Cosa c’è di più comodo, il giovedì di mercato, dell’acquistare un bel pollo allo spiedo e sistemare così l’appetito dell’intera famiglia senza doversi affannare almeno per un giorno ai fornelli? Per un giorno solo, almeno quello, non doversi svegliare al mattino con l’assillo tanto banale quanto necessario di dover pensare a cosa preparare da mangiare? È giovedì, c’è il mercato, c’è il pollo allo spiedo. Mi fingo che quella donna abbia ragionato così. Succede però che davanti al banco del rosticcere, dopo averlo ordinato, le viene comunicato il prezzo e c’è una prima reazione di sorpresa: sei euro? Ma non costava cinque? No, sei, è anche scritto sul cartello che elenca i prezzi della merce. Alla sorpresa adesso segue l’imbarazzo. E io mi fingo di essere nel portafoglio di quella donna. Che sia abitato da un solitario foglietto da cinque senza che alcun miracolo possa raddoppiarne il valore? Oppure che ci sia quell’euro in più atto a coprire l’ammontare del costo ma che sia già stato destinato ad altro, iscritto in un bilancio talmente rigido da non poter essere utilizzato altrimenti? Mi fingo adesso nell’imbarazzo che sorge negli altri clienti in attesa, nella tentazione di alcuni di prendere dalle proprie tasche quell’euro mancante e allungarlo alla donna, offrirlo. Un gesto di solidarietà che però, vista l’esiguità della somma, potrebbe essere interpretato per elemosina. Forse per questo nessuno si muove, restano tutti zitti e in attesa di ciò che la donna deciderà. Mezzo pollo, alla fine, con un risparmio di ben due euro sulla spesa prevista la cui destinazione verrà accuratamente studiata così come accuratamente verranno spolpati gli ossi del mezzo pennuto allo spiedo onde non sprecare niente. Come detto, ho solo finto di essere presente al fatto ma la persona che me l’ha riferito è degna di fede. E al termine del resoconto i brividi che lei stessa ha provato sono stati i miei.
Pensiamo già ora ai vaccini futuri
Il quadro nel quale ci muoviamo è più chiaro, ma non totalmente rassicurante.
La campagna vaccinale sta procedendo secondo i ritmi imposti dalle consegne, dalla logistica e, ahimé, dalla qualità (spesso pessima) della comunicazione. Mese più, mese meno, riusciremo a vaccinare la maggior parte della popolazione occidentale. Crollerà il numero dei decessi, si svuoteranno le terapie intensive e la vita riprenderà. Ottimo traguardo, ma attenti a non considerarlo definitivo. Ci sono diversi aspetti da tener presente. Prima di tutto, l’illusione che il problema non possa ripresentarsi. Nell’era della globalizzazione, serve una soluzione di portata mondiale: i vaccini dovranno essere a disposizione di tutti. Altro aspetto importante è relativo al tipo di vaccini che stiamo usando. In questi ultimi giorni sono stati pubblicati lavori scientifici che dimostrano come questi possano proteggerci dall’infezione e non solo dalla gravità della malattia. Se ciò fosse confermato, potremmo confidare sul raggiungimento di un’immunità di gregge, che oggi non sembra realizzabile. Quanto dura l’effetto dei vaccini? Si dice 8/10 mesi. Gli studi in corso lo chiariranno, ma ci vorrà tempo. Ciò porrà la necessità di condurre nuove campagne vaccinali che avranno bisogno di una specifica organizzazione e nel coinvolgimento più attivo dei medici famiglia. In futuro si porrà anche il quesito se sarà più opportuno continuare con i vaccini già utilizzati o se si avranno altre armi a disposizione. Da qui la stringente necessità di organizzarsi subito su due piani: future vaccinazioni e cure ambulatoriali. La ricerca ci sta fornendo importanti possibilità in questo senso. Non solo gli anticorpi monoclonali, ma protocolli di successo di intervento terapeutico precoce con farmaci a basso costo e da tempo conosciuti.
direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano
Vaccini & guerre, il contagio Usa
Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è andato negli Stati Uniti col cappello in mano per chiedere agli americani di fornirci i vari vaccini che hanno in esubero. Naturalmente non ha cavato un ragno dal buco. Come ha dichiarato il Segretario di Stato, Antony Blinken, gli americani forniranno per primi i vicini canadesi, loro storici alleati, e anche il Messico per cercare di porre un qualche limite ai problemi posti dalla pressione messicana e guatemalteca ai loro confini. Per l’Italia si vedrà in seguito, magari a epidemia finita.
