Superbonus, così può diventare più green

Consiste in una detrazione del 110% che si applica sulle spese per interventi di efficientamento energetico o di adeguamento antisismico sostenuti da luglio 2020 a giugno 2022, in attesa che il Recovery Plan ne proroghi la scadenza fino al 2023. È il Suberbonus, l’incentivo più alto al mondo per questo tipo di interventi, un’opportunità unica per rilanciare i cantieri e consentire a tutte le famiglie di tagliare le bollette, riqualificare le case e, soprattutto, mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Tutto pagato dallo Stato. Un bazooka che, però, avrebbe bisogno di qualche aggiustamento per renderlo “un’occasione vera per ridurre i consumi energetici e sostenere il futuro green delle costruzioni”, come chiedono Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, e Alessandro Genovesi, segretario degli edili Fillea Cgil. Le due organizzazioni hanno così lanciato un loro manifesto, articolato in 4 proposte, per superare alcuni limiti e criticità riscontrati nel Superbonus che, secondo gli ultimi dati Enea, ha portato all’apertura di oltre 10mila cantieri per un valore totale dei lavori che ha superato il miliardo di euro.

Semplificazione. Per Legambiente e Fillea si devono, in primis, facilitare le opere di riqualificazione. Per legge solo due interventi trainanti – cappotto termico e la sostituzione delle caldaie – fanno scattare il megabonus, estendendolo anche agli altri lavori all’interno delle abitazioni. Mentre la misura dovrebbe premiare tutti gli interventi di riduzione dei consumi energetici così da riqualificare e regolarizzare la maggior parte delle abitazioni che risalgono al secondo dopoguerra, ma che nel corso degli anni hanno subìto micro-modifiche strutturali.

Proroga. La richiesta è di allungare la scadenza del Superbonus al 31 dicembre 2025, consentendo l’accesso alla maxi-detrazione agli interventi che riducono le prestazioni di almeno il 50% o che consentono di far raggiungere la classe A di prestazione energetica. Ma dovrebbero rientrarvi anche gli interventi di sostituzione di impianti di riscaldamento da fonti fossili con pompe di calore o impianti da fonti rinnovabili anche ibridi a emissioni zero e quelli che eliminano le barriere architettoniche.

Credito. Legambiente e Fillea chiedono di costituire un Fondo di garanzia per il credito a tasso agevolato rivolto a famiglie e imprese che realizzano gli interventi, così come è stato già fatto negli altri Paesi Ue che prevedono interventi di miglioramento del patrimonio edilizio. Un fondo che permetterebbe anche ai nuclei a basso reddito di accedere al credito presso banche e Poste con un prestito spalmato su 10 anni, anche senza cessione del credito, così da facilitare l’attuale iter burocratico.

Formazione. E proprio per snellire anche la fase dei lavori, Fillea e Legambiente propongono di riconvertire ogni anno almeno 20-30 mila operai e impiegati già presenti nel settore e far accedere al mercato 10-15 mila giovani tecnici anche attraverso gli istituti tecnici e professionali, con l’inserimento di profili specifici. Attualmente, spiega Genovesi, “mancano oltre 40/50 mila lavoratori professionalizzati nel settore delle costruzioni, di cui 20 mila nella fascia alta dei tecnici, e il rischio è di non cogliere fino in fondo le potenzialità sia ambientali che occupazionali connesse al Superbonus e al Recovery Plan”.

Pagato in contanti? Sorpresa: di’ addio alle detrazioni fiscali

Un’incognita da oltre un miliardo pende sulla testa (e sulle tasche) di milioni di contribuenti che rischiano di vedersi negare il rimborso di una quindicina di sconti fiscali nella dichiarazione dei redditi. Nei prossimi 730 o Redditi (l’ex Unico) non ci saranno milioni di spese che consentono la detrazione del 19% come, ad esempio, quelle sanitarie presso liberi professionisti, i dentisti, l’asilo nido, la palestra per i figli o i premi per le polizze infortuni, vita o per l’abbonamento ai mezzi pubblici. Il motivo? L’ultima legge di Bilancio ha introdotto l’obbligo, a partire dal 1° gennaio 2020, di utilizzare sistemi tracciabili (bancomat, carta di credito, carte prepagate, assegno, versamento bancario o postale) per i pagamenti di queste spese. Una di quelle cosiddette rivoluzioni fiscali rimaste però sottotraccia e di cui poi si sono perse le tracce.

