel condono fiscale. Quindi verrebbe da dire: l’avete cercata tanto, l’anima, e finalmente l’avete trovata. Solo che è quella di Salvini: ciucciàtevela e state sereni. Invece no, non sono ancora soddisfatti. Continuano a cercarla nei 5Stelle e in Conte, dopo averci raccontato per anni che i 5Stelle erano morti e aver celebrato tre mesi di esequie al putribondo Giuseppi.

Sulla stessa Repubblica che si è spesa allo spasimo prima per evitare che il Conte-2 nascesse (“Elezioni subito, ma c’è chi dice no”, il titolo dopo la crisi del Papeete, agosto 2019) e poi per 15 mesi perché defungesse, Ezio Mauro si dispera per “I grillini senz’anima”. Ma non erano morti? Che senso ha cercare l’anima se non c’è più il corpo? Niente: Mauro non si dà pace perché Conte, con i suoi celebri “deficit di democrazia e trasparenza” (vuoi mettere invece Draghi che si riscrive il Recovery aumma aumma con un paio di tecnici), ha detto che il M5S resterà “né di destra né di sinistra”. E questa sarebbe “una scelta di disimpegno” e di “neutralità”, come se non fosse uno splendido impegno e una scelta di campo tenersi a debita distanza dalla finta destra e dalla finta sinistra che hanno sgovernato per 25 anni. Ora “Letta deve ridiscutere le motivazioni e le prospettive di un’intesa”, almeno finché i “grillini” non presteranno solenne giuramento di sinistrismo. Uno potrebbe domandare: ma perché, Letta è di sinistra? Solo l’altra sera ha detto in tv tutto giulivo che “nel governo andiamo più d’accordo coi forzisti che con i nostri alleati”. Del resto, quand’era premier, ci governava felicemente. Forza Italia è per caso diventata di sinistra? Bisogna abbracciare il Caimano (senza offesa), per avere un’anima e una visione? E, già che ci siamo: che “anima” c’è nell’allentare le restrizioni con 3-400 morti al giorno, in base a un “rischio calcolato” sulla loro pelle da Salvini? A parte l’anima de li mortacci nostri, si capisce.

“Bad Girls”, le vite segnate diventano racconto corale

“Bad Girls” è il racconto corale di donne che da vittime di violenze si sono trasformate in giustiziere. Vite segnate, la cui parabola è sempre stata discendente fino all’epilogo della carcerazione. Ho conosciuto queste donne e ne ho raccolto le testimonianze. Patrizia Durantini, ventiquattro anni vissuti pericolosamente, è una di loro. La poliziotta che la trovò nel bivacco di una senzatetto alla Stazione Termini e la portò all’ospedale Bambino Gesù, non poté salvarla dal senso di vuoto di quell’abbandono avvenuto quando aveva appena cinque mesi. Patrizia non ha ancora rimosso tutti i fantasmi del passato, ma si sforza di trovare la strada che merita la sua giovane vita. Lo fa anche partecipando da alcuni anni ai progetti letterari del Premio Goliarda Sapienza dedicati alle persone ristrette, di cui questa raccolta di racconti fa parte, a dimostrazione di quanto la scrittura possa generare la spinta per una rinascita.

Per le altre donne – chi a fine pena, chi ai domiciliari o ancora in carcere – era una prima volta, con tutto il carico di emozioni che comporta la scelta di uscire allo scoperto.

“Mi sento come nuda” ha detto “Mara”, entrando nel vivo del proprio vissuto. Una sensazione di vulnerabilità che le accomuna. La parola scritta è venuta in soccorso, facendo superare la paura e la vergogna di ripercorrere le violenze subìte prima di diventare cattive ragazze. Eravamo al lavoro quando è scoppiata la pandemia e ci ha costretto a cambiare il passo, ma non ha interrotto il cammino. Così è nato questo libro, che senza cercare facili giustificazioni ai reati commessi, racconta di come la violenza sulle donne possa manifestarsi nelle forme più subdole, suscitando in alcune di loro reazioni irrazionali e devastanti.

Da vittime a giustiziere: storie di “cattive ragazze”

Arriva domani in libreria “Bad Girls”, un libro che racconta le storie di alcune donne che, da vittime, si sono trasformate in carnefici. Pubblichiamo la prefazione di Dacia Maraini e, di fianco, l’introduzione dell’autrice, Antonella Bolelli Ferrera.