Ma non è questo il punto. In una trasmissione di Sky Tg 24 centrata su questo incontro, a cui era presente tra gli altri Ugo Tramballi, inviato di lungo corso su vari scenari di guerra, che stimo molto come sempre stimo chi lavora sul campo, la cosa che sorprendeva era che i tre invitati parlavano non come se fossero degli italiani, ma degli americani, partendo su ogni questione, non solo quella dei vaccini, dal punto di vista yankee e non da quello italiano ed europeo. E questo, più o meno, è l’atteggiamento che si ha in Europa verso gli Stati Uniti. “America first” non è solo uno slogan di Donald Trump. Quindi se oggi i maggiori competitor degli Stati Uniti sono Russia e Cina, anche noi dobbiamo vedere Russia e Cina come nemici.
Eppure, quattro anni fa, Angela Merkel, l’unico vero uomo di Stato europeo, aveva detto con chiaro riferimento agli americani: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani”. La linea di Merkel era di trovare un’equidistanza fra Russia e l’inquietante “amico americano”. Gli americani sono innanzitutto dei competitor economici, sleali perché impongono dazi sui prodotti esteri, in particolare per noi italiani sulle nostre eccellenze, né fanno il minimo sforzo perché sia garantita la genuinità dei nostri prodotti e non vengano taroccati a piacer loro. Poi, qua e là, quando la cosa non gli garba, impediscono, non si sa bene in base a quale diritto, ad altri Paesi fra cui il nostro di commerciare con questo o con quello. Un diktat di Trump ci ha vietato di avere commerci con l’Iran degli Ayatollah, col quale storicamente avevamo buoni rapporti economici. Ubbidienti, le aziende italiane si sono ritirate dal campo. Al solo sentire parlare degli Ayatollah, gli americani fanno il ponte isterico. Eppure sono i principali sostenitori dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi che attualmente è il regime più tagliagole del mondo (2500 oppositori assassinati, 2500 desaparecidos, vietate tutte le libertà civili tanto care all’Occidente) e alleati dell’Arabia Saudita, che in quanto a diritti negati alle donne è il campione del mondo (si faccia un salto all’Università di Teheran e si vedrà che ci sono più ragazze che ragazzi). Guai a commerciare con la Cina, una delle poche operazioni positive di Di Maio, che suppongo l’altro giorno si sarà inginocchiato davanti a Blinken scusandosi per quell’alzata di ingegno.
Ma perché mai non dovremmo commerciare con la Cina, un Paese di 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, un mercato molto appetitoso ora che anche i cinesi si sono inseriti nella globalizzazione capitalista? Perché la Cina è una dittatura? Vale qui il discorso fatto per l’Egitto e l’Arabia Saudita e si potrebbe aggiungere anche la Turchia, nostro alleato nella Nato. Non si può essere politicamente moralisti a targhe alterne.
Ma tutto ciò che abbiam detto fin qui è il meno. Tutte le aggressioni americane degli ultimi vent’anni, avvenute contro la volontà dell’Onu, a cominciare dalla Serbia nel 1999, quando l’11 settembre era ancora di là da venire, col bel risultato di favorire, a scapito di un grande Paese europeo, ortodosso e rimasto socialista (questa la vera colpa) la componente islamica dei Balcani per cui l’Isis è alle nostre porte, per continuare con quelle all’Iraq e alla Libia, sono tutte venute in culo, perdonate l’espressione, all’Europa. Il caso più clamoroso è quello della Libia del colonnello Muammar Gheddafi. Violando tutte le leggi internazionali, dal “diritto all’autodeterminazione dei popoli” sancito solennemente a Helsinki nel 1975, al principio della “non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano”, americani, francesi e purtroppo anche noi italiani col governo Berlusconi che aveva dato il suo avallo a quella sciagurata operazione, abbiamo aggredito uno Stato sovrano rappresentato all’Onu. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Proprio di recente Barack Obama ha ammesso che l’operazione in Libia era stata una delle sue azioni più negative. Comunque gli americani, dopo aver inizialmente bombardato, con i francesi, la Libia, se ne sono andati, disinteressandosene, ma lasciando nella peste tutti gli altri, tranne i francesi che ci hanno sostituito come partner economici di quel Paese. Innanzitutto i libici ovviamente, in seconda battuta noi italiani, perché è da quelle coste che arrivano i barconi dei disperati che nessuno è in grado di controllare.
