Per sapere

Non so a voi, ma a me ieri Draghi è piaciuto. Non per l’azzardo delle riaperture premature, con 429 morti in 24 ore e il calo dei contagi in frenata, ma perché s’è assunto la responsabilità del “rischio ragionato” (se poi andrà male, come in Germania, sapremo chi ringraziare). E poi perché ha smentito l’ultima leggenda inventata dai fan per giustificare le difficoltà del suo governo e il calo dei consensi: che, cioè, Lui sia deluso da noi italiani. Quando l’ho sentito dire l’altra sera a Otto e mezzo, non ci ho dormito: l’avrò deluso anch’io? E come faccio adesso a recuperare? Invece ieri l’ho trovato pimpante e fiducioso in noi miseri mortali. Meglio così. Almeno lui conserva un po’ di logica, merce rara quant’altre mai. Prendete i giornaloni: han passato tre anni a lapidare Conte per conto dei loro padroni, imputandogli come delitti le stesse cose che ora esaltano come miracoli di Draghi; ma se Bettini nota che l’ex premier “non è caduto: è stato fatto cadere” perché non obbediva a certi interessi, s’indignano tutti. Come nell’ultima cena, quando Gesù comunica agli apostoli “Uno di voi mi tradirà” e tutti, compreso Giuda, gli domandano “Sono forse io?”. Solo che Giuda i 30 denari li aveva intascati di nascosto, mentre questi tartufi il golpettino bianco l’han fatto ogni giorno alla luce del sole, nelle migliori edicole. E non riescono più a fermarsi, con arrampicate sugli specchi da scompisciarsi.

Da due mesi il Giornale Unico ci rifila il Titolo Unico: “Vaccini, Figliuolo accelera”. Poi ieri leggiamo su La Stampa: “Roma frena il Piemonte: ‘Non superate le 22 mila dosi al giorno”. Ora, posto che Roma è una città e non è in grado di telefonare, men che meno al Piemonte, che è una Regione e non parla al cellulare, chi avrà mai ordinato al Piemonte di vaccinare meno? L’articolo parla pudicamente di “struttura commissariale”. Cioè di Figliuolo, quello che accelera. Problema: come si fa ad accelerare e frenare contemporaneamente? Ah saperlo. Da Rep apprendiamo poi che il Recovery Plan, a 14 giorni dalla consegna, non è più in ritardo (lo era quando c’era Conte e di mesi ne mancavano 6, 5, 4 ecc): “Draghi incontra i partiti e mette i paletti: il piano non cambia. Una mossa per aumentare il più possibile la condivisione dei progetti”. E con chi li condivide, di grazia, se non cambiano: con sua zia? Sempre su

Rep, Manconi è tutto giulivo perché la Consulta dice che l’ergastolo è incostituzionale se non finisce mai, cioè se è ergastolo. E dà un anno al Parlamento per inventarne uno che finisca in anticipo. Noi siamo gente semplice, ma avevamo capito che l’ergastolo fosse la condanna a vita (vedi Madoff negli Usa): se finisce prima, che ergastolo è? Così, per sapere.

Mutano i motori restano i quesiti: è un’Europa senza colonnine

La diffusione dei mezzi elettrificati passa per infrastrutture efficienti, numerose e accessibili. Ma in Europa siamo ben lontani dall’averle. A sostenerlo non è un gruppo di talebani dei motori termici, bensì un rapporto della Corte dei conti europea (Eca), che dopo aver esaminato come la Commissione europea gestisce i finanziamenti per le stazioni di ricarica, ha stilato una relazione non troppo lusinghiera. In cui c’è scritto ad esempio che la loro diffusione non è abbastanza veloce per raggiungere gli obiettivi che l’Ue si è prefissata, ovvero un milione di punti di ricarica entro il 2025. Allo scorso settembre erano 250 mila, dunque per centrare le previsioni ne servirebbero 150 mila aggiuntivi ogni anno, circa 3.000 a settimana. Mentre invece se ne installano solo 36 mila all’anno, tra il territorio dell’Unione e quello della Gran Bretagna.

Ma i revisori dell’Eca hanno trovato anche altre magagne. Hanno scoperto, ad esempio, che la disponibilità di stazioni pubbliche di ricarica varia molto da paese a paese, e che i sistemi di pagamento non sono armonizzati, costringendo gli automobilisti a utilizzarne diversi per caricare le loro auto. “L’anno scorso, un’auto su 10 venduta nell’Ue era ricaricabile elettricamente, ma le infrastrutture di ricarica non sono accessibili in modo uniforme in tutta l’Ue”, ha detto Ladislav Balko, il membro dell’Eca responsabile del rapporto. Considerando che i costruttori prevedono un aumento di sei volte della produzione di veicoli elettrici in Europa tra il 2019 e il 2025, stiamo freschi.