Sembra di vederle mentre raccontano le loro storie. Una sigaretta sempre accesa tra le dita, gli occhi negli occhi di chi ascolta, le loro vite che diventano fiumi di parole ripetute migliaia di volte come a voler esorcizzare cose che a raccontarle non sembrano nemmeno vere tanto sono atroci, frutto di ignoranza, miseria, sopraffazione. Hanno messo i loro abiti migliori e profumano di saponi a buon mercato, in carcere bisogna essere pulite e poi tutte si truccano con estrema cura in quelle ore che non passano mai. Qui non ci sono segreti e quando una viene intervistata le altre assistono partecipi e attente, ascoltano per l’ennesima volta la storia della loro compagna di cella. Quella stessa che conoscono fin nell’intimo delle sue abitudini più segrete, che dorme due brande sopra di loro, quella che sentono piangere nascosta solo dal buio della notte.

E leggendo rivediamo, come in un film che ci scorre davanti agli occhi, quelle vite che sarebbe difficile persino inventare tanto sono crudeli e angosciose. Donne stuprate per giorni che dopo anni si fanno giustizia da sole, ragazzine costrette a spacciare droga da un padre-padrone violento e ignorante, quelle che scoprono la propria sessualità proprio dietro quelle sbarre dove però nessuno le giudicherà. Oppure ci sono le cosiddette donne di mafia, forti e determinate che hanno preso il posto del compagno ucciso e sono state pronte a vendicarlo. E ancora quella che in galera ci è arrivata dopo la chiusura dell’ospedale giudiziario perché il dolore le ha fatto perdere la ragione e non ricorda nemmeno cosa ha fatto. Lei è solo pazza, dicono. Ma ciò che salta agli occhi subito è che queste donne vengono quasi tutte da realtà orribili, fatte di povertà, di violenza, di botte, di degrado sociale. Nelle carceri la percentuale più alta dei detenuti, maschi o donne che siano, proviene dai ceti più bassi e ormai tantissimi sono immigrati arrivati clandestinamente e rimasti ai margini perché la società cosiddetta perbene non li accetta. Questo non significa voler giustificare assassinii o spaccio di droga, me ne guarderei bene, solo che quando queste storie non le leggi solo sulla cronaca nera ma ti vengono raccontate da qualcuno in carne e ossa seduto davanti a te, qualcosa cambia. Ed è la ragione, credo, che ha portato Antonella Ferrera a far diventare le loro storie un libro.

In questo mondo a parte per molte di loro, sembra assurdo dirlo, comincia una vita migliore di quella che hanno fatto fino a quel momento perché tra liti e battibecchi prende corpo anche una strana solidarietà fatta di ricordi, di nostalgie, di amori perduti e di possibili progetti futuri. Ed è importante dar voce a queste carcerate e alle loro vite perché ci fanno capire quanto poco conosciamo di chi viene chiuso in galera e del mondo di degrado, povertà, ignoranza che si portano dietro.

