Alla seconda serie dopo Il miracolo (2018), Niccolò Ammaniti conferma: è uno scrittore, non è un regista. Nell’esordio dietro la macchina da presa di tre anni fa si fece assistere dagli esperti Francesco Munzi e Lucio Pellegrini, per Anna ha scelto la via solista, riducendo anche la pluralità al tavolo di scrittura: via Francesca Marciano e Stefano Bises, dell’equipe del Miracolo è rimasta la sola Francesca Manieri.
La sceneggiatura estende per lo più orizzontalmente l’omonimo romanzo del 2015, in cui tra gli altri Ammaniti ebbe il merito di preconizzare l’attuale pandemia con La Rossa, un virus con sintomi dermatologici che stermina gli adulti. Se ci sono echi di Edgar Allan Poe, La maschera della morte rossa, e di distopie letteral-cinematografiche quali The Road, c’è soprattutto la continuità autoriale di Ammaniti, a partire dalla predilezione per l’universo autocratico dei bambini e degli adolescenti, ascrivibile per esempio a Io non ho paura e Io e te, rispettivamente trasposti sullo schermo da Gabriele Salvatores (2003) e Bernardo Bertolucci (2012). L’Anna del titolo, affidata all’esordiente Giulia Dragotto, sopravvive in Sicilia, quattro anni dopo La Rossa, con il fratellino Astor, il “Quaderno delle cose importanti” lasciatole in dote dalla madre (Elena Lietti), alcuni divieti e l’obbligo della speranza: La Picciridduna, unico adulto scampato e asservito dal branco dei Blu, è la cura?
Prodotta da Wildside (Fremantle), la serie disponibile dal 23 aprile su Sky e Now ha la forza principale nel soggetto, che si accorda al nostro qui e ora in maniera sorprendente, perfino inquietante: il virus che risparmia i più piccoli, la morte senza poter riabbracciare i propri cari, la cesura tra “Il Prima” e il dopo, un nuovo mondo (im)possibile. Ma sono tutti pregi che erano già sulla carta: la sceneggiatura e la regia di Ammaniti possono vantarne altrettanti? Purtroppo no, il potere è sempre alla parola, con esiti negativi sulla serie Anna: dialoghi didascalici, peggio, immagini che fanno da didascalia ai dialoghi stessi. Il regista, e con lui dobbiamo supporre l’altrove brava Manieri, non concede mai al visivo preminenza, al visuale prelazione: quel che vediamo è sempre accessorio, suppletivo, esplicativo rispetto a quel che ascoltiamo, mai esclusivo, autonomo, anticipatorio. La cifra poetico-stilistica di Anna istruisce il primato della parola sulla camera, del dialogo sull’inquadratura, dell’illustrazione sulla rappresentazione: si rischia, insomma, il verbale.
Due esempi, attinti dal secondo episodio: uno dei Blu dice “il fuoco!” e dopo un tot vediamo la colonna di fumo; un gemello precipita Anna nella colla, atto di cui siamo perfettamente consapevoli, nondimeno la sostanza viene prima enunciata, “colla”, e poi perfino inquadrata nel tubetto esaurito. Laddove il romanzo elevava a potenza l’immaginazione, la serie non confida nelle immagini: manca lo specifico filmico, ed è un po’ come il manzoniano coraggio. Crediamo siano carenze di cui Ammaniti stesso sia avvertito, del resto, l’horror vacui è palese: il sonoro è smodato, invasivo, le scenografie procedono per accumulo, dagli stracci al ciarpame, nella volontà di colmare nel quadro le lacune della visione. Sono limiti talmente evidenti che forse, ma bisognerebbe chiedersi quale libertà creativa sia stata garantita ad Ammaniti, la produzione (Mario Gianani, Lorenzo Mieli e Lorenzo Gangarossa) avrebbe potuto emendare o, almeno, avvertire: si notano le concessioni (tempi, mezzi, ricerche, anche delle location) meno le direzioni produttive.
Purtroppo, a fronte di questa medietà, la stessa profezia pandemica si svuota di interesse, anziché deflagrare nell’immaginario cinematografico rischia di accompagnare l’esistente, ovvero le nostre vite al tempo del Covid-19: a tal proposito, l’uscita del 23 aprile è una buona idea? Soprattutto, la contemporanea disponibilità di tutti e sei gli episodi è una liberalità di Sky al regista o una dichiarazione di resa?
Anna
Niccolò Ammaniti
Su Sky da venerdì prossimo