508 SE, l’ibrida ricaricabile va di corsa

L’immagine e le ambizioni di ogni gruppo automobilistico sono sempre passate da vetture sportive simbolo. Per la nuova Stellantis, Peugeot 508 Sport Engineered rappresenta la cartina di tornasole delle molte mosse che verranno, perché porta al debutto la motorizzazione Plug-In Hybrid più performante vista finora nel gruppo, quella forse destinata a sostenere anche le migliori ambizioni dei marchi Jeep e Alfa Romeo. Succede con un’auto che è sia berlina che station wagon sportiva, rispettivamente con 4.750 mm e 4.790 mm di lunghezza, dove il design spigoloso del modello “normale” viene irrobustito da carreggiate allargate, cerchi da 20” di diametro e dettagli aerodinamici non troppo invadenti, per una immagine da granturismo veloce non esasperata. All’interno, il lusso passa dal display i-Cockpit dietro il volante e dallo lo schermo da 10” sulla plancia, accompagnati da un look lineare e materiali di qualità.

Peugeot 508 SE mira a una clientela in cerca di sensazioni di guida più decise, e di modernità ambientale, ma nei fatti trasmette una netta dimostrazione di forza, se è vero che il suo powertrain è l’evoluzione del sistema Hybrid4 già visto sui modelli Peugeot, Opel e Citroen, ma passa però da 300 a 360 Cv di potenza incredibilmente senza modifiche meccaniche, a dimostrazione dei margini tecnici della piattaforma.

Utilizza un motore turbo benzina 1.6 litri da 200 Cv abbinato a due elettrici, il primo da 110 Cv sull’asse anteriore e il secondo da 113 Cv al posteriore, disegnando uno schema a trazione integrale con batteria al litio da 11,5 kWh che consente 42 km di autonomia a zero emissioni. Nella sua modalità di guida più aggressiva, Peugeot 508 SE ha una taratura delle sospensioni che la rende piuttosto rigida, ma comunque neutra, con uno sterzo diretto e tenuta di strada che beneficia in pieno della trazione integrale. Tutto questo, con una efficienza sempre fluida, una accelerazione 0-100 km/h in 5,2 secondi e 250 orari di velocità massima, a un prezzo di listino di 69.450 euro per la berlina e 70.650 per la Station Wagon. Green ma volutamente Premium.

 

Q4 e-tron, così Audi sbarca sul mercato del medio-suv elettrico

Si chiama Q4 e-tron il primo suv elettrico di medie dimensioni dell’Audi. È costruito sulla base della piattaforma modulare Meb, appositamente ingegnerizzata dal gruppo Volkswagen per accogliere meccaniche a batteria. Lunga 4,6 metri, l’auto è declinata anche in versione Sportback, con tetto spiovente e piglio da coupé. La vettura sarà offerta in varie configurazioni di potenza: al vertice spicca l’edizione da 299 Cv, dotata di doppio motore elettrico (uno all’anteriore e uno al posteriore) e batteria da 82 kWh. Così configurata, la Q4 e-tron scatta da 0 a 100 km/h in 6,2 secondi e raggiunge una velocità massima di 180 km/h (autolimitata). Seguono le versioni da 204 e 170 Cv, entrambe a trazione posteriore e alimentate da un accumulatore da 82 kWh, che assicura fino a 520 km di autonomia. Per la versione entry level, invece, la taglia della batteria è di 55 kWh. Naturalmente l’auto è compatibile con la ricarica veloce: sino a 100 kW per la Q4 e-tron con batteria da 55 kWh e 125 kW per quelle da 82 kWh. Secondo la casa in 10 minuti è possibile ripristinare energia a sufficienza per percorrere 130 km.

A richiesta optional come l’assetto sportivo (incluso nella variante S line edition), che riduce l’altezza di 15 mm, e il pacchetto dinamico (di serie su Q4 Sportback e-tron), che prevede diversi profili di guida e lo sterzo progressivo. Inoltre, col pacchetto dinamico plus sono disponibili le sospensioni regolabili con ammortizzatori elettroidraulici.

