La vera incognita: il ritorno degli Npl nei bilanci bancari

Forse non arriveranno ai 1.400 miliardi paventati il 13 ottobre scorso da Andrea Enria, il capo della vigilanza della Bce, ma i crediti inesigibili torneranno ad aumentare nei bilanci delle banche dell’Eurozona. A farli crescere saranno le nuove regole di vigilanza sul credito, ma soprattutto la crisi scatenata dalla pandemia e, paradossalmente, pure gli aiuti di Stato. Le banche sono già in difficoltà a causa di fattori diversi, come i tassi di interesse ai minimi, i loro problemi strutturali e l’overbanking, l’offerta di credito sovradimensionata rispetto alla domanda dell’economia. Se non attentamente calibrata, la fine delle moratorie e dei prestiti garantiti dallo Stato rischia di danneggiare l’economia e quindi gli istituti con un improvviso aumento delle sofferenze, perché molte imprese in difficoltà potrebbero fallire mentre altre decine di migliaia di aziende “zombie” potrebbero svelare all’improvviso il loro reale stato di default.

Secondo l’Autorità bancaria europea (Eba), i prestiti che hanno beneficiato di moratorie, garanzie statali e altri sostegni non vengono riclassificati a rischio almeno fino alla scadenza degli aiuti. A metà 2020, era la Spagna con 32,5% il Paese con la percentuale maggiore di prestiti garantiti dallo Stato nell’Eurozona, seguita da Francia (23,4%), Germania (12,2%) e Italia (11,1%). L’ultimo bollettino economico dalla Banca d’Italia, pubblicato il 16 aprile, spiega che nel quarto trimestre 2020 il debito delle imprese italiane è aumentato al 76,9% del Pil, comunque molto lontano della media dell’Eurozona (115,5%). Anche la liquidità depositata in banca dalle aziende è aumentata grazie agli aiuti pubblici e per il crollo degli investimenti. Invece “il flusso dei nuovi crediti deteriorati si è mantenuto su valori bassi, beneficiando delle misure di sostegno ai redditi delle famiglie e all’attività di impresa, delle moratorie e delle garanzie pubbliche”. Dall’ultima analisi periodica di Abi e Cerved sui crediti deteriorati delle imprese, pubblicata a febbraio, emerge però il timore che, se anche nel 2020 gli aiuti straordinari hanno consentito di far calare i tassi di deterioramento delle imprese ai minimi storici (2,5%), dopo una lunga fase di discesa l’indicatore quest’anno risalga al 4,3%, mentre l’anno prossimo dovrebbe tornare al 3,7%, la metà del picco del 2012. Le aziende più colpite saranno quelle di medie dimensioni, dell’edilizia e dei servizi, mentre le piccole imprese e le industrie saranno meno coinvolte.

Il problema è che l’evoluzione dei prestiti irrecuperabili, le sofferenze o Npl, per l’Eba “è difficile da prevedere poiché il numero totale di prestiti soggetti agli aiuti per il Covid può fornire solo una stima approssimativa della percentuale di prestiti che può essere colpita dalla pandemia”. Le sofferenze non comprendono ancora larga parte del credito in moratoria, ma scontano anche i 90 giorni che devono passare tra il mancato rimborso e la classificazione dei prestiti come irrecuperabili.

A impattare sono poi le nuove regole europee per le banche sull’identificazione dei crediti deteriorati e la definizione di default, oltre al calendar provisioning per la copertura obbligatoria dei finanziamenti a rischio, in vigore da inizio anno. Per questi motivi il senatore del Pd Gianni Pittella il 16 febbraio ha presentato una proposta di legge come primo firmatario per chiedere transazioni agevolate per i crediti in sofferenza. Ecco perché i vertici dell’Abi giovedì scorso hanno incontrato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, per chiedere a Strasburgo di sostenere una revisione delle regole della vigilanza bancaria europea sulle sofferenze. Per evitare contraccolpi all’economia reale, l’Associazione bancaria chiede di far durare le moratorie e le garanzie sui prestiti sino a fine pandemia e di gestire la loro rimozione con la massima gradualità.

Ecco perché le garanzie statali sui mutui non possono finire

Alle prese con le misure per ridurre il disastro causato dalla pandemia sull’economia, ora le autorità di controllo bancarie e finanziarie e i governi si trovano a un passaggio estremamente rischioso. Dopo la prima fase dell’emergenza – che ha portato a una rapida erogazione a pioggia di aiuti pubblici, diretti o sotto forma di credito, moratorie e garanzie per famiglie e imprese – ora la riduzione e poi l’uscita dagli interventi di sostegno degli Stati dev’essere attentamente calibrata. La questione è tanto più seria quanto maggiore è stato il danno che il coronavirus ha inflitto alle economie dei diversi Paesi Ue, i quali – già prima del Covid – viaggiavano a velocità e con forze molto diverse.

