Díaz-Canel, sulle orme dei Castro: ma su Twitter

È dunque finita davvero l’era Castro dopo sei decenni, ma la maggior parte dei cubani non si aspetta novità e trasformazioni dal quasi certo successore dei fratelli rivoluzionari Fidel e Raúl, il presidente Miguel Díaz-Canel. L’attuale capo dello Stato cubano nominato da Raúl Castro nel 2019 però otterrà realmente le chiavi dell’isola “non allineata” caraibica solo se verrà eletto anche segretario del Partito comunista, la carica oggi ancora più importante. Con la conferma dell’uscita di scena del quasi novantenne generale Raúl, questa settimana i membri del partito dovranno designarne il successore.

Solo da segretario del partito, Díaz-Canel potrà eventualmente mostrare di cosa è capace, nel bene o nel male. Certo è che il presidente sessantenne si ritrova già ora a governare nel mezzo di una crisi epocale, generata dalla pandemia, mentre ancora le sanzioni e le dolorose limitazioni imposte da Donald Trump durante la sua presidenza stanno colpendo i più poveri tra i poveri cubani, non di certo gli esponenti della nomenklatura bianca, nel senso del colore della pelle. E Díaz-Canel è uno di questi, un bianco tendente al grigio, vista la sua mancanza di carisma, che non sembra però essere in grado di tirare fuori il coniglio dal cilindro. Perché solo una magia può salvare l’economia dell’isola. Un’arte e una tecnica, la prestidigitazione, che non sembra essere una qualità appartenente a questo fedele burocrate e docente universitario cresciuto all’ombra dei Castro. È comunque un’eredità doppiamente difficile da raccogliere quella toccata a Díaz-Canel che ancora non ha potuto mostrare il suo vero volto. In attesa di scoprirlo, la gente si chiede se sia un tecnocrate intransigente che finge di essere un moderato, o un moderato che cerca di rassicurare gli intransigenti sul fatto che non emulerà le gesta di Gorbaciov, ovvero distruggere dall’interno il Partito comunista. Il problema è che le sfide davanti a Díaz-Canel farebbero tremare le vene dei polsi a chiunque: epidemie, carestie, tornadi devastanti causati dal cambiamento climatico, proliferazione indiscriminata dell’uso dei social media in tutta Cuba con la loro carica potenzialmente eversiva nei confronti di un potere obsoleto che potrebbe reagire con un’ulteriore giro di vite. Una stretta che Díaz-Canel, a dispetto del suo atteggiamento gioviale, alla mano, moderno (ricorre ogni giorno a Twitter e a YouTube per diffondere il proprio pensiero) e del suo abbigliamento guayabero, ha già messo in atto. Quando ha aperto il proprio account Twitter, dimenticando la scarsità di cibo che attanagliava l’isola, ha citato l’incipit di un noto discorso di Fidel Castro: “l’uomo ha bisogno di qualcosa di più del pane…. ha bisogno di diritti e libertà”. Parole che hanno provocato battute e meme beffardi e sarcastici di tanti giovani internauti cubani.

Proprio la scorsa settimana, i cubani armati di cellulari hanno registrato un video che è diventato virale online mostrando la folla a l’Avana che insulta ad alta voce Díaz-Canel in seguito all’arresto di un rapper di nome Maykel Osogbo, che è un membro del movimento di protesta di San Isidro. Il probabile nuovo uomo forte di Cuba è sempre stato inflessibile contro i dissidenti, tanto quanto i fratelli Castro. Ma la storia lo giudicherà per le riforme economiche. Alcune le ha già inaugurate. Il problema irrisolvibile, di cui il capo dello Stato è ben conscio, è che non ci saranno mai più “padrini” stranieri che correranno in aiuto dell’economia cubana come l’Unione sovietica e il Venezuela di Chávez.

“L’obiettivo degli Usa è tenere Assange sotto infinito processo”

Nils Melzer ha appena dato alle stampe un libro in tedesco sul caso Julian Assange. Il Fatto Quotidiano gli ha chiesto un’analisi del caso del fondatore di WikiLeaks, che rimane nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh e a cui papa Francesco ha inviato un messaggio personale.

Come mai un Inviato speciale dell’Onu contro la tortura si occupa del caso Assange e ci scrive un libro?

Quando era ancora nell’ambasciata, proprio prima di Natale 2018, il suo staff legale mi contattò. E io cancellai subito il messaggio. Ebbi questa reazione impulsiva: ‘Cosa vuole questo? È uno stupratore, un narcisista, un hacker, non è una cosa seria’. Tre mesi dopo, nel marzo 2019, i suoi avvocati mi ricontattarono, mandandomi il parere medico della dottoressa Sondra Crosby, un grosso nome non associato agli attivisti di Assange. Mi resi conto di avere dei forti pregiudizi, sebbene la mia professione di esperto di diritti umani mi richieda di essere obiettivo. Per esserlo, gli feci visita in prigione e portai con me non un medico, ma due, che non lavoravano per le Nazioni Unite, ma come consulenti della Corte penale internazionale e del Comitato internazionale della Croce Rossa. Passammo quattro ore con lui, lo psichiatra gli fece una visita di due ore. Ognuno di noi separatamente per non influenzarci. Poi ci confrontammo: tutti e tre arrivammo alla conclusione che mostrava tutti i segni tipici delle vittime della tortura psicologica.

