“La mia odissea d’amore: nozze pazze e la grande fuga in Italia”
Cara Selvaggia, quando ho scoperto il tuo podcast sulle dipendenze affettive mi hai riportato alla memoria Mohammad. Lo conobbi pochi mesi dopo essere arrivata a Damasco per studiare arabo e lavorare come baby sitter. Lavorava per una compagnia aerea in un magnifico ufficio in centro, le cui vetrate affacciavano sulla strada. Ci passavo davanti tutti i giorni, di ritorno dalla scuola di arabo, in direzione di quella della “mia” bambina. Lui era proprio bello: occhi grandi e neri, labbra carnose, un sorriso a cento denti, tutti bianchissimi. Passavo, lo guardavo, lui mi guardava e poi di nuovo e di nuovo fino a che un giorno mi decisi ad entrare, improvvisando la prima scusa che mi venne. Pietosa, ovviamente. Gli chiesi quanto costasse un biglietto per Dar El Salam. Da Damasco. Fu carino, non mi rise in faccia. Iniziammo a parlare dei miei studi di arabo e di swahili, dei suoi sogni, dei miei. Lui parlava 3 lingue, oltre all’arabo; era un giovane uomo dinamico, dalla mentalità aperta e curiosa, a suo agio con gli stranieri. Ci innamorammo, e dopo aver lasciato il mio lavoro da baby sitter mi trasferii a casa sua.
Con i suoi genitori fu intesa a prima vista. Ci siamo voluti un gran bene, dal primo momento che ci siamo incontrati fino all’ultimo in cui ci siamo lasciati. Entrambi molto religiosi, siamo sempre riusciti ad incastrare la mia laicità e la loro fede, in una forma di rispetto reciproco che nessuno avrebbe mai pensato possibile. Suo padre era un “mufti”, cioè autorizzato ad esprimersi su questioni di legge civile e religiosa. Negli anni vissuti assieme, non ha mai tentato di convincermi che Maometto fosse migliore di Gesù, né mi ha mai proibito di mangiare maiale o bere vino; soprattutto, mai mi ha obbligata a fare scelte che non volessi. Ce l’ho nel cuore, suo padre. Restava però un uomo pio, e come tale, per permetterci di vivere sotto lo stesso tetto, ci unì nella promessa di matrimonio, recitando la “Fatiha”, la sura di apertura del Corano. Il matrimonio legale lo celebrammo qualche settimana dopo. Andammo in un ufficio del Tribunale, dove ci aspettava un mio amico, italiano e cattolico, che avrebbe voluto farci da testimone. Invece il funzionario, dopo averlo squadrato da capo a piedi, gli chiese chi fosse e lo allontanò in malo modo. Nessuno aveva pensato che, ad un cristiano, fosse vietato fare il testimone ad un matrimonio islamico. Poichè un testimone ci doveva essere, chiamammo i primi che passarono in corridoio: il ragazzo del tè e il custode. La vita da sposati non fu diversa da quella da fidanzati. Poche uscite, ché i soldi erano pochi e molta vita familiare, ché i parenti, invece, abbondavano. Non mi pesava affatto. Quando volevo, incontravo gli amici studenti, nessuno mi impediva nulla. Ad un certo punto la svolta.
Mohammad aveva una sorella ed una nipotina, nata dall’unione con una melma di uomo: dopo anni di maltrattamenti alla moglie ed alla figlioletta di pochi anni, decise di fare l’unica cosa buona nella sua vita; se ne andò dal mondo buttandosi dal balcone. Mohammad vide la scena. Da allora cambiò completamente. Non abbiamo mai capito perché. Nessuno. Dapprima divenne un musulmano osservante, estremamente severo. Poco dopo divenne severo pure con me. Arrivarono i vizi, le pretese, le richieste sempre maggiori di soldi per appagare i desideri più inutili e malsani. Decisi di lasciarlo, ma non ce la facevo e per la “sharia” era vietato. Così sopportai, per un altro anno, l’assenza massiccia di un uomo che invisibile, eppure c’era sempre. In quell’anno successero molte cose.
Mi umiliava di continuo, con le parole, con i suoi tentativi di fare sesso. Spendeva tutti i soldi che io guadagnavo. Li trovava sempre, ovunque li nascondessi. Li sperperava per cose inutili, che servivano solo a soddisfare se stesso e quel suo animo egoista. Vestiti, sigarette, ristoranti esclusivi e una macchina. Fu proprio nel cruscotto della vettura che un giorno, per puro caso, scoprii una fede. Dentro era inciso il suo nome e quello di una donna, Asma. Accanto, una data, quella del loro matrimonio. Non mi sono mai sentita così offesa, maltrattata, ridicola. Fu quell’anello, che io non avevo mai avuto, a darmi una scossa.
Riuscii a tornare a casa, a Napoli, per Natale. E durante una gita a Roma, mentre vagavo per i Fori Imperiali mi imbattei, casualmente, in un lavoro. Accadde tutto in fretta. Tornai a Damasco e trovai il coraggio di dire a Mohammad che lo avrei lasciato. Non fu banale, anzi, fu una lotta. Impiegai mesi per riuscire ad ottenere il divorzio perché lo stronzo (era davvero diventato uno stronzo) temeva di perdere il passaporto italiano. Alla fine, dopo mesi, ci riuscimmo. Sì, noi.
O meglio, lei. Una donna fantastica, una grande amica a cui credo di non aver mai detto grazie. Lo faccio ora, sia pure attraverso te. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta. Mi ha supportata, sopportata, ha creduto in me. Mi ha dato forza e speranza, mi ha regalato la più bella avventura lavorativa e di vita che potessi avere. Ma, soprattutto, mi ha ridato la libertà. E grazie anche a te, Selvaggia, per aver permesso di liberarmi, una seconda volta.
Donatella
Cara Donatella, nella tua storia il fattore culturale e religioso sembrano l’elemento preponderante. Ma lo sono in moltissime storie, anche in quelle ambientate in società che crediamo laiche ed emancipate. La verità è che l’esercizio del potere e il senso del controllo sulle donne non ha etnia, fede, nazionalità o colore.
Selvaggia Lucarelli