L’Italia è tra gli Stati europei più esposti: ha patito di più i colpi della pandemia, il crollo del Pil è stato tra i più pesanti in Europa e impiegherà più tempo a recuperare (ammesso, ma non concesso, che il piano vaccinale porti davvero gli italiani all’immunità di gregge). Nel 2020 la pandemia ha causato all’Eurozona la peggior recessione dalla fine della Seconda guerra mondiale: quest’anno dovrebbe iniziare la ripresa, ma le misure di contenimento continuano a pesare sull’attività di molti settori, in particolare sui servizi. Se andrà bene, le stime dicono che il Pil dell’area dell’euro tornerà ai livelli pre-crisi solo nel secondo trimestre del 2022 e, in Italia, solo dal 2023.

Quanto al dopo, insieme agli investimenti pubblici, un ruolo fondamentale lo avranno il risparmio e il credito. A questo proposito, il Documento di economia e finanza (Def) del governo Draghi prevede la proroga di sei mesi, dal 30 giugno al 31 dicembre, delle misure di sostegno finanziario. Nel decreto “Sostegni bis” in corso di definizione saranno contenuti, come reclamato da Confindustria e altre associazioni di categoria, il rinvio delle scadenze delle garanzie pubbliche sui crediti alle piccole e medie imprese, che valgono 152 miliardi, e delle moratorie sui crediti alle Pmi che pesano per altri 126 miliardi, oltre all’estensione a 15 anni dei tempi di rimborso dei finanziamenti garantiti, indipendentemente dal loro valore.

La pandemia ha aumentato la vulnerabilità finanziaria di milioni di imprese in tutti i mercati, i settori e i paesi. Come tutti i governi, anche quello di Roma l’anno scorso ha varato misure di sostegno indispensabili a sostenere i lavoratori, le famiglie e le imprese, come il blocco dei licenziamenti, la cassa Covid, l’erogazione di aiuti diretti, l’approvazione di sostegni finanziari indiretti sotto forma di garanzie di credito pubbliche e di moratorie sui prestiti già ricevuti. Anche la Banca centrale europea ha fatto la sua parte: da un lato ha mantenuto inalterata una politica monetaria accomodante, garantendo una costante e adeguata iniezione di credito e liquidità, dall’altro ha deciso il programma di emergenza di acquisti di titoli finanziari per la pandemia (Pepp) per un totale di 1.850 miliardi che varrà almeno fino al 31 marzo 2022 e, in ogni caso, fino a quando non giudicherà finita la crisi scatenata dal coronavirus.

Sono milioni le famiglie e imprese che hanno fatto ricorso agli aiuti finanziari varati l’anno scorso dal governo Conte con i decreti legge ‘Cura Italia’ e ‘Liquidità’, grazie ai quali continuano a resistere alla crisi. Secondo i dati aggiornati al 26 marzo della Task force che raggruppa i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo, Bankitalia, Abi, MedioCredito Centrale, Invitalia e Sace, il ricorso agli aiuti pubblici contro la pandemia si sta lentamente riducendo, ma è ancora gigantesco. Sono ancora attive moratorie su prestiti a imprese e famiglie per 173 miliardi con 1,68 milioni di sospensioni accordate. Sono il 60% di tutte le moratorie accordate da marzo 2020, che al loro massimo valevano 280 miliardi. Le richieste al Fondo di garanzia Pmi valgono oltre 152 miliardi: al 26 marzo erano state erogate garanzie per il 94% circa di 1,87 milioni di domande ricevute. Ci sono 22,6 miliardi di prestiti tutelati su 1.772 richieste ricevute da Sace attraverso “Garanzia Italia”. Poi moratorie per 36 miliardi di prestiti alle famiglie, dei quali 5 relativi alla sospensione delle rate del mutuo sulla prima casa attraverso il cosiddetto Fondo Gasparrini. La moratoria dell’Abi riguarda 6 miliardi di finanziamenti alle imprese, mentre la moratoria sul credito personale e al consumo delle famiglie ne vale altri 9 concessi da Abi e Assofin.