Lui le disse: ‘La prego, salvi la mia vita’. Cosa ha in comune con le altre vittime?

La tortura viene usata per molte ragioni. L’esempio classico è l’uso durante gli interrogatori, un altro è la tortura come intimidazione, tipo le milizie che arrivano in un villaggio e stuprano una donna nella piazza, di fronte a tutti per mettere paura alla popolazione. È quello che stanno facendo con Assange. In una società democratica moderna non usano le frustate, ma la tortura psicologica: lo isolano dalla società, lo diffamano, lo umiliano nei media. Ricordiamoci i processi alle streghe nel 17esimo secolo: spogliavano quelle donne, le esibivano in giro per la città e tutti sputavano loro addosso. Con il caso svedese, tutti credono che sia uno stupratore e non è neanche stato rinviato a giudizio.

Ancora lo accusano di essersi sottratto alla giustizia svedese…

Credo che se si è sottratto a qualcosa, si è sottratto all’ingiustizia svedese. Ma ammettiamo che sia vero, a maggio 2019 era nella prigione di Belmarsh, dove si trova ancora, e i magistrati svedesi avevano riaperto l’indagine per stupro. Avevano più di un anno prima della prescrizione. Per anni avevano detto: si nasconde nell’ambasciata, non possiamo rinviarlo a giudizio, perché prima dobbiamo interrogarlo. A quel punto potevano farlo: hanno chiuso l’indagine per mancanza di prove senza neppure interrogarlo.

Che succederà ora che l’estradizione negli Stati Uniti è stata negata dalla Corte inglese di primo grado?

Che è cambiato per Assange? Niente. Rimane in prigione, isolato ed è quello che vogliono. Nessuno lo vuole libero. E la sentenza di primo grado è veramente intelligente dal punto di vista degli Usa. Io sono rimasto colpito. Se il giudice inglese avesse concesso l’estradizione, come tutti si aspettavano, la gente avrebbe iniziato a farsi domande e lo staff legale avrebbe appellato la sentenza portando alla High Court inglese tutti gli argomenti legali: le accuse politicamente motivate, il rischio per la libertà di stampa, le violazioni dei suoi diritti umani. La High Court è molto più indipendente di quella di primo grado e li avrebbe esaminati tutti. E invece il giudice Vanessa Baraitser ha confermato tutto quello che volevano gli Stati Uniti, tranne l’estradizione, perché le condizioni di detenzione negli Stati Uniti potrebbero portarlo al suicidio e sarebbero oppressive. Così facendo ha emesso una sentenza che crea un precedente per cui i giornalisti investigativi possono essere perseguiti come spie. Ora gli Stati Uniti hanno fatto appello e possono offrire garanzie diplomatiche che le sue condizioni di detenzione non saranno oppressive, la ragione per cui l’estradizione è stata negata verrebbe così rimossa. La High Court potrebbe decidere di estradarlo, oppure che, a causa di vizi procedurali, bisogna ricominciare daccapo e ci vorrebbero un altro anno o due. Gli Stati Uniti non hanno fretta: a loro basta che sia in prigione da qualche parte.

E vogliono farlo crollare…

Ovviamente, sperano che a un certo punto si suicidi o abbia un crollo mentale che richieda l’internamento. È una delle possibilità, come lo è che si ricominci dal primo grado e poi gli Stati Uniti presentino un nuovo atto di incriminazione, in modo da tenere Julian Assange in un ciclo giudiziario permanente per altri cinque o dieci anni. Lo vogliono neutralizzato e in silenzio. Per punire lui personalmente, ma soprattutto per mettere paura a tutti, per essere sicuri che nessuno lanci una nuova WikiLeaks e riveli tutti quei segreti. Il messaggio è: “Se mai avrete prove di crimini atroci, non li rivelate, perché se no, vi attende questo trattamento”.

MailBox

 

I cambiamenti in peggio dei Sostegni sulla Naspi

Tra i decreti degli ultimi due governi, oltre al nome, sono anche cambiati alcuni aspetti. Ma in peggio. Infatti, il governo precedente, aveva deliberato la proroga della Naspi, di cui avrei beneficiato, mentre questo governo ha azzerato la proroga e l’ha tramutata nel Reddito di emergenza, inserendo però un tetto massimo, vincolato all’Isee. E questo mi fa arrabbiare. La Naspi è legata ai contributi versati nel tempo e riguarda esclusivamente la mia persona; nel Rem, invece, i parametri inglobano il mio nucleo familiare. Ho provato anche a scrivere al ministro Orlando… natur   almente avrà tante cose da fare, è impensabile che possa rispondere a questa grande ingiustizia.

Costantino Saba

 

Henry John Woodcock, un esempio da seguire

Leggevo l’articolo scritto dal magistrato Woodcock. Se avessimo un 10% di magistrati come lui, sarebbe una giustizia migliore. Ho lavorato al Csm 25 anni e ho conosciuto migliaia di magistrati, ma Woodcock come Forleo, De Magistris, Ingroia, Ardita, Davigo, Scarpinato, sono magistrati seri e hanno pagato di persona le loro convinzioni e l’amore per la giustizia.