Khartum. Israele ora è un alleato, ma non piace a tutti

Sono in corso colloqui avanzati tra Khartum e Gerusalemme per la visita in Israele di una delegazione sudanese di alto livello entro breve. Il ministro dell’intelligence israeliano Eli Cohen ha già visitato il Sudan lo scorso gennaio, diventando il primo ministro israeliano a visitare il paese arabo, dopo il recente accordo di normalizzazione tra i due Paesi. Cohen ha incontrato il generale Abdel-Fattah Burhan, capo del Consiglio sovrano al potere, e il ministro della Difesa Yassin Ibrahim. I dettagli degli accordi non sono stati resi noti, anche perché le intese raggiunte non sono state ben accolte a Khartum dove ci sono state diverse manifestazioni contro la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico. L’invito a Gerusalemme è arrivato dopo che i ministri sudanesi hanno votato, la scorsa settimana, l’annullamento della legge sul boicottaggio di Israele come parte degli sforzi di normalizzazione. La decisione di abolire la legge del 1958 è stata confermata dall’ufficio del primo ministro Abdallah Hamdok, i ministri hanno anche riaffermato il sostegno del Sudan alla creazione di uno Stato palestinese come parte di una soluzione a “due Stati” in Medio Oriente. Il Sudan ha firmato gli accordi di Abraham con gli Stati Uniti, aprendo la strada al paese africano per normalizzare i legami con Israele, seguendo gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco. Il Sudan si è incamminato su un fragile percorso verso la democrazia dopo la rivolta popolare che ha portato i militari a rovesciare il dittatore Omar al-Bashir nell’aprile 2019. Il Paese è ora governato da un governo militare-civile congiunto, che cerca legami migliori con gli Usa e l’Europa. Lo scorso dicembre gli Usa hanno rimosso il Sudan dalla “black list” degli Stati sponsor del terrorismo, un incentivo chiave per il governo di Khartum per normalizzare le relazioni con Israele. L’economia del Sudan – nonostante il petrolio e le ricchezze minerarie – versa in uno stato comatoso dopo decenni di sanzioni internazionali e la pessima gestione sotto al-Bashir, che aveva governato il Paese dal colpo di stato militare del 1989 sostenuto dagli islamisti.

 

Sudan: due anni dopo, militari e civili restano separati in casa. Via dal pantano della dittatura

“Hourriyah, salam, adalah!”, “Libertà, pace, giustizia!”, gridavano due anni fa migliaia di persone in tutto il Sudan. L’11 aprile 2019 i generali destituivano e arrestavano Omar al-Bashir, dittatore da quasi trent’anni. A che punto è la rivoluzione due anni dopo? Per molto tempo i più pessimisti hanno temuto il colpo di Stato militare, in un paese che ne ha conosciuti tanti dalla sua indipendenza, nel 1956. Le cose sono andate diversamente. “Nell’estate 2020 la situazione sul piano economico e della sicurezza in Sudan era critica. I militari si dicevano pronti a “rispondere all’appello del popolo” e ad “assumersi le loro responsabilità”. In altre parole si preparavano a prendere il potere. Ma il popolo ha detto no, pronto a sua volta a riprendersi la strada”, spiega Kholood Khair, co-fondatrice del think thank Insight Strategy Partners.

Il colpo di stato militare, dunque, non ha avuto luogo. Altri scommettono ora sulla delusione del popolo e sul rimpianto del vecchio regime. Ma in pochi, malgrado le difficoltà quotidiane, esprimono una tale nostalgia, tranne forse una certa élite dei tempi della dittatura. I Comitati di Resistenza, all’origine della Rivoluzione, continuano a indirizzare la politica del governo restando attivi nelle piazze o aderendo ai partiti politici. Ancora una volta, come durante la rivoluzione, i sudanesi dimostrano una grande maturità politica: “Il paese è stato saccheggiato dal regime di Omar al-Bashir per trent’anni. Due sono troppo pochi per poter risollevare la situazione”, spiegano Intissar al-Aqli, 55 anni, sociologa e attivista del Partito unionista nasserista, più volte imprigionata durante la dittatura, e Sawakin Babiker, 30 anni, ingegnere agricolo e volontaria della Ong Shabab lil Salam (“I giovani per la pace”).

La rivoluzione la lasciato le sue tracce sui muri delle città sudanesi, ci sono ancora scritte come “Ash Shaab yourid” (“La volontà del popolo”) e i ritratti dei suoi eroi. “Non sono più obbligata a chiedere certi libri a bassa voce”, dice Intissar al-Aqli entrando in una delle più antiche librerie di Khartum. Il caffè accanto è diventato il luogo di incontro di studenti e giovani rivoluzionari che, giocando a scacchi, discutono di politica. “Prima non avremmo mai potuto parlare così liberamente”, dicono. Ma la libertà conquistata sembra loro ancora incompleta. Molti rimpiangono che “i militari continuino a controllare il Paese”. La Dichiarazione costituzionale firmata nell’agosto 2019 dai generali della giunta militare post-Omar al-Bashir e dalla coalizione rivoluzionaria delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) ha sancito una spartizione del potere per tutta la fase di transizione.

