Petrucciani lavora con stile a spiegare Marx in dieci attualissime parole

Spiegare la monumentale produzione filosofica, economica e politica di Karl Marx in dieci parole e 180 pagine può sembrare presuntuoso oppure un esercizio da “bignamino” fuori tempo. Ma Stefano Petrucciani è uno dei più seri filosofi politici italiani, tra i più impegnati divulgatori della “teoria critica” francofortese con studi approfonditi su Adorno, Horkheimer o Jürgen Habermas, e sul marxismo ha sempre mantenuto uno sguardo critico e per niente ortodosso.

Il libro si legge con molto interesse, le dieci parole scelte riassumono e densificano il pensiero marxiano con scelte obbligate – “Capitalismo, Comunismo, Materialismo storico” – e altre che pur essendo scontate permettono di rileggere Marx in forma creativa, con agganci poderosi alla realtà. Ad esempio la parola “Alienazione”, uno dei motori dell’elaborazione del filosofo di Treviri, oggi trascurata. Marx la desume da Hegel e Feurbach, ne coglie la valenza dialettica e comprensiva della concreta vita umana, ma la volge in un concetto applicabile alla realtà politica ed economica. Alienazione politica, con la democrazia della rappresentanza, “il cittadino”, che separa l’uomo concreto che produce e alienazione sociale ed economica con il prodotto del lavoro che si separa dal suo creatore. Certe espressioni hanno ancora oggi un’indubbia forza: “(L’uomo) delega a una potenza estranea (il denaro) la sua relazione con l’altro uomo… egli è attivo soltanto come uomo che ha perduto se stesso, come uomo disumanizzato”.

Ma sono belle anche le pagine dedicate alla “Libertà” termine raramente associato al marxismo e che invece in Marx diventa il fine ultimo del suo modello di società. E la distinzione tra “libertà negativa” e “positiva” è certamente proficua dal punto di vista della politica. Se è quindi difficile riassumere Marx in dieci parole, quando questo viene fatto con serietà è sicuramente piacevole leggere.

 

Marx in dieci parole

Stefano Petrucciani

Pagine: 180

Prezzo: 16

Editore: Carocci editore

 

“A me piace quel che fa piangere: i russi e il Parma”

“A me, ci ho messo degli anni a capirlo, non piace divertirmi, a me piacciono le cose che fanno piangere, come la letteratura russa e le partite del Parma”. Ecco la cifra di Paolo Nori, classe 1963, autore capace di appendere un fiocco di umorismo a ogni frase che scrive o pronuncia.

Del resto, nel 1999 l’inizio dell’inizio della sua parabola di scrittore è già una dichiarazione di poetica (incipit di Le cose non sono le cose): “Mia nonna Carmela si chiamava Carmela”. Il suo stile, che vanta svariati tentativi di imitazione, riproduce il parlato con sproloqui che si avvitano su se stessi in un gorgo che risucchia punteggiatura e congiuntivi. Una lingua finto sgrammaticata, zavorrata da iterazioni e anacoluti, presa in prestito dalle conversazioni afferrate nei bar, nelle sale d’attesa, nei tram. Tra gli esempi possibili uno scampolo di prosa da La vergogna delle scarpe nuove: “Il giorno dopo prima di partire penso Vado là in bicicletta o senza bicicletta? Se vado là in bicicletta poi me la rubano, poi penso che se non la uso cosa l’ho comprata a fare, se me la rubano almeno la usa qualcuno, e allora alla fine poi vado là in bicicletta”.