C. M.

 

Quanta soddisfazione per la crescita del “Fatto”

Ho letto che il “nostro giornale” è molto apprezzato da tantissimi lettori: quasi un raddoppio fra copie vendute in edicola e abbonamenti digitali. Nel mio piccolo, sono uno dei più vecchi abbonati, quando do un giudizio su una notizia “qualunque” vengo guardato come un marziano. Mi chiedono: ma dove hai preso questa notizia? Io prendo il telefonino, scarico il giornale e ne do lettura. Mentre vado avanti nella lettura mi accorgo della faccia sconcertata degli uditori. È una soddisfazione! Continuate così e buon lavoro.

Gian Domenico Braile

 

Ingiustificato l’attacco di Dalla Chiesa a Murgia

Ho letto con un pizzico di disgusto l’attacco a Michela Murgia da Rita Dalla Chiesa. Credo che la reazione della signora Dalla Chiesa non sarebbe stata così accesa se non fosse che suo padre, anche lui, era un generale in uniforme. Ma lui operava in “guerra” (contro la mafia) da militare. Il suo scatto è dovuto a orgoglio familiare senza alcuna relazione con le parole della scrittrice Murgia.

Giuseppe Mazzei

 

L’elogio dell’Ocse al RdC sparito dalle altre testate

In un battibecco con un amico gli ho spiegato perché leggo Il Fatto, dimostrandogli come fosse stato l’unico quotidiano a riportare l’elogio dell’Ocse al reddito di cittadinanza, neanche accennato dalle altre testate italiane.

Gennaro D’Agostino

 

Forse bisogna ringraziare l’onorevole Anzaldi

Caro Direttore, mi permetta di dare a tutti voi de Il Fatto Quotidiano un consiglio disinteressato. Smettetela di criticare il deputato italovivo Michele Anzaldi. Con tutta la pubblicità che va facendo in giro, inconsapevolmente, al vostro giornale, non dico che dovreste ringraziarlo per non correre il rischio che la smetta in quanto potrebbe accorgersi, perfino lui, che le sue intemerate uscite producono l’effetto contrario a quello che si è prefissato, ma semplicemente ignorarlo. Insomma lasciatelo in pace e tenete a mente l’avviso “Siate prudenti, stiamo lavorando per voi” che l’Anas espone durante i lavori di manutenzione stradale.

Francesco Forino

 

I mesi persi per la crisi e i ritardi sui vaccini

Si parla dei ritardi dovuti al coordinamento del Generale Figliolo, dei giochetti di Big Pharma, del contagio che non finirà perché un anno non è servito a creare una coscienza del fenomeno Covid e di quanto il comportamento di ognuno di noi incida sulla sua permanenza… Consideriamo per un attimo i mesi persi per la crisi di governo voluta da Renzi e €chi gli sta dietro con il centro destra plaudente! …Si comportano come se non fosse cosa loro!

Maurizio Zirillo

L’Italia ha annunciato la neutralità climatica per il 2050. Si spera

In Italia – La pioggia è finalmente tornata dallo scorso weekend, abbondante in Liguria, Toscana e al Nord-Est. Fiumi in piena in Friuli per gli oltre 200 mm d’acqua di lunedì-martedì sulla pedemontana. Proprio martedì un fronte freddo ha innescato temporali con grandine, a Vittorio Veneto come nel Barese, e nevicate a 500 metri tra Trento e Belluno. Nuove gelate al Centro-Nord mercoledì (minime fino a -2 °C), in attesa dell’ulteriore freddo da Est che giovedì e venerdì ha portato altra neve in collina, intensa sulle montagne del Piemonte: notevoli i 58 cm caduti a Balme (1450 m, Valli di Lanzo), ma negli ultimi decenni ci furono precedenti analoghi o superiori, come il 27 aprile 1989 (50 cm), 21 aprile 1990 (80 cm) e 10 aprile 2004 (52 cm). Dopo un esordio troppo caldo, questo mese sta trascorrendo dunque assai fresco, 1 °C sotto media per ora, ma fino a trent’anni fa sarebbe stato normale. L’Ispra ha diramato il nuovo inventario nazionale delle emissioni serra: sono diminuite del 19% dal 1990 al 2019, passando da 519 a 418 milioni di tonnellate annue di Co2 equivalente (da 9 a 7 tonnellate pro capite) grazie a fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Per il 2020 si stima un ulteriore -10% rispetto al 2019, ma solo a causa delle restrizioni Covid, un taglio che si dovrebbe mantenere ogni anno per frenare la corsa verso un mondo rovente e invivibile, non tramite chiusure forzate per una pandemia, bensì con la strategia di decarbonizzazione a lungo termine che, nel quadro dell’Accordo di Parigi, l’Italia ha trasmesso due mesi fa a Bruxelles annunciando la neutralità climatica per il 2050. Speriamo.