Un generale è ora alla testa del Consiglio Sovrano del Sudan, organo collettivo composto da undici membri, cinque generali e sei civili. I militari occupano inoltre posti essenziali nei ministeri dell’Interno e della Difesa. La Ffc ha accettato questa condivisione del potere nell’agosto 2019 per “evitare un probabile bagno di sangue”. Il delicato accordo dovrebbe concludersi nel 2024. A quel punto le elezioni presidenziali e legislative dovranno permettere di instaurare la democrazia in Sudan. Tuttavia, i militari intendono approfittare di questa fase di transizione per consolidare le loro posizioni, in particolare il loro controllo sull’economia.

“Governano il Paese praticamente senza interruzione dall’indipendenza e non intendono rinunciarvi. Ritengono che i civili non siano in grado di governare”, osserva Aladin al-Hadi. Il trentenne, membro dei Comitati di Resistenza, preferirebbe che il primo ministro Abdellah Hamdok, un ex economista della Banca africana per lo sviluppo rientrato dall’esilio dopo la rivoluzione, si mostrasse più fermo. “Abbiamo bisogno dei militari per difendere il Paese e della polizia per mantenere ordine, non per governare”, aggiunge Ahmed Jamil, compagno di lotta di Aladin. I due amici vivono a Gadaref, città di oltre 300.000 abitanti a 400 km a sud-est di Khartum. In provincia il peso dei militari si sente ancora di più che nella capitale. L’esercito era la colonna vertebrale del regime di Omar al-Bashir, lui stesso militare, e il suo potere non è mai stato scalfito, soprattutto quello dei temuti servizi segreti. I loro ufficiali, in abiti borghesi, sfoggiano la stessa arroganza dei tempi della dittatura. Un’arroganza che Sadiq Youssef, ex segretario generale del Partito comunista sudanese, conosce bene per essere stato arrestato più volte, l’ultima durante la rivoluzione quando aveva 84 anni.

Nella sua casa di Omdurman, città gemella di Khartum, l’anziano comunista parla con voce severa: “I militari sono al comando dall’inizio della transizione. Oltrepassano sistematicamente i limiti del loro potere. Abdelfatah al-Burhan, il generale presidente del Consiglio Sovrano, ha destituito il governatore di Porto Sudan, sebbene questa sia una prerogativa del governo. Ha incontrato in segreto Benjamin Netanyahu, anche se la politica estera spetta ai civili. Sono i militari inoltre a occupare la Commissione per i negoziati di pace. È necessario che il governo agisca in modo più rapido e fermo. L’ho già detto a Hamdok, che è un mio vecchio amico”. Negli ultimi mesi il primo ministro ha preso una serie di decisioni che consolidano il ruolo dei civili nel governo. “Nel dicembre 2020, gli Stati Uniti hanno ritirato il Sudan dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo. Ciò permetterà di nuovo alle aziende straniere di investire in Sudan – spiega Kholood Khair del think thank Insight Strategy Partners –. Certo, questo risultato è stato ottenuto accettando la normalizzazione delle relazioni con Israele. Ma i sudanesi sono pragmatici e vedono il risvolto positivo sull’economica”. Il crollo della sterlina sudanese rispetto al dollaro lo scorso febbraio ha provocato in un primo tempo una forte svalutazione della moneta e un ulteriore aumento dei prezzi, ma i due valori si sono rapidamente stabilizzati. Il dollaro costava 55 sterline al cambio ufficiale, 400 sul mercato nero. “La popolazione ha ritrovato fiducia nel sistema bancario – aggiunge Kholood Khair –. In poche settimane sono stati trasferiti 400 milioni di euro alle banche sudanesi dalla diaspora”, aggiunge Omar Gamar Eddin Ismaïl, ministro degli Esteri dal 2019 a inizio 2021, ora consigliere presso lo stesso ministero. Il profilo di questo ricercatore, difensore dei diritti umani, in esilio dal colpo di stato di Omar al-Bashir, nel 1989, fino all’estate 2019, mostra come sta cambiando la governance del primo ministro Hamdok. In un primo tempo, il suo è stato un governo di tecnocrati, per lo più rientrati dall’esilio, specialisti nei loro rispettivi settori, ma considerati distanti dal popolo. Il nuovo governo, nominato l’8 febbraio 2021, è più politico: “È composto da responsabili dei principali partiti politici e comprende rappresentanti di gruppi armati. È più rappresentativo del Paese”, spiega Anwar al-Hajj, direttore della piattaforma della società civile Sudan Democracy First Group, fondata nel 2010. Questa fase era prevista dall’accordo di pace negoziato a Juba nell’ottobre 2020. La priorità del primo ministro è porre fine ai conflitti interni che affliggono il Sudan da decenni, tra cui quello con il Darfur.