Così lo scorso anno, spiegano dalla Consulta dei Caf che ha lanciato l’allarme, la maggior parte dei contribuenti avrebbe continuato a pagare queste spese in contanti, precludendosi ora la possibilità di scaricarle nella dichiarazione dei redditi. Unica eccezione riguarda le spese per l’acquisto di medicinali e dispositivi medici acquistati in farmacia e per le visite mediche presso strutture pubbliche o accreditate, che si possono continuare a pagare in contanti.

“Molte persone – spiega Giovanni Angileri, coordinatore della Consulta nazionale dei Caf – anche a causa dell’insufficiente pubblicità data a questo obbligo, ne hanno ignorato l’esistenza continuando a fare pagamenti cash per tutte le spese interessate. Si tratta soprattutto di contribuenti appartenenti alle fasce più deboli del Paese, che per ragioni anagrafiche e culturali sono meno abituate all’utilizzo della moneta elettronica”. Ma non solo. L’Italia, in attesa del potenziamento del piano Italia Cashless – su spinta del Cashback o della lotteria degli scontrini – resta di fatto un’economia basata sui contanti ed è tra le 35 peggiori economie al mondo per incidenza del contante sul Pil (11,8%). A dimostrazione che anche i contribuenti più giovani ora rischiano di veder sfumare la detrazione se non hanno pagato con carte, bonifici o assegni le spese che consentono la detrazione. Una situazione, insomma, potenzialmente esplosiva resa ancora più complicata dalla sua genesi politica. Allora meglio fare un passo indietro.

Quando a gennaio 2020 è diventato obbligatorio il pagamento tracciabile, il governo aveva lasciato intendere che la sua entrata in vigore sarebbe slittata al primo aprile. Tanto che era stato già presentato un emendamento da inserire nel Milleproroghe. Ma poi non se n’è fatto più nulla. E, complice lo scoppio della pandemia, della novità nessuno ha più parlato. Insomma, non c’è mai stato il tempo necessario per prendere confidenza con la novità che ora farà perdere il beneficio della detraibilità delle spese a milioni di contribuenti. Ma l’effetto più rilevante si avvertirà sul bonus per le spese sanitarie. Per capirne l’entità, basta osservare gli ultimi dati inseriti nella dichiarazione precompilata 2019 dall’Agenzia delle Entrate: sono 18,6 milioni gli italiani che hanno presentato richiesta di detrazione per farmaci, visite, esami e così via. E poi, ci sono anche gli abbonamenti al trasporto pubblico locale o per lo scuolabus, le spese di istruzione scolastica e universitaria compresi i canoni di locazione degli studenti fuori sede, le rette per l’asilo nido, le spese per le attività sportive dilettantistiche praticate dai ragazzi di età compresa tra 5 e 18 anni, le spese per l’agenzia immobiliare per l’acquisto di casa o quelle del veterinario.

È in questo scenario che la Consulta ha chiesto al ministro dell’Economia Daniele Franco una deroga, per il solo 2020, all’obbligo dei pagamenti tracciabili come condizione per avere diritto alla detrazione del 19%. La richiesta è stata formalizzata due settimane fa con l’invio di una lettera che è ancora senza risposta. Il ministero starebbe pensando di inserire la deroga in un emendamento al decreto Sostegni che si trova in discussione al Senato o nel dl Sostegni bis che arriverà a maggio. Ma se anche il Tesoro decidesse di assecondare la richiesta dei Caf, senza un’adeguata campagna informativa il prossimo anno si creerà lo stesso caos fiscale.

