Da oggi, con l’elastico delle restrizioni che si allenta sempre più, quasi 7 milioni di studenti torneranno in classe in presenza. Ma sarà solo l’antipasto di quello che accadrà lunedì prossimo, il 26, quando saranno tutti gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado, vale a dire 8,5 milioni di ragazzi, a rientrare in aula. Lo ha annunciato il premier Mario Draghi parlando di “rischio calcolato” – che per il ministro della Salute Roberto Speranza è diventato “ragionato, non folle” – anche se si attendono ancora gli effetti della riapertura delle scuole dopo Pasqua. E così, dai presidi ai sindaci passando per le Regioni, la domenica si riempie di dichiarazioni dai toni allarmistici. Un po’ tutti frenano perché “con gli attuali protocolli di sicurezza che impongono il distanziamento di un metro tra gli studenti il concreto rischio è che non ci sia lo spazio per accogliere tutti in presenza”, denuncia il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli. Che aggiunge: “Le scuole si vedranno comunque costrette a ricorrere alla dad, facendo rotazioni”. Intanto questa mattina è previsto un incontro tra il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e i sindacati per fare il punto sui protocolli di sicurezza e sugli esami. In ogni caso, l’esito dell’incontro sarà condiviso con il Cts al quale spetta l’ultima parola. Andrà, infatti, rivisto il protocollo sul rientro in sicurezza visto che quello attuale risale al 6 agosto. In settimana, poi, ci sarà un tavolo tra i ministeri delle Infrastrutture e dell’Istruzione e i presidenti delle Regioni in cui si affronterà il tema cruciale della logistica, a cominciare dai trasporti sempre troppo affollati. “Ci sono 390 milioni di euro per i trasporti, ma quando ne vedremo gli effetti?”, si chiede Giannelli. “C’è un limite fisiologico rappresentato dal numero insufficiente di bus – dice senza mezzi termini il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga – Insieme a Province e Comuni abbiamo chiesto un incontro al governo per rivedere gli orari di entrata ed uscita dalle scuole”.
Scontro nell’Esercito sui vaccini forzati: “No alle schedature”
I vaccini per i militari sono sospesi, almeno con AstraZeneca, in attesa di immunizzare la popolazione over 60. Per i medici e gli infermieri delle forze armate no, si usano Pfizer o Moderna. Così il comandante dei Supporti logistici dell’Esercito, generale Roberto Nardone, responsabile di gran parte dei militari che si occupano di vaccini, tamponi e ospedali da campo – circa 2.800 – ha scritto di vaccinarli tutti in base al decreto legge 44 del 1° aprile, che non riguarda solo le professioni sanitarie – medici e infermieri militari – ma anche “gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali” (art. 4). E quindi, scrive Nardone il 14 aprile, anche coloro che “operano all’interno delle strutture in attività di supporto”. Le strutture sono i Reggimenti Sanità impegnati nelle missioni Minerva (vaccinazione dei militari), Eos (trasporto vaccini) e Igea (tamponi) e negli ospedali da campo di Aosta, Cosenza e Perugia. Sarebbe obbligato, pare di capire, anche chi fa la guardia agli ospedali da campo o agli hub vaccinali. Esattamente come l’addetto alla reception, alle pulizie o alle manutenzioni di uno studio medico.
“In caso di mancato assenso” alla vaccinazione, il personale dovrà essere “segnalato” e “impiegato, ove possibile, in altre attività o mansioni. In caso di impossibilità a ricoprire incarichi differenti, sarà cura del comando di appartenenza provvedere alla segnalazione per l’attuazione di quanto previsto dal comma 8 del decreto (Sospensione senza retribuzione)”, scrive Nardone.
Uno dei sindacati dell’Esercito contesta l’ordine. Per il Siamo Esercito (Sindacato italiano autonomo militare organizzato) è “una fuga in avanti” perché “il Dicastero della Difesa pare non abbia emanato nessuna Circolare al riguardo”. Il sindacato, guidato dal caporalmaggiore scelto Davide Del Curatolo, ha scritto al ministro della Difesa Lorenzo Guerini e ai capi di Stato maggiore della Difesa e dell’Esercito. “Un militare dell’Esercito è tenuto a vaccinarsi e uno della Marina che fa lo stesso lavoro no?”, si chiede un responsabile del Siamo, una delle 35 “associazioni a carattere sindacale” ammesse dalla Difesa ma prive di prerogative come la firma dei contratti, a tre anni dalla sentenza che ha riconosciuto i diritti sindacali dei militari. “Non siamo contro le vaccinazioni, chiediamo solo chiarezza”, dicono dal Siamo, che dichiara un migliaio di iscritti. Tanto più che il giorno dopo l’ordine di Nardone le vaccinazioni sono state sospese dal governo, con provvedimento del commissario straordinario Covid-19 Francesco Paolo Figliuolo, che è anche il comandante logistico dell’Esercito anche se Nardone non dipende da lui.
Il Siamo solleva anche il tema della gestione dei dati sanitari. Il Sindacato dei militari di Luca Marco Comellini da mesi parla di “schedatura” e ha anche ottenuto un parere del Garante della Privacy datato 29 marzo, prima del decreto sull’obbligo: “Il datore di lavoro non può acquisire l’informazione relativa all’informazione relativa all’intenzione dei propri dipendenti di aderire o meno alla campagna vaccinale”, firmato dal dirigente Francesco Modafferi dell’ufficio del Garante. Comellini denuncia da tempo anche la mancanza dell’assicurazione obbligatoria per i sanitari delle forze armate: “Chi si fa male in un hub vaccinale non è coperto”. Lo Stato maggiore della Difesa dice che stanno risolvendo il problema. Quanto all’obbligo vaccinale, fonti della Difesa assicurano che Nardone si è mosso in accordo con i vertici.
Al momento, comunque, ai militari fanno solo le seconde dosi. Sono 169 mila, oltre la metà, quelli che hanno già avuto la prima, di cui 161 mila con AstraZeneca: 54 mila nell’Esercito, 15 mila nella Marina, 22 mila nell’Aeronautica, 76 mila nei Carabinieri, evidentemente più esposti di altri tanto da aver registrato 4 decessi negli ultimi giorni.