L’Accordo di Juba “prevede una più equa divisione dei poteri e si impegna a rafforzare i servizi di base, come istruzione e sanità, nelle regioni in conflitto – spiega Mahmoud Ayn al-Abdin, fondatore della Ong African Center for Governance, Peace and Transition Studies –. Inoltre, nessuno dei precedenti accordi di pace con il Darfur, firmati sotto il regime di Omar al-Bashir, era mai andato così lontano”. Da allora, rappresentanti dei gruppi del Darfur sono entrati nel governo. Cosa che ha fatto storcere la bocca a molti: alcuni di loro dovrebbero piuttosto trovarsi in un’aula di tribunale e essere giudicati per crimini di guerra. “Queste persone dovranno rendere conto al momento delle elezioni – osserva Saboun, molto attivo nei Comitati di Resistenza –. Sanno che hanno un debito col popolo”.

 

Usa e Ue contro la Russia per salvare la vita a Navalny

Salvate il dissidente: è l’appello che i politici (e cittadini), da Washington a Londra, dall’Italia a Parigi e Berlino, spediscono al Cremlino. Dietro le sbarre della colonia penale nella regione di Vladimir, a nord di Mosca, versa in pessime condizioni di salute Aleksey Navalny, il cui caso sarà oggetto di riunione oggi a Bruxelles. A confermare ai media che al tavolo dei ministri degli Esteri Ue si dibatterà del peggioramento delle condizioni di salute del blogger in carcere è stato il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas.

“Aleksey sta morendo e potrebbe avere un infarto da un momento all’altro” continuano a ripetere i medici di Navalny ormai da giorni, soprattutto da quando, il 31 marzo scorso, l’oppositore ha deciso di iniziare lo sciopero della fame per ottenere una visita con uno dei suoi dottori di fiducia. Che le autorità russe siano ora le uniche “responsabili della salute e sicurezza di Navalny” lo ha ricordato prima Andrew Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, e poi l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Josep Borrell. A nome dell’Europa e dei suoi alleati Borrell ha inoltrato a Mosca anche una nuova proposta di inchiesta internazionale, – da svolgere in collaborazione con l’Opac, Organizzazione per la proibizione di armi chimiche -, per fare luce sull’avvelenamento da novichok subito da Navalny la scorsa estate. Ad agosto, dopo un primo atterraggio d’emergenza nella città siberiana di Tomsk, l’oppositore è stato trasferito e curato dalla sostanza nervina a Berlino, per essere arrestato appena rientrato in patria e condannato a due anni e mezzo di prigione a febbraio scorso. Se alla Casa Bianca stanno valutando cauti “una diversa serie di misure da imporre” contro Mosca, nella Federazione gli alleati del blogger hanno richiesto ieri a tutti i sostenitori del movimento di inondare le strade russe, in ogni città: “Esistono momenti in cui le decisioni vanno prese subito ed ora è uno di quei momenti: situazioni estreme costringono a scelte estreme”. Lo ha detto il braccio destro del dissidente Leonid Volkov, insieme all’alleato Ivan Zhdanov, che ha invitato i ribelli a scendere in piazza il prossimo mercoledì in una battaglia contro “il male assoluto”, perché “non stiamo più parlando della libertà di Navalny, ma delle sua vita”.

Venerdì scorso i procuratori di Mosca hanno richiesto al tribunale della Capitale che il Fondo anti-corruzione, creato dieci anni fa dall’oppositore, venga bollato come “gruppo estremista” e rientri nell’elenco delle organizzazioni violente volte a destabilizzare l’ordine costituzionale, come l’Isis ed Al-Quaeda. In caso di approvazione della Corte, sarebbero a rischio chiusura le sedi del Fondo e potrebbero essere arrestati seguaci e donatori finanziari. Il Cremlino, bersagliato ieri da nuove critiche e minacce di ulteriori sanzioni arrivate in simultanea da ovest, ha già risposto da Londra: “Non si lascerà che Aleksey Navalny muoia in prigione”.