Tra le imprese che hanno ottenuto questi fondi la maggioranza erano in difficoltà oggettiva, ma alcune invece non erano in pericolo. Queste ultime, che galleggiavano già su grandi riserve di liquidità, hanno sfruttato l’occasione degli aiuti di Stato e delle garanzie sui prestiti per rimborsare prestiti più onerosi e abbassare il costo del loro indebitamento. C’è però un rovescio della medaglia non trascurabile: il rischio che troppe imprese decotte siano tenute in vita solo grazie agli aiuti pubblici, finendo per danneggiare la concorrenza e il Paese. Come spiegato dal vicepresidente della Bce Luis de Guindos al Parlamento europeo mercoledì scorso, “da un lato, un ritiro anticipato o una riduzione del sostegno rischia di innescare un’ondata di insolvenze che avrebbe un grande impatto sull’economia. D’altra parte, fornire sostegno pubblico e bassi costi di finanziamento per troppo tempo può portare a mantenere in vita imprese non redditizie a scapito delle banche, della produttività e della crescita”. Per de Guindos, però, “al momento i rischi derivanti dal ritiro anticipato dalle garanzie pubbliche sono superiori a quelli associati al mantenimento delle misure di sostegno. Il circolo virtuoso che è stato creato va preservato. Ma qualsiasi effetto negativo a lungo termine derivante dal mantenimento degli aiuti dev’essere monitorato attentamente e costantemente”.

I dati italiani confermano questa analisi. Secondo una ricerca condotta da MedioCredito Centrale e Svimez sulla situazione economica e finanziaria di 200mila piccole e medie imprese italiane con un milione di fatturato, se non avessero avuto accesso al Fondo pubblico di garanzia una su tre, 67mila aziende, sarebbe stata declassata secondo le regole di inquadramento varate dal G20 e di queste addirittura 56mila sarebbero finite nella quinta classe, la peggiore. Questo avrebbe comportato un calo dei ricavi del 9,5%, del 14,3% del valore aggiunto, di un quarto del margine operativo lordo e di quasi tre quarti dell’utile. Secondo Luca Bianchi, direttore dello Svimez, si tratta di circa 30mila “imprese zombie” delle quali 12mila attive nella manifattura, 7mila nella meccanica, 6.700 nella ristorazione e 4.500 nelle costruzioni. I dati collimano con quelli di uno studio di Anthilia Capital Partners che stima le piccole e medie imprese a rischio in 25-35mila, delle quali 7-8mila erano in tensione finanziaria già a fine 2019. Il rischio è che la qualità dei crediti garantiti dal sostegno pubblico si deteriori e che un’ondata di sofferenze e altri crediti a rischio finisca prima o poi per emergere, finendo per affossare il settore del credito già in difficoltà. Sinora i dati sui prestiti non mostrano peggioramenti, ma sono alterati proprio dalle garanzie di Stato.

Destini “spaziali”. La missione “kamikaze” della cucciola Laika e l’estasi di Gagarin

Proprio in questi giorni nell’aprile del ’61, per la prima volta nella storia del mondo, il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin fu il primo uomo a volare nello spazio e a portare a termine con successo la missione.

“Girando attorno alla terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro pianeta. Il mondo dovrebbe permetterci di preservare e aumentare questa bellezza, non di distruggerla! Essere il primo a entrare nel cosmo. Battersi da solo in un duello senza precedenti con la natura. Qualcuno potrebbe sognare qualcosa di più grande di questo?”. Gagarin rimase in volo per 108 minuti, completando un’intera orbita intorno alla terra e osservando tanta altezza disse: “Il cielo è molto nero, la terra azzurra. Da quassù la terra è bellissima senza frontiere né confini”. Questa frase di Gagarin restò nella memoria collettiva. Il cosmonauta divenne una celebrità internazionale e ricevette numerosi riconoscimenti, il più importante dei quali fu “eroe dell’Unione Sovietica”, la più alta onorificenza del suo Paese.

Ma Gagarin non fu il solo eroe: quattro anni prima nel ’57 una cagnetta, una bastardina di nome Laika fu mandata nello spazio e non tornò mai più. La sorte di Laika era segnata fin dall’inizio perché la sua missione non prevedeva il rientro. Lei è stata il primo essere vivente ad aver orbitato intorno alla terra, un cane astronauta, il primo. Ma che c’entrava una povera cagnetta con la conquista dello spazio? A lei bastava il suo piccolo mondo: una ciotola, una cuccia con scritto il suo nome e un padrone affettuoso. Invece si è ritrovata senza capire, a volare dentro un razzo, per andare chissà dove. Giusto? Sbagliato? Ha contribuito con il suo sacrificio al progresso dell’umanità? Chissà. I cani non volano, i cani corrono, specie se i padroni gli tirano un legnetto. Forse Laika ha sbagliato padrone.

 

Dudù La Capria. La recensione più bella, il ritratto d’amore, e il destino di incontrare Giosetta Fioroni

Questa volta non provo a proporre ai lettori un libro. Ho di fronte a me quattro pagine scritte a mano con una calligrafia grande, molto bella, che rivela subito la qualità di artista dell’autore.

È un’autrice, di quelle che hanno creato grandi personaggi della scena pittorica italiana – e la parte lieta e nuova della cultura italiana – nel mezzo della vita di chi scrive (se si parla di vaccini, anziani).