Il 15 marzo si è costituito il nuovo governo libico di “unità nazionale” presieduto da Abdul Hamid Debeibeh, “uno degli uomini più ricchi della Libia” secondo Il Post. È un governo grottesco, alle dirette dipendenze di Ankara, il cui principale problema è controbattere i “contractors” russi della Wagner (adesso tutte le superpotenze, appena possono, mandano in campo i mercenari). Comunque né turchi né russi potranno risolvere la questione libica perché il territorio è conteso da centinaia di milizie fra cui furoreggia l’Isis (i mercanti di uomini per poter fare il loro sporco mestiere devono pagare una taglia agli uomini dell’ex Stato islamico, e questo dice tutto).
Se i tribunali internazionali per “crimini di guerra” fossero una cosa seria, i signori Sarkozy e Obama dovrebbero essere portati al loro cospetto, giudicati e fucilati. Ma questi Tribunali sono, come la storia ci insegna, i tribunali dei vincitori. Da Norimberga in poi.
Sindaco di Torino, l’ennesima candidatura sbagliata del Pd
Bel dilemma, per Enrico Letta, l’elezione del sindaco o sindaca di Torino. Pur di non mutare i propri equilibri interni, segnati da una precaria maggioranza, chiamiamola post-renziana, il Pd locale preferisce perdere la corsa. Solo così si può spiegare il rifiuto dell’unica candidatura da subito diffusamente accolta come vincente: quella del chirurgo Mauro Salizzoni, che univa brillante professionalità medica a una sicura collocazione di sinistra doc; importante nelle periferie, lasciate in preda alla retorica salviniana, e rispetto all’elettorato più anziano, numericamente cospicuo. Solo così si può spiegare l’insistenza sulla candidatura di Stefano Lo Russo, ignoto alla città se non per la sua caparbia opposizione a qualsiasi decisione della sindaca, specie nelle occasioni in cui essa aveva palesemente ragione. Pazienza, c’è ancora tempo per trovarne delle altre, di candidature, auspicabilmente di genere femminile.
Ciò potrebbe far pensare che il dilemma torinese sia soprattutto questione di alleanze. Non è così, anche se è evidente che Chiara Appendino, che si è ripetutamente spesa a favore, addirittura dal primo turno, di una candidatura comune (anche indicata dal Pd), tutto può fare meno che sposare la candidatura di un signore che tutto ha fatto, per oltre quattro anni, se non aggredirla fisicamente, e che non si è peritato, in un’occasione, di definirla un comandante Schettino che abbandona la nave dopo averla portata sulle rocce.
Tuttavia, anche se agognata da Letta e Conte, la pur indispensabile alleanza, su cui si concentrano i media, non è il vero problema. Chi vuole conquistare Palazzo di Città, deve, invece, riuscire a spingere i partiti e partitini che potrebbero costituirla – in primo luogo, il Pd – a uscire dalla bolla che li separa dalla città. Soprattutto, di fronte a una candidatura di centrodestra, quella di Paola Damilano, che con la città ha solide radici quale imprenditore di successo, anche se si porta dietro tutte le scorie, antiche e recenti, della destra torinese, privata e partitica. L’urgenza immediata è quella del Recovery Fund su cui, oltre alla sindaca, soltanto s’impegnano gruppi più o meno spontanei di cittadini. In una città che deve uscire dalla vedovanza dalla ex famiglia regnante, allontanatasi per una scelta finanziaria, salvaguardando uno straordinario patrimonio di conoscenze, di attività produttive e posti di lavoro. Una città che riscopre le sue bellezze di ex capitale centroeuropea, cosparsa di spazi verdi, di capolavori dell’architettura contemporanea, quale il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi, in possibile sinergia con il contiguo campus delle Nazioni Unite, oltre a numerosi esempi di aree industriali di pregio che le risorse del Recovery potrebbero salvare dalla decadenza. Oltre all’inventiva artistica e culturale, da rilanciare, che hanno dotato la città di risorse quali il Salone del Libro, il Museo Egizio e quello del Cinema, tanto per fare alcuni esempi di rilevanza europea. Insomma, una città postindustriale che, in epoca postpandemica, potrebbe riprendere l’attrattiva internazionale, avviata con le Olimpiadi del 2006 e in attesa di altri importanti eventi, sportivi e non, nei prossimi mesi. Tutto ciò nel contesto di un’ineguaglianza multietnica, aggravata dalla pandemia, da combattere secondo le migliori tradizioni della città.