Caro Rc auto 2 mld di risparmi per le compagnie, briciole ai clienti

Le compagnie assicurative stanno godendo di buoni risultati economici grazie al Covid. Ma in minima parte questi effetti positivi stanno ricadendo sugli automobilisti italiani, che da sempre sono costretti a sborsare premi più alti della media europea. È la solita storia all’italiana dell’Rc auto. Così, anche se con le restrizioni c’è stata una considerevole diminuzione dei sinistri che, secondo l’Ania (l’associazione delle compagnie assicurative) hanno fatto risparmiare alle compagnie 2,1 miliardi di euro, ai clienti è andata solo la metà, circa 1 miliardo. La parte restante è rimasta nelle casse delle assicurazioni che hanno offerto di allungare la durata delle polizze, hanno eliminato le franchigie o concesso più flessibilità agli assicurati. Eppure, secondo l’Ivass (l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni), che ha stimato una riduzione dei sinistri del 35% tra febbraio e novembre 2020, le compagnie avrebbero dovuto restituire circa 70 euro. Un calcolo che si basa sul confronto tre le stime dei premi incassati (al netto delle tasse) e i risarcimenti (al netto delle spese di liquidazione). Un risparmio che, tuona Altroconsumo, non si è tradotto in una riduzione altrettanto significativa del premio Rc auto. Tanto che, spiega l’associazione, secondo la stima Ivass su dati dello scorso autunno anche se i benefici previsti per gli assicurati ammonterebbero a 811 milioni di euro, solo 348 milioni sono stati erogati a ottobre 2020. Molto meno dei risparmi. “Le compagnie – dice Altroconsumo – non hanno ridotto i premi, ma hanno tenuto nelle loro casse i risparmi dei mancati sinistri. Lo conferma la nostra indagine in cui abbiamo interpellato oltre mille automobilisti per capire cosa è successo alle loro polizza Rc auto al rinnovo nell’ultimo anno”. Numeri alla mano, calcolando che il 94% si è affidato alla stessa compagnia, tra chi non è rimasto fedele e non ha fatto sinistri nell’anno, solo il 35% ha pagato un premio inferiore rispetto all’anno precedente, nella metà dei casi con un risparmio piuttosto risicato, inferiore a 25 euro. Insomma, siamo ben lontani dai 70 euro risparmiati in media dalle compagnie, sottolinea Altroconsumo. Inoltre, se per il 39% non c’è stato alcun risparmio con il premio che è rimasto invariato, c’è addirittura un consistente 26% che ha pagato di più rispetto all’anno precedente.

 

È così giusto spendere soldi nelle ferrovie? Ecco i dati

Rfi, la società delle Ferrovie dello Stato che costruisce e gestisce le linee, ha progetti d’investimenti per 79 miliardi di euro, secondo l’ultimo contratto di programma. Nella versione del Pnrr presentata a gennaio dal governo Conte sono indicati nei prossimi anni investimenti nelle ferrovie per 26,7 miliardi. A fronte di un così elevato volume di investimenti previsti merita considerare quali siano i dati di bilancio delle FS e quali ritorni o benefici possiamo attenderci dal dedicare tante risorse al trasporto su ferro. Nel libro “L’ultimo treno” (PaperFirst) gli autori Ponti e Ramella ricostruiscono i conti dal 1990 in poi mettendo in risalto quanto le FS abbiano gravato sui conti pubblici

Lo Stato eroga contributi alle FS sia in conto esercizio che per investimenti. Quelli per investimenti ammontano mediamente a 4,5 miliardi l’anno ma anche questi possono essere considerati dei sussidi come quelli per la gestione corrente perché sono “a fondo perduto”. Infatti i pedaggi che i treni pagano per usare la rete non bastano a coprire i costi di gestione e pertanto Rfi non può remunerare i fondi ottenuti, anno dopo anno, dallo Stato. Anzi, lo Stato deve versare a Rfi anche un contributo in conto esercizio (oltre un miliardo nel 2019). Stato e Regioni erogano poi anche sussidi in conto esercizio a Trenitalia e altre società del gruppo. Le Ferrovie costano ogni anno ai contribuenti attorno ad 8 miliardi, più del doppio di quanto incassano dal traffico: appare davvero difficile immaginare giustificazioni razionali per un livello così elevato di sussidio pubblico soprattutto se si considera che il fatturato delle FS rappresenta appena il 5% del totale dei trasporti terrestri.