Ho trovato le pagine di Giosetta Fioroni sulla rivista letteraria Immaginazione, per la quale ho sempre provato attenzione e gratitudine, perché mantiene ben teso il filo che lega i contemporanei con gli artisti dei decenni che adesso cominciano ad essere “il passato”. Immaginazione si ostina a restare il presente, ed è ai nostri giorni che Giosetta Fioroni scrive sulle pagine della rivista – fra i testi di Renato Barilli, Angelo Guglielmi o Maurizio Maggiani – la sua lettera a Dudù (Raffaele) La Capria, “da pubblicare possibilmente così com’è (c’è un disegno!)”.

Quel disegno, che appare, riprodotto con cura a pagina 15, è come un racconto che accompagna la lettera. Nel ritratto a penna di Dudù c’è la tensione, l’attenzione, il rovello di La Capria (non si finisce mai di capire, non si finisce mai di scoprire), c’è lo sguardo che sembra vedere molto dentro, molto lontano, in uno strano mix di allarme e di dolcezza. Qui il lettore percepisce un fatto strano: una delizia delicata e rispettosa, che però non cancella il vedere e sapere le cose un po’ prima. C’è, in entrambi i protagonisti della lettera, chi scrive e chi riceve, una sorta di consapevolezza calma e dolorosa, ma anche fiduciosa e celebrativa, in un prima che solo essi sanno, e nel dopo.

Il ritratto a penna dello scrittore fa da copertina alla lettera: parole d’amore per il fortunato destino di stare accanto, vedersi e capirsi a fondo in un momento della duplice storia, che possiamo chiamare caso, vocazione, destino. La Capria non ha mai avuto una recensione così bella e appassionata. Scrive Giosetta: “Vedo novant’anni di pensieri essenziali, vedo l’indimenticabile illuminismo del cuore, vedo la tua prosa teneramente semplice e, per questo, piena di suggestione e poi l’armonia perduta, il distacco amoroso da Napoli. Fino a Doppio misto, perfetto nel raccontare le alternanze della vita, del cuore, della ragione, che si sono amate, che si vogliono bene… Raffaele, Dudù… è una grande gioia leggerti, pensarti e… darti un bacio”.

C’è un altro disegno di Giosetta Fioroni. Spetta a chi vorrà vedere questo numero 322 de L’immaginazione, che resterà unico.

L’ immaginazione. Rivista bimestrale, numero 322 (marzo-aprile), Prezzo: 8, Editore: Manni

Embraco-Wanbao. La giravolta di Giorgetti affossa il progetto della “public company” dei compressori

Il tentativo di rimettere in piedi la Embraco di Torino e la Wanbao di Belluno non sarà più a opera di un’impresa a netta maggioranza pubblica. Lo ha deciso da solo il ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti che, senza alcun preavviso, ha così stravolto con un tratto di penna il progetto di public company dei compressori messo a punto in autunno dal governo Conte 2. La mossa di puntare su una società in mani prevalentemente private è venuta fuori giovedì scorso e ha lasciato interdetti un po’ tutti, specialmente i sindacati e i 400 lavoratori piemontesi per i quali il 25 aprile potrebbero già scattare i licenziamenti, che saranno rimandati solo grazie alla cassa integrazione.

Appena ha avuto l’occasione, il ministro Giorgetti ha portato un cambio di rotta sostanziale nella gestione delle crisi industriali, dando un’impronta che appare anche ideologica. Le vicende delle due aziende interessate hanno avuto negli ultimi anni percorsi paralleli, per poi convergere nello stesso piano di rilancio. La Wanbao faceva parte di una società cinese, con partecipazioni statali nella provincia di Guangzhou. La fabbrica di compressori per frigoriferi occupava in Veneto 300 addetti, forniva giganti come Whirlpool ed Electrolux. Non mancavano gli ordinativi, eppure nel 2019 è arrivata la scelta di smantellare tutto. Un destino che, poco più di un anno prima, era già toccato alla Embraco di Riva di Chieri, la cui controllante Whirlpool aveva deciso a inizio 2018 di delocalizzare mandando a casa 400 persone. Pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo l’allora ministro Carlo Calenda annunciò un piano di salvataggio. Il seguito è stato molto meno entusiasmante: la Ventures Srl, società che aveva promesso il rilancio, ha poi dichiarato fallimento.