Salvini (con Renzi): Norimberga sul Covid ed “emergenza” breve
Sarà che il testo del decreto non c’è ancora e quindi su ogni singola norma i partiti della maggioranza, soprattutto Lega e Forza Italia, vogliono mettere la propria bandierina. A costo di provocare l’irritazione degli altri, compreso il presidente del Consiglio Mario Draghi, che sulle riaperture hanno trovato una difficile mediazione tra il fronte rigorista e quello aperturista. E quindi il consiglio dei ministri che dovrà approvare il decreto per riaprire un po’ l’Italia già dal 26 aprile rischia di diventare l’ennesimo campo di battaglia. Perché oltre al coprifuoco – la Lega vuole abolirlo (“va eliminato” ha detto ieri Matteo Salvini), “non si cambia” è la risposta di Palazzo Chigi – e alla richiesta di anticipare a metà maggio la riapertura dei ristoranti anche al chiuso (oggi prevista per l’1 giugno), il centrodestra si prepara a dare battaglia anche sul rinnovo dello stato di emergenza. Il governo dovrà intervenire questa settimana con un decreto perché, dopo l’ultima proroga del governo Conte del 31 gennaio, scade il 30 aprile.
Il premier Draghi vuole prorogare lo stato di emergenza fino al 31 luglio, come lo scorso anno, per coprire i mesi decisivi della campagna vaccinale. Ma il centrodestra non ci sta e punta a una mini-proroga di un mese o due al massimo. Non di più. “Chi lo dice che bisogna arrivare per forza a metà estate?” chiede critico un big leghista. Più che un motivo razionale – nessuno vuole cancellare i poteri straordinari di governo e della struttura commissariale – c’è una ragione di forma (e quindi di consenso). Basti ricordare che nel luglio scorso, quando il governo giallorosa stava per rinnovare per la prima volta lo stato di emergenza fino a ottobre, la destra andò all’attacco: “Non c’è alcuna emergenza, stanno creando un danno economico devastante al nostro Paese” disse in Senato Matteo Salvini rivolgendosi anche al Quirinale. Mara Carfagna, oggi ministra del governo Draghi, invece spiegò che il rinnovo veniva fatto perché “l’esecutivo non ha la forza di governare nel normale confronto democratico”. Stessa cosa a ottobre quando il leader della Lega parlò di “scelta politica e non sanitaria”. Oggi Lega e FI sono al governo e non sarà facile spiegare ai propri elettori una giravolta così repentina. Sulle riaperture intanto, oggi si riunirà il Cts e martedì il governo incontrerà le Regioni che tornano a premere: “Si poteva riaprire di più – ha detto il presidente della Conferenza delle Regioni leghista Massimiliano Fedriga – Il decreto può essere ancora cambiato”. Stessa opinione di Giovanni Toti: “Il coprifuoco e pass vaccinale vanno rivisti”.
Nel frattempo lo scontro politico su Roberto Speranza non si ferma. Mentre Giorgia Meloni lancia una petizione per chiedere di sfiduciarlo, il ministro della Salute a In Mezz’Ora difende il suo operato sulle misure anti-covid di questi mesi (“dure ma giuste”) e sul piano pandemico (“fu l’Oms a ritirarlo, non il governo”) e chiede di abbassare i toni perché “non si butti questa questa materia nella polemica politica come una clava, che crea odio e un linguaggio violento”. Eppure in serata Salvini al Tg5 lo mette di nuovo nel mirino : “Se vede solo rosso e vuole solo chiudere deve andare via, se fa il suo lavoro può rimanere”. La Lega non voterà la mozione di sfiducia di FdI ma, insieme a Italia Viva, proverà a mettere in difficoltà Speranza con una commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione della pandemia.
Un modo anche per attaccare l’ex premier Giuseppe Conte – nuovo leader del M5S – e l’ex commissario Domenico Arcuri. Alla proposta di legge per la commissione ci sta lavorando il capogruppo dei renziani in Senato Davide Faraone e avrà l’appoggio di tutto il centrodestra, compresa FdI: così i numeri ci sono. Una commissione, con poteri investigativi, che però rischia di diventare un boomerang per il Carroccio se si occupasse, per fare un esempio, della mancata chiusura di Alzano e Nembro del marzo 2020 e sulle responsabilità della giunta leghista in Lombardia. Un po’ come successe con la commissione Banche del 2017 voluta proprio da Renzi e che finì per mettere sulla graticola il suo governo e la sua fedelissima Maria Elena Boschi.
Ma mi faccia il piacere
Salvate il soldato Fontana. “Invito le altre forze di centrodestra a chiedere, d’intesa con Renzi, la commissione d’inchiesta sulla pandemia che ci aiuterà a far luce sulle responsabilità, comprese quelle di Speranza. Su questa i numeri ci sono” (Matteo Salvini, segretario Lega, Corriere della sera, 18.4). “Ci vorrebbe una Norimberga del Covid… L’epidemia è stata gestita in modo criminale” (Stefano Zecchi, filosofo, Verità, 17.4). Massima solidarietà a Fontana, Gallera, Bertolaso e Moratti: questi li vogliono all’ergastolo.
Salvate il soldato Salvini. “Salvini: ‘Nel Lazio vaccini prima ai carcerati? Roba da matti’. Il Garante dei detenuti: ‘In Lombardia accade da marzo’” (Repubblica, 12.4). Dài, Matteo, che prima o poi magari ne approfitti anche tu.
Io Matteo, tu Mario. “Io e Draghi stiamo imparando a conoscerci” (Salvini, Giornale, 12.2). Quindi il governo dura poco.
Lo smemorato di Rignano. “Lasciare la politica? È il sogno dei miei avversari. Molti di loro ci sperano, li capisco. Mi spiace deluderli: io non smetterò di fare politica” (Matteo Renzi, segretario Iv, Corriere della sera, 6.4). Ma come: non l’aveva lasciata il 4 dicembre 2016 dopo il referendum?
Si figuri. “Col 2% abbiamo cambiato la storia dei prossimi anni imponendo Draghi al posto di Conte. Se col 2% siamo stati capaci di questo, si figuri che cosa potremmo fare se solo avessimo l’8-10%…” (Renzi, ibidem). Se per 80mila euro è capace di dire che l’Arabia Saudita di Bin Salman è la culla del Nuovo Rinascimento, figurarsi che cosa potrebbe fare per 4 o 5 volte tanti.