Questi brevi cenni, e le analisi contenute nel “L’ultimo treno” danno un quadro diverso da quello che viene proposto dalla relazione annuale delle FS. Consideriamo la relazione del 2019 perché per ora, per il 2020, è stata pubblicata solo una breve sintesi. A livello consolidato ci viene detto che il gruppo FS ha avuto ricavi per 12,4 miliardi, un Margine Operativo Lordo di 2,6 miliardi ed un utile netto di 584 milioni. L’utile è l’1,4% dei mezzi propri ma comunque l’immagine è quella di un “campione nazionale” in buona forma (nel capitale non sono inclusi tutti i contributi per investimenti versati dallo Stato).

Vengono però definiti “ricavi” anche i contributi pubblici correnti per Trenitalia (che questa considera “corrispettivi”), per Rfi e altre società del gruppo, i trasferimenti dallo Stato all’Anas per il contratto di servizio e altri ricavi dell’Anas come i pedaggi o i canoni di concessioni autostradali. Un guazzabuglio di dati dalla natura più disparata che non consente una significativa valutazione dei risultati gestionali delle FS: basta ottenere maggiori contributi dallo Stato per migliorare il conto economico.

A livello consolidato si legge che i ricavi dal traffico viaggiatori e merci sono stati, nel 2019, 4.770 milioni che includono però 1.300 realizzati all’estero. Quindi i ricavi da traffico in Italia sono stati solo 3.450 milioni; andando a ricercare nella relazione annuale di Trenitalia si legge che i ricavi del traffico viaggiatori sono stati 2.961 milioni e i contributi da enti pubblici 2.040 milioni.

In una relazione di 460 pagine, piena di inglesismi, si deve faticare molto per desumere, in tabelle di dettaglio sparse qua e là, quali siano i ricavi “veri” di mercato e quali i contributi pubblici a vario titolo: lo sforzo della relazione non è certo quello di far capire la realtà al lettore, semmai il contrario. Anche la recente pubblicità che dipinge le FS come un’impresa all’avanguardia proiettata nel futuro non è certo finalizzata ad incrementare i ricavi del traffico ma piuttosto ad imbonire l’opinione pubblica distogliendo l’attenzione dagli oneri che gravano sulle finanze pubbliche.

Le FS fanno ormai quasi un terzo dei ricavi (di mercato) in altri paesi europei. Nelle centinaia di pagine della relazione non si riesce a capire se le attività all’estero producano profitti o perdite: speriamo bene. Ma quali vantaggi potrebbero mai avere le nostre FS rispetto alle società ferroviarie o di bus dei paesi europei dove vanno ad operare? Per quali motivi le FS vanno ad gestire all’estero linee che non hanno alcuna relazione col traffico italiano, considerando poi che anche questi investimenti sono indirettamente finanziati con spesa pubblica? Tutte le gestioni di linee estere sono state acquisite dalle FS tramite gare quindi è presumibile che, se non in perdita, i margini di profitto siano molto ridotti. In Italia invece di gare per la gestione di linee regionali non se ne fanno: il monopolio delle FS resta inattaccato e così non si ha neppure l’opportunità di verificare la riduzione di costi che potrebbe aversi con la concorrenza di altri operatori.

Berlino vince la sfida (ad armi dispari) sugli aiuti di Stato

Il premier Mario Draghi rischia di dover incrinare la pluriennale sintonia con la cancelliera tedesca Angela Merkel perché ora dovrebbe contestarle i rischi di distorsione della concorrenza per aver varato aiuti di Stato – stimati in circa 1.590 miliardi – destinati alle imprese della Germania colpite dall’emergenza Covid. Questi massicci sostegni pubblici possono penalizzare l’Italia, principale concorrente industriale nella zona euro, in quanto non in grado di sostenere il suo apparato produttivo con importi analoghi a causa dell’alto debito.