Vittorio Foa – torinese, ebreo, resistente e futuro padre costituente – nel 1938 scriveva dal carcere: “Tra i piagnoni e noi corre un abisso: i piagnoni si lamentano sul loro piccolo mondo crollato. Noi facciamo nostre le esigenze che i nostri avversari si sforzano di servire e le arricchiamo di nuove più alte e più complesse esigenze. I piagnoni contrappongono alla storia il loro modello astratto di civiltà, noi per contro ci sentiamo parte integrante e attiva del nostro tempo”.
Alitalia, una “cosa di famiglia” rovinata dalla malagestione
“Sono arrivati i capitani coraggiosi e il disastro che hanno fatto è costato al Paese più di 5 miliardi di euro”
(Romano Prodi, intervista al Corriere della Sera – 18 ottobre 2013)
L’Alitalia non è “una cosa di famiglia” soltanto per il presidente Draghi, come ha confidato lui stesso nei giorni scorsi. E se per lui è “un po’ costosa”, lo è e lo è stata ancor più per i cittadini italiani, anche per quelli che non sono mai saliti su un aereo. Non si capisce, allora, perché nella trattativa o nel braccio di ferro con gli eurocrati di Bruxelles, per risanare la nostra compagnia di bandiera dovremmo rinunciare a un marchio che fa parte della storia nazionale e rappresenta l’immagine del nostro Paese nei cieli di tutto il mondo.
È vero che l’Alitalia non chiude un bilancio in attivo dal 2006. E sappiamo bene che, prima e dopo di quella data, sono stati commessi gravi errori di malagestione sia dalla mano pubblica sia da quella privata. Abbandono delle rotte internazionali a lungo raggio, quelle più remunerative; acquisto del combustibile a prezzi esorbitanti; flotta eterogenea composta da aerei di varia fabbricazione, con la sovrapposizione delle linee di assistenza e fornitura dei ricambi. Per troppo tempo l’Alitalia è stata, piuttosto che una compagnia aerea, un carrozzone di Stato con le ali, all’insegna del clientelismo, dell’inefficienza e dello spreco.
Ma l’errore più grosso fu quello di non seguire a suo tempo la proposta di Romano Prodi per un accordo commerciale con Air France-Klm che – fra l’altro – avrebbe consentito anche di mantenere il logo e la livrea tricolore. A quell’epoca, in nome di una malintesa “italianità”, scese in campo l’ex Cavaliere con i suoi venti “capitani coraggiosi” che privatizzarono la compagnia, portandola al definitivo fallimento. Fra tutti questi “patrioti”, una menzione particolare merita la famiglia Riva che ottenne in cambio il controllo dell’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, provocando un disastro economico, sanitario e ambientale.
“Non possiamo accettare asimmetrie ingiustificate”, proclama ora il nostro fiero presidente del Consiglio. Nessuna discriminazione, quindi, rispetto ad Air France e Lufthansa anch’esse messe a terra dagli effetti del Covid e in attesa di aiuti europei. Ebbene, con il traffico aereo ridotto nel 2020 di circa il 60% (dati Enav) per effetto della pandemia, non c’è dubbio che l’Alitalia debba ridimensionare voli, flotta e dipendenti. Ma non per questo possiamo essere costretti a dismettere un brand che appartiene alla collettività.
Sarebbe un colpo anche per il turismo che resta pur sempre la nostra prima industria nazionale e va rilanciato al più presto in vista della stagione estiva. Il Paese che detiene – insieme alla Cina – il più alto numero di siti Unesco al mondo (55), non può permettersi il lusso di riporre in cantina l’Alitalia come una vecchia bicicletta arrugginita. Quella “cosa di famiglia”, come la chiama simpaticamente Draghi, è un po’ il nostro biglietto da visita all’estero; rappresenta in qualche modo uno stile di vita, una cultura dell’ospitalità e perfino una tradizione eno-gastronomica. Non dobbiamo ammainare, in nome della discontinuità aziendale pretesa dall’Ue, il simbolo del tricolore.
Ministro Giorgetti e ministro Garavaglia, non vale più per la Lega lo slogan “prima gli italiani”? E il loquace Franceschini, secondo il quale per noi “la cultura è il più importante ministero economico”, non ha niente da dire in proposito? E ora il presidente Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro e l’Europa, non può salvare almeno il marchio dell’Alitalia?