La nuova Ilva parte con la lite sui conti 2020: è solo l’inizio

Per ora siamo alle scaramucce, ma danno l’idea che il passaggio dall’Ilva di ArcelorMittal a quella a guida sostanzialmente pubblica non sarà indolore. Arrivato nei giorni scorsi il primo assegno da 400 milioni, che sancisce l’ingresso di Invitalia nel gruppo siderurgico al 50%, nel cda di venerdì mattina la multinazionale voleva subito adeguarsi al nuovo assetto: consiglio da sei membri, tre dei quali nominati dalla società pubblica (l’ex Eni e Telecom, Franco Bernabè, che sarà presidente, Stefano Cao in uscita da Saipem e Carlo Mapelli del Politecnico di Milano). Il sottotesto di questa accelerazione è che sarebbe stato il nuovo cda a dover approvare il bilancio 2020. L’operazione è stata però bloccata con una telefonata a metà mattinata dall’Ad di Invitalia, Domenico Arcuri, che – raccontano fonti qualificate – ha fermato tutto anche dopo aver ricevuto pressioni in tal senso dallo stesso presidente in pectore Bernabè. Risultato: la nomina del nuovo cda è slittata “a data da destinarsi” e l’azienda fa sapere che per l’approvazione del bilancio 2020 non c’è alcuna fretta, visto che il limite di legge – causa pandemia – è stato spostato al 30 giugno. Anzi, prima di procedere, il cda intende aspettare la sentenza del 13 maggio con cui il Consiglio di Stato deciderà se l’Ilva di Taranto può restare aperta o deve invece spegnere l’area a caldo (il ricorso è stato presentato dal sindaco Rinaldo Melucci).

La scaramuccia di venerdì mattina è solo l’inizio della coabitazione forzata tra i soci pubblici, ArcelorMittal e il suo management, in testa l’Ad Lucia Morselli: il sospetto è che nei conti 2020 ci siano numeri pesanti, che potrebbero spingere Invitalia a rinegoziare la seconda parte dell’accordo (altri 680 milioni a maggio 2022 per arrivare al 60%) per accelerare la presa del gruppo siderurgico che la multinazionale sta lasciando morire lentamente (l’importante, come Il Fatto scrive da anni, è che non finisca alla concorrenza). Nei prossimi mesi anche il governo dovrà schierarsi.

Le famiglie dei carabinieri a rischio sfratto. In 150 finiti nel calderone dei piani di zona

Una vita a combattere la criminalità nelle periferie della Capitale. Sacrifici ricompensati con lo sfratto, a causa di un vuoto normativo e di qualche interesse privato. Sono almeno 150 le famiglie appartenenti alle forze dell’ordine – in maggioranza carabinieri – che nei prossimi mesi rischiano di essere mandate via dagli alloggi assegnati loro a canone calmierato in tre quartieri di Roma. Mazzalupo Boccea, Tor Vergata Ter e Torresina2, i nomi dei cosiddetti “piani di zona” in questione, complessi abitativi che sorgono nella periferia della Capitale, realizzati negli anni 90 da altrettante cooperative edilizie, in convenzione con il Comune di Roma e, in questo caso, dai ministeri della Difesa e delle Infrastrutture.