Molto curati gli interni: l’interfaccia di comando sfrutta la strumentazione digitale con pannello lcd da 10,25” e il sistema multimediale touch con schermo di 10,1” (optional quello da 11,6”). Da segnalare la presenza dell’head-up display corredato dalla realtà aumentata, che proietta sul parabrezza le principali informazioni di guida: le avvertenze dei sistemi di assistenza e le indicazioni legate al gps vengono mostrate come se “fluttuassero” nell’aria a circa dieci metri dagli occhi del conducente. Alla generosa spaziosità interna – figlia dell’interasse di 2,76 metri e dell’assenza dell’albero di trasmissione fisico – corrisponde un’ampia capacità di carico: il bagagliaio ha una volumetria utile di 520 litri, che diventano 1.490 abbattendo gli schienali del divano posteriore (mentre per la Sportback i valori sono rispettivamente di 535 e 1.460 litri). Entrambi i modelli a elettroni vantano una capacità di traino sino a 1.000 kg (con rimorchio frenato e pendenza massima del 12%), con le rispettive varianti a trazione integrale che gestiscono sino a 1.200 kg. Per il mercato italiano il prezzo di partenza è di 45.700 euro (2.050 in più per la versione Sportback), con arrivo nelle concessionarie fissato per giugno.

“Io tra disgraziati e reietti mi sono salvato da solo”

“Mamma ha scoperto che facevo il musicista solo dopo aver letto una mia intervista”.

Possibile, Achille Lauro?

Sono sempre stato molto riservato. Però lei, per me, c’è stata in ogni momento, anche dopo la mia uscita di casa, a 14 anni.

Roma, quartiere Tufello. Bordi di periferia.

Peggio. Tra la campagna e il Far West.

Strade neorealiste. Girarono lì la scena dei “Soliti ignoti” con Capannelle che va a cercare Mario, uno che ruba, e il ragazzino gli risponde che lì di Mario ladri ce ne sono cento.

Val Melaina. Allora era uno sterrato e metaforicamente lo è ancora. Andai con mio fratello in questa comune dove tra ragazzi facevano famiglia. E arte. C’era anche qualche cinquantenne. Non mancavano i disgraziati, i reietti, quelli che usciti di galera non sapevano ancora cosa volessero dalla vita. Si consolavano pensando che ‘se sono un delinquente almeno ho un’identità’. Io invece vengo da genitori onesti.

Un padre magistrato.

Chiamato in quel ruolo per meriti insigni, dopo una carriera all’università da professore di Diritto del lavoro. Non so quanti libri abbia scritto.

E lui cosa pensa del figlio popstar?

Il nostro rapporto, un tempo catastrofico per la separazione, si è ora risaldato. Abbiamo imparato a conoscerci poco a poco. Anche se a distanza, papà mi ha offerto un insegnamento fondamentale: ‘Tu dimmi chi vuoi essere, però decidi per te stesso. Non mi importa cosa fai, ma fallo in tempo’. È il mio comandamento. Anche se forse sono solo stato fortunato.

A fare cosa?

A intuire subito quale fosse la mia strada, mentre tanti miei amici si smarrivano senza capire in che direzione andare. Io avevo la mia agendina, ci scrivevo i cazzi miei, e le canzoni che avevo in testa. E gli indirizzi degli studi di registrazione in cui andavo a propormi, ogni giorno.

Renato Zero ha detto: ‘Io con le piume non facevo il clown, cantavo le problematiche della periferia e degli emarginati’. Una stoccata.

Zero è unico, come lo è Achille. Nessuno viene dal nulla, chissà quante volte avranno detto a David Bowie che aveva tratto ispirazione da Marc Bolan dei T.Rex. Le periferie? Io sostengo quella realtà, non solo economicamente, ma non vado a sbandierarlo in giro.

Sei album, questo nuovo si intitola ‘Lauro’, il suo vero nome.

Ogni lettera del nome simboleggia gli stili della mia musica, i cinque quadri presentati a Sanremo. Il glam rock con la sua teatralità, il r’n’r spensierato e sexy, il pop che in Italia è poco compreso, il punk anticonformista e infine la O dell’orchestra, i solisti che studiano e poi si mettono insieme per una grande opera. Accanto al mio nome in copertina c’è il disegno del gioco dell’impiccato, cioè il sottoscritto, che ha rischiato di fare una brutta fine. Ma l’ultima lettera è scritta in rosso, non in nero, e cambia il mio destino. Vado oltre.

È fatalista?

Ai miei amici ripetevo che il destino te lo crei con le tue mani. Siamo tutti nel mistero dell’esistenza, ma possiamo orientarla. A patto di farci un culo così, senza aver paura dei fallimenti, che sono parte del successo.

Anche in questo album si rivolