Il matrimonio islamico. Da Napoli a Damasco “Il potere maschile sulle donne non ha etnia”

 

“La mia odissea d’amore: nozze pazze e la grande fuga in Italia”

Cara Selvaggia, quando ho scoperto il tuo podcast sulle dipendenze affettive mi hai riportato alla memoria Mohammad. Lo conobbi pochi mesi dopo essere arrivata a Damasco per studiare arabo e lavorare come baby sitter. Lavorava per una compagnia aerea in un magnifico ufficio in centro, le cui vetrate affacciavano sulla strada. Ci passavo davanti tutti i giorni, di ritorno dalla scuola di arabo, in direzione di quella della “mia” bambina. Lui era proprio bello: occhi grandi e neri, labbra carnose, un sorriso a cento denti, tutti bianchissimi. Passavo, lo guardavo, lui mi guardava e poi di nuovo e di nuovo fino a che un giorno mi decisi ad entrare, improvvisando la prima scusa che mi venne. Pietosa, ovviamente. Gli chiesi quanto costasse un biglietto per Dar El Salam. Da Damasco. Fu carino, non mi rise in faccia. Iniziammo a parlare dei miei studi di arabo e di swahili, dei suoi sogni, dei miei. Lui parlava 3 lingue, oltre all’arabo; era un giovane uomo dinamico, dalla mentalità aperta e curiosa, a suo agio con gli stranieri. Ci innamorammo, e dopo aver lasciato il mio lavoro da baby sitter mi trasferii a casa sua.

Con i suoi genitori fu intesa a prima vista. Ci siamo voluti un gran bene, dal primo momento che ci siamo incontrati fino all’ultimo in cui ci siamo lasciati. Entrambi molto religiosi, siamo sempre riusciti ad incastrare la mia laicità e la loro fede, in una forma di rispetto reciproco che nessuno avrebbe mai pensato possibile. Suo padre era un “mufti”, cioè autorizzato ad esprimersi su questioni di legge civile e religiosa. Negli anni vissuti assieme, non ha mai tentato di convincermi che Maometto fosse migliore di Gesù, né mi ha mai proibito di mangiare maiale o bere vino; soprattutto, mai mi ha obbligata a fare scelte che non volessi. Ce l’ho nel cuore, suo padre. Restava però un uomo pio, e come tale, per permetterci di vivere sotto lo stesso tetto, ci unì nella promessa di matrimonio, recitando la “Fatiha”, la sura di apertura del Corano. Il matrimonio legale lo celebrammo qualche settimana dopo. Andammo in un ufficio del Tribunale, dove ci aspettava un mio amico, italiano e cattolico, che avrebbe voluto farci da testimone. Invece il funzionario, dopo averlo squadrato da capo a piedi, gli chiese chi fosse e lo allontanò in malo modo. Nessuno aveva pensato che, ad un cristiano, fosse vietato fare il testimone ad un matrimonio islamico. Poichè un testimone ci doveva essere, chiamammo i primi che passarono in corridoio: il ragazzo del tè e il custode. La vita da sposati non fu diversa da quella da fidanzati. Poche uscite, ché i soldi erano pochi e molta vita familiare, ché i parenti, invece, abbondavano. Non mi pesava affatto. Quando volevo, incontravo gli amici studenti, nessuno mi impediva nulla. Ad un certo punto la svolta.

Mohammad aveva una sorella ed una nipotina, nata dall’unione con una melma di uomo: dopo anni di maltrattamenti alla moglie ed alla figlioletta di pochi anni, decise di fare l’unica cosa buona nella sua vita; se ne andò dal mondo buttandosi dal balcone. Mohammad vide la scena. Da allora cambiò completamente. Non abbiamo mai capito perché. Nessuno. Dapprima divenne un musulmano osservante, estremamente severo. Poco dopo divenne severo pure con me. Arrivarono i vizi, le pretese, le richieste sempre maggiori di soldi per appagare i desideri più inutili e malsani. Decisi di lasciarlo, ma non ce la facevo e per la “sharia” era vietato. Così sopportai, per un altro anno, l’assenza massiccia di un uomo che invisibile, eppure c’era sempre. In quell’anno successero molte cose.

Mi umiliava di continuo, con le parole, con i suoi tentativi di fare sesso. Spendeva tutti i soldi che io guadagnavo. Li trovava sempre, ovunque li nascondessi. Li sperperava per cose inutili, che servivano solo a soddisfare se stesso e quel suo animo egoista. Vestiti, sigarette, ristoranti esclusivi e una macchina. Fu proprio nel cruscotto della vettura che un giorno, per puro caso, scoprii una fede. Dentro era inciso il suo nome e quello di una donna, Asma. Accanto, una data, quella del loro matrimonio. Non mi sono mai sentita così offesa, maltrattata, ridicola. Fu quell’anello, che io non avevo mai avuto, a darmi una scossa.

Riuscii a tornare a casa, a Napoli, per Natale. E durante una gita a Roma, mentre vagavo per i Fori Imperiali mi imbattei, casualmente, in un lavoro. Accadde tutto in fretta. Tornai a Damasco e trovai il coraggio di dire a Mohammad che lo avrei lasciato. Non fu banale, anzi, fu una lotta. Impiegai mesi per riuscire ad ottenere il divorzio perché lo stronzo (era davvero diventato uno stronzo) temeva di perdere il passaporto italiano. Alla fine, dopo mesi, ci riuscimmo. Sì, noi.

O meglio, lei. Una donna fantastica, una grande amica a cui credo di non aver mai detto grazie. Lo faccio ora, sia pure attraverso te. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta. Mi ha supportata, sopportata, ha creduto in me. Mi ha dato forza e speranza, mi ha regalato la più bella avventura lavorativa e di vita che potessi avere. Ma, soprattutto, mi ha ridato la libertà. E grazie anche a te, Selvaggia, per aver permesso di liberarmi, una seconda volta.

Donatella

 

Cara Donatella, nella tua storia il fattore culturale e religioso sembrano l’elemento preponderante. Ma lo sono in moltissime storie, anche in quelle ambientate in società che crediamo laiche ed emancipate. La verità è che l’esercizio del potere e il senso del controllo sulle donne non ha etnia, fede, nazionalità o colore.

Selvaggia Lucarelli

Fede e politicaIl sovranismo nega il primato del Vangelo per venerare i valori non negoziabili

Sostiene Andrea Riccardi: “Per chi, come chi scrive, cominciava a studiare la storia del cattolicesimo a metà degli anni Settanta, le democrazie cristiane erano il presente, mentre il nazional-cattolicesimo o il clerico-fascismo erano il passato. Oggi è il contrario”.

Già ministro tecnico del governo Monti dal 2011 al 2013, Riccardi (nella foto) è soprattutto un autorevole storico del cristianesimo nonché fondatore dell’influente Comunità di Sant’Egidio. Il suo ultimo saggio s’intitola La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo (Laterza, 248 pagine, 20) ed è una preziosa guida per orientarsi in questa fase di crisi della Chiesa, dove oltre al calo delle vocazioni e dei fedeli praticanti, il pontificato di papa Bergoglio sconta da un lato l’inedito impatto pandemico (per esempio, le chiese senza messe l’anno scorso da metà marzo a metà maggio), dall’altro l’assalto virulento della destra clericale, una minoranza che fa rumore nel segno passatista della Tradizione e della Dottrina.

Riccardi esamina gli aspetti cruciali della nuova questione cristiana (incluso il ruolo delle donne) e la sua ricerca sulla Chiesa che brucia prende le mosse da un incendio vero, che ha sconvolto tutti, non solo i credenti: quello che tra il 15 e il 16 aprile del 2019 a Parigi quasi distrusse la cattedrale di Notre-Dame. “Sul momento, mentre la basilica bruciava, c’è stata la diffusa sensazione della fine del cristianesimo”. Appunto. Politicamente il punto centrale del libro è il ritorno del nazionalismo cattolico, non più abbinato ai fascismi del Novecento ma ai sovranismi di oggi. Lo studioso esamina i casi Ungheria e Polonia e per quanto riguarda l’Italia c’è la nota concezione mussoliniana riportata da Galeazzo Ciano, che ben si adatta all’opportunismo di Matteo Salvini (tuttavia mai citato) in materia di fede: “il duce ‘ripete la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo: per questo io sono cattolico e anticristiano’”.

Ma l’attuale frattura italiana nel cattolicesimo politico – in cui al nazionalismo crociato si contrappone il modello democristiano laico e autonomo e comunque rivelatosi fallimentare – si è registrata all’inizio del millennio con l’imposizione ai fedeli impegnati nella cosa pubblica dei cosiddetti valori non negoziabili, oggi tratto caratterizzante del clericalismo di destra in tutto il mondo. Riccardi è attento a non tirare dentro la figura del cardinale Camillo Ruini, che ha provocato non pochi danni durante il lungo regno di Giovanni Paolo II.

In compenso cita il dissenso in merito del cardinale Carlo Maria Martini. Il quale ripeteva una cosa semplice, ma che non riesce a entrare nella testa e soprattutto nel cuore di quanti nella Chiesa combattono Francesco: “Il primato va dato ai Vangeli, non ai valori. Solo partendo dal primato del Vangelo, si potrà dire che si mettono a posto anche i valori”. Una definizione splendente per comprendere le divisioni di oggi dei cattolici. Si pensi ai vecchi teocon che deridono la misericordia di Bergoglio e si rifugiano nella Dottrina, dimenticando il Vangelo. In ogni caso, è bene specificarlo, il libro di Riccardi cerca di tenersi equilibrio tra gli ultimi tre tre papi (Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio) proprio in nome dell’evangelizzazione.

 

“Il Recovery tarda”: SuperMario deve avere qualche nemico in Europa…

La nota della Reuters che dà voce ai malumori della Commissione europea sulla gestione italiana del Recovery dimostra che le cose sono complicate anche per Mario Draghi.