Cosa sta succedendo? Come detto, la caratteristica di queste abitazioni è che, per contratto, gli assegnatari pagano un affitto calmierato, ben al di sotto dei canoni di mercato “al fine di tener conto delle finalità sociali”, trovandoci di fronte a esponenti delle forze di polizia. Ovviamente, non si tratta di abitazioni di pregio, ma di case normalissime, fra l’altro posizionate in zone servite poco e male dai mezzi pubblici. Il problema è che per le assegnazioni avvenute prima del decreto 185 del 2014 (meglio noto come decreto Lupi), c’è l’impossibilità da parte degli assegnatari di acquistare gli alloggi. D’altro canto, le recenti normative che hanno regolato la compravendita di immobili la cui proprietà reale è del Comune consentono agli intestatari del diritto di superficie – in questo caso le cooperative – di vendere a terzi a prezzo di mercato, sottraendo solamente il costo della procedura burocratica definita “affrancazione”. Ed ecco l’inghippo. I costruttori, in pratica, negli anni 90 hanno incassato gli incentivi pubblici alla costruzione, nei successivi due-tre decenni hanno riscosso i canoni delle famiglie assegnatarie e ora puntano al massimo guadagno, non rinnovando i contratti (che scadono nel 2022) a chi vi ha abitato finora e vendendo a prezzi di mercato.

I comitati degli inquilini in queste settimane si sono mossi. Sono arrivate missive alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, all’assessora regionale del Lazio, Roberta Lombardi e anche alla Procura di Roma. I pm capitolini hanno aperto un’inchiesta per truffa, denunciando che le società non si occupano nemmeno della manutenzione ordinaria degli edifici e delle spese ordinarie. Il rischio è che a breve i militari si vedano eseguire lo sfratto dai loro stessi colleghi.

Pm verso richiesta di rinvio a giudizio per Grillo jr e amici

C’è il racconto della vittima: “Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nella doccia” da uno dei ragazzi conosciuti quella notte – Francesco Corsiglia – e poi violentata “cinque o sei volte” a turno dagli amici, tra i quali anche Ciro Grillo, figlio di Beppe, padrone di casa. In un contesto in cui “la lucidità della ragazza” secondo i pm era già “gravemente compromessa”. A queste accuse – negate dagli indagati, tutti ventenni, che sostengono ci sia stato “un rapporto di gruppo consenziente” – si è aggiunta una seconda contestazione, che ha ridotto al minimo le possibilità di un’archiviazione dell’inchiesta: tra le foto ritrovate nei telefoni dei ragazzi, i magistrati della Procura di Tempio Pausania ne hanno trovata una in cui Grillo junior posa nudo, in modo osceno, sull’amica della presunta vittima. La ragazza si era addormentata sul divano dopo essersi ubriacata e non si era accorta di niente. Ma quelle foto valgono come prova per una seconda violenza sessuale. Il fatto rende molto improbabile un’archiviazione per la prima.

La consigliera di Renzi trasloca a casa Meloni

Addio Italia Viva, ecco Fratelli d’italia. La consigliera regionale lombarda Patrizia Baffi (nella foto) è pronta a traslocare nel partito di Giorgia Meloni dopo aver annunciato l’addio al partito di Matteo Renzi. Ieri è stata fotografata a un banchetto di FdI a Codogno e domani potrebbe essere formalizzata la sua decisione. Sorprendente? Fino a un certo punto, perché la Baffi, pur avendo un passato nel centrosinistra, ultimamente si era distinta per aver difeso Attilio Fontana e la sua giunta leghista, nonostante i mille disastri sul Covid. Più volte, in Consiglio regionale, la consigliera renziana aveva infatti votato insieme alla maggioranza respingendo le mozioni di sfiducia nei confronti dell’ex assessore al Welfare Giulio Gallera e del presidente Fontana. Baffi si era giustificata ritenendo che la principali colpe dei problemi sanitari non fossero della Regione e che non andassero colpevolizzati “capri espiatori”. Adesso potrà sostenere la giunta direttamente dai banchi della maggioranza.

Sala presenta la sua lista: “Accordo coi 5S? Qui siamo già forti, ne parlerò con gli alleati”

“Un accordo col Movimento 5 Stelle? Qui siamo già forti, ma ne parlerò con gli alleati”. Nel giorno della presentazione della sua lista per le prossime comunali, il sindaco di Milano Beppe Sala non scioglie i dubbi sulla possibile intesa con il Movimento, già caldeggiata nei giorni scorsi dai grillini perché propedeutica – dicono loro – al fondamentale asse M5S-centrosinistra alle regionali del 2023.

Sala però non può ancora esporsi fino in fondo perché il problema, più che il Movimento, sarebbe gestire il malcontento degli alleati centristi, i quali potrebbero porre un aut aut in grado di indurre il sindaco ad “accettare” i 5S solo al secondo turno: “Io sono stato il primo a dire che il centrosinistra doveva guardare ai 5 Stelle – rivendica il sindaco – e fa bene Enrico Letta a indicare quel percorso, ma quello è un discorso nazionale, dove c’è anche una legge elettorale diversa. A Milano abbiamo una forza estremamente significativa. Da settimana prossima però chiederò di esprimere un rappresentante per ciascuna delle liste che mi appoggiano e le scelte relative alla campagna andranno fatte a quel tavolo”. A una condizione: che il Movimento “decida di collocarsi stabilmente nel centrosinistra”.

Per il resto, Sala ha buon gioco a sbeffeggiare i continui totonomi della destra, il cui ultimo favorito sembra l’ex sindaco Gabriele Albertini: “Non sarebbe una sorpresa. Faccio solo notare che da un anno Salvini dice di avere la fila di candidati pronti. Io credo invece che si faccia fatica a trovare qualcuno disposto a mettere la propria faccia accanto a quella di Salvini”. Nella sua lista, Sala porta con sé due assessori – Roberta Guaineri, Sport, e Gabriele Rabaiotti, Politiche sociali – e i due capilista annunciati, il consigliere Emmanuel Conte e Martina Riva, già candidata nel 2016. Il logo, dice il sindaco, “ricorda i cinque cerchi olimpici e l’integrazione tra culture diverse”, a dimostrazione della centralità dell’appuntamento coi Giochi 2026. I candidati “saranno giovani o senza una lunga carriera politica alle spalle”, ma a differenza di cinque anni fa il risultato della lista di Sala sarà particolarmente indicativo: il sindaco ha appena aderito ai Verdi europei, spiazzando i dem; motivo per cui arrivare in doppia cifra rinforzerebbe ancor di più il potere contrattuale del sindaco al momento della spartizione delle cariche.

L’Ue accelera sul “green pass” per le vacanze. L’Oms contraria

Il green pass per viaggiare in era Covid potrebbe essere il lascia passare per i vaccinati nelle prossime vacanze estive. La commissione Ue vuole lanciarlo il 1° giugno e in tutto il mondo sono allo studio soluzioni, ma il percorso tracciato è tutt’altro che lineare. Alcuni paesi, come Israele, Grecia e Islanda sono già partiti, e non è detto che le tecnologie adottate a livello nazionale comunichino tra loro. Poi ci sono i dubbi sulla privacy e sulle potenziali discriminazioni verso chi non si è potuto ancora vaccinare.

Evitare blocchi e divisioni è l’obiettivo della commissione Ue. Il certificato proposto da Bruxelles è gratuito e consiste in un Qr code da tenere nello smartphone o da stampare su carta, con tre alternative per dimostrare di poter viaggiare: essersi sottoposti alla vaccinazione, essere risultati negativi a un tampone, oppure essere guariti dal Covid-19 ed avere sviluppato gli anticorpi. Il sistema operativo, tramite app, sarà pronto il 1° giugno e gli Stati potranno implementarlo perché diventi pienamente operativo tra i 27 e nell’area Schengen a luglio.

Di fatto, però, i più impazienti si sono già mossi. È il caso della Grecia, primo Paese a proporre un certificato anti-Covid per rilanciare il turismo nelle sue isole. Atene inoltre ha reso noto che accoglierà tutti i possessori di un pass da metà maggio. Nell’Ue in Italia uno strumento analogo esiste già ma solo in Campania. Anche la Danimarca ha lanciato il proprio certificato vaccinale, che permetterà ai suoi cittadini di andare al ristorante o al cinema. L’Estonia sta sviluppando la propria app per lanciarla entro fine mese. Ma apripista in Europa è stata l’Islanda: il pass è attivo da gennaio, da marzo le frontiere sono state aperte ai viaggiatori di tutto il mondo forniti di certificato.

Secondo l’Oms l’adozione dei green pass potrebbe alimentare le disuguaglianze, discriminando i cittadini dei Paesi che non hanno i mezzi e le strutture per vaccinare alla stessa velocità dell’Occidente.

Costi pubblici e brevetti ai privati: l’affare da 50 mld

Il prezzo medio pagato dalla Commissione Ue a Pfizer Biontech per le prime 300 milioni di dosi di vaccino è stato di 15,50 euro a dose. È il risultato dei 17,50 euro pagati per le prime 100 milioni di dosi, dei 13,50 euro sborsati per le altre 100 milioni e dei 15,50 euro per le 100 milioni di dosi aggiuntive acquistate nel novembre 2020. Il contratto firmato dalla commissaria alla Sanità, Stella Kyriakides, prevedeva un anticipo di 700 milioni di euro sul totale di 4,6 miliardi. A febbraio di quest’anno la Commissione ha fatto un nuovo accordo con Pfizer Biontech per altre 300 milioni di dosi, ma il prezzo non è noto. Quello di novembre suggerisce però una cifra superiore ai 15,50 euro. Una clausola del contratto, che ieri per la prima volta abbiamo potuto leggere senza gli omissis che lo oscurano sul sito della Commissione, stabilisce infatti che, “per ogni ordine aggiuntivo effettuato e concordato” dopo il via libera dell’agenzia europea Ema ma entro i due anni dalla firma, il prezzo sarà di 17,50 euro. Se così è andata, il totale incassato dalle due compagnie sarebbe 5,2 miliardi di euro.

Nei giorni scorsi la presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, ha raccontato che Bruxelles “sta entrando in un negoziato con Pfizer Biontech” per “la consegna di 1,8 miliardi di dosi nel periodo 2021-2023”. Il premier bulgaro Boyko Borisov ha detto che il prezzo si aggira sui 19,50 euro per dose. Se fosse così, Pfizer e Biontech incasserebbero altri 35 miliardi di euro, portando il totale a 44,8 miliardi. Una cifra considerevole, specie se si considera che nel 2020 Pfizer ha dichiarato di aver pagato un’aliquota fiscale del 15% con un fatturato di 41,9 miliardi di dollari, di cui al momento prevede un aumento di 15 miliardi di dollari nel 2021. Visto che i contratti con l’Ue sono firmati dalla capogruppo, basata nel paradiso fiscale del Delaware, la compagnia potrebbe anche pagare un po’ meno… È invece a Cambridge, Massachusetts, la sede della più piccola Moderna, che dalla commissione Ue ha incassato un anticipo di 318 milioni di euro per le prime 80 milioni di dosi, vendute a 18,80 euro l’una. Ma fattura dalla Svizzera.

Nel contratto Pfizer si legge: “La Commissione, a nome degli Stati membri, dichiara che (…) la somministrazione dei vaccini sarà condotta in base alla responsabilità esclusiva degli Stati membri”. Vale anche per “morte, lesioni fisiche, lesioni mentali o emotive, malattia, invalidità, perdita o danno a proprietà, perdite economiche o interruzione dell’attività” connesse ai vaccini. L’azienda risponde solo per “dolo” o “difetto di qualità” da valutarsi sulla base delle “Linee guida Ue per le buone pratiche di fabbricazione dei medicinali”. Nel contratto firmato con Moderna troviamo clausole simili, come pure per AstraZeneca.

“Il Contraente (privato, ndr) e i suoi affiliati non saranno in ogni caso responsabili per ritardi nelle consegne”, si legge nel contratto Pfizer. E infatti l’Avvocatura di Stato italiana si era dovuta limitare a una diffida quando le dosi Pfizer, a gennaio, non arrivavano nei tempi concordati. Con Moderna invece gli Stati membri possono “cancellare l’ordine” per ritardi oltre i 90 giorni. Per Pfizer l’eventuale “ritiro per qualsiasi motivo dal mercato del vaccino” è interamente a carico della Commissione e degli Stati membri. L’azienda si impegna solo al “best reasonable effort”, cioè al “migliore sforzo ragionevole”. E la proprietà di brevetti e dati è sua. “Non è così, almeno per una parte dei brevetti di Moderna, negli Usa, dove il National Institutes of Health (Nih) è comproprietario. Per questo 250 tra premi Nobel ed ex capi di Stato fanno appello a Joe Biden”, osserva Vittorio Agnoletto, impegnato nella campagna per la sospensione dei brevetti (https://noprofitonpandemic.eu/it ). “Non c’è penale sui ritardi – sottolinea Agnoletto –, qualsiasi conseguenza la pagano gli Stati, ma i brevetti glieli lasciano tutti”.

Come l’Italia ha già fatto Madrid: ora è 4ª ondata

È successo subito dopo Natale con la terza ondata e sta accadendo da due settimane, all’indomani di Pasqua. Madrid, la capitale spagnola che in pandemia ha deciso di non allinearsi con le restrizioni del governo centrale, è in piena quarta ondata di Covid-19, con 2.700 contagi quotidiani, pari a 355 infetti per 100 mila abitanti, 100 punti sopra il limite fissato dal ministero della Salute per l’alto rischio (250) e le terapie intensive al 60% della capacità. I morti da inizio pandemia sono circa 15mila e la regione non ha il primato, ma è “solo” quarta nella triste classifica (2,3% è il tasso di mortalità, in Lombardia è del 5,7% nonostante la zona rossa).

“La storia che chiudendo bar e ristoranti diminuiscono i casi è una sciocchezza, smentita da tutti i dati”, ha dichiarato la presidente della Comunità, Isabel Diaz Ayuso. E infatti, a girare per la capitale spagnola, anzi per la regione, visto che a essere coinvolta nella decisione di tenere tutto aperto è l’intera comunità autonoma, sembrerebbe che la pandemia non esista: bar e ristoranti aperti fino alle 23 sia all’esterno che all’interno dove è permesso occupare il 50% dei tavoli, stesso vale per cinema e teatri – al 75% delle capacità – e le scuole, dall’asilo all’Università che non hanno mai interrotto le lezioni in presenza. La strategia della governatrice Diaz Ayuso è stata quella di chiudere per zone, le cosiddette “zone basiche di salute” che non poca confusione hanno creato perché difficilmente identificabili dagli abitanti avvezzi a distinguersi per quartieri, municipi o distretti. Il tutto per evitare il “blocco dell’economia”. Ed è proprio in nome del Pil che la comunità con le restrizioni più lasse d’Europa ha continuato ad attrarre turisti, soprattutto durante le vacanze di Pasqua, quando nella sola capitale si sono riversati in un fine settimana 2.500 giovani francese in fuga dal lockdown di Emmanuel Macron.

Se la politica di “Madrid è libertà” adottata finora della regione guidata da 25 anni dai Popolari è stata reputata vincente, alle soglie delle elezioni regionali del 4 maggio la dimissionaria e candidata Ayuso, già data in testa ai sondaggi con il 40% dei voti, la sta usando per accaparrarsi il voto di ristoratori, baristi e cittadini stanchi della pandemia e delle restrizioni. Non a caso il video “Madrid è libertà” diffuso per farsi pubblicità è tutto un giubilo di proprietari di locali che invitano a lasciare ad altri i numeri della pandemia e a raggiungerli per una birra, qualche tapas e un bel panino ai calamari, punta di diamante della gastronomia madrilena. Cattivo è invece il governo socialista di Pedro Sanchez che impone limitazioni alla libertà dei cittadini, anche se fissa al 9 maggio le riaperture e la fine dello stato d’emergenza, e comunisti sono tutti coloro che invocano la chiusura o addirittura il lockdown che affosserebbe definitivamente l’economia della regione con il Pil pari al 4,5% di quello nazionale. Da domani chiuderanno 17 zone di salute e tre municipi nei quali si è concentrato, secondo gli epidemiologi del Centro Ena-Covid, l’8,6% dei casi nelle ultime due settimane. È il massimo delle restrizioni concesse dalla governatrice, al contrario di quanto accade in Catalogna e in Navarra, che per la quarta ondata da venerdì sono tornate in rosso con bar e ristoranti chiusi e mobilità concessa esclusivamente per lavoro e motivi di salute. La speranza per le regioni più colpite è la campagna vaccinale, che nelle ultime settimane in Spagna ha subito un’accelerazione sfiorando il record di dosi somministrate in un giorno: 453.682. Attualmente a essere immunizzato con almeno una dose è il 18,2% della popolazione, mentre il 6,9% le ha ricevute entrambe.

Germania Nuova impennata di contagi e decessi

Ad abbandonare di nuovo la “libertà” è invece la Germania di Angela Merkel, che già prima di Pasqua aveva imposto dure restrizioni a causa dell’impennata di contagi e che venerdì, appena due settimane dopo l’allentamento delle misure, è tornata a lanciare un secondo allarme. Nonostante il record di vaccinazioni, infatti – 700 mila in un giorno e il 18% della popolazione con almeno una dose – si sono sfiorate le 30 mila infezioni quotidiane e quasi 300 morti. Per questo il ministro della Sanità Jens Spahn ha esortato i 16 Land a imporre al più presto restrizioni più severe in attesa di un nuovo decreto nazionale. “I medici si aspettano 6.000 pazienti in terapia intensiva entro fine mese”, ha fatto sapere Spahn. “I numeri sono troppo alti e stanno salendo, il tempo stringe”.

Francia Strette senza effetti

La Francia non ha mai tolto il coprifuoco dal lockdown pasquale: dalle 18.00 i francesi devono rientrare a casa, questo senza che, però, il tasso di incidenza del virus sia migliorato. Anzi, venerdì le autorità sanitarie hanno annunciato il raggiungimento della soglia dei 100 mila morti dall’inizio della pandemia e 300 nuovi decessi a fronte di picchi di infezione che giovedì hanno raggiunto i 38.956. Sul fronte vaccini nel frattempo non arrivano particolari rassicurazioni. Nonostante anche Parigi abbia accelerato le inoculazioni nelle ultime due settimane – cosa che ha permesso di aprire la campagna vaccinale agli over 55 anni con una settimana di anticipo rispetto al previsto – ad aver ricevuto almeno una dose di siero è solo il 5,8% della popolazione. Per migliorare ulteriormente la prestazione il ministro della Salute, Oliver Véran ha annunciato che “l’intervallo della somministrazione tra la prima e la seconda dose passerà da 28 a 42 giorni consentendo di immunizzare più in fretta”.

Regno Unito Gli unici per ora fuori dalla pandemia

Unico Paese europeo ad essere uscito per ora dalla pandemia è la Gran Bretagna che da venerdì ha iniziato a inoculare il vaccino ai 40enni, dopo essere sceso a poco più di duemila contagi e un numero di morti che varia da 0 a 7. Londra ha potuto così allentare le misure anti-Covid e riaprire i tanto amati pub dal 12 aprile, giorno in cui con 40 milioni di vaccinati dovrebbe esser stata raggiunta l’immunità di gregge, anche se per il premier Boris Johnson il successo oltre che del vaccino, è sempre delle restrizioni: “Riaprire significherà più infezioni, più ricoveri in ospedale e più morti, per questo è importante che i cittadini continuino a usare le misure anti-virus”.