È chiaro per chi e perché Conte non è più premier
Non sono un fan di Bettini. Ho anche scritto che il suo protagonismo non ha giovato a Zingaretti. Egli è troppo avveduto per non conoscere struttura e dinamiche del Pd e dunque per non considerare che le correnti ostili a Zingaretti avrebbero polemizzato con il “consigliere del principe” privo di ruoli formali corrispondenti a tale protagonismo (solo uno degli oltre duecento membri della direzione Pd).
Ciò detto, tuttavia, mi ha molto colpito il coro che si è levato contro lui in quanto avrebbe sposato teorie complottiste circa la crisi del governo Conte due. Solo perché, in un corposo documento politico, figurava una riga una ove si faceva cenno a “interessi” che avrebbero concorso a quell’esito.
Domando: basta così poco per accusare di fantapolitica al limite della paranoia chi semplicemente considera che un cambio di governo, specie dentro una congiuntura tanto critica, muove anche interessi?
È d’obbligo essere ingenui al punto da credere che la dinamica politica sia separata dagli interessi che si agitano nella società?
Interrogarsi al riguardo presuppone di necessità – come hanno eccepito sdegnate le anime belle – negare la causa prossima della crisi, ovvero il venir meno della maggioranza parlamentare per iniziativa di Renzi o spingersi sino a sospettare Mattarella di essersi prestato a un colpo di mano delle forze della reazione? È tale la rappresentazione caricaturale del cenno di Bettini e la sproporzione della canea sollevata dal vasto fronte dei suoi critici da trasmettere semmai l’impressione che qualcuno abbia la coda di paglia.
In breve: nessuna congiura, ma neppure resa a chi ingiunge di esorcizzare evidenti dati di realtà. Giuliano Ferrara lo ha chiarito bene, dando ragione a Bersani: non è necessario evocare complotti per riconoscere che “i media principali e molti ambienti confindustriali e circonvicini ce l’avevano con Conte anche perché era un tipo fuori dal giro. Questo è vero ed è sempre stato sotto gli occhi di tutti coloro che non se li erano foderati di prosciutto”.
Si può negare che, a partire dall’autunno scorso, si sia sviluppata una campagna d’opinione mirata a logorare Conte e il suo governo? Sia chiaro: ci sta, fa parte del gioco. Basta che si mettano in fila con trasparenza motivazioni e attori.
Solo per titoli: in primis Renzi mosso dall’interesse politico di rompere l’asse Pd-M5S, facendo leva sulle divisioni interne al suo ex partito; la diffidenza di settori della pubblica opinione che conta verso il M5S; la mobilitazione di lobby e gruppi editoriali loro espressione comprensibilmente interessati a partecipare alla destinazione delle ingenti risorse del Recovery Plan (davvero possiamo credere che cambio di proprietà e di direzione di grandi testate come Repubblica e la loro conseguente, manifesta correzione di indirizzo, sempre più critico con l’esecutivo, sia stata priva di concreti moventi?); la preferenza di settori dell’economia e della società per governi più tecnici e meno politici, magari più idonei a fronteggiare un’emergenza come la pandemia, ma di sicuro, per definizione, meno inclini a correggere l’equilibrio nei rapporti economici e sociali.
Ancora: si può negare una qualche plausibilità alla preoccupazione espressa da Zagrebelsky secondo il quale, di regola, è meglio che i governi democratici abbiano una investitura “dal basso”?
Come si vede i fattori e gli attori sono molteplici. Non è necessario immaginare un grande vecchio e un’unica regia. Ma che vi sia stato un di più e una forzatura nella campagna corrosiva che ha investito l’ultimo tempo del Conte-2 è dimostrato anche dall’evaporazione delle quattro questioni allora stressate a dismisura: il Mes oggi letteralmente sparito, l’asserito ritardo di progetto e soggetto del Recovery (mancano due settimane alla scadenza ed essi sono avvolti nel mistero), le mal sopportate misure anti-Covid sulle quali vi è e non potrebbe non esserci continuità tra Conte e Draghi, la politica dei ristori grazie a scostamenti di bilancio.
Non vogliamo chiamarli “interessi” (legittimi)? Con Lucio Battisti “tu chiamale se vuoi emozioni…”. Conta la cosa, non il nome.