Ecco perché, a settembre 2020, è nata l’idea di unire i due siti in un unico polo dei compressori. Il progetto ItalComp prevedeva un capitale pubblico al 70% e privato al 30%. Ci hanno lavorato Alessandra Todde, allora sottosegretaria e oggi viceministra dello Sviluppo economico, e il titolare dei rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. A nessuno è sfuggito che i due non siano nemmeno stati invitati da Giancarlo Giorgetti all’incontro di giovedì con i presidenti del Piemonte Alberto Cirio e del Veneto Luca Zaia. La circostanza è stata favorevole per annunciare la giravolta: la compagnia che nascerà avrà un capitale a maggioranza privata, proprio come è successo con la Corneliani – azienda mantovana della moda – che il ministro ha preso come riferimento. La parte pubblica, dunque, non sparirà ma sarà ridimensionata in modo considerevole. E questo fa sì che i lavoratori si sentano meno rassicurati: domani mattina gli ex Embraco saranno sotto il ministero. Secondo Ugo Bolognesi della Fiom Cgil, “questo è un ritorno al passato”. Quel passato in cui il protagonista della reindustrializzazione era un investitore privato che, dopo due anni di attesa, ha riportato i lavoratori alla casella di partenza.

 

Sui dosier economici. Supermario ha una linea?

Venerdì, mentre qualche cronista cercava di farsi dire dal premier che senza di lui falliremmo, Mario Draghi ha dovuto rispondere a una domanda secca: “Su Autostrade avete idee alternative alla trattativa con Atlantia?”. Risposta: “Non parlo perché c’è un’offerta in corso preparata sostanzialmente dal governo precedente. Il cda di Atlantia la discuterà e vedremo”. È una scelta corretta, eppure pone un tema dirimente: il premier, e il governo, hanno un’idea sui grandi dossier economici che si trascinano da anni? Una stampa compiaciuta ha buon gioco nel presentare Ilva, Alitalia, Autostrade, MontePaschi come delle rogne indirizzate su binari sbagliati dall’esecutivo precedente e che il nuovo porta avanti malvolentieri. L’ex Bce non ama parlarne, e d’altronde da solo non può fare miracoli, ripetono i suoi estimatori facendogli torto. Siamo certi che se le cose andassero a buon fine, il merito sarebbe il suo, ma il punto resta.

Esiste il pilota automatico anche sui dossier industriali? Nessuno obbliga il governo a impegnare 3 miliardi per far rinascere una nuova Alitalia (“Ita”) così rimpicciolita dopo i diktat Ue da non avere possibilità di sopravvivere. A Draghi va bene questa costosa liquidazione mascherata? Nessuno lo sa, però ha detto che Ita dovrà stare in piedi e che Bruxelles non deve esagerare. Consegnare Autostrade a Cassa depositi e prestiti senza eliminare la spremitura degli automobilisti al casello va bene? Il colosso ArcelorMittal vuole lasciare al governo un’Ilva inutilizzabile. Draghi ha spedito come presidente l’amico Franco Bernabè, che ha subito dovuto bloccare il blitz dell’ad, Lucia Morselli, che voleva accollare il bilancio 2020 pure ai consiglieri di Invitalia. L’esecutivo deve decidere in fretta se vuole prendere il comando ma per farlo serve avere un’idea industriale e volontà di impegnare almeno 2 miliardi pubblici, o Ilva va chiusa. Lo farà? Sul Montepaschi, banca in pesante crisi, tutto tace: Draghi è d’accordo a regalarla con dote pubblica al primo compratore? Due mesi per decidere sono pochi, e certe partite nate storte non si raddrizzano, ma la chiarezza aiuterebbe. Quantomeno a ridurre il tasso di ipocrisia.

Gneo Nevio, Montanelli, il caso striscia e le “nuove sensibilità”

Ricci e Feticci. Michelle Hunziker e Gerry Scotti durante una puntata di Striscia la notizia (lo storico telegiornale SATIRICO di Antonio Ricci), lanciando un servizio sulla sede Rai di Pechino hanno fatto gli occhi a mandorla e detto qualche parola con la elle al posto della erre. Ne è nato un casino mondiale, con minacce e accuse di razzismo. A nulla sono valse le loro scuse: pensosi commentatori si sono scagliati contro chi non capisce che le “sensibilità sono cambiate”. Ci è tornata in mente la storia di Gneo Nevio, poeta satirico che nel secondo secolo a.C. prendeva in giro la nuova nobiltà romana, facendo parecchio divertire il popolo. Ma non i padroni dell’urbe che lo spedirono prima in gattabuia, poi, secondo San Gerolamo, in esilio a Utica. Ma forse fu un ritiro dalle scene volontario: mentre era al gabbio, per fare ammenda scrisse un’altra commedia, piena di noiosissimo amor patrio e orfana di satira. Di lui parla anche Indro Montanelli nella sua “Storia di Roma”: liberandosi di Nevio, “Roma perse nello stesso tempo il commediografo che poteva dare il via a una produzione nazionale originale e non più ricalcata su modelli stranieri e contemporaneamente un umorista che poteva insegnare a quel popolo così tetro e pesante l’arte di sorridere, di accorgersi dei propri difetti e di porvi rimedio”. Non è del tutto sbagliato tenere conto delle nuove sensibilità: ma come dimostra il vecchio Nevio, è anche pericoloso.