Ortofrutta. “È inutile che Fagiuolo dica ‘Facciamo mezzo milioni di vaccini’!” (Flavio Briatore a proposito del generale Figliuolo, Cartabianca, Rai3, 6.4). La battuta fatela voi.
Record di frenata. “A metà aprile faremo 500 mila vaccini al giorno” (Mario Draghi e Francesco Paolo Figliuolo, 21.3). “Record di vaccini: 358mila” (Repubblica, 18.4). “Vaccini record, 358 mila in un giorno. Superato ampiamente il numero previsto dalla tabella di marcia” (Corriere della sera, 18.4). La tabella di marcia dev’essere scesa da 500mila a 300 mila al giorno, come lo spread.
Forchettoni/1. “Il mio non è un vitalizio, mi sono versato i contributi” (Roberto Formigoni, La Stampa, 16.4). Sei milioni di mazzette lui le chiama “contributi”.
Forchettoni/2. “Ho scritto un libro di 530 pagine: racconta la mia storia. Ora vivo a casa di un amico” (Formigoni, ibidem). Massima solidarietà all’amico.
La guardiana del faro. “Un abbraccio e la solidarietà mia e di ItaliaViva a Piero Sansonetti e al Riformista per le querele e le azioni disciplinari che stanno intentando contro quello che in questi anni bui è stato, è e deve rimanere un faro contro il giustizialismo mediatico. Non ci fermeranno” (Teresa Bellanova, Iv, viceministra Infrastrutture, Twitter, 17.4). Le querele può farle solo Renzi al Fatto. E meno male: con tutti i guai che abbiamo, manca solo l’abbraccio della Bellanova.
Mission impossible. “Farsi cogliere con la mascherina abbassata può capitare a tutti, ma farlo per fumare – o fingere di fumare – dovrebbe essere vietato” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 6-4). Si può sempre fumare con la mascherina. O calzarne una col buco.
Clamoroso al Cibali. “Quando nelle motivazioni di una sentenza (la condanna degli ex manager di Mps Profumo e Viola, ndr) ti ritrovi a leggere frasi come ‘spiccata capacità a delinquere’ e ‘disegno criminoso’, non puoi non chiederti se in Italia la magistratura conosca fino in fondo la differenza che c’è fra un processo costruito sulle prove e un processo costruito sui teoremi” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 10.4). In effetti, una sentenza di condanna che dà dei colpevoli ai condannati non si era ancora mai vista. Urge riforma della giustizia.
Parenti serpenti. “Ora lo si dica: Mani Pulite fu un atto politico” (Tiziana Parenti Libero, 12.4). In effetti, l’unico pm di Mani Pulite che si fece eleggere nel ’94 fu Tiziana Parenti, in Forza Italia.
Ora e sempre omertà. “Testimoniò contro il Cav. Poi Ciacci fu promosso. Da capo della Polizia giudiziaria del Tribunale di Milano si diede molto da fare nelle indagini su Berlusconi. Ora è capo dei vigili” (Tiziana Maiolo, Riformista, 9.4). “Esiste qualcuno, da qualche parte, magari seduto a tre porte dalla stanza vuota della dottoressa Boda (dirigente del Miur indagata per corruzione che ha tentato il suicidio, ndr), che ha ‘ispirato’ l’indagine sulla dirigente: con una denuncia anonima… La delazione è ignobile, e non basta pensare che chi di soffiata ferisce prima o dopo di dossier perisce” (Concita De Gregorio, Repubblica, 17.4). Giusto: i reati non si denunciano: si commettono. E chi fa la spia non è figlio di Maria.
Il titolo della settimana. “Open Arms, Salvini a processo. Risponderà di sequestro di persona”, “Il leader leghista azzoppato nella corsa a Palazzo Chigi” (Repubblica, 18.4). In effetti un rinvio a giudizio, per fare il premier del centrodestra, è un po’ pochino: ci vuole almeno una condanna.
“Prima mi trattavano come uno scarto, ora sono il re della scena musicale queer”
“Quando in casa nostra entravano i dottori della peste correvo a nascondermi”. Li vedeva così, quei preti e suore che mamma Sabina invitava per far conversazione. Lui, Andrea, era un ragazzino alle prese con quella scomoda domanda sulla propria identità di genere. “Mi chiedevo: cosa ci fanno qui? E mi sentivo in pericolo, provavo vergogna. Crescendo, ho capito che il sentimento religioso non è incompatibile con una natura queer. Nei testi sacri non leggi anatemi contro l’amore”.
Sua madre aveva coltivato l’interesse profondo per la teologia, “ma non mi ha mai fatto mancare il suo supporto. Non è stato semplice per lei approfondire la questione della mia identità, che è cosa diversa dall’inclinazione sessuale. Ora siamo molto vicini”. Anche se a distanza: perché Andrea Di Giovanni da otto anni ha lasciato Roma per Londra, dove è diventato un punto fermo della scena urban-pop-soul Lgbtq+, come dimostrano l’album Rebel e un documentario, Equalise, realizzato a Abbey Road con il lavoro di artisti, produttori e tecnici tutti della comunità transgender. Non bastasse, Andrea sarà tra le stelle del World Pride di Copenhagen, in agosto, e prima e dopo delle kermesse nella capitale britannica e a Zurigo. “Non vedo l’ora”.
Eppure, a 19 anni, prese una porta in faccia da trauma a vita. “Fui eliminato nella prima puntata del serale di Amici. Ero arrivato lì dopo anni di sogni a occhi aperti, cantando e ballando nella mia stanza con i cd di Whitney Houston. In tv mi sentivo come un pulcino indifeso. Una volta fuori mi dissi che avrei fatto di tutto per dimostrare che chi mi aveva bocciato aveva torto”. Già, perché uno su mille ce la fa, ma non sempre è quello che vince: chi ricorda il rapper Moreno, che in quel 2013 uscì trionfatore dal circo crudele del talent? “Presi subito la decisione di trasferirmi qui in Gran Bretagna, per esplorare il mio percorso artistico e umano. Che è stato duro, tormentoso. Non tutti hanno chiaro cosa sia una sensibilità trans, anche in una città aperta come Londra. Un gender come il mio significa non cercare comode soluzioni chirurgiche o cosmetiche. Io voglio sentirmi maschio e femmina, senza lasciarmi confinato nel sesso assegnato dalla nascita. Ma ci sono stati giorni in cui aprivo l’armadio e mi dicevo: sceglierò di essere invisibile rinunciando al make up e all’abbigliamento misto, pur di non farmi giudicare? O rivendicherò la ricchezza della mia anima fluida?”.
C’è stato un momento rivelatore, racconta, in cui ha intuito che non doveva togliere nulla a se stesso. “Fu dopo un’accesa discussione con il mio manager. Compresi che se avessi avuto coraggio avrei potuto aiutare altri ad accettare le proprie scelte. La musica può essere una luce, per chi è costretto nell’ombra”. Spiega, Andrea, che la discriminazione va combattuta in ogni ambito. “A volte, a Roma, capitava che a uno degli amici scappasse la parola ‘frocio’. Lì ero costretto a ribattere: ‘non permetterti mai più!’, perché anche se è solo una stupida battuta, ascoltarla riapre in me la lacerazione che ho provato troppo a lungo, quando mi trattavano come un umano di scarto”. Quanto alla battaglia contro l’omotransfobia, “sapere che una legge può proteggerci, almeno a livello di sanzioni contro gli intolleranti, può farci sentire più accettati. Diventiamo visibili”.
“Aggiungi un selfie a tavola”. Il cibo, ultima deriva porno
Viviamo nell’era del self-tracking, consumiamo stando a dieta, ci sentiamo liberi ed evoluti ma serriamo forse noi stessi le nostre catene. Nel tempo della moralità alimentare, sgarrare è vietato, quantomeno sbagliato. E gli sprazzi di devianza consentita servono al sistema per giustificare la bontà della sua azione tentacolare. Un carnevale necessario: il “cibo pornografico”.
Prendiamo il proliferare di video YouTube sui cheat days, giornate libere da qualsivoglia restrizione in cui gli influencer di riferimento fanno man bassa di vivande di pessima qualità, insane e supercaloriche. Una maniera di sublimare, per interposto peccatore, fantasie indicibili e massicci sensi di colpa. Strappi alla regola per cementarla. Di taglio un po’ diverso, ma sempre seguita da milioni di utenti, è la pratica del mukbang, quei banchetti solipsistici in livestream nel corso dei quali un singolo individuo ingurgita piatti bizzarri (come certi enormi molluschi crudi) o alimenti non esattamente edibili, dal “favo delle api” ai saponi. Ed è il trionfo della masticazione a mascelle sguainate di cibi croccanti e rumorosissimi, con tanto di risucchi e microfoni speciali, ad altissima sensibilità, per accentuarne il fragore. Tutto questo, e non solo, nel saggio Aggiungi un selfie a tavola. Il cibo nell’era dei food porn media, edito da Egea e scritto da Luisa Stagi e Sebastiano Benasso, docenti di sociologia all’università di Genova.
I vecchi ricettari e le rubriche nei magazine generalisti, le riviste specializzate e le trasmissioni tv fornelli&lifestyle; i food blog, le videoricette di Instagram e il pulviscolo di app e piattaforme che ci avviluppano: “Il cibo è al centro di un continuo processo di progressiva ri-mediazione”, sostengono i due autori. E di media in media siamo arrivati alla “deriva estetizzante” e allo spettacolo postumo di oggi. Dire voyeurismo è ormai riduttivo. Il retroscena ha preso il posto della scena, “si mostra ciò che prima non veniva mostrato, rendendolo più visibile del visibile”. Con milioni di autoscatti e inquadrature ravvicinate a tema ossessivamente culinario.
Il primo a introdurre il concetto del food porn, ossia la moltiplicazione dei discorsi intorno al cibo e delle immagini di alimenti tabù, fu Roland Barthes negli anni Sessanta. Ma nel frattempo la gastro-pornografia è divenuta un veicolo eccellente di “significati politici, identitari e comunitari”: un biglietto da visita, una cartolina di sé. Ecco allora prendere forma e sostanza i food porn media, che senza smartphone, tablet e social network non avrebbero conosciuto una simile potenza di fuoco. È crollata ogni distanza tra l’osservatore e l’osservato, e tutto questo suona osceno, chiamando in causa stavolta Jean Baudrillard. Per argomentare la loro tesi, Stagi e Benasso citano anche, tra i tanti, Jeremy Bentham e il suo Panopticon, considerato da Michael Foucault “la base della moderna società disciplinare”, Gilles Deleuze e il suo approdo a una società post-panottica, della “governamentalità digitale” e vari film e serie.
C’è poi il fenomeno del gastronazionalismo, il sovranismo a tavola. Ricordate la caprese tricolore di Giorgia Meloni, col suo accostamento tra i colori della bandiera e gli ingredienti? Il video della leader di Fratelli d’Italia si concludeva così: “Quando cucinate questo piatto, state mangiando Italia… e state facendo lavorare i nostri produttori”. Pure nella comunicazione di Salvini la cucina è nevralgica, “proprio per la sua efficacia in termini di oggettivazione dell’italianità e ammiccamento all’uomo medio”. Capitolo a parte per l’anno del Covid. “Pane, amore e pandemia”. Le pizze, e soprattutto le pagnotte made in casa, barlumi “di sacro cui appellarsi per contrastare l’angoscia”. Altro che porno.
Noi, il Teatro e le galline
“Cocò, Chanel e Chery sono fantastiche. E stanno bene, grazie”. Mangiano? “Sì, e trasmettono una sensazione di pace”.
Cocò, Chanel e Chery sono tre galline.
Tre galline nel senso descrittivo del termine, non come offesa generica, e sono un regalo di Sagitta Proietti a suo marito Gigi in occasione del lockdown: “Papà le andava a trovare e aveva l’ovetto fresco: per lui un vero privilegio. Un regalo”.
Carlotta Proietti è la minore delle figlie, la sorella è Susanna. Lei per anni ha seguito il padre sul palco (“Lì il privilegio era il mio. Quanto ho imparato solo a guardarlo”), ed è lei ad affrontare e scalare le emozioni per raccontare il libro postumo di suo padre, ’Ndo cojo cojo. Sonetti e sberleffi fuori da ogni regola. Un gioiello da leggere con gli occhi socchiusi, per quanto possibile, perché davanti a ogni ricordo, battuta, poesia o rima, si palesa Gigi Proietti. La sua voce. I suoi tempi comici. La sua ironia. La sua capacità di starti di fronte alla pari, come un amico che al bar ti racconta una storia mentre gira lo zucchero nella tazzina del caffè.
Come nasce il libro?
Dalle bozze di un romanzo, ’Ndo cojo cojo, che lui aveva iniziato un po’ per gioco; poi, dopo la sua morte, in casa è scattata una sorta di caccia al tesoro per trovare i suoi foglietti iniziati e abbandonati, con sopra poesie o disegni; papà scriveva e disegnava ovunque.
Carta, penna e via…
Mia madre si imbestialiva perché lei comprava in continuazione quaderni di ogni misura, ma lui niente: come un bambino scriveva dappertutto; quando mamma nel suo studio, e nel caos più estremo, scovava delle pepite di papà, subito ci chiamava: “Non potete capire cosa ho trovato”.
Cosa disegnava?
Caricature, anche di amici.
E di voi figlie?
(Ride) No, purtroppo. Magari le ha fatte sparire.
Nel libro definisce i suoi scritti delle “stronzate”.
È sempre stato un uomo estremamente dubbioso, o comunque si è posto continue domande rispetto al proprio lavoro; ricordo quando aveva la serata all’Auditorium di Roma, con il teatro strapieno, e lui in camerino ci guardava e domandava: “Verrà qualcuno?”.
Semi-scherzoso…
Forse era una forma di difesa e di scaramanzia, di sana incertezza, il voler porre sempre dei dubbi come forma di rispetto per il pubblico e per il palco; quando scriveva qualcosa , magari un sonetto o un capitolo del libro, poi chiamava una di noi tre, lo leggeva, e di fronte ai complimenti rispondeva sempre con un “mah” sospirato.
Lino Guanciale racconta: “Grazie a Proietti ho capito che non si deve mai dare del ‘tu’ al palco”.
Per papà era un punto imprescindibile; (ci pensa) come famiglia abbiamo sempre mantenuto un rapporto bellissimo con il mare, con lui appassionato di vela nonostante non fosse un velista; l’approccio alle onde era lo stesso di quello riservato al teatro: nessuna spavalderia, ma il giusto rispetto.
Suo padre nel 2016 è venuto alla festa del Fatto alla Versiliana. Il giorno dello spettacolo stava malissimo con la schiena, quasi non camminava, poi in scena si è trasformato nel Proietti di sempre.
È accaduto tantissime volte, ed è la forza del palcoscenico: lì sopra passa ogni dolore, meglio di qualunque medicina; e poi lui era tutt’uno con il suo lavoro, non poteva farne a meno: anche a Montecatini, quando abbiamo registrato le puntate poi andate in onda su Rai1, aveva la febbre alta, eppure ha concluso lo show.
Lei si preoccupava?
Sempre! Ma paradossalmente non temevo mai un possibile problema in scena: ero certa che la sua bravura avrebbe risolto qualunque situazione.
Con Gassman è stato l’ultimo maestro ad aver creato una scuola al di fuori delle Accademie ufficiali.
Sì, per anni è circolata una sorta di leggenda, con attori che ci scrivevano o ci chiamavano per iscriversi alla “scuola di Proietti”. E noi: “Veramente è stata chiusa tanti anni fa”; (ci pensa) lui aveva il pallino di riaprirla, negli ultimi anni ne abbiamo parlato in diverse occasioni.
Proietti ha lasciato un’infinità di “semi”. Quanti ne riconosce?
Tanti, tantissimi, e scorgo quasi sempre influenze positive; il bello è che ognuno di loro ha preso la sua strada con grande autonomia ma con le giuste influenze; (cambia tono) papà ha trasmesso l’amore totale per questo lavoro, un amore che io definisco “malattia”.
Lei è “malata”?
Sì, a un certo punto sono stata contagiata.
Ha resistito a lungo?
Il mio è stato un percorso anomalo: sono partita dalla musica e, in tempi non sospetti, papà mi diceva: “Secondo me tu puoi recita’”.
E invece?
Cantavo nei locali e nei teatri, fino a quando mi sono resa conto che per stare su un palcoscenico dovevo imparare qualcosina in più, così mi sono iscritta a una scuola e mi sono ammalata.
E quando ha svelato la malattia a suo padre?
Al momento dell’iscrizione ha mantenuto un atteggiamento vago, poi ho capito quanto era felice.
Le persone che nella vita ha incontrato, come si sono rapportate al suo cognome?
Mi ha sempre divertito l’espressione del viso quando capiscono che sono la figlia di Gigi Proietti.
Cioè?
Sbarrano gli occhi accompagnati da una sorta di “ma come!”.
Spesso i “figli di” definiscono il genitore famoso come un po’ di tutti, non solo loro.
Rispetto al concetto di padre non è andata così: da piccola mi rendevo un po’ conto di avere una famiglia fuori dall’ordinario, ma papà con noi era normalissimo, non caricava la situazione, non aveva atteggiamenti da vip, non frequentava il jet-set. Per me girarci insieme era motivo di orgoglio.
Non era gelosa.
No, felice; (sorride) mantenevo intatto lo stereotipo descritto dagli psicologi nel rapporto tra figlia e padre. Lo vivevo come una divinità.
E il 2 novembre…
Lì ho avvertito quel concetto di condivisione e l’ho scritto in un post sui social; in quei giorni è arrivata un’onda di affetto pazzesca, qualcosa di incredibile.
Non se lo aspettava?
Pensavo a qualcosa di molto grande, ma nei fatti siamo andati oltre ogni possibile attesa; tante persone mi hanno scritto dei messaggi del tipo: “Sì, lo so, per te era un padre, ma per me era un fratello, era uno zio, era un nonno”. E allora a un certo punto ci siamo dette: hanno ragione loro, tutto questo è figlio di quello che ha seminato; (cambia tono) lui ha lavorato per il pubblico.
Il pubblico maggiore possibile.
Il suo migliore amico e sassofonista di una vita, Lello Arzillli, ripeteva: “Anvedi questo: acchiappa tutti, comunisti, fascisti, laziali, romanisti”. Ed era vero; (ritorna a prima) io e Susanna abbiamo vissuto papà in maniera diversa: lei è sempre stata più timida, non amava tutta questa attenzione, mentre io non vedevo l’ora di andare a teatro con loro.
Suo padre era presente.
Mi reputo molto fortunata: non ho il ricordo di un genitore assente, poi sicuramente non era un papà comune, c’erano anomalie.
Tipo?
La mattina, da sempre, c’era mamma che portava il dito alla bocca e accompagnava il movimento con un prolungato “Shhhhh. Silenzio, papà dorme”. E allora noi ci muovevamo pianissimo, ma era normale: andava a teatro e finiva tardi; (abbassa la voce) per merito loro, in particolare di mia mamma, la quotidianità è stata vissuta in maniera serena.
Era timido?
Non era un caciarone, era abbastanza riservato, ma non timido.
Vi raccontava la sua vita?
Era un “aneddotaro”; (sorride) le storie che amavo di più erano quelle sul rapporto con la sorella: nel suo essere dubbioso, era convinto che da ragazzini, insieme alle amichette, sparlassero di lui. Non era vero.
Quasi tutti gli artisti a un certo punto della vita toccano la depressione.
Fortunatamente non papà; al massimo poteva affrontare una sorta di down alla fine delle repliche di uno spettacolo, quando si apre un periodo di vuoto, ma era più un calo di adrenalina.
Poi c’eravate voi tre.
(Ride) Che gli stavamo addosso e pure qui il merito è di mia madre: è stata lei a tenere unita la famiglia, anche con diktat che oggi capisco.
Esempio.
A pranzo e cena sempre insieme, senza cellulari, televisione spenta e obbligati a parlare; (silenzio) e poi lo ha perennemente sostenuto, da subito. Racconta che appena lo ha conosciuto ha capito che era il più grande attore di teatro. Del mondo; (sorride) e gli amici la prendevano in giro.
Sua madre lo guardava sempre da innamorata.
Assolutamente, come il primo giorno. Ed è bellissimo.
La Roma calcio.
(Immediata) Non si discute, si ama.
Non perdeva un match.
Alcune volte si è messo d’accordo con i tecnici per accorciare le prove: doveva vedere la partita.
“Quando provo sono una specie di maniaco: viene fuori tutta la mia precisione”.
Ha sempre avuto questa fissazione per la maniacalità: era attento, preciso, esigente, non severo, ma serissimo, ed è una caratteristica che ogni attore dovrebbe possedere.
Quanto ha imparato con lui sul palco?
Tanto, tanto, tanto. Perennemente: dopo anni mi sono stupita di scoprire lati nuovi, o di assorbire senza saperlo concetti impressi negli anni precedenti. Lui aveva una maestria che sembrava quasi naturale: quella di essere se stesso, e ho capito che in questo lavoro è l’impresa più ardua.
Nel libro ci sono sonetti dedicati ad Alberto Sordi e Gigi Magni.
Con Sordi c’era più un’ammirazione da lontano, mentre con Magni un sodalizio: erano amici, ridevano tanto insieme, si raccontavano barzellette e da quel rapporto sono nati lavori meravigliosi; (ci pensa) aggiungo il sonetto per Nicola Piovani: sono atti d’amore.
Lo sogna?
Sì, in tanti modi diversi.
Sul palco?
Per il momento no; (cambia tono) di questo magari parleremo un’altra volta, tra qualche tempo.
Chi era suo padre?
Un uomo di teatro.
Bernabè, quell’arte del silenzio dall’Eni all’acciaio di Taranto
Con un taccuino e una matita sempre in tasca e con la sua aria perennemente innevata dall’ombra, come certi scorci montuosi del suo Sud Tirolo, Franco Bernabè scivola da mezzo secolo tra le cime più aguzze (e taglienti) del capitalismo italiano. Ha visto staccarsi dall’alto le valanghe societarie dell’Eni e della Telecom, forzieri dell’energia e delle telecomunicazioni, dove si fabbrica il prodotto interno lordo della nazione e quello un po’ più riservato delle grandi famiglie cannibali che se lo cucinano con le oligarchie della politica per poi spartirselo a cena a colpi di stock option e di tangenti.
Ne è uscito sempre indenne. Con i suoi appunti riservati e le liquidazioni favolose. La fedina penale immacolata. Pochi amici. Molti nemici. Molta ammirazione per la sua prudenza, per il suo enigmatico carattere. E abbastanza onore da essere ripescato oggi dal suo vecchio compagno di banco dell’associazione sovranazionale Bilderberg, Mario Draghi, che intende affidargli una borsa piena di antibiotici per provare a guarire l’Ilva – e sperabilmente i polmoni, gli umori e il destino di Taranto – dai demoni dell’acciaio che da metà secolo scorso producono vita e morte, lavoro e malanni. Che è poi il conflitto vetero-industriale tra la creazione di ricchezza e la distruzione dell’ambiente, che permane anche in questi galoppanti tempi dell’intelligenza artificiale, chiamata a rimediare alle lentezze della stupidità umana.
Bernabè, indicato prossimo presidente del conglomerato, se la dovrà vedere con questi intelligenti burloni di ArcelorMittal che considerano Sabrina Ferilli una temibile nemica del loro fatturato, e l’operaio che le ha mandato un like per una fiction sull’inquinamento ambientale un agente così tanto ostile alla crescita felice da essere licenziato su due piedi. Ma immaginiamo che anche stavolta, tra i molti forni delle lavorazioni a caldo, la proverbiale freddezza di Bernabè troverà il bandolo dei conti e del senno per rimediare i danni, essendo alle viste un finanziamento di 400 milioni alle acciaierie dalle casse di Invitalia, per contenere il collasso delle vendite di acciaio nel mondo, crollate del 70 per cento, e quello della città, sommersa dal terzo mare dell’inquinamento.
Molta strada si è lasciato alle spalle Franco Bernabè, nato a Vipiteno nell’anno 1948, padre ferroviere, infanzia a Innsbruck, scuole a Torino, laurea in Scienze Politiche, perfezionamento in America. Mai appariscente per carattere, compare sempre nel posto e nel momento giusto. Prima alla fondazione Einaudi, dove impara la creatività della ricerca. Poi in Fiat, a scuola di disciplina e di obbedienza. Ma la svolta è quando entra nella pattuglia di Franco Reviglio, multiplo ministro liberal socialista, che se lo porta per la prima volta in Eni, anno 1983, insieme con gli altri Reviglio Boys, Domenico Siniscalco, Giulio Tremonti e Alberto Meomartini. “Tutti e tre dediti più a estrarre fidanzate che petrolio, vista l’età – secondo la testimonianza di un manager dei tempi d’oro –. Tranne Bernabè, già allora prudente, scostante e specialmente monogamo: conobbe Grazia e la sposò per sempre”.
Nel celebre 1992, mentre la lira e i partiti vanno in malora, il presidente del Consiglio Giuliano Amato trasforma l’Eni, da carrozzone di Stato accerchiato e munto dai partiti, in società per azioni, e affida le chiavi al meno emotivo della pattuglia. Il più riservato. Il più astuto. E con le spalle ben coperte dalle sue relazioni internazionali, dalla Trilateral all’Ocse, dall’Aspen ai think tank della galassia atlantica. Una attitudine verso i mondi segreti delle relazioni e delle informazioni riservate che lo mette in luce agli occhi di Francesco Cossiga, quando da presidente della Repubblica, anno 1992, varerà il celebre comitato ristretto “per la riforma dei servizi segreti” per arruolarlo insieme con Paolo Savona, il consigliere militare Carlo Jean, l’ex comandante generale dei carabinieri Roberto Jucci.
In cima alla piramide Eni, l’invisibile Bernabè la trasforma per sempre. Pressato dalle inchieste di Mani Pulite, sfiorato dai suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, consegna in una notte tutte le carte ai magistrati. In 60 giorni taglia 73 società, 15 mila dipendenti, e sostituisce tutti i consigli di amministrazione: 250 manager cancellati, altrettanti nominati. Una giostra che manda nel panico i partiti, sedimenta eterni rancori, ma intanto mostra le sue competenze nell’arte della guerra apprese da Sun Tzu: “Conosci il prossimo, conosci te stesso, trionfa senza pericolo. Conosci il contesto e il suo funzionamento: trionfa completamente”.
Ci proverà altre due volte maneggiando Telecom e uscendone sempre in tempo. La prima volta, anno 1999, sconfitto dall’astuto D’Alema, che da Palazzo Chigi benedice la scalata a debito del celebre ragioniere di Mantova Roberto Colaninno e dell’altro capitano coraggioso Tronchetti Provera, che svuoteranno gli armadi (e i palazzi) aziendali meglio che durante le pulizie pasquali, lasciandosi alle spalle 40 miliardi di debito a fronte di un patrimonio di 27. La seconda volta battuto dagli spagnoli di Telefónica, che si alleano con Mediobanca, Generali e Intesa San Paolo per sfilargli il progetto e la poltrona. Bernabè saluta e se ne va fuori dal campo, siamo nell’ottobre 2013, ma sempre con tutti gli onori e le buonuscite adeguate, 7,5 milioni la prima volta, 6,6 la seconda.
Spiccioli che gli servono per riempire il suo tempo libero, inventarsi fondi di investimento, creare aziende in Europa, frequentare la Cina, dove siede tra gli amministratori del colosso PetroChina, assecondare, con la moglie titolare di una galleria in Trastevere la passione per l’arte: per 10 anni presidente del museo Mart di Rovereto, una volta in cima alla Biennale di Venezia, un’altra alla Quadriennale di Roma. “Con l’impegno nella cultura voglio ridare al Paese quello che mi ha dato”, ha scritto nella sua recente autobiografia A conti fatti. Che risulta timidissima anche quella, proprio in linea con il carattere dell’uomo, rispetto ai taccuini e alle matite accumulate negli anni. Un giacimento buono per il prossimo dossier Ilva, buonuscita compresa.
Che genio Kaufman licenziato per la gag e per latte&biscotti
Negli anni 70, oltre a Steve Martin, un altro comico parodiava il frame della “routine comica tradizionale” facendo comicità di carattere: Andy Kaufman. Interpretava il personaggio di un immigrato bizzarro che cercava di fare spettacolo essendone del tutto inadeguato, ma con il candore e l’entusiasmo contagioso di un bambino. Qui (shorturl.at/awRUZ) lo vediamo da Johnny Carson mentre racconta male una vecchia barzelletta e imita in modo pessimo Cassius Clay e James Cagney, per poi sorprendere con un’imitazione di Elvis Presley prodigiosa (scarto dallo scarto). Finita l’imitazione di Elvis, Andy ringrazia con la vocetta acuta dell’immigrato bizzarro (scarto dallo scarto dallo scarto). Nel proprio programma (1977), fa la parodia di un tipico frame dei late-show, “l’intervista”: accoglie un’ospite, e poi non sa più cosa dirle (nel lungo minuto di imbarazzo, il pubblico ride a ogni nuance espressiva: shorturl.at/egoHJ, a 21’20”). È abile a trollare i media: quando la Abc lo scrittura per la sitcom Taxi (dove il suo personaggio lunare è rinominato Latka Gravas: shorturl.at/mtRY6), Kaufman pretende che facciano un contratto, come fosse una persona reale, a un personaggio del suo repertorio, Tony Clifton, un crooner misogino e arrogante che abusa del pubblico (shorturl.at/elCFW); quindi nei panni di Clifton devasta il set, facendo notizia (i giornali lo prendono per una persona vera, con foto del fattaccio). Arriva a cimentarsi in incontri di wrestling contro lottatrici, e insulta le avversarie nelle interviste: “Ti rispedirò in cucina, il posto a cui appartieni.” Per dargli una lezione, una sera il campione Jerry Lawler sale sul ring e lo manda all’ospedale con un doppio piledriver (shorturl.at/gDGL3). In seguito, ospiti da Letterman, Kaufman in collare cervicale provoca Lawler finché questi non gli dà un ceffone: Kaufman dà in escandescenze e minaccia querele, finendo di nuovo sui giornali (shorturl.at/ qyM06).
Kaufman non vuole essere divertente, dice, ma provocare una reazione negli spettatori, “giocare con la loro testa”: così fa cose che anticipano l’arte relazionale (Bourriaud, 2010), come quando conclude uno spettacolo alla Carnegie Hall (1979) trasportando gli spettatori con 35 autobus in un locale dove offre latte e biscotti a tutti. Il grosso pubblico si stanca presto delle sue provocazioni continue: nel 1982, un sondaggio fra gli spettatori del Saturday Night Live decreta il suo licenziamento dal programma. A 35 anni muore stroncato da un tumore ai polmoni, e in molti pensano si tratti di uno dei suoi soliti scherzi mediatici: potere predittivo del frame (accadde lo stesso con Tommy Cooper, cfr. Qc #45).
La meta-comedy di Mel Brooks
Per parodiare la comicità tradizionale, Kaufman fa anche brevi monologhi da stand-up comedian dove riconverte le battute in frasi neutre (scarto dallo scarto). Per dire, in quegli anni circolava un joke classico sul traffico: “Sull’autostrada da Santa Monica c’era così tanto traffico che sono stato sorpassato da un’auto abbandonata.” E tutti conoscevano il joke in cui Henny Youngman diceva, come per fare un esempio, “Prendete mia moglie. Per favore!” E una tipica battuta sulle mogli era: “Mia moglie non sa cucinare. È talmente pessima che brucia le spremute.” Ed ecco il monologo-spoof di Andy Kaufman (shorturl.at/egoHJ, a 7’34”). Recita la parte come un bambino incapace e spaventato dalla situazione, ma euforico: “Una cosa che non mi piace di Los Angeles è che c’è troppo traffico (risate). Stasera sono venuto da Santa Monica. Sull’autostrada. C’era così tanto traffico che mi ci è voluta un’ora e mezzo per arrivare qui (silenzio, sguardi imbarazzati di Kaufman, risate). A proposito di cose terribili (risate). Prendete mia moglie, per favore, prendetela (risate, Kaufman ride di gusto come se il pubblico avesse riso della battuta e non del suo riciclaggio goffo, altre risate). No, sto solo scherzando (risate). Amo molto mia moglie. Ma non sa cucinare. La sua cucina è così pessima che è terribile (risate).”
Con questo tipo di anti-comedy, Kaufman riscopriva, senza saperlo, il gimmick cui ricorse un giovane Mel Brooks quando, negli anni 40, dovette sostituire un comico ammalato che si esibiva come entertainer in un albergo estivo sui monti Catskill. Mel Brooks raccontò l’aneddoto da Johnny Carson nel 1975 (shorturl.at/elCFW, a 15’50”): aveva un repertorio costituito da vecchi joke (“Sono appena arrivato in volo da Chicago e… ragazzi! Ho le braccia stanchissime. A Chicago ho incontrato una ragazza. Era così magra che il cameriere mi ha detto: ‘Mi dia l’ombrello.’”), ma una sera, per sorprendere un pubblico annoiato, Brooks ebbe l’idea di modificare il monologo togliendo tutte le punchline dalle solite battute. Le riconvertì in frasi neutre: “Buonasera, signore e signori. Sono appena arrivato in volo da Chicago e… ho un po’ di nausea. A Chicago ho incontrato una ragazza. Era così magra che mi sono preoccupato. La porto dal medico, il medico mi ha rassicurato: ‘No, sta bene.’ A Chicago stavo in albergo. La camera era così piccola che ho detto: ‘Cambiatemi la camera.’” Era meta-comedy, comicità sulla comicità. Usata in modo ostile, contro il pubblico. Ritroviamo la stessa ostilità in Paolo Villaggio (1969) che parodia il frame “presentatore di varietà Rai”: shorturl.at/djtuC.
(52. Continua)
“Navalny sta morendo”: i suoi lanciano l’ennesimo appello
Mentre Kira Yarmish, portavoce di Alexei Navalny, scrive su Twitter che “Alexei sta morendo. Nelle sue condizioni, è una questione di giorni”, e tre medici confermano che il blogger anti Putin rischia un arresto cardiaco per le sue condizioni di salute, la Procura di Mosca chiede che il gruppo dell’oppositore sia inserito nella stessa lista degli “estremisti” dove ci sono l’Isis e Al Qaeda. Questa è la fine che potrebbe fare anche il Fondo anti-corruzione. A rischio chiusura i suoi uffici: dal quartier generale a Mosca a tutte le sedi regionali, che sono state aperte da un lato all’altro della Federazione in questi anni. A richiedere che l’organizzazione venga inserita nello stesso elenco dei terroristi sono i procuratori della Corte di Mosca: il Fondo “mira a creare condizioni di destabilizzazione sociale e politica” al fine di “cambiare le fondamenta dell’ordine costituzionale”, è pertanto fautore di “attività indesiderate”, secondo i magistrati russi che rimangono ora in attesa di una sentenza del tribunale della capitale. Se la richiesta dovesse essere confermata, potrebbero essere arrestati o multati sostenitori e donatori finanziari di Navalny. “Il Cremlino richiede che chiunque non concordi con le sue politiche venga chiamato estremista. È chiaro che questo nuovo attacco è legato alle prossime proteste pianificate e alle elezioni di settembre. Ma non ci arrenderemo” ha detto Ivan Zhdanov, a capo della squadra di dissidenti da quando il loro leader è stato arrestato al suo rientro da Berlino, città in cui è stato curato dall’avvelenamento da novichok la scorsa estate. Navalny, condannato a febbraio scorso per non aver rispettato le misure restrittive nel periodo in cui si trovava in Germania in ospedale, è rinchiuso attualmente in una colonia penale nella regione di Vladimir, a nord di Mosca, dove deve scontare una pena di due anni e mezzo. Due giorni fa un appello sottoscritto da almeno 70 scrittori e celebrità, dal cantante Thom Yorke all’attore Jude Law, è arrivato al Cremlino: gli artisti hanno chiesto al presidente Vladimir Putin di concedere le cure mediche necessarie al dissidente che, il 31 marzo scorso, ha iniziato lo sciopero della fame per vedere uno dei suoi dottori di fiducia.