Nel mondo – In Europa sono stati giorni più invernali che primaverili, con nuove gelate da -6 °C in Francia e -7 °C in Baviera dopo quelle che il 7 aprile avevano devastato i vigneti. Varie località hanno raggiunto dei record di temperatura minima, ma Météo France ricorda come bruschi raffreddamenti in primavera non siano rari, e cita i casi – simili o ancora più marcati a scala nazionale – dell’aprile 1986 e 1998. Gelo tardivo pure in Alaska e Yukon (-29,5 °C a Whitehorse, primato per questo mese nella serie dal 1942), ma il riscaldamento globale non è andato in vacanza: le temperature della prima metà di aprile nel mondo sono state mezzo grado sopra media, con il contributo del caldo straordinario in Russia (23 °C a Mosca), Turkmenistan (33,8 °C), Senegal (47 °C), Sud Africa (44,8 °C, mai accaduto in aprile nell’emisfero australe) e Nuova Zelanda (30 °C). L’eruzione del vulcano La Soufrière nei Caraibi ha proiettato cenere e biossido di zolfo fino a 18 km di altezza ma, a meno che l’evento si rinnovi per mesi, non ci saranno effetti raffreddanti sul clima come accaduto nel 1991 con il Pinatubo (Filippine). Preoccupa l’evoluzione del gigantesco ghiacciaio Thwaites in Antartide occidentale, noto come “ghiacciaio dell’apocalisse” in quanto la sua completa fusione da sola farebbe salire i livelli marini globali di 65 cm. Grazie a un robot sommergibile un team internazionale di ricercatori ha monitorato per la prima volta le correnti marine sotto l’enorme lingua galleggiante, individuando flussi d’acqua tiepida prima sconosciuti che minacciano di destabilizzare il ghiacciaio al contatto tra oceano e terraferma e accelerarne le perdite di massa (articolo “Pathways and modification of warm water flowing beneath Thwaites Ice Shelf”, su Science Advances). L’ennesimo campanello d’allarme che dovrebbe scuoterci dal torpore, se non vogliamo trovarci tra qualche secolo nello scenario che Telmo Pievani e Mauro Varotto descrivono con originalità in Viaggio nell’Italia dell’Antropocene (Aboca edizioni), dove la geografia del Bel Paese è stravolta dal mare salito di 70 metri per la fusione di tutto il ghiaccio mondiale.

 

Il mistero del risorto. Senza il dubbio non ci sarebbe una vera scelta umana

I discepoli di Gesù discutevano. Due di loro lungo la strada per Emmaus avevano riconosciuto il Maestro nello spezzare il pane, ma l’impressione leggendo le righe del Vangelo di Luca (24, 35-48) è di una confusione: com’è possibile incontrare per strada quel Gesù che era stato ucciso? Mentre i discorsi si accavallavano, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. E i discepoli? Ci dice Luca: Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma.

Gesù dice “pace” e i discepoli hanno paura. L’incontro col Signore, a livello di sentimenti profondi, può essere come lo scontro di due biglie. Lui è pace e noi abbiamo paura. Perché? Gesù lo capisce e chiede: “Perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”. È proprio il dubbio che impedisce alla paura di sciogliersi nella pace. Ma d’altra parte senza il dubbio l’umanità dei discepoli, con i loro veri sentimenti, non avrebbe incontrato il Signore. La scena evangelica si sarebbe risolta in un colpo di scena pirotecnico. Il dubbio tutela il mistero di questo straordinario incontro con Gesù risorto. Non bisogna avere paura del dubbio nei momenti chiave della vita, perché senza dubbio non ci sarebbe, forse, una vera scelta umana, una vera adesione del cuore. Ci sarebbe l’ideologia non la fede, la fiducia, che è appunto il superamento umano del dubbio.

I dubbi dei discepoli hanno a che fare con la reazione dei sentimenti profondi scatenati nei discepoli dalla sua presenza. E allora semplicemente Gesù si mette a disposizione. Non per spiegare, ma per mostrarsi fisicamente: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Il dubbio su un amore umano non è mai sciolto da convincimenti basati su discorsi, ma sulla presenza, sui gesti, sul modo di essere presenti gli uni agli altri. Gesù lo sa.

Ma ecco che la reazione dei discepoli è iperbolica: dalla paura incapace di ricevere la pace, essi adesso “per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore”. La gioia li stupisce e li rende incapaci di credere! Se chiudiamo gli occhi possiamo vederli. Passano dalla tana alla vertigine. E allora Gesù li asseconda in un discorso amoroso sottile, quasi ironico. Gesù dice: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

Ai discepoli non basta guadare, vederlo, riconoscere la forma delle mani e dei piedi, dei muscoli e delle ossa. Non basta neanche rispondere all’invito di Gesù a toccarlo. Se il vedere è un atto contemplativo e implica la distanza, il tatto annulla le distanze, ed è anche appropriativo: hai l’altro “in mano”. Gesù non teme di farsi possedere dallo stupore (o dall’incredulità) dei discepoli. Toccare per possedere si fonda proprio su una radicale incertezza. Gesù si abbandona ai suoi discepoli. Si mette nelle loro mani. Ma anche questo non basta. E allora Gesù che fa? Decide di farsi servire da mangiare. Il pasto è il momento della condivisione, dello stare insieme. Ai discepoli richiama i pasti consumati insieme a Gesù e il banchetto dell’Eucarestia. E il cibarsi è un atto di fisicità estrema: il corpo entra in relazione con ciò che è fuori di sé per nutrirsene. È un gesto di relazione piena col mondo. Si compie qui il realismo profondo di questo brano evangelico fatto di guardare, toccare, mani, piedi, mangiare…

Perché tutta questa fisicità in un racconto di resurrezione, di luce? Per abolire ogni immaterialità misticheggiante, per dire con chiarezza che Gesù risorto non è un fantasma separato dall’umanità. La missione dei discepoli si fonda proprio sulla carne di Cristo.