La prestigiosa agenzia di stampa dubita che l’Italia possa rispettare la scadenza del 30 aprile stabilita per la consegna del Piano nazionale di resistenza e resilienza e, cosa più importante, che una volta approvato questo possa essere attuato correttamente. Palazzo Chigi ha smentito e la voce, imprecisabile e anonima, che ha gettato ombre sul governo viene così fatta tacere. Diverse fonti governative consultate dal Fatto dicono che si tratta di una manovra per screditare l’Italia. Forse è vero, ma non era Draghi il “super-presidente” che l’Europa ci invidia? Da dove viene tanta malevolenza? “La Commissione è scontenta del piano di ripresa così com’è”, scrive la Reuters, aggiungendo che Draghi “presenterà probabilmente il piano intorno a metà maggio, ma potrebbe essere necessario un periodo più lungo per superare le obiezioni della Commissione”. Nemmeno Conte aveva subito avvertimenti così bruschi. Ma sul problema dell’attuazione i dubbi non sono fugati. Ed è molto probabile ormai che l’Italia non avrà l’anticipo dei fondi previsto a luglio (il 13%) perché arriverà comunque in ritardo. La prova è l’altra indiscrezione, fatta filtrare stavolta da Palazzo Chigi, circa l’ipotesi di un decreto ad hoc per regolare la “governance” del Pnrr e quindi le modalità di gestione finora mai definite. Vi ricordate quando Matteo Renzi si infuriò perché Giuseppe Conte voleva fare un decreto? Siamo di nuovo lì, alla necessità di trovare soluzioni emergenziali per ovviare alla ormai strutturale incapacità italiana di gestire investimenti pubblici. Ovviamente con due mesi persi. A furia di seguire le sirene liberiste di chi pensa che le consulenze private alla McKinsey siano la panacea, questa è la situazione. E stavolta a fare una magra figura sono “i migliori”.

“Ayun”: l’arte delle donne contro le violenze del potere

“La nostra sorellanza è nata in questi tempi tremendi”, “il nostro obiettivo finale è combattere l’ingiustizia” attraverso le fotografie: salde e decise, otto voci rispondono dall’America latina, da quel sur, meridione, che non vuole più negarsi, velarsi, nascondersi. C’è chi questa crisi del Covid-19 non l’ha sprecata. È durante la pandemia – che ha imposto ad ogni latitudine dilatazione del tempo e restrizione dello spazio – che è nato Ayun Fotografas, il collettivo femminile di fotografe che da anni la reporter Tamara Merino sognava di aggregare. Come in ogni altro settore, anche nel foto-giornalismo la strada che porterà all’eguaglianza di genere “è ancora molto lunga da percorrere: la diversità della narrazione femminile è necessaria, dobbiamo trovare un equilibrio” per far emergere “la mirada femenina, lo sguardo femminile, perché le storie del mondo sono state raccontate soprattutto attraverso lo sguardo dei maschi”.

Nella lingua dei mapuce del Cile meridionale ed Argentina centrale il nome del loro collettivo vuol dire “amare”, ma letteralmente significa “vedere la luce nell’altro”. Le Ayun si presentano come “una simbiosi di donne riunite dalla diversità: vogliamo completarci e sostenerci a vicenda”. Puntano il loro occhio di vetro su “diritti umani, identità e territorio”. Mentre tutti si interrogavano sul mondo che sarebbe arrivato dopo il virus, il collettivo ha documentato quello che, anche prima dell’emergenza sanitaria, continuava a peggiorare, come le disastrose disuguaglianze della società sudamericana che costringono sopratutto donne e minoranze, a paralleli diversi, a subire la stessa forma di vergognosa e costante violenza.

Le otto, che condividono lo stesso sguardo, istinto, missione e coerenza, hanno mappato il corpo geopolitico vagliandolo ed ispezionandolo nelle sue ferite più evidenti, come quelle inferte quotidianamente alle ragazze dall’Argentina al Perù. “Per il nostro gruppo è vitale raccontare le storie delle donne latino-americane, non solo perché possiamo identificarci con la loro lotta, forza e dignità, ma anche perché abbiamo la convinzione che le foto saranno i ricordi delle tradizioni, dei cambiamenti della società”.

Confinate tra celle e sbarre, croci e cortili, le prigioniere ritratte da Ana Maria Arevalo Gosen, impegnata a documentare la vita quotidiana nelle prigioni del Venezuela, hanno le mani al cielo nel centro di detenzione di La Yagyara. A guidare la fotografa nella scelta dei soggetti da raccontare sono sempre “memoria e lotta”: l’ispirazione arriva ogni giorno “dalla resilienza, dalla fiamma eterna di chi non si ferma mai, di chi va avanti. Da quanti mirano all’equilibrio con la natura e alla nostra sopravvivenza come specie”.

Autenticità e profondità, sensibilità come forma ultima di potenza: i principi che hanno fatto da base alla fondazione della squadra convergono nelle immagini e si confrontano. “Per tracciare e documentare l’evoluzione del genere femminile” in tutte le sue dinamiche la fotografa Johis Alarcon ha cercato in Ecuador le discendenti degli schiavi che mantengono vivi i loro archetipi antichissimi. Per combattere la schiavitù e sopportarne la brutalità le ave africane hanno fatto sempre ricorso alla “Cimarrona”, l’ancestrale spirito selvaggio femminile.

Pietrificati nel colore e nelle luci che tengono da sempre accese nell’Underland rimangono invece gli abitanti di Guadix fotografati dalla Merino: in Andalusia quasi cinquemila persone vivono sottoterra nelle tradizionali case-grotte. Da secoli le famiglie si tramandano, di generazione in generazione, le abitazioni costruite sottoterra.