Oscar e Leone. Roberto Benigni, premio Oscar per “La vita è bella”, è il Leone d’oro alla carriera della 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Dice il direttore Alberto Barbera del bischeraccio: “Sin dai suoi esordi, avvenuti all’insegna di una ventata innovatrice e irrispettosa di regole e tradizioni, Roberto Benigni si è imposto nel panorama dello spettacolo italiano come una figura di riferimento, senza precedenti e senza eguali”. In effetti: quanto ci piaceva quando era innovatore e irrispettoso delle regole! Purtroppo non tutti invecchiano bene…

 

Non classificati

Castelfrancǝ Emiliǝ. Il comune di Castelfranco Emilia ha cominciato a usare per la comunicazione social il simbolo fonetico “ǝ”, detto schwa, come desinenza finale al posto dei plurali maschili universali per usare un linguaggio più inclusivo. Su un pezzo molto chiaro de Il Post, si legge che lo schwa viene utilizzato da decenni dai linguisti e si trova anche nell’alfabeto fonetico internazionale per indicare una vocale intermedia. “È un suono presente in molte lingue del mondo e in alcuni dialetti italiani: è quello che i napoletani usano nell’imprecazione “mamm’t”, o che nei dialetti del centro Italia si usa alla fine delle parole, facendo diventare “bello” bellǝ, e così via”. Domanda inclusiva: che senso ha sostituire una lettera dell’alfabeto con un simbolo fonetico? Diceva Luigi Settembrini, patriota e letterato napoletano, che per avere una buona lingua serve un buon Paese. Occhio che funziona anche al contrario.

L’ottava musa. È arrivato il via libera del Governo alla Figc per gli Europei di calcio. La sottosegretaria allo sport Valentina Vezzali ha inviato una lettera al presidente della Federcalcio Gravina con l’impegno del governo di assicurare la partecipazione “di una quota di spettatori pari ad almeno il 25% della capienza” dello Stadio Olimpico in occasione della partita inaugurale e delle altre sfide in programma a Roma. La manifestazione è in programma dall’11 giungo all’11 luglio: per quella data è ragionevole attendersi una situazione di quasi normalità. La buona notizia però ha fatto arrabbiare il mondo dello spettacolo, fermo da un anno. Della protesta si è fatto portavoce il ministro Franceschini: “Nel caso in cui si dovessero autorizzare eventi sportivi con pubblico, le stesse regole dovrebbero riguardare i concerti e gli spettacoli negli stadi o in spazi analoghi”. Ragionevole, no? Vedremo. Intanto il Dio pallone è salvo.

 

Salute senza speranza: il gioco di Salvini&meloni per far fuori Letta&Conte

Can che abbaia non morde. Nel corso di questa legislatura, quale che fosse il governo in carica, Giorgia Meloni ha avuto spesso il merito di stanare Matteo Salvini dalla doppiezza delle sue posizioni. Essendo ormai piuttosto allenata a riconoscere le ambiguità del Carroccio, diventato quasi ontologicamente sia di lotta che di governo, la leader di Fratelli d’Italia non ha faticato ad individuare nel ministro Speranza l’emblema di questa ambivalenza. Se da un lato infatti il segretario leghista bombarda quotidianamente il titolare del dicastero della Salute, imputandogli la responsabilità di tutto quello che non ha funzionato nel corso della pandemia ed individuando in lui l’unico ostacolo alla riapertura del Paese, dall’altro non sembra affatto intenzionato a mettere in alcun modo in discussione l’equilibrio di governo. Così, per metterlo di fronte all’evidenza delle proprie contraddizioni, la Meloni ha comunicato di essere pronta a presentare una mozione di sfiducia nei confronti di Speranza, accompagnando l’annuncio con queste parole, palesemente rivolte all’alleato: “FdI presenterà una mozione di sfiducia nei suoi confronti e vediamo chi si assumerà la responsabilità di tenerlo ancora al suo posto”. Sentendosi chiamato in causa, Salvini si è precipitato a tirare i remi in barca, prima che il presidente Draghi finisca per innervosirsi davvero: “Non è semplice governare con Pd e Speranza ma è necessario. Essere al governo permette di decidere anche come spendere i soldi che riceveremo dall’Europa. Ripeto stare con Speranza e con il Pd non è la cosa più semplice del mondo, ma era giusto fare così. Noi andiamo avanti nella richiesta di curare gli italiani e tornare a lavorare. Se qualcuno ha sbagliato qualcosa il tempo sarà galantuomo e gli italiani lo sapranno”. Morale della favola? Can che abbaia al ministro non morde il governo. E Giorgia lo sa.