 

 

Il san giacomo emblema del disastro sanitario

Ricordo la clamorosa discussione (più di un’ora in strada, a Roma, davanti all’Ospedale San Giacomo) con il presidente della Regione Lazio Marrazzo che aveva appena annunciato (2011) la chiusura ed eliminazione di quella istituzione ospedaliera attiva e unica da cinquecento anni nel centro storico della Capitale. Era evidente che il capo politico e amministrativo del Lazio non sapeva nulla delle istituzioni della sua capitale, della loro storia, del ruolo acquisito nei secoli, del rapporto con la città.

Non sembrava rendersi conto che il San Giacomo era l’unico grande ospedale al centro dell’intera grandissima area detta “il Centro storico”, né del formarsi di qualità mediche e gruppi di specializzazioni cliniche acquisite nel tempo, anche in base alla storia e alla dislocazione. Marrazzo sembrava non sapere che la donazione cinquecentesca del Card. Salviati alla città di Roma conteneva, con grande anticipo visionario, due princìpi dismessi e vilipesi dalla gestione della Sanità italiana degli ultimi decenni: il primo è che i privati donano, non incassano, per la sanità della loro città. Il secondo è che c’è un rapporto fra salute e quartiere e fra il quartiere e la città , che il Cardinale Salviati aveva visto nel 1562, e che continua a essere ignorato (Roma è solo un triste esempio, pensate alle avventure della pandemia fra Crema, Cremona e Bergamo). In altre parole i “pezzi” della sanità vengono mossi, spostati, cancellati o “tagliati”, senza alcun rapporto con ciò che sono, ma solo per figurare tra chi sa ridurre le spese e dimostra di saper risparmiare soldi pubblici e tra i grandi privati che vogliono comprare ospedali a condizioni convenienti. Questo secondo giochetto non è riuscito a carico del San Giacomo, perché si tratta di un palazzo di grande qualità architettonica, e il donatore conosceva bene la sua città: ha posto nelle carte di donazione la condizione che l’edificio fosse restituito alla famiglia nel momento in cui fosse cessato l’uso dell’edificio come ospedale.

Ora è accaduto che la famiglia Salviati, tutt’ora una importante presenza a Roma, abbia impugnato la decisione di Marrazzo di liberarsi di un grande ospedale da poco rinnovato in tutta la sua tecnologia, ottenendo dal Consiglio di Stato l’annullamento della decisione. Ma i Salviati non chiedono il palazzo, che non è più ospedale ma grande tana di piccioni e gabbiani.

Vogliono l’ospedale, come tutti i cittadini del Centro storico, e secondo quanto detto esplicitamente nel lascito del Cardinale. Danni gravissimi potranno essere riparati (l’edificio); altri restano irrimediabili, come la perdita di tutte le tecnologie in settori chiave dell’ospedale (terapia intensiva, ortopedia, cardiopatie) e con uno speciale primato per le dialisi, anche a confronto con le più recenti sperimentazioni in Europa. Al tempo della chiusura (2011), tutto il nuovo materiale acquisito e installato nel 2010 è andato disperso fra vari ospedali (generali o con altre specializzazioni, che non ne avevano fatto richiesta o non avevano il posto e l’uso). Ma un danno ancora più grave è stata la dispersione dei medici e degli infermieri che per anni avevano imparato, insegnato e lavorato insieme. Ma il San Giacomo, grande ospedale bene attrezzato in zona strategica, insegna, con la sua vicenda e la sua chiusura ora dichiarata illegale, un’altra lezione. I cittadini devono ricordare che, nelle elezioni cittadine e regionali, scelgono ed eleggono due diverse persone, benché credano di votarne una sola.

Una è il candidato politico di cui scelgono partito, persuasioni, programmi, di cui, alla proclamazione, si celebra la vittoria, come avesse vinto un partito e un’idea. L’altro è l’uomo o la donna che diventerà l’ufficiale esecutore di una serie di progetti mai discussi e mai inclusi in alcun programma, mai dibattuti in alcun confronto, a cui vengono perentoriamente richiesti ed eseguiti (per ragioni che ci dirà, molto dopo, qualche inchiesta giudiziaria e a volte non sapremo mai, salvo dicerie e dubbi).

Questo sdoppiamento ci spiega molto dei cambiamenti improvvisi degli eletti, che ci sembra di non riconoscere. Non ci spiega nulla di un meccanismo che, più o meno, sembra funzionare sempre. A questo misterioso cambiamento di comportamento la sanità locale ha pagato e paga un prezzo molto grande. È straordinariamente ricca e straordinariamente debole e dunque esposta a variazioni arbitrarie. Occorre spiegare presto al presidente Draghi che non esistono i “salta-fila”: esistono coloro che preparano tutto per il salto. Nessuno può mettersi davanti da solo. Ma c’è chi provvede. E poi, se è il caso e senza far nomi, denuncia. O è così ingenuo che si autodenuncia.

Il mendicante in fiera, il mantello magico e la generosità di Leo

Dai racconti apocrifi di Colette. C’era una volta una coppia di poveri contadini che aveva tre figli: Gaston, Bernard e Leo. Abitavano tutti in una catapecchia presso un fiumiciattolo, circondata da peri che davano frutti dolci e succosi. Gaston e Bernard erano prestanti e scorbutici, Leo aveva una piccola gobba e un animo buono. Un giorno, il padre fece raccogliere ai figli due sacchi di pere e mandò Gaston al mercato per venderle. Lungo la via, Gaston incontrò un vecchio mendicante cencioso, che gli chiese cosa avesse nei sacchi. Gaston lo apostrofò con disprezzo: “Sono pieni di merda, se proprio vuoi saperlo”. Il vecchio disse: “Non ti darò del bugiardo”. Quando Gaston arrivò al mercato, i garzoni reali gli si avvicinarono con le loro ceste: lui svuotò un sacco in una cesta, ne uscì una valanga di merda. Appresa la notizia, il re si infuriò, e fece dare 100 scudisciate al fellone. Gaston tornò a casa tutto dolorante, e dalla vergogna filò a letto senza dare spiegazioni.