Nel perimetro rettangolare delle immagini della raccolta “Lettere a Gemma” la fotografa Mariceu Erthal ha sostituito l’assenza del soggetto con i suoi autoritratti: nel 2011, come accade a moltissime donne in Messico, Gemma Mavil è uscita per un colloquio di lavoro, ma non è mai più tornata a casa. La storia di Gemma – delle sue piante, delle sue poesie – è raccontata da lineamenti e sagoma della Erthal, che si è immersa nell’universo della desaparecida e si è infilata sotto la sua pelle per impersonarne l’assenza. La fotografia è un modo di vedere il mondo, un modo per farlo vedere, ma anche di rendere visibile ciò che non lo è più.

Venezia: “Stop Grandi Navi”, tra 30 anni. E la città muore

Trentuno marzo 2021, Dario Franceschini su Twitter: “Una decisione giusta e attesa da anni: il Consiglio dei ministri approva un decreto legge che stabilisce che l’approdo definitivo delle Grandi Navi a #Venezia dovrà essere progettato e realizzato fuori dalla laguna, come chiesto dall’@UNESCO”. 14 aprile 2021, Luca Zaia alle agenzie: “Msc conferma le crociere su Venezia – ha spiegato il governatore –, e li ringrazio perché è un bel segnale di ripresa”.

Ma, si dirà, non c’è contraddizione: uno è un progetto a lungo termine (30 anni!), l’altro è il business as usual che accenna a riprendersi dopo la pandemia. E invece la contraddizione c’è, e tale da mettere in dubbio le intenzioni del governo: governo in cui, ricordiamolo, il Pd di Franceschini e la Lega di Zaia governano felicemente insieme. Perché se all’uscita dal tunnel pandemico si ricomincia come prima – dimenticando il ritorno alla vita della Laguna che ha commosso il mondo intero –, ebbene sarà davvero assai dura poi cambiare qualcosa. E sarà il caso di ricordare che già nove anni fa il decreto Clini-Passera annunciò che le Grandi Navi erano fuori dalla Laguna: con altri trent’anni così, per Venezia è finita.

E, d’altra parte, se si vanno a vedere le carte del governo, si scopre che la ‘cura’ rischia di essere peggiore del male. Il piano è quello di progettare e costruire un terminal in mare (ma ci vorranno, appunto, trent’anni) e nel frattempo di realizzare a Marghera approdi ‘temporanei’. Questi ultimi – nota Italia Nostra Venezia – “saranno opere di grandissimo impatto e dai costi insostenibili (62 milioni, ma verosimilmente molti di più): sarà necessario espropriare le aree interessate, arretrare le banchine e costruirne di nuove (700 m), pensare alle infrastrutture a viabilità nazionale, escavare il canale industriale, ampliare i bacini di evoluzione”. Ora, chi onestamente può pensare che un approdo da almeno 62 milioni di euro sia davvero provvisorio?

Ma c’è di peggio. Finché l’approdo di Marghera non sarà pronto, tutto continuerà come prima, ma quando ci sarà le Grandi Navi passeranno dal Canale dei Petroli, che dovrà essere ampliato, forse raddoppiato, e marginato con strutture rigide e scogliere.

Da molti decenni è nota la responsabilità di questo Canale nella morte della Laguna: le onde che genera ne cancellano la morfologia, annullando la rete dei canali naturali, e esponendo la città a un moto ondoso che di naturale non ha nulla. Da decenni tutti i Piani, e i voti della Salvaguardia per il recupero della Laguna prescrivono la riduzione del Canale dei Petroli: che ora invece il Governo allarga e potenzia.

I risultati potrebbero essere letali per Venezia, e per la Laguna che ne costituisce le mura e la campagna: ed è un vero paradosso che si rischi il disastro “al fine di tutelare un patrimonio storico-culturale non solo italiano ma del mondo intero”, come recita la nota firmata dai ministri della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, della Cultura, Dario Franceschini, del Turismo, Massimo Garavaglia e delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini. Il commento di Italia Nostra Venezia è terribile: “Per Venezia non c’è più speranza. Noi abitanti stiamo già facendo il favore agli sfruttatori della città di sparire (al ritmo di 1000 all’anno). Non ci sarà più opposizione, nessuna coraggiosa voce contraria. La lingua di Goldoni tacerà. Resteranno solo le pietre, deformi, corrose dalla lebbra dell’inquinamento e un bacino di acque profondo, indifferenziato e artificiale, senza più storia, buono per ignari frequentatori di parchi acquatici di divertimento”.

Un destino ineluttabile, un danno collaterale inevitabile? No. Se solo si avesse il coraggio di ammettere che Venezia può, e anzi deve, fare a meno del turismo delle Grandi Navi. Un turismo desertificante, che fa guadagnare molto più le compagnie crocieristiche che non la città, alla quale porta pochi denari e moltissima usura.