Nella sua quarantina di opere Nori è sempre al centro della scena (spesso indossa le maschere di io narranti fittizi come Learco Ferrari o Ermanno Baistrocchi) tanto che si potrebbe parafrasare la celebre battuta di Risi su Moretti: “Paolo, spostati e fammi leggere il libro”. La scrittura è una vocazione tardiva, che lo prende in ostaggio dopo i trent’anni. Lavora nei cantieri di un’impresa. Si licenzia, si laurea in Lingua e Letteratura russa, ritorna a lavorare. Poi si domanda: “Ma perché non provi a guadagnarti da vivere con qualcosa che ti piace?”. Si mette a scrivere “per disperazione” e da allora è una slavina di romanzi (tra i più fortunati Bassotuba non c’è e I malcontenti), traduzioni, corsi di scrittura, docenze all’università. Ogni estate organizza viaggi per gli appassionati di letteratura russa, in un percorso itinerante che tocca i luoghi descritti nei classici. La sua compagna di vita – Togliatti come lui la chiama perché si sente sempre “il migliore” – è fatalmente laureata in Storia dell’Unione Sovietica. Si sono lasciati e poi ripresi, battezzati dalle perorazioni di Antonio Pennacchi, l’autore di Canale Mussolini: “Tu adesso vai da Togliatti, ti metti in ginocchio le dici: Togliatti, perdonami è tutta colpa mia torniamo insieme”.

Un’esistenza consacrata alle pagine in cirillico dalla quale con tutta evidenza Nori trae la sua linfa comica e grottesca (che non ha subito contraccolpi nemmeno nel 2013 quando, investito da un motorino, lottò per giorni tra la vita e la morte). Questo passaggio tratto da La grande Russia portatile è emblematico: “Una volta ero a San Pietroburgo, e dovevo andare in biblioteca, e aspettavo il filobus numero 10, e pioveva, e quando il filobus è arrivato sono entrato e ho visto che sul soffitto, del filobus, c’era un buco, e pioveva dentro. Allora loro cosa avevano fatto? Avevano fatto un buco anche sotto, sul pavimento, alla stessa altezza di quello che c’era sopra, e la gente era dappertutto tranne che in quel cerchio lì di mezzo metro di diametro, e l’acqua entrava da sopra e usciva da sotto, e il filobus andava, e per me quella è la Russia”.

In Sanguina ancora, fresco di stampa per Mondadori, che mescola gli eventi capitali della biografia di Dostoevskij a suoi personalissimi spezzoni di vita, Nori confessa: “Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo”. Quel libro pubblicato 112 anni prima, a tremila chilometri di distanza, apre una ferita che non smette di sanguinare. Nori non perde la sua vena esilarante. Per restituire la figura di un famoso giornalista russo dell’epoca, capace di determinare la fortuna di Dostoevskij, Nori azzarda un parallelo e scrive che “era come Marco Travaglio nell’Italia di oggi”, con la differenza che anziché occuparsi di Berlusconi e Renzi, il giornalista russo, tale Belinskij, aveva a che fare con Puskin, Gogol, Turgenev, Goncarov.

Alice nel Paese delle Meraviglie diventa un giallo matematico a Oxford

La costruzione matematica di un giallo. Sullo sfondo criminale della pedofilia. Siamo a Oxford laddove il culto di Lewis Carroll, che lì fu anche matematico e prete anglicano, è celebrato da una confraternita di illustri accademici, il cui presidente onorario è il principe. Ovviamente la liturgia letteraria dei confratelli è assorbita dal libro che ha dato fama eterna a Carroll al secolo Charles Dodgson: Alice nel Paese delle Meraviglie. Ognuno degli studiosi ha dedicato gran parte della vita universitaria a studiare Carroll, con biografie e testi su indovinelli e rompicapo sparsi nelle pagine di Alice. Ma Carroll, da decenni, cela un segreto cupo, orribile. La sua passione per le bambine, in particolare per Alice Liddell. Alice era la secondogenita del decano del Christ Church di Oxford, dove lo scrittore insegnava matematica. Henry e la moglie avevano altri tre figli: Harry, Ina ed Edith.