All’inizio della pandemia Merkel ottenne a super-velocità una compiacente normativa di esenzioni dalle regole Ue sulla parità di trattamento tra le imprese. In tempi normali gli aiuti pubblici non possono distorcere la concorrenza all’interno del mercato europeo. Il governo di Berlino, premendo sulla connazionale alla guida della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e sulla responsabile della Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, ha poi fatto il pieno. La Commissione Ue stima di aver approvato aiuti di Stato per l’emergenza Covid per “3.030 miliardi di euro” e che il “52,5% sono stati notificati dalla Germania”. L’Italia è “intorno al 15,3%”, la Francia al 14,4%, la Spagna al 5,6%.

L’8 luglio 2020 la Commissione Ue ha concesso alla Germania, in una singola pratica, di impiegare 500 miliardi per le imprese colpite dalla crisi sanitaria. In agosto la Baviera ha ottenuto il “sì” a 46 miliardi per finanziare o ricapitalizzare aziende bavaresi. Seguono una pioggia di schemi a “ombrello” a beneficio di vari settori (dai ristoranti all’agricoltura, agli aeroporti). Aiuti miliardari sono diretti, per esempio, alla compagnia aerea Lufthansa e a Tui viaggi.

Vestager ha cercato di sminuire questo enorme vantaggio competitivo alle imprese tedesche, sostenendo che gli aiuti approvati sono “necessari e proporzionati” e non ancora tutti già elargiti. Ma la Germania ha continuato a collezionare approvazioni per crisi di liquidità (fino a 1,8 milioni per azienda), ridotta attività (fino a 10 milioni) ed eventi eccezionali (illimitati), grazie anche al saper utilizzare al meglio discutibili cavilli tecnici inseriti nelle normative su impulso dell’influente euroburocrazia filo-Berlino.

Le esenzioni temporanee di Bruxelles sugli aiuti di Stato furono approvate dall’Italia e da altri Stati perché i vantaggi competitivi per i Paesi “ricchi” sarebbero stati bilanciati con contributi a fondo perduto del Recovery Fund per quelli più in difficoltà. Ma poi Merkel e i suoi alleati dei governi “frugali” hanno negoziato al ribasso. L’Italia, se si escludono i prestiti (che dovrà restituire), ha ottenuto una sessantina di miliardi contro 450-500 miliardi di aiuti di Stato stimati per le imprese tedesche entro il 2021.

Draghi e il ministro dell’Economia Daniele Franco dovrebbero ora contestare i rischi di distorsioni nel mercato unico: pretendendo un aumento dei contributi Ue a fondo perduto e un freno ai sostegni pubblici tedeschi almeno fino a quando il Recovery fund non avrà il via libera della Corte costituzionale della Germania e la ratifica di tutti gli Stati Ue. Draghi e Franco sanno che Merkel va marcata stretta quando punta a vantaggi competitivi. Entrambi ricordano la “stangata” analoga che rifilò al sistema bancario italiano nella crisi finanziaria iniziata nel 2008.

Allora Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble impiegarono centinaia di miliardi pubblici per salvare banche tedesche travolte da “titoli tossici” e da crediti inesigibili. La Commissione Ue avallò quella mega distorsione della concorrenza a danno dei sistemi bancari dell’Italia e di altri Paesi Ue. Quando la situazione si aggravò – a causa delle maxi esposizioni di banche private tedesche (e francesi) nella Grecia insolvente – Berlino ottenne addirittura che fossero gli Stati della zona euro ad accollarsi il problema.

Merkel – per tacitare i contribuenti tedeschi irritati dai troppi aiuti concessi ai banchieri connazionali – pretese anche la direttiva Ue “bail-in”, che limita o impedisce esborsi pubblici per le banche al collasso (dopo che lei li aveva già dati…). Il sistema bancario italiano, che non aveva ricevuto aiuti, oltre allo svantaggio competitivo, subì la beffa. I primi colpiti da Vestager con il “bail-in” furono proprio sei istituti di credito e migliaia di risparmiatori italiani. Da Berlino e da Bruxelles pretesero dall’Italia pure l’applicazione del Patto di stabilità con misure di austerità attuate dal premier Mario Monti. Risultato: aumento del debito pubblico, discesa della produzione industriale, salita della disoccupazione. Le banche italiane si riempirono di crediti inesigibili per le imprese e famiglie non più in grado di pagare i mutui.