Cosa c’è in televisione: dal fantastico Giletti fino all’uomo scimmia
E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:
Rai 1, 21.25. Il commissario Montalbano, fiction. Un ingegnere consegna a Montalbano alcuni filmini Super 8 girati nel corso di sei anni dal defunto padre. Il contenuto è sempre lo stesso: l’immagine fissa di un muro. Che risulta essere molto più interessante di questa puntata di Montalbano.
Rete 4, 6.20: Casa Vianello, sitcom. Raimondo è alle prese con il rubinetto e con il suo pisello che hanno deciso di gocciolare contemporaneamente. Così deve chiamare un idraulico e un medico. Nascerà un classico qui pro quo.
Rai 1, 10.15: La Santa Messa, reality. Continua l’esperimento sociale con cui si abbindolano telespettatori ignari senza conoscerli.
Rai 3, 11.00: Elisir, medicina. Tema della puntata: “Come sopravvivere a un lockdown di dieci anni facendo scorte di acqua minerale, fagioli in scatola, e vecchie annate di Penthouse”.
Fox, 21.00: The Good Doctor, telefilm. Al San Jose Hospital viene ricoverata Molly, una diciottenne che ha tentato il suicidio ingerendo delle palline magiche di gomma dura. Mentre la ragazza rimbalza sotto i ferri, la madre ha un collasso, il padre viene ferito nell’orgoglio da una tagliasiepi e il fratello ha una crisi isterica. Il dottor Murphy interviene e somministra dei tranquillanti a se stesso.
Sky Cinema Family, 22.50: Cadillac Man, film-commedia. L’intricata esistenza di un venditore d’auto viene improvvisamente risolta dai titoli di coda.
Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Nel maggio del 1921, nasce a New York il più celebre iettatore del mondo, Leopold Jinks. Era micidiale, di quelli che quando entrano in una casa fanno scoppiare i tubi del gas. Una volta cenò in un ristorante: l’indomani dovettero chiudere. Incendio e fallimento. Il padrone si tirò sei palle nella testa e dopo 14 giorni di agonia morì fra sofferenze inenarrabili sopportate con cristiana rassegnazione; gli orfani andarono raminghi per il mondo, e la vedova vendeva stuzzicadenti per la strada. Paolo Mieli ne parla con Isabella Insolvibile.
Sky Cinema Uno, 21.15: Tarzan, l’uomo scimmia, film-azione. La storia d’amore fra Tarzan e Cita è resa problematica dalle loro differenze religiose.
La7, 20.35: Non è l’arena, attualità. Massimo Giletti è fantastico: gli metti un vestito addosso, puoi portarlo ovunque. Dalla sua gola si effonde quel vago, indefinibile odore degli uomini eleganti, fatto di cipria, profumo, e giovane carne femminile. E sa sorridere col più perfetto arco delle labbra! Anni fa, una donna l’amò di un amore eterno che durò un mese.
Cine 34, 21.05: Suore ninja contro il Kgb, film-commedia.
Rai 1, 21.25: Ulisse, documentario. Nel giorno in cui si celebra il compleanno della Capitale, Alberto Angela apre la nuova edizione del suo programma con una puntata dedicata alla Roma dei Cesari e alle sue meraviglie. Simpatica l’introduzione: “Quando mio padre mi portava a passeggio in giro per Roma, chiacchierava affettuosamente parlando spesso di Cesare, di cui ammira le gesta. ‘Cesare allora fece questo, Cesare allora disse quest’altro…’ Io credevo che Cesare fosse un suo amico. Un giorno, presso i Fori Imperiali, un professore che si era fermato a salutare mio padre disse: ‘Eh, qui c’era una bellissima foresta di carpini. Furono tagliati tutti quando morì Cesare’. La passeggiata termina, si torna a casa. Al momento di metterci a tavola, io non scendo. Mio padre mi trova in un angolo della mia cameretta, in lacrime, deciso a non mangiare. ‘Cos’è successo?’ mi chiede. E io, singhiozzando: ‘È morto Cesare!’”.