Spiegato il contesto, l’attività viene turbata da una scoperta ritenuta eccezionale: una giovane dottoranda, Kristen Hill, trova la pagina strappata di un diario di Carroll. In tutto i diari sono tredici, ma quattro sono spariti da tempo. E tra i nove superstiti a far discutere è da sempre quel foglio mancante. La ragazza però non vuole rivelare niente, teme che le venga rubata la scoperta e ottiene di essere ricevuta dalla confraternita. Ma non arriverà mai alla riunione. Un’auto la investe di notte mentre ritorna a casa. Resta paralizzata e il suo mentore Arthur Seldom sospetta che sia un tentato omicidio. Poco dopo viene ucciso l’editore di Oxford che dovrebbe pubblicare per la prima volta un’edizione critica dei nove diari. Seldom, che è professore di Logica matematica, indaga insieme a un suo brillante allievo argentino, l’io narrante del libro che rimane sempre senza nome. C’è una serie cifrata dietro gli omicidi, che proseguono con un giornalista decapitato? E Carroll era colpevole o no di pedofilia?

 

I delitti di Alice

Guillermo Martínez

Pagine: 264

Prezzo: 17

Editore: Marsilio

Quelle “Notti insonni” con l’amica Holiday

Ci sono libri che sfuggono a ogni categoria. Sono simili a pesci sguscianti, iridescenti. È il caso di Notti insonni di Elizabeth Hardwick, una delle più raffinate critiche letterarie statunitensi della seconda metà del secolo scorso, tra le fondatrici della New York Review of Books, amica di penne come Mary McCarthy, Elizabeth Bishop e Philip Roth che di quest’oggetto letterario misterioso e affascinante uscito nel 1979, quando Hardwick aveva 63 anni, e ora riproposto da Blackie con la recensione dell’epoca di Joan Didion e l’ottima traduzione di Claudia Durastanti, scrisse “sta al tempo perduto come una vecchia foto di famiglia… ma qui le parole valgono migliaia di immagini”.

Aveva ragione Roth perché si ha tra le mani un flusso di coscienza che è un bouquet di visioni, frammenti di conversazioni o stralci di lettere sparse nel tempo, incontri con persone più o meno note (un ricordo è dedicato a Billie Holiday, “bizzarra creatura divina”), memorie volanti a metà tra sogno e realtà, viaggi in treno, riflessioni su amore e amicizia, meditazioni sull’essere donna, istantanee su natura e interni casa. Il suo obiettivo è chiaro da subito: “Mi dedicherò a un lavoro di memoria trasformata e persino distorta e condurrò questa vita, la mia vita di oggi”.

Diviso in nove parti Notti insonni ci mostra “donne che non rendono conto agli uomini, uomini che rendono conto alle donne, figli che rifiutano le chiamate dei genitori, disordini e squilibri di ogni tipo, insegnanti di musica decadute nella vecchiaia, donne delle pulizie e malattie ostinate”, scrive Didion, che considera l’opera una meditazione sulla vita più che una storia su o di una vita. Il bacino a cui l’autrice attinge è colmo di relazioni umane, ma anche dei molti luoghi che ha abitato e che l’hanno abitata. New York su tutti, dove si trasferì giovanissima, metropoli abbacinante, brulicante che però svela anche un’aura malinconica, di cui rimembra gli anni (erano i 40) trascorsi in una casa-albergo per sole donne. Ma anche la Russia, Amsterdam, Honolulu, Boston, dove vivevano i genitori del marito, il poeta premio Pulitzer Robert Lowell, che lei sempre difese, accudì (soffriva di sindrome maniaco depressiva) e mai infangò – di lui non c’è traccia – nonostante i tradimenti, il Maine, dove trascorreva spesso l’estate e il Kentucky, terra d’infanzia e adolescenza a cui si lega il ricordo della madre (di nove figli) di cui dice “Non ho mai conosciuto una persona così indifferente rispetto al proprio passato. Era come se non sapesse chi era”.

Sentirsi a tratti disorientati è del tutto normale e forse per apprezzare la lettura conviene centellinare le pagine. D’altronde, sottolinea Didion, la scrittura di Hardwick è un flutto di fondo, corrente che alza la sabbia a confondere per un po’ la vista di chi osserva e trascina frammenti a riva o al largo. Alcuni paiono in verità pietre preziose, tanto sono belli: “A volte la pioggia era bellissima. Le striature lavanda e argento, luccicanti nel fango, chiedono di essere onorate, di ricevere qualche parola di gratitudine. La dolcezza dei pomeriggi umidi, il conforto di aprire la porta e trovare tutti dall’altra parte. E poi? Dove si va?”.