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Non classificati

Tutti coinvolti. Che la partita che si sta giocando sulla testa di Speranza sia dunque una partita tutta politica, che poco ha a che vedere con la gestione sanitaria, al centrodestra sembra essere molto chiaro. Il dubbio è se la questione sia altrettanto chiara al centrosinistra e in particolar modo al Partito democratico. Enrico Letta, dopo gli attacchi di Salvini, ha incontrato il ministro della Salute e si è schierato dalla sua parte nell’ambito pratico: “Stamani ho incontrato @robersperanza. Abbiamo fatto il punto su campagna vaccinale e piano di riaperture in sicurezza, in pieno accordo sull’analisi della situazione e la linea da tenere”. Ma in un ambito più astratto, politico per meglio dire, la presa di posizione di Letta appare ancora troppo tiepida. Il Pd, nel grado di coinvolgimento che utilizzerà di qui in avanti per difendere il ministro, deve tenere conto che in discussione non c’è un singolo destino politico, ma l’identità stessa del governo Draghi: l’esecutivo è all’insegna della continuità o della discontinuità col governo Conte? Nella maggioranza predomina il centrosinistra o il centrodestra? E le decisioni di Palazzo Chigi rafforzano o indeboliscono l’alleanza tra Pd e Cinque Stelle? Una volta considerati tutti questi elementi, l’ardore difensivo dei democratici non potrà che crescere.

 

Elogio del Real Madrid. Il club più ricco che insegna come si vince a costo zero

Senti che il Real Madrid è nuovamente in semifinale di Champions League, che potrebbe disputare, il 29 maggio, la quarta finale delle ultime sei edizioni (le prime tre le ha vinte), constati che la cosa non desta stupore in alcun osservatore e dici: ma certo, il Real, tutti quei soldi, tutti quei campioni, non c’è gara con la concorrenza. Poi rifletti. E pensi al 27 aprile quando i blancos sfideranno il Chelsea nella semifinale d’andata. Domanda n. 1: sapete quanti soldi ha speso il Real Madrid nell’ultimo mercato, quello estivo e quello di gennaio? Tenetevi forte: zero centesimi. Non ha comprato nessuno, ma proprio nessuno, e ha incassato 88 milioni vendendo Hakimi all’Inter (45 milioni), Regulion al Tottenham (30) e O. Rodriguez al Siviglia (13), oltre a liberarsi del sanguinoso ingaggio di Bale, parcheggiato in Premier chez Mourinho.

Domanda n. 2: sapete quanti soldi ha speso invece il suo prossimo avversario, il Chelsea dello zar Abramovich? Tenetevi ancora: 253 milioni. E cioè 80 per Havertz (Leverkusen), 53 per Werner (Lipsia), 50 per Chilwell (Leicester), 40 per Ziyech (Ajax) e 30 per Mendy (Rennes). Insomma: se la sfida è tra cicala e formica, la formica non è il Chelsea, è il Real Madrid. Un club che a seconda dei momenti storici sa comportarsi nel modo più saggio: largheggiando quando può (è capitato spesso), economizzando quando deve. E tuttavia, sempre restando competitivo e continuando a vincere.

Tre estati fa, dopo aver vinto la 3ª Champions consecutiva con Zidane allenatore (la 13ª in totale), il Real si ritrovò con Cristiano Ronaldo, 33 anni e mezzo, il suo giocatore più celebrato, desideroso di andarsene; Florentino Perez non fece una piega, vendette Ronaldo alla Juventus e incassò 105 milioni che utilizzò in parte per acquistare un portiere giovane, Courtois (allora 26enne, 35 milioni) e in parte per portare a Madrid un talento in erba brasiliano, Vinicius, 17enne attaccante del Flamengo (45 milioni). Vi chiederete: okay, Courtois è una sicurezza e Vinicius vale oggi il doppio dei soldi spesi per averlo, ma chi arrivò al posto di Ronaldo? Non arrivò nessuno. Semplicemente, presero da parte Benzema, che a Madrid era arrivato nell’estate del 2009 proprio come Ronaldo (via Lione il francese, via Manchester il portoghese) e che per nove stagione gli aveva fatto da scudiero e da apripista nelle aree di rigore di mezza Europa, e gli dissero: da oggi Ronaldo sei tu. E ci guadagnarono. Perchè Benzema iniziò a segnare più di prima senza mai smettere di fare quel che sempre aveva fatto, l’uomo-squadra né più né meno di Modric; e a distanza di tre anni i fatti dicono che Ronaldo, oggi 36enne, via da Madrid è scomparso da tutti i radar della Champions (in tre stagioni non è mai approdato alle semifinali, dove al Real non mancava praticamente mai) mentre Benzema, oggi 34enne, è a un passo dall’approdare a una nuova finale (Istanbul, 29 maggio) in cui farà il Ronaldo e il Benzema assieme e in cui duetterà con un certo Vinicius, 20 anni, cresciuto e maturato, il talento pagato nel 2018 con un terzo dei soldi avuti per CR7.

A poco più di un mese dalla conclusione della stagione ’20-’21 il Real Madrid (campione in carica in Spagna) è in piena corsa sia per vincere il 35° titolo della Liga, sia per vincere la 14ª Champions (o Coppa Campioni, fate voi) della sua storia. Se accadrà, sarà la prova che non era Ronaldo a far grande il Real, era il Real a fare grandi tutti. Anche Ronaldo.

 

Indagini e scoop. Vietato toccare la Calabria “Qualcuno voleva colpire Giovanna Boda?”

Quella di Giovanna Boda è la più italiana delle storie. Scrivo senza sapere se riuscirà a salvarsi, come spero di cuore. Giovanna Boda è una mia amica, lo dico per sgombrare il campo da ogni dubbio. Una donna a cui il mondo della scuola deve tantissimo e a cui deve tantissimo il movimento antimafia. Una dirigente con un entusiasmo fanciullesco, di cui ho parlato anni fa su queste pagine. Con un senso delle istituzioni da fare invidia a uno statista. Perciò ogni ministro, di qualsiasi colore, l’ha apprezzata. Perché sapeva che di lei si poteva fidare, e ne poteva anche ricevere vantaggi di immagine. E per questo quando ho letto l’ormai celebre articolo della Verità da cui tutto è partito ho sentito come un pugno nello stomaco.

Mi ci sono addentrato in quel pezzo, da far studiare per anni nelle scuole di giornalismo. E vi ho trovato una combinazione di particolari che mi hanno inquietato. A partire dalla fine, in cui la dirigente del ministero viene accostata a Luca Palamara, solo perché, per conto del suo ministro dell’epoca Elena Boschi, gli dà un appuntamento, in un quadro del tutto estraneo all’indagine per tempi e per materia. Insomma, accostamento gratuito e voluto, spulciato chissà da chi e in che modo dalle voluminose intercettazioni del magistrato. Con lo sberleffo che suggella la minuscola citazione. Il riferimento, che vorrebbe essere ironico, all’ espressione usata da Giovanna dopo una manifestazione: “Siamo la rete del bene”. Esatto, lo diceva sempre, non a Palamara, ma a chi si spendeva nell’antimafia. Nelle mail o nelle telefonate a centinaia di persone che possono testimoniarlo, me compreso, compresi insegnanti e presidi dello Zen di Palermo o di Caivano. Fino alla colpa: due affidamenti sotto i 40mila euro, prassi seguita da ogni ente pubblico e ministero per i lavori minori, perché non-reato.

Insomma. Un articolo scoop senza notizia di reato. In cui si allude a una “soffitta nelle disponibilità della donna” per dire del solaio di casa sua. Un riferimento insipido a Palamara. Un corruttore da film che, a quanto è scritto, spende 700mila euro per averne meno di 80mila. La rete del bene. E lei che si butta giù dal balcone. E allora altro che pugno nello stomaco. Vado a rivedere l’articolo, rilanciato in mattinata da tutti i siti calabresi e solo da loro.

Già, perché Giovanna era stata messa da poco, in qualità di commissaria, alla testa dell’ufficio scolastico della Calabria, la regione che non si può toccare, dove neanche le riprese televisive dei grandi processi si possono fare. E di colpo è diventata una corrotta. Così mi viene in mente che ho tre cari amici che ho visto descritti sui giornali (o dai magistrati) come criminali: Francesco Forgione, ex presidente dell’antimafia che ha messo il dito nelle parentele tra magistrati e milieu mafiosi in Calabria; Claudio La Camera, tra i fondatori del museo della ’ndrangheta a Reggio Calabria; Giovanna Boda, finita in Calabria da poco. Tutte e tre persone per bene e tutte e tre sottoposte a indagini o processi per me incredibili.

E mi viene un rovello, che mi gira sempre di più nella mente. Dove nasce l’input di quell’articolo, chi e perché suggerisce quella storia a un giornalista, chi ripesca in chilometriche intercettazioni del tutto estranee lo scampolo di una lontana conversazione con Palamara, chi ha bisogno di colpire l’immagine e la credibilità di Giovanna Boda? Poi qualcuno spiegherà la corruzione, i soldi, e anche la perquisizione.

Intanto io mi rigiro i titoli apparsi in giornata su tutti i siti calabresi: “Scuola calabrese nella bufera. Indagata la reggente dell’Usr”, “Indagata per corruzione la dirigente dell’Ufficio scolastico ragionale Giovanna Boda”. “Non c’è pace per l’Usr della Calabria. Indagata per corruzione anche la reggente Giovanna Boda”. “Anche”. Ed è fatta. Che il cielo e i medici salvino Giovanna.