Siamo al punto di non ritorno (speriamo bene)
Fino a prova contraria sia il governo Conte sia il governo Draghi hanno affrontato e affrontano la questione delle riaperture sulla base delle evidenze scientifiche, e dunque di quel “rischio ragionato” (Dio ce la mandi buona) di cui ci parla Roberto Speranza. Nominato ministro della Salute da Giuseppe Conte e che l’attuale premier ha voluto accanto a sé nella conferenza stampa di ieri, anche come risposta agli attacchi abbastanza sconnessi di Salvini&Meloni. È la stessa continuità che si può riscontrare confrontando le riaperture annunciate da Draghi&Speranza con le riaperture contenute nel Dpcm Conte&Speranza del 18 maggio 2020. Più o meno siamo lì, a parte forse l’evidenza con cui oggi si consentono le “attività all’aperto”, dal momento che si è improvvisamente scoperto che il maledetto Covid non sopravvive en plein air. Proprio come succedeva agli spaventosi marziani della Guerra dei mondi (e come sostiene da tempo il mio giornalaio).
Sappiamo bene che alla speranzosa primavera di un anno fa seguirono la licenziosa estate del liberi tutti e il cupo autunno del tutti di nuovo a casa. A sentire gli aperturisti à gogo Renzi&Salvini, tutta colpa del Conte&Speranza che, evidentemente, non avevano aperto abbastanza. Uno schema che tuttavia il governo Draghi non potrà più ripetere per la semplice ragione che questa volta indietro non si torna. Per due ragioni evidenti. Prima di tutto per la presenza, piuttosto invadente, del Berlusconi&Salvini nella maggioranza di governo: della destra cioè che ha premuto e preme per un ritorno del Paese esattamente com’era prima che il contagio si diffondesse. Ma a impedire un eventuale contrordine sarebbe soprattutto la tenuta degli italiani che molto, ma molto difficilmente (è un eufemismo) accetterebbero di sottomettersi per la terza volta consecutiva alla segregazione fisica e alla paralisi di ogni attività. Come dimostrano le piazze già in avanzata ebollizione. È un punto di non ritorno che lo stesso Draghi ha in qualche modo annunciato con la riapertura al pubblico dello Stadio Olimpico, il prossimo 11 giugno, per la partita inaugurale degli Europei, Italia-Turchia. Afflusso ammesso al 25% della capienza il che equivale a circa 18mila spettatori. E se 18mila persone sono autorizzate a convergere in uno spazio comunque limitato, come li tieni tutti gli altri? Infatti non li tieni più. A Draghi&Speranza non sfugge certo che contagi e vittime ancora non accennano a diminuire, ma scommettono sulle vaccinazioni di massa che in autunno, nella malaugurata ipotesi di una terza o di una quarta ondata (abbiamo perso il conto) potrebbero costituire una barriera immunizzata al virus. È il “rischio ragionato” di cui ci parlano (che Dio ce la mandi buona).
Il debito non è un problema. Lo dicono Draghi e i numeri
Parafrasando il celebre commento di Mark Twain sulla sua morte, si potrebbe dire che le preoccupazioni sul livello che il debito pubblico si appresta a raggiungere siano “ampiamente esagerate”. Sembra passato un secolo da quando la solidità dei conti pubblici dipendeva da un decimale di deficit, dal passare dal 2,4% al 2,04%. Era soltanto la fine del 2018, si doveva introdurre il reddito di cittadinanza e si temeva che spostarsi troppo dal 2% avrebbe mandato in rovina lo Stato.
La pandemia ha cambiato tutto, anche il modo in cui è percepita la sostenibilità del debito pubblico: per la verità in ambito accademico la riflessione va avanti da anni e nel 2018 un paper diventato molto influente di Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi, ha avuto un ruolo determinante per modificare i termini con cui è valutata. Non conta solo il deficit o il debito/Pil, ma – con tassi relativamente bassi – è la crescita che determina se un debito è sostenibile o meno, indipendentemente dal suo livello. Un’impostazione che può sembrare rivoluzionaria, ma che si basa sul semplice principio che, se mi indebito per investimenti che rendono più del costo degli interessi, allora avrò le risorse per ripagarlo. Un’impostazione sulla quale i mercati tendono da sempre a valutare i conti pubblici: ci massacrarono tra 2011 e 2012 anche perché il consolidamento fiscale che decidemmo di fare avrebbe sì migliorato i saldi del bilancio pubblico, ma contemporaneamente distrutto la crescita.
Ora il focus è tutto sulla crescita, lo ha ripetuto più volte Mario Draghi nella conferenza stampa di ieri e tanti cronisti, un po’ distratti su come si è evoluto il tema, dovrebbero tenerne conto prima di lanciarsi in toni allarmistici sul prossimo fallimento dell’Italia. Per questa ragione nel 2021, con una crescita nominale vista di 4,9 punti superiore al tasso pagato sul debito, il rapporto debito/Pil aumenterà solo di 4 punti, nonostante un deficit all’11,8%. Per la stessa ragione nei prossimi anni, facendo deficit ben più elevati del 2%, il rapporto debito/Pil è stimato in progressiva diminuzione.