 

Notti insonni

Elizabeth Hardwick

Pagine: 174

Prezzo: 19

Editore: Blackie edizioni

“This is Us”, quanto buonismo. E infatti arriva l’adattamento italiano: “Noi”

This is Us, la serie che ha reinventato il family drama, torna su Fox con le nuove puntate della quinta stagione. Dov’eravamo rimasti? Nel presente, in cui hanno fatto irruzione la pandemia e le proteste per l’omicidio di George Floyd, Kevin e Madison aspettano due gemelli, Kate e Toby fanno passi avanti con l’adozione mentre Randall prosegue nella ricerca delle sue origini. Negli anni 80, invece, ecco i tre fratelli alle prese con i primi amori e i conflitti dell’adolescenza.

La serie con Mandy Moore e Milo Ventimiglia ripercorre la storia della famiglia Pearson e in particolare dei “big three”: Kevin e Kate, gemelli, e Randall, che è nato lo stesso giorno ed è stato adottato dai loro genitori. Il racconto è costruito su continui intrecci narrativi e salti all’indietro nel tempo che illuminano di volta in volta un aspetto diverso del presente; a partire dalla seconda stagione ci sono anche dei flashforward che anticipano il futuro. Il successo di This is Us si deve soprattutto alla sua capacità di raccontare in modo sensibile e intelligente la diversità (colore della pelle, obesità, omosessualità) e le dipendenze. Ogni personaggio incarna una diversa problematica e Randall, figlio adottivo nero cresciuto in una famiglia bianca, più di tutti (per questo ruolo l’attore Sterling K. Brown ha vinto un Emmy e un Golden Globe). Il prezzo da pagare è l’eccesso di buonismo: in This is Us l’amore vince su tutto, sempre e comunque, perché come ha spiegato il creatore Dan Fogelman “non faccio questo mestiere per far stare peggio la gente che guarda le serie”.

I riconoscimenti e gli ottimi ascolti hanno convinto Cattleya e Rai Fiction a produrre un adattamento. Le riprese di Noi, così s’intitolerà la serie in 12 episodi con la regia di Luca Ribuoli, sono iniziate a febbraio tra Torino, Roma, Milano e Napoli. I genitori si chiameranno Pietro e Rebecca e avranno il volto di Lino Guanciale e Aurora Ruffino; i tre fratelli saranno interpretati da Dario Aita, Claudia Marsicano e Livio Kone.

 

“Anna” vive sulla carta, ma sullo schermo muore

Alla seconda serie dopo Il miracolo (2018), Niccolò Ammaniti conferma: è uno scrittore, non è un regista. Nell’esordio dietro la macchina da presa di tre anni fa si fece assistere dagli esperti Francesco Munzi e Lucio Pellegrini, per Anna ha scelto la via solista, riducendo anche la pluralità al tavolo di scrittura: via Francesca Marciano e Stefano Bises, dell’equipe del Miracolo è rimasta la sola Francesca Manieri.

La sceneggiatura estende per lo più orizzontalmente l’omonimo romanzo del 2015, in cui tra gli altri Ammaniti ebbe il merito di preconizzare l’attuale pandemia con La Rossa, un virus con sintomi dermatologici che stermina gli adulti. Se ci sono echi di Edgar Allan Poe, La maschera della morte rossa, e di distopie letteral-cinematografiche quali The Road, c’è soprattutto la continuità autoriale di Ammaniti, a partire dalla predilezione per l’universo autocratico dei bambini e degli adolescenti, ascrivibile per esempio a Io non ho paura e Io e te, rispettivamente trasposti sullo schermo da Gabriele Salvatores (2003) e Bernardo Bertolucci (2012). L’Anna del titolo, affidata all’esordiente Giulia Dragotto, sopravvive in Sicilia, quattro anni dopo La Rossa, con il fratellino Astor, il “Quaderno delle cose importanti” lasciatole in dote dalla madre (Elena Lietti), alcuni divieti e l’obbligo della speranza: La Picciridduna, unico adulto scampato e asservito dal branco dei Blu, è la cura?