Il mattino dopo, il padre inviò al mercato Bernard, con altri due sacchi di pere da vendere. Al vecchio mendicante, Bernard rispose con disprezzo: “Sono pieni di sassi”. “Non ti darò del bugiardo”, disse il vecchio. Al mercato riempì di sassi una cesta dei garzoni reali, e il re gli fece dare 200 scudisciate. Anche Bernard tornò a casa tutto dolorante, e filò a letto senza dare spiegazioni. Il mattino dopo, il padre inviò al mercato Leo con le pere. Al vecchio mendicante, Leo rispose: “Oh, questi due sacchi sono pieni delle pere più dolci e succose che tu abbia mai visto. Permettimi di offrirtene qualcuna”. E gliene diede una dozzina. Il vecchio gli prese la mano: “Ecco: d’ora in poi, ogni cosa su cui poggerai la tua mano ti dirà la verità”. Poi regalò a Leo la sua veste: era lurida e piena di buchi, ma Leo accettò per accontentarlo. Il vecchio gli disse: “Se mai avrai bisogno di qualcosa, cerca nelle tasche”. I garzoni reali, stavolta, tornarono alle cucine con le ceste piene delle pere più buone del mondo, e il re si leccò le labbra. Col ricavato, Leo comprò un cavallo e un carro, che colmò di cose buone da mangiare: a casa si fece una gran festa. “E potrebbero essermi rimasti ancora dei soldi”, disse Leo, dopo che ebbe finito di raccontare la sua storia incredibile: e, infilata una mano nella tasca della veste sudicia, ne estrasse una banconota da 100 franchi. E poi un’altra. E un’altra ancora.

“Siamo ricchi!” esclamò. Dopo aver sistemato i suoi genitori e i suoi fratelli in una bellissima fattoria, Leo decise di andare in città a sposarsi. Comprò una bellissima villa con un parco monumentale, assunse della servitù e presto divenne famoso perché aiutava con la sua carità tutti i poveri. Il re lo venne a sapere e si incuriosì. “Deve essere più ricco di me. E io ho tre figlie da sposare”. Convocò Leo a reggia, gli presentò le sue bellissime figlie, e gli chiese di scegliere in sposa quale gli piaceva di più. Leo posò la mano sul monte di Venere della prima e chiese: “Chi è già stato qui?”. “L’intero reggimento dei cavalleggeri reali”, risposero le labbra occulte. Fece lo stesso con la seconda: “Chi è già stato qui?”. “L’intero reggimento dei cavalleggeri reali”, risposero anche quelle. Leo fece lo stesso con la terza: “Chi è già stato qui?”. Ma quelle labbra non rispondevano. Leo allora posò la sua mano sul sedere della ragazza: “Perché davanti non rispondono?”. “Perché hanno passato la notte con l’intero reggimento dei cavalleggeri reali, e sono esauste”, rispose il buco del culo. La corte esplose in una risata fragorosa, e il re, infuriato, chiuse le figlie in convento. Leo diventò il consigliere più fidato del re. E a letto la regina era una bomba.

Riaperture, sei domande a Draghi

 

“Questo rischio calcolato si fonda su una premessa: i comportamenti siano osservati scrupolosamente, con mascherine e distanziamenti”.

Mario Draghi

 

Nell’attesa, speriamo breve, che sia reso pubblico il testo del decreto con le misure annunciate venerdì da Mario Draghi, ecco alcune domande sul nostro futuro prossimo a cui, riteniamo, il presidente del Consiglio dovrebbe dare le attese risposte.

1. “L’Italia apre. Si riparte dal 26 aprile” (“Repubblica”). “L’Italia riapre” (“Corriere della Sera”). “Draghi riapre l’Italia” (“La Stampa”). È davvero questo il messaggio che intendeva comunicare agli italiani? L’annuncio di un liberi tutti trasmesso direttamente da Palazzo Chigi, sede del potere esecutivo che assume in sé la responsabilità delle decisioni? È così che va inteso il contenuto della sua conferenza stampa? Ma se invece (come speriamo) lei considera questa comunicazione come fuorviante e pericolosa, non pensa che una pronta correzione sia indispensabile prima che il Paese vada a sbattere? Visto che già ieri, all’ora di pranzo, anche non lontano da Palazzo Chigi, bar, tavole calde, mescite e altri esercizi pubblici erano meta di assembramenti spensierati?

2. Con il “si riparte dal 26 aprile” si deve intendere che le riaperture si estenderanno nel tempo senza soluzione di continuità? E dunque anche all’imminente ponte del Primo maggio, quello che va da venerdì 30 aprile a domenica 2 maggio? Festa come sappiamo destinata tradizionalmente a spiagge, picnic e scampagnate, sembra quest’anno favorite da un clima mite. Vale cioè la novità del virus refrattario all’aria aperta? O in queste giornate particolari si potrebbe tornare prudenzialmente alle zone rosse, come avvenuto per le festività di Natale e di Pasqua? In ogni caso non sarebbe stato meglio “ripartire” da lunedì 3 maggio per evitare ancora una volta la diffusione di messaggi contraddittori?