Contano poi almeno altri due fattori. Il primo è legato al costo del debito: da ormai 8 anni l’Italia paga sempre meno interessi nonostante lo stock aumenti. Nelle proiezioni al 2024, sebbene il debito superi per la prima volta i 3.000 miliardi, gli interessi pagati saranno inferiori di circa 10 miliardi a quelli del 2019.
Il secondo fattore riguarda gli interventi di Bce e Ue: gli acquisti della Banca centrale, il Recovery Fund e Sure dovrebbero quasi eguagliare il fabbisogno netto di cassa dell’Italia nei prossimi anni. Insomma, la quantità di nostri nuovi titoli pubblici che il mercato dovrà assorbire risulterà molto limitata. Certo sarà fondamentale crescere e la corretta attuazione del piano di ripresa sarà decisiva, ma bisognerà continuare a supportare la domanda e i consumi delle famiglie, soprattutto quelle più colpite dal Covid, e non lasciarsi influenzare dalle sirene dell’austerità.
Ecco i commissari sblocca-cantieri
Da decenni i governi di ogni colore sono convinti che l’economia riparta “sbloccando” i cantieri tenuti fermi, pare, da un’ottusa burocrazia. E il governo Draghi non è da meno. Da ieri inizia ufficialmente la stagione dei commissari straordinari, che servirà anche in ottica Recovery Plan. Il neo ministro alle Infrastrutture (ora “sostenibili”) Enrico Giovannini ha firmato il Dpcm che nomina 29 commissari (quasi tutti tecnici, a eccezione della Sicilia dove tutto è nelle mani del governatore Nello Musumeci) che dovranno assicurare la realizzazione di 57 opere pubbliche. Il ministro ieri ha snocciolato numeri esorbitanti: un valore di circa 83 miliardi e un impatto occupazionale che nel 2025 arriverà a valere 100 mila posti di lavoro. I commissari sono quelli previsti dal “modello Genova” (poteri in deroga a tutto, gare comprese) previsti dallo “sblocca cantieri” di Danilo Toninelli dell’aprile 2019. Ci sono voluti 2 anni per varare il provvedimento attuativo. Giovannini ha solo firmato un testo preparato dalla ex ministra Paola De Micheli, ma ne annuncia un altro di vasta portata. Opere e commissari lieviteranno.
Resta sempre un problema: i fondi. In dettaglio gli investimenti in infrastrutture ferroviarie valgono circa 60,8 miliardi, le strade 10,9 , le caserme (che vanno “sbloccate” anch’esse) 528 milioni, le opere idriche 2,8 miliardi, le infrastrutture portuali 1,7 miliardi, la metro C di Roma 5,9 miliardi. Ma i finanziamenti si fermano a 33 miliardi (e tra stanziamento e versamento c’è una bella differenza), ed è per questo che si punta a “ulteriori risorse nazionali ed europee, compreso il Recovery Plan”. C’è anche un problema di tempi: in gran parte sono opere non cantierate, ferme ai progetti, spesso neppure esecutivi. I poteri “sblocca tutto” serviranno a ridurli, a discapito di concorrenza e trasparenza (ma non della legalità grazie ai protocolli sindacali). Il governo però è fiducioso, Giovannini e il premier assicurano che i cantieri partiranno subito: 20 nel 2021, 50 nel 2022 e 37 nel 2023. “Siamo certi delle date. So che andrete a controllare”, ha detto ieri il premier in conferenza stampa.
La parte del leone la fa come al solito l’Alta velocità ferroviaria (peraltro vale 20 dei 50 miliardi del Recovery). Ci sono le linee AV/AC Brescia-Padova, la Napoli-Bari, la Palermo-Catania-Messina; il potenziamento delle linee Orte-Falconara e Roma-Pescara; il potenziamento con AV della direttrice Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia e della Salerno-Reggio Calabria. Quest’ultima vale da sola 1,8 miliardi per la parte da Salerno a Battipaglia, 20 miliardi per l’intero progetto di Rfi: una parte entrerà nel Recovery, un’altra nel fondo extra. Di quanto parliamo? Qui Giovannini ha detto di non poter ancora fornire dati.