Prodotta da Wildside (Fremantle), la serie disponibile dal 23 aprile su Sky e Now ha la forza principale nel soggetto, che si accorda al nostro qui e ora in maniera sorprendente, perfino inquietante: il virus che risparmia i più piccoli, la morte senza poter riabbracciare i propri cari, la cesura tra “Il Prima” e il dopo, un nuovo mondo (im)possibile. Ma sono tutti pregi che erano già sulla carta: la sceneggiatura e la regia di Ammaniti possono vantarne altrettanti? Purtroppo no, il potere è sempre alla parola, con esiti negativi sulla serie Anna: dialoghi didascalici, peggio, immagini che fanno da didascalia ai dialoghi stessi. Il regista, e con lui dobbiamo supporre l’altrove brava Manieri, non concede mai al visivo preminenza, al visuale prelazione: quel che vediamo è sempre accessorio, suppletivo, esplicativo rispetto a quel che ascoltiamo, mai esclusivo, autonomo, anticipatorio. La cifra poetico-stilistica di Anna istruisce il primato della parola sulla camera, del dialogo sull’inquadratura, dell’illustrazione sulla rappresentazione: si rischia, insomma, il verbale.

Due esempi, attinti dal secondo episodio: uno dei Blu dice “il fuoco!” e dopo un tot vediamo la colonna di fumo; un gemello precipita Anna nella colla, atto di cui siamo perfettamente consapevoli, nondimeno la sostanza viene prima enunciata, “colla”, e poi perfino inquadrata nel tubetto esaurito. Laddove il romanzo elevava a potenza l’immaginazione, la serie non confida nelle immagini: manca lo specifico filmico, ed è un po’ come il manzoniano coraggio. Crediamo siano carenze di cui Ammaniti stesso sia avvertito, del resto, l’horror vacui è palese: il sonoro è smodato, invasivo, le scenografie procedono per accumulo, dagli stracci al ciarpame, nella volontà di colmare nel quadro le lacune della visione. Sono limiti talmente evidenti che forse, ma bisognerebbe chiedersi quale libertà creativa sia stata garantita ad Ammaniti, la produzione (Mario Gianani, Lorenzo Mieli e Lorenzo Gangarossa) avrebbe potuto emendare o, almeno, avvertire: si notano le concessioni (tempi, mezzi, ricerche, anche delle location) meno le direzioni produttive.

Purtroppo, a fronte di questa medietà, la stessa profezia pandemica si svuota di interesse, anziché deflagrare nell’immaginario cinematografico rischia di accompagnare l’esistente, ovvero le nostre vite al tempo del Covid-19: a tal proposito, l’uscita del 23 aprile è una buona idea? Soprattutto, la contemporanea disponibilità di tutti e sei gli episodi è una liberalità di Sky al regista o una dichiarazione di resa?

 

Anna

Niccolò Ammaniti

Su Sky da venerdì prossimo

Salvatores dirigerà Servillo in “Il ritorno di Casanova”

A settembre Gabriele Salvatores dirigerà a Venezia Toni Servillo in Il ritorno di Casanova, un film liberamente tratto dal romanzo omonimo di Arthur Schnitzler sceneggiato con Umberto Contarello e Sara Mosetti e realizzato da Indiana Production e Rai Cinema. In scena due fili narrativi paralleli, il primo dei quali mostrerà un Casanova sul viale del tramonto ospite nei pressi di Venezia in casa di un amico dove cadrà tra le sue braccia la giovane Marcolina, legata a un giovane soldato che lo sfiderà a duello. Il secondo riguarderà un noto regista italiano (Servillo) come il celebre seduttore, che durante le riprese di un film tratto da Il ritorno di Casanova , si innamora di una ragazza molto più giovane di lui e la mette incinta.