3. Non ritiene che alle preoccupazioni sulle riaperture (mentre contagi e decessi non accennano a calare in misura rassicurante) espresse dai più autorevoli infettivologi in trasmissioni di grande ascolto (a cominciare dal professor Massimo Galli, venerdì sera a “Otto e mezzo”) si debbano dare risposte altrettanto circostanziate per non ingenerare altro disorientamento nell’opinione pubblica?

4. Affidarsi al senso di responsabilità dei cittadini sull’uso delle mascherine e i necessari distanziamenti è giusto. Ma non ritiene al contempo indispensabile un piano massiccio e particolareggiato per intensificare i controlli? Il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, dirà qualcosa in proposito? Evitando possibilmente le grida manzoniane prive di effetti concreti, a cui troppi hanno fatto l’abitudine? Anche perché non si accusi il governo (come già qualcuno fa) di scaricare sui cittadini una eventuale, malaugurata recrudescenza della pandemia?

5. A questo proposito lei ha detto che “la possibilità che si ritorni indietro è molto bassa”. Lo speriamo tutti ardentemente. Ma sia pure con la dovuta cautela, l’ipotesi di un piano B di parziale rientro dalle ripartenze non sarebbe il necessario deterrente per frenare i facili e irresponsabili entusiasmi alimentati dalla politica del mojito?

6. Per restare in argomento, non ritiene che il premier debba dire qualcosa di molto severo sulla disgustosa propaganda di Matteo Salvini che a colpi di tweet balla sulla salute degli italiani, come se fosse al Papeete Beach?

 

Pérez si defila, per Aspi resta Cdp

Dal crollo del Ponte Morandi sono passati 32 mesi in cui abbiamo scoperto con dovizia di particolari quel che sapevamo già mentre si contavano morti e feriti: Autostrade per l’Italia non aveva fatto le manutenzioni che avrebbe dovuto.

Per sapere, invece, se finirà la telenovela sul cambio di proprietà di un’azienda che è stata più attenta agli utili dei suoi azionisti che alla sicurezza dei suoi clienti bisognerà probabilmente aspettare un altro mese ancora, ma la dinamica della partita s’è fatta più chiara con l’arrivo della seconda lettera ad Atlantia di Florentino Pérez, patron del gruppo spagnolo Acs: Pérez, che ha avuto accesso alla data room di Aspi (all’ingrosso, i conti), ha fatto sapere di non avere intenzione di avanzare un’offerta contro quella di Cassa depositi e prestiti, cioè del governo italiano, ma semmai ambisce a un ruolo da socio di minoranza accanto a Cdp (allo scopo dispone di 4,9 miliardi di liquidità dopo la vendita di alcune attività ai francesi di Vinci).

Esce di scena, insomma, il secondo compratore, che però ha avuto un ruolo preciso: fissare un prezzo, o meglio una forchetta di prezzo, che oscilla tra 9,5 e 10 miliardi, assai più di quel che Aspi vale a bilancio, ma meno di quanto pretenderebbero alcuni azionisti (ad esempio il fondo Tci). Al momento, in campo c’è dunque solo la cordata Cdp, Macquarie e Blackstone (al netto di annunci mai concretizzati del gruppo Toto e degli americani di Apollo), la cui offerta vincolante per l’88% di Autostrade scade il 28 maggio. La questione adesso è come portare quella proposta nella fascia bassa del prezzo indicato da Pérez: in sostanza ai 9,1 miliardi messi sul tavolo da Cassa depositi e soci si tenta di aggiungere 400 milioni di cosiddetti “ristori Covid” per la diminuzione del traffico che il governo dovrebbe accordare alle società autostradali. Così si arriva appunto a nove miliardi e mezzo.

La tempistica sarà questa: il cda di Atlantia farà l’ultima valutazione dell’offerta venerdì prossimo (23 aprile) e potrà convocare poi un’assemblea ordinaria dei soci per votare, procedura che richiede un mese. Dal 24 al 28 maggio, insomma, gli azionisti Atlantia diranno sì o no a Cdp: serve la maggioranza semplice, dunque il fronte del sì deve trovare un alleato tra i fondi esteri e per riuscirci, come detto, ha bisogno che l’offerta almeno sfiori la valutazione di Pérez: Benetton e Fondazione Crt dispongono del 35% del capitale che all’ultima assemblea ha pesato per il 48% dei voti validi (non tutti i soci vanno in assemblea).

E qui c’è l’ultimo problema. Ovviamente quanti “ristori Covid”, e come distribuirli, lo decidono governo e Autorità dei Trasporti. L’ultima ipotesi è che, se da un lato Cdp e soci si impegnano a garantire comunque l’arrivo dei 400 milioni agli azionisti uscenti, dall’altro le istituzioni pubbliche garantiranno alla “nuova” Aspi (e a tutte le altre società concessionarie) un aumento del cosiddetto price cap: in sostanza tariffe più alte, così saranno gli automobilisti a pagare ai Benetton e agli altri soci gli ultimi 400 milioni per andarsene.