Di fatto, si sta ripetendo l’errore del Mose. Invece di tornare a manutenere la Laguna, a governare l’ambiente in modo sostenibile, si scelse la via dell’abuso violento dell’ecosistema e quindi dell’intervento meccanico della valvola del Mose, che costa somme spaventose (6 miliardi di euro…), e che sarà messa fuorigioco dall’inarrestabile aumento del livello del mare. Ora si fa lo stesso: invece di cambiare il modello del turismo a Venezia (un modello che ha distrutto una città ridotta a meno di un terzo dei suoi abitanti storici), si torna a violentare la Laguna per poterlo mantenere in vita indefinitamente.

In tutto questo, è disgustosa l’ipocrisia degli annunci dei politici, utile a conquistare consensi nell’opinione pubblica meno informata. Le Grandi Navi non si fermeranno, e non lo faranno nemmeno questi Grandi Navigatori di una politica disfatta e inquinata almeno quanto la Laguna.

“Il pilates mi salverà: come la patrimoniale, è l’ultima scialuppa”

L’amore più recente e più solido di Vincenzo Visco, classe 1942, l’unico politico italiano che abbia veramente scucito qualche soldo agli evasori (e perciò soprannominato dalle destre Dracula) è il pilates.

“Da dieci anni, senza mancare un giorno all’appuntamento. Alla mia età per mantenerti in piedi hai bisogno di fare qualcosa. Il pilates è perfetto”.

Anche in pandemia non vi siete lasciati.

Ci siamo ritrovati in dad.

Ai tempi del governo Prodi lei azzannava gli infedeli dell’erario.

Far pagare le tasse è facile e possibile. La politica ha ogni strumento, e se vuole può.

Non vuole.

Mi sembra piuttosto chiaro. Questa crisi ha avvelenato ancor di più la società, in alcuni casi l’ha imbastardita. Basta che in tv sbuchino una decina di commercianti, disperati, sfigatissimi che naturalmente schiumino rabbia.

La televisione vive sul dramma sociale.

Infatti l’America di Trump ci insegna che i diseredati sono chiamati a difendere col loro corpo i super ricchi. È storia triste ed esemplare. Un capovolgimento della logica, la perfetta coniugazione della demagogia con l’ingiustizia più plateale.

Un talk show ben assestato in faccia all’azione di governo e tutto si ferma? Possibile?

La politica ha perduto ogni reputazione, scaduta agli occhi dei governati e posta ai confini della delinquenza comune. Perciò la sua azione è debole, subisce ogni reazione, anche la più isterica.

Come sta succedendo con le riaperture, decise sull’onda della rabbia?

Prevale l’interesse economico sul destino del più debole. In economia è una considerazione lecita. Dal punto di vista etico è inammissibile.

Si riapre mettendo nel conto altri morti.

Mi pare che il presidente della Liguria li avesse messi già tempo fa. E il rappresentante di Confindustria delle Marche lo abbia detto chiaramente. Un amen per gli sfigati e avanti con la produzione.

Fare debito, tenendo tutto chiuso, non è però più possibile.

È stata finora l’unica strada praticabile.

Ma fin dove potremo avventurarci col debito? Chi lo ripagherà?

Draghi dice che la crescita compenserà questo extra deficit. È certo la prospettiva più ottimistica e favorevole ma non è una scorciatoia, una furbata.

E se la crescita non fosse tale da asciugare il lago di debiti che abbiamo contratto?

Sarebbero guai grossi. Come guai grossi produrrebbe un rialzo dell’inflazione. Non dimentichiamo che il 30 per cento del nostro debito l’ha in pancia la Bce. Se lo tiene dormiente, allora ok.

Altrimenti siamo fritti.

Meglio non pensarci.

Ma la pandemia ha disegnato una società diseguale: i garantiti da una parte, gli scuoiati dall’altra.

Bisogna infatti immaginare che i garantiti si facciano carico – naturalmente in base alle distinte possibilità – di solidarizzare con i nuovi fragili.

Ecco, Visco vuole punire i ricchi. Così diranno.

Si tratta di guardare in faccia la realtà. Nel dopoguerra si tassarono gli extra profitti. Noi dovremmo immaginare qualcosa di simile.

Una patrimoniale?

La si chiami come si vuole. Penso che debba essere bassa e allungata nel tempo.

Lo faremo?

Io chiedo: avremo la possibilità di non farlo?

Ma con Draghi le manovre correttive dovrebbero essere scongiurate.

Draghi ha un’eccellente reputazione guadagnata sul campo. Ma anche lui farà i conti con il Paese che siamo, con i numeri che abbiamo. L’uomo dei miracoli non esiste in natura sebbene si siano fatti enormi sforzi di fantasia. Penso ai vaccini.

Pensa ad Arcuri?

Dipinto come il male assoluto. Eppure ha fatto quel che doveva e poteva. Ci diceva che a settembre saremmo riusciti a venirne a capo e il nuovo commissario ci conferma che per l’autunno ne dovremmo venire a capo. Il piano c’era allora e c’è adesso, sono mancate le dosi e dunque abbiamo provato che è la realtà a indicarci i tempi e non la nostra fantasia.

Draghi fa il pane con la farina che ha.

Mi è piaciuta molto una definizione di Formica (ma non so se l’ha rubata a qualche altro): Draghi, non potendo contare su una maggioranza, si accontenta dell’unanimità.

La sai l’ultima?

 

Biella Il bancario ladro arrestato per un caffè. Perde 13 quadri, 37 auto e un busto di Mussolini

Due anni di furti e truffe spettacolari e tecnicamente ineccepibili mandati in fumo per un caffè. Mauro Bortoluzzi, il bancario torinese che aveva prosciugato i conti dei suoi clienti, mettendo da parte un tesoro da 10 milioni di euro, si è fatto beccare in pieno centro (e in piena zona rossa) a Biella mentre si prendeva una tazzina al Caffè Vergnano di via Pietro Micca, uno degli indirizzi più famosi della città. Chi indagava su di lui pensava fosse ormai sparito, lontano, a godersi la vita con i suoi guadagni fraudolenti. Bortoluzzi invece si è fatto arrestare e ha perso tutto quello che aveva accumulato. Un catalogo eclettico: i finanzieri gli hanno requisito una collezione da museo con 6 quadri di De Chirico, 5 di Sironi, 2 di Guttuso, 37 auto (di lusso e d’epoca), una maglia originale indossata da Michael Jordan vinta all’asta per 13mila dollari e dulcis in fundo, un busto di Mussolini. Bandito e fascista, si pensava furbo ed è finito in galera.

 

Treviso Il barista gli nega un bicchiere d’acqua, si vendica facendo la cacca di fronte al locale

Non bisogna sottovalutare le conseguenze della mancanza di gentilezza. Un barista di Treviso ha negato un bicchiere di acqua fresca a un uomo senza fissa dimora, il quale non ha preso per nulla bene il rifiuto. Per prima cosa ha lasciato un fragrante ricordino nel porticato di fronte al locale. L’episodio è descritto con prosa vivida da Treviso Today: “Con qualche bicchiere di troppo in corpo il 61enne si è dapprima allontanato, ma una volta arrivato in prossimità del porticato antistante il locale pubblico si è calato i pantaloni e si è lasciato andare al ‘libero sfogo’ degli intestini, defecando ovunque”. Non pago, due giorni più tardi si è ripresentato allo stesso bar, ha rubato un cartone di vino e ha colpito con una catena uno dei due titolari, ferendolo a un braccio, sulla schiena e sulla guancia destra. L’uomo, che ha un discreto numero di precedenti, ora è denunciato per imbrattamento, furto e lesioni aggravate.

 

L’articolo della settimana Rondolino sul Corriere: “Perché i gatti ci pisciano sulle valigie dopo le vacanze”

Ve lo ricordate Fabrizio Rondolino? Ha fatto un sacco di cose, non tutte memorabili: è stato “il Casalino di Massimo d’Alema” (cit. L’Espresso) e l’editorialista più ispirato e zelante nell’ultima tragica Unità, quella trasformata in Pravda renziana. Da qualche tempo, oltre a lucidare le memorie di militanza comunista – lo è stato anche lui! – cura sul Corriere della Sera una rubrica sugli animali domestici. L’ultimo articolo è magistrale, già dal titolo: “Tornare a casa dopo le vacanze: ecco perché il nostro gatto ci accoglie così”. Contiene retroscena intriganti sull’attitudine dei felini a fare la pipì sui bagagli dei padroni: “Un lettore mi ha raccontato come si comportavano i suoi mici, Nerone e Gegè: ‘Quando ritornavamo il rito era sempre quello, posare le valigie e coprirle subito con dei vecchi giornali. Inevitabilmente i mici ci zompavano sopra e dopo una velocissima pisciatona si nascondevano sotto il letto’”. Testimonianza preziosa.

 

Pisa Spacciatore in fuga getta la droga dal finestrino ma colpisce il parabrezza della volante dei carabinieri

Uno spacciatore in fuga dai carabinieri ha avuto la brillante idea di gettare la droga dal finestrino, centrando in pieno il parabrezza dell’auto dei militari che lo inseguivano. È successo a Vecchiano, in provincia di Pisa. Lo racconta Il Tirreno: “Una fuga a folle velocità con sorpassi scriteriati e un semaforo rosso bucato per scappare dalla gazzella dei carabinieri. Con un dettaglio che strappa quasi un sorriso nella sequenza conclusa con l’arresto dell’automobilista che aveva buoni motivi per non fermarsi al posto di blocco. Per liberarsi della droga che aveva addosso ha abbassato il finestrino dell’auto nel tentativo, in parte riuscito, di gettare la sostanza che è finita in strada e anche sul parabrezza dell’auto dei militari lanciati al suo inseguimento. Un’ammissione di colpa in diretta lungo l’Aurelia”. Il lanciatore di bustine è stato arrestato per detenzione ai fini di spaccio e resistenza a pubblico ufficiale.

 

Porto Cesareo Una famiglia in gita dalla Calabria invade la spiaggia col suv: la corsa finisce in caserma

 

Tedio domenicale: i fine settimana in zona rossa sono terribilmente noiosi. Così una famiglia di Cosenza ha deciso di ravvivare il weekend con una gita fuori porta. I nostri eroi non solo hanno attraversato il confine (interdetto) con la Puglia, ma si sono scatenati in una specie di rally solitario con il loro suv su una spiaggia di Porto Cesareo, in Salento. “Padre e madre sulla quarantina – scrive Lecce Prima – più due figli di 13 e 7 anni, sono stati i protagonisti di una domenica di follia in riva al Salento. E non solo diversi testimoni hanno chiamato i carabinieri, quando hanno notato l’assurda gimkana in spiaggia, ma sono stati anche immortalati dalle telecamere dell’Area marina protetta e dai droni del personale della riserva, mentre scorrazzavano sulle dune, devastando l’habitat”. La scampagnata si è conclusa, come prevedibile, con una visita alla caserma dei carabinieri: oltre alla consueta multa per aver violato le norme anti Covid, è scattata la denuncia penale per danno ambientale.

 

Canada L’onorevole si presenta completamente nudo alla conferenza della Camera dei comuni su Zoom

L’ennesima vittima di Zoom è il deputato canadese William Amos. Siamo pieni di aneddoti pandemici di persone che durante riunioni e conferenze si mostrano in webcam in momenti altamente inopportuni, ma l’onorevole ha fatto le cose in grande: si è fatto beccare completamente nudo in una seduta della Camera dei comuni. Un frame pubblicato dalla stampa canadese lo mostra in piedi nel suo ufficio, tra le bandiere del Quebec e del Canada, come mamma l’ha fatto. “È stato uno sfortunato errore – ha detto Amos -. Il video è stato acceso accidentalmente mentre mi stavo vestendo dopo aver fatto jogging. Mi scuso sinceramente con i miei colleghi. Non accadrà più”. Una rappresentante del partito d’opposizione Bloc Québécois, Claude DeBellefeuille, si è divertita a bacchettare il collega: “Potrebbe essere necessario ricordare ai membri della Camera, soprattutto di sesso maschile, che la giacca e la cravatta sono obbligatori”. In questo caso anche solo le mutande sarebbero state una conquista.

 

Roma Un’oca si destreggia nel traffico di via Togliatti, supera una smart, aspetta il verde e svolta a destra

Roma è biodiversità: le bestie sono dappertutto. Cinghiali, gabbiani, parrocchetti, nutrie, anatre; sugli alberi, sui cassonetti, per le strade, sulle ciclabili, sulle sponde del Tevere. L’inconsueto è diventato quotidiano: non ci si sorprende più di trovare animali nei posti più assurdi. L’ultima eroina è una grossa oca – ripresa in un video della pagina Welcome to Favelas – che solca il traffico cittadino in via Palmiro Togliatti. Parliamo di una grande arteria della periferia est, una strada a tre corsie su cui si corre abbastanza veloce. L’oca si muove in mezzo alle auto con disinvoltura, supera una Smart ferma al semaforo con passo sostenuto, sembra quasi aspettare il verde e poi svolta a destra con naturalezza e una certa eleganza. Sembrava avere fretta. Tra i commenti al video ci sono oggettive perle di saggezza: “Rispetta la corsia mejo de metà de noi”; “Ecologico economico, er mezzo der futuro, se li mettono ar posto dell’autobus quanno piano foco potemo pure magnasseli”.

Calenda, non s’offenda: lasci stare Roma

Ieri, sul Fatto, è uscito un mio ritratto semi-serio di Carlo Calenda. Tra le altre cose, dicevo che il problema di Calenda è quello di essere maestosamente permaloso, fingendosi però maestosamente autoironico. Per smentire la mia accusa, Carlo Calenda ha riposto al mio articolo twittando fin dalle 10 del mattino, di domenica. Un po’ tipo quando dici a qualcuno “Sei minaccioso e violento” e quello “Ma quando mai, se lo ripeti t’ammazzo”. Nel suo primo tweet del mattino Calenda posta il mio articolo e tenta la strada populista, ovvero: “Profondo. Soprattutto nel passaggio sugli abitanti delle periferie come i Maori. E meno male che voi sareste quelli non elitari e di sinistra. Poi dici perché la destra stravince fuori dalla ZTL”.

Ora, nel mio articolo scrivevo che ha sempre l’aria del pariolino che non sa come sia il mondo fuori dalla Ztl, l’aria dello straniero, “del principe William che incontra i maori”. Questo era il senso. Calenda invece, sempre per smentire con efficacia le mie tesi su di lui, convinto forse che i maori siano dei selvaggi che hanno da poco scoperto la pietra focaia, ritiene evidentemente offensivo l’accostamento abitanti delle periferie/maori. Mi trova snob.

Adesso. So che per Calenda sarà un duro colpo scoprirlo così, di botto, ma i maori sono il 14% della popolazione neozelandese, forse avrà sentito parlare degli All Blacks del rugby e del canto maori, forse Calenda si sarà anche accorto che la ministra degli esteri neozelandese Nanaia Mahuta è una donna maori. Insomma, i casi sono due: o è ignorante o quello elitario è lui.

Poi va avanti lamentandosi perché gli ho dato del “cringe” anziché criticare le sue proposte. Poi, per non fare quello permaloso, fa il permaloso per interposta persona: retwitta quelli che scrivono che l’articolo è sciocco. Poi retwitta Richetti che si lamenta perché povero Carlo, lo criticano per il suo romanesco. Poi, a un tizio che dice che non dovrebbe rispondermi, risponde che invece è importante rispondermi “per arrivare a un pubblico”. Qualcuno – di grazia – gli spieghi che rispondendomi sulla sua pagina twitter, arriva sì a un pubblico: il suo. Non il mio.

Ad ogni modo, una cosa è certa: non so se quella di fare il sindaco di Roma sia una buona idea per uno con questo livello di tolleranza alle critiche. Carlo, dammi retta: tu dopo tre giorni da sindaco di Roma, accusato di essere la causa di una carbonara scotta a Testaccio o di un lavandino che perde a Torre Angela, imbracci un fucile anticarro. Pensaci.

“Fare subito il ricorso: i vitalizi li rivogliono tutti, Lega compresa”

Non ci sta e non ci può stare, perché per i Cinque Stelle è una questione identitaria: “La verità è che si vogliono riprendere i vitalizi, e questo è un problema politico prima che giuridico”. Così la vicepresidente del Senato Paola Taverna, veterana del Movimento, bolla la decisione della commissione contenziosa di palazzo Madama, che ha appena ridato i vitalizi a Roberto Formigoni e Ottaviano Del Turco, entrambi condannati in via definitiva.

Ieri al Fatto l’ex presidente del Senato Pietro Grasso ha posto un nodo giuridico: la commissione contenziosa, che di fatto è un tribunale interno, ha fatto qualcosa che non poteva perché ha annullato una delibera del Consiglio di presidenza, che per il Senato vale come una legge. Condivide?

Assolutamente sì, e questo è già grave. Ma c’è, lo ripeto, innanzitutto un problema politico, visto che la commissione ha un presidente di Forza Italia e altri due membri che appartengono alla Lega. Eppure il Carroccio aveva accompagnato e appoggiato i nostri provvedimenti sui vitalizi.

La Lega e Fi governano assieme a voi. Avete posto loro il problema?

Il problema lo abbiamo posto a tutti pubblicamente, ma rimaniamo gli unici a protestare. Evidentemente una certa classe politica vuole ridarsi i vitalizi.

La commissione ha deciso anche richiamando la vostra legge sul reddito di cittadinanza, in base a cui la misura, come un qualsiasi trattamento pensionistico, può andare anche ai condannati. Forse avevate commesso un errore a suo tempo, no?

La legge sul reddito di cittadinanza non c’entra nulla coi vitalizi. La commissione è partita da un assunto falso, perché equipara i vitalizi alle pensioni, e questo non è affatto vero: che si tratti di cose diverse lo affermano chiaramente anche diverse pronunce della Corte Costituzionale. D’altronde anche l’indennità percepita dagli eletti, su cui vengono calcolati i loro trattamenti pensionistici, non è equiparabile a un normale stipendio.

Ma la decisione è ugualmente arrivata. Ora che succede?

Adesso il segretario generale del Senato dovrà presentare ricorso al comitato di garanzia, l’organo di appello, per conto dell’amministrazione di palazzo Madama.

Dovrà o dovrebbe?

Noi abbiamo già chiesto in ufficio di presidenza che il ricorso venga fatto. C’è anche un grave problema di bilancio per il Senato, perché in base alla decisione della contenziosa tutti i condannati in via definitiva dovrebbero riavere anche gli arretrati. Si immagina quanti soldi pubblici dovrebbero essere versati?

Nel frattempo, a proposito di nodi politici, il governo ha deciso per le riaperture già dal 26 aprile, e la Lega rivendica di essersi imposta. È pesante da ascoltare per voi?

La verità è che il Carroccio non riesce a incidere, e prova a prendersi anche i meriti degli altri per una decisione molto ragionata. Il Paese è in sofferenza e ha bisogno di riaprire, seppure con cautela.

Sia sincera, quanto è difficile per voi 5Stelle stare nel governo Draghi?

Non è semplice. Ci siamo presi questa responsabilità per proteggere quanto ottenuto assieme a Giuseppe Conte. Ora credo sia il caso di capire quali altri obiettivi per i cittadini si possano raggiungere con un esecutivo di questo genere.

Dossier Oms ritirato, una mail a Speranza

Il 14 maggio 2020, giorno della pubblicazione del rapporto Oms che definiva “improvvisata” la reazione italiana alla prima ondata della pandemia, l’ex assistente al direttore generale dell’Oms Ranieri Guerra che era inviato in Italia, scrisse al ministro della Salute Roberto Speranza per scusarsi. Poche ore dopo il dossier sarà ritirato dall’Oms. Speranza anche ieri ha negato di aver avuto un ruolo. Report, in onda stasera su Rai3, ricostruisce la vicenda con questa mail e altre comunicazioni che illuminano i rapporti tra l’inviato dell’Oms, già dirigente della Salute per alcuni dei lunghi anni in cui nessuno aggiornò il piano pandemico, e il governo italiano. Anche con Speranza si discusse l’ipotesi di una revisione del dossier realizzato dai ricercatori guidati da Francesco Zambon, che ha poi lasciato l’Oms. In una comunicazione interna Guerra riferiva di aver suggerito a Speranza una dichiarazione di appoggio all’organizzazione. Guerra è indagato a Bergamo per false informazioni al pm sul ritiro del dossier e sul piano pandemico.