Greta Gerwig tornerà a recitare a giugno con il suo compagno e mentore Noah Baumbach dopo i cult indie degli anni scorsi Frances Ha e Mistress America che hanno aperto la strada al grande successo dei suoi film da regista Lady Bird e Piccole donne. Accadrà grazie a Rumore bianco, la trasposizione dell’omonimo romanzo di Don DeLillo per Netflix di cui sarà co-protagonista Adam Driver, che racconterà in tono satirico le vicende di un docente universitario e di sua moglie. Entrambi reduci da precedenti matrimoni con figli, vedranno sconvolta la loro vita da una fuoriuscita di materiali chimici che li costringerà a una precipitosa evacuazione e a confrontarsi con la constatazione di poter morire.

Dopo i consensi internazionali per Martin Eden, Pietro Marcello dirigerà ad agosto in Normandia Juliette Jouan, Raphaël Thierry, Louis Garrel e Noémie Lvovsky in L’Envol. Tratto dal romanzo Scarlet Sails di Aleksandr Grin, il film seguirà l’emancipazione di una donna tra il 1919 e il 1939, tra grandi invenzioni e grandi sogni.

Un porno casalingo per mettere a nudo le ipocrisie romene

“Una farfallina! Qui tutte le emozioni sono benvenute!”. Mascherina glitterata sugli occhi, lingerie di pizzo rosso, la gioia del sesso casalingo col marito e una videocamerina amatoriale. Nessuna pornostar, ma una semplice professoressa di Storia di liceo, donna libera e disinvolta, consapevole che la vera pornografia abiti altrove, ad esempio nelle ipocrisie dei benpensanti incapaci di perdonarla quando il filmino finisce per caso su PornHub. Benvenuti nel mondo beffardo e sovversivo di Radu Jude, talento fra i talenti della “nuova onda” del cinema romeno, Orso d’oro alla Berlinale con un film i cui titoli e sottotitoli sono già un manifesto.

Perché Babardeala cu bucluc sau porno balamuc (titolo internazionale Bad Luck Banging or Loony Porn) tradotto alla lettera significa Botta incasinata o manicomio porno e suona da schiaffone lessicale al fariseismo di certi esponenti della società contemporanea, romena ma non solo, da sempre bersaglio del cinema di Jude. Che, non soddisfatto, vi aggiunge il sarcastico sottotitolo Una parodia di un film popolare, a rimarcare l’intenzione grottesca di questo esemplare cine-racconto ambientato nella Bucarest in piena pandemia. E le provocazioni del 44enne romeno emergono fin dalla scena d’apertura, già cult nel suo mettere sotto trionfale lente l’incriminata scopata. “Se vogliono censurare la scena in tv, produrrò una schermata nera munita di QR Code per renderla disponibile agli spettatori!” annuncia Jude. Il film procede diviso in tre parti, ciascuna munita di sigla divertente, col chiaro obiettivo di stanare i paradossi di romena quotidianità. La prima, Via a senso unico, mette in sequenze una camminata della protagonista, la professoressa Emilia (Katia Pascariu) tra le vie della Capitale, tra passanti mascherati (stavolta di chirurgiche anti-Covid) e situazioni dall’esito involontariamente comico, una rassegna di umanissime contraddizioni metropolitane. Nella seconda parte – Breve dizionario di aneddoti, cartelli e meraviglie – la commedia cambia totalmente pelle e registro, mettendo a montaggio un pungente zibaldone di visioni d’archivio e parole, sia pronunciate che scritte, organizzate in “tematiche” atte a narrare la Storia romena nei suoi contrastanti luoghi comuni dove si annidano ancor più evidenti paradossi. Ma è nel terzo parziale che il genio satirico raggiunge i suoi vertici: in Prassi e insinuazioni (sitcom), Jude non soltanto trasforma in cinema 45’ minuti di un dibattito in un cortile, ma lo fa adattandolo al genere tv più pop, la “sit-com”. Qui si consuma il processo alla povera professoressa, linciata per “oscenità” da personaggi improponibili che imperversano nel parossismo, capaci di igienizzarsi le mani ma giammai la coscienza. E la sentenza di Radu, che opta per ben due finali (a sorpresa) non perdona, regalandoci un epilogo esilarante e incandescente. Cineasta post-moderno tra i più vibranti in circolazione, Radu Jude offre in questo film la quintessenza della sua varietà narrativa, mescolanza di ogni potenzialità audiovisiva, serbatoio d’ispirazioni classiche ed eccentriche. Il film è disponibile da ieri sulla piattaforma di MioCinema in concomitanza a una mini retrospettiva a lui dedicata dal Trieste Film Festival.