Salerno-Reggio: 11,2 miliardi per risparmiare mezz’ora…

Attorno alla “riscrittura” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo Draghi accadono cose strane. E le più strane di tutti riguardano i progetti dell’Alta velocità ferroviaria. Nel Pnrr il capitolo AV vale quasi 20 miliardi, ma altri ne arriveranno dal fondo complementare in deficit da 30 miliardi pensato dall’esecutivo per finanziare quanto non può entrare nel piano perché incompatibile con i tempi (lavori da concludere entro il 2026). Al primo posto, promettono il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini e il premier Mario Draghi, c’è l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria, ma si fantastica anche della Roma-Pescara. Viene il sospetto che il “fondo complementare” nasca proprio per questo.

Funziona così: il Recovery Fund Ue promuove la transizione ecologica, l’Italia fa rientrare l’AV nella “mobilità sostenibile”, Bruxelles acconsente. Eppure i mega progetti lasciano perplessi: il ministero sta discutendo della più grande opera infrastrutturale della storia d’Italia per inserirne una parte nel Pnrr senza che nessuno ne conosca i contorni. Prima di Pasqua, Giovannini ha spedito in Parlamento il progetto di “fattibilità tecnico-economica” redatto da Rfi, la controllata delle Ferrovie per la rete. “I primi risultati della progettazione – ha detto – assumono un evidente significato storico per un’opera che contribuirà sensibilmente a ridurre il gap infrastrutturale del Mezzogiorno”. Il progetto è mastodontico, va dai 450 ai 530 km, a seconda delle alternative progettuali, per un costo dai 23 ai 29 miliardi. La soluzione consigliata dai tecnici è quella “autostradale”, vale oltre 450 km e per quasi metà è composta da gallerie perché il tracciato parte da Battipaglia, passa per Praja e procede per Tarsia e le aree interne, in sostanza “bucando” l’Appennino calabro per un costo di quasi 25 miliardi sulla carta (senza contare quelli ambientali).

Il progetto non prevede un’analisi della domanda di traffico, né previsioni di offerta (quanti treni? quali località servite?), né un’analisi costi-benefici. Dei 6 lotti, i tecnici ritengono prioritari solo i numeri 1 e 2 (Battipaglia-Praja e Praja-Tarsia): costo 11,2 miliardi, tempo richiesto almeno 10 anni. Il risparmio di tempo con la nuova linea AV per far viaggiare i treni a 300 km orari sarebbe di 30 minuti in direzione Reggio Calabria (90 minuti dal lato ionico e verso Cosenza). Gli altri 4 lotti fino al capoluogo non sono prioritari, anche perché di fatto non garantiscono concreti risparmi di tempo.

Una linea del genere avrebbe verosimilmente un traffico modesto. Non è un caso che l’allegato al Def dell’autunno 2020, “Italia Veloce”, preveda il potenziamento della linea esistente (“Alta velocità di rete”) sufficiente a collegare Reggio a Roma in 4 ore e 10 minuti, al costo di qualche centinaio di milioni, e un “upgrading” delle linee verso Potenza e Taranto.

Fonti tecniche del ministero confermano che il progetto consegnato al Parlamento è il riferimento dei piani del dicastero e sarà sottoposto “al dibattito pubblico e alle metodologie di valutazione dell’investimento come previsto dalla disposizione vigente. Seguirà il progetto di fattibilità completo che include previsioni di traffico, di esercizio e di valutazione”. Ma allora perché si ragiona su un progetto prima di avere una stima della domanda, dell’offerta e dei costi ambientali? Quanta parte verrà finanziata nel Pnrr o nel fondo complementare? Giovannini ha detto di non poter ancora dare queste informazioni. Stando a quanto filtra si lavorerebbe sul Lotto 1 “articolato in sub-lotti funzionali”. Una parte sarà finanziata con risorse nazionali o altre risorse europee: “Con le risorse del Recovery potranno essere finanziati i lotti funzionali che saranno in esercizio entro il 2026”, filtra dal ministero. Il lotto 1 “Battipaglia-Praja” vale 6,3 miliardi (quasi il doppio del Tav Torino-Lione) e per completarlo si ipotizza servano almeno 10 anni per un guadagno di tempo di 30 minuti.

C’è poi un’anomalia. Secondo il ministero il progetto non dovrà passare dall’approvazione del Cipe, il Comitato per la programmazione economica, come fosse il potenziamento della linea esistente e non una nuova rete. Non solo. Nel decreto con cui nei giorni scorsi Giovannini ha nominato 29 commissari “modello Genova”, ne è previsto uno per realizzare la tratta AV Salerno-Battipaglia (1,8 miliardi) che di questo mega-progetto è di fatto il Lotto 0, ritenuto non prioritario dai tecnici perché non si sa come attraversare Salerno (e in città sul tema già si litiga): taglierebbe di altri 15 minuti i tempi. Il lotto “7” invece, il completamento logico della Salerno-Reggio, ha un nome famoso: è il Ponte sullo Stretto, che resuscita di nuovo, ancorché in prospettiva (e Pietro Salini e la sua causa allo Stato godono).

L’altro grande progetto che dovrebbe ricevere soldi dal “fondo complementare” è la Roma-Pescara, una linea completamente nuova (7 miliardi), che però sembra ancora meno probabile. Sarà così? Magari no, ma lo scopriremo solo quando verranno svelati il Pnrr e il fondo complementare, poco prima che il tutto, blindato, venga spedito a Bruxelles.