“Pronto, sono Albert”: le confessioni di Einstein

Secondo Albert Einstein, niente è affidato al caso. Anche un gesto innocente come sbagliare numero di telefono non è mai una distrazione o un errore anodino. Per questo, quando il 14 marzo 1954 – mentre è seduto al tavolo del suo studio a Princeton – riceve la telefonata di una ragazza che ha composto un’errata sequenza numerica, lui decide di non riattaccare. È la mattina del suo settantacinquesimo compleanno e, con ancora tra le mani la lettera del collega tedesco Max Born, alla giovane Mimi Beaufort (questo il nome della sua interlocutrice) dice: “Il numero sbagliato per lei, quello giusto per me. È un enigma che mi affascina molto”. Lo affascina tanto da fare della sconosciuta un’improbabile amica e confidente. Del resto, lui non può saperlo, manca un anno alla sua morte (18 aprile 1955), ma quasi ne scorgesse il profilo sente che è giunto il momento – ora che tutti sanno chi è Einstein – di raccontare a qualcuno chi è stato Albert.

Da questo particolare all’apparenza ancillare della biografia del grande fisico prende l’avvio l’avvincente romanzo Al telefono con Einstein (Salani, traduzione di Laura Serra) di R. J. Gadney, scrittore e accademico inglese scomparso nel 2018, che riesce a restituire la smagliante fibra umana del genio di cui quest’anno ricorrono i cento anni dall’assegnazione del Premio Nobel.

Mimi ha diciassette anni, è di Boston, suona il violino e sogna di diventare una concertista: a unirli dalle prime battute, la musica di Mozart che lei ascolta e la sua voce, che dice il fisico “fa simpatia”. Al telefono, Albert apre tiretti della memoria chiusi da tempo: l’infanzia taciturna a Ulma con il dolce padre Hermann e la madre Pauline, che non perdeva occasione di dileggiarlo – “È strano, non è come gli altri” diceva –; e ancora i problemi a scuola con i docenti che scambiavano la sua creatività per impudenza. Nel 1894, Albert ha quindici anni e viene cacciato dal ginnasio Luitpold di Monaco; in viaggio per raggiungere la sua famiglia che nel frattempo si è trasferita a Pavia per il lavoro di Hermann (una società elettrotecnica con il fratello) appunta sul suo diario: “Non devo rimanere nello stesso posto”.

Einstein non vuole annoiare la giovane amica con la scienza. Certo, narra del Premio Nobel ricevuto non per la teoria della relatività (avversata da taluni accademici) ma per la scoperta dell’effetto fotoelettrico, come pure delle avverse fortune dei suoi studi quando nessuno gli dà credito. È la vita che sgorga dalle sue parole, pur da piccoli aneddoti: la bussola che il padre gli regala per i suoi sette anni o la sedia che scaraventa contro un’istitutrice che interrompe i suoi pensieri mentre passa le giornate “ad ammirare il mondo” scrive Gadney.

Volitivo e febbrile, Albert parla a Mimi di sentimenti. Delle amicizie: con il fisico Max Planck, che lo difenderà quando in Germania il vento antisemita avvia contro di lui una guerra ideologica; con la due volte Premio Nobel Marie Curie. La scienziata, rimasta vedova, viene attaccata dalla stampa per la sua relazione con Paul Langevin, Albert le scrive per testimoniarle solidarietà e ammirazione “per il suo ingegno, la sua passione scientifica e la sua onestà”. Dell’amore: per la prima moglie Mileva Maric, un’esile serbo-ungherese studentessa geniale e claudicante incontrata al Politecnico di Zurigo. Nel suo minus, Albert si riconosce; per la seconda moglie (e cugina) Elsa Löwenthal, compagna della sua seconda vita, una volta costretto a fuggire dal nazismo in America.

Soprattutto, però, l’uomo fa inevitabilmente i conti con i propri rimpianti. Per farsi lasciare da Mileva, dopo che incontra Elsa nel 1912, le propone un accordo-farsa mortificante: “Rinuncerai ad avere rapporti personali con me, all’intimità, ti assicurerai che le camicie siano stirate e lo studio pulito”. Lei non vorrà mai più rivederlo (mentre, invece, i soldi del Nobel li vorrà tutti). Ancor di più, è infestato dai rimpianti per i figli: si pente di non aver mai voluto vedere Lieserl, avuta con Mileva prima del matrimonio, bimba forse deforme, forse lasciata in un brefotrofio, forse morta di scarlattina; e di non essere stato accanto a Eduard, schizofrenico e chiuso in manicomio, che lo incolpa di tutto. Casuale che, alla sera della vita, un uomo che ha saputo misurare spazio e tempo, si rammarichi di appuntamenti perduti e atti mancati? No di certo. A Mimi, un pomeriggio che lei e la sorella sono andate a suonare per lui, Einstein sussurra: “La creatività è frutto di tutto il nostro tempo sprecato”.

Biden: “La pandemia sono le armi”

Le armi negli Usa non tacciono mai: in un deposito della FedEx, vicino all’aeroporto internazionale di Indianapolis, tra l’Indiana e l’Ohio, un uomo ha ucciso otto persone, prima di suicidarsi, sparando con un fucile a ripetizione. I feriti sono una decina, alcuni gravi.

La strage di Indianapolis, di cui s’ignora il nome dell’autore e il movente, è la terza in un mese. La sparatoria è avvenuta poco dopo che la polizia di Chicago aveva pubblicato il video del momento in cui un agente spara un colpo di pistola a un tredicenne, Adam Toledo, uccidendolo sul colpo. “La violenza da armi da fuoco è un’epidemia in America. Ma non dobbiamo accettarla. Dobbiamo agire”, ha dichiarato il presidente Joe Biden, ordinando bandiere a mezz’asta in segno di lutto. “Troppi americani muoiono ogni giorno per la violenza delle armi da fuoco… Possiamo e dobbiamo fare di più per salvare vite”, ha aggiunto, ricordando le leggi all’esame del Congresso e suoi recenti provvedimenti. Nel video di Chicago, un estratto di pochi secondi del 29 marzo, si vede un poliziotto inseguire Adam in un vicolo e intimargli di fermarsi e di gettare a terra l’arma che lui butta via. Appena alzate le mani, però, il tredicenne viene colpito da un proiettile al petto, mortale. La sindaca di Chicago, Lori Lightfoot, ha fatto un appello alla calma, definendo il video “atroce e straziante”. Le immagini innescano nuove proteste anti-polizia, non solo a Chicago. A Minneapolis, la difesa dell’ex poliziotto a processo per l’uccisione di George Floyd, ha esaurito l’esame dei suoi testi in soli due giorni: Derek Chauvin non intende deporre, per evitare di auto-incriminarsi. La prossima settimana i giurati si riuniranno in camera di consiglio. Kim Potter, la poliziotta bianca arrestata per l’uccisione di Daunte Wright, un ventenne nero, è stata rilasciata su cauzione di 100 mila dollari. A Brooklyn Center, il sobborgo di Minneapolis teatro del dramma, il coprifuoco è stato prorogato, dopo tre notti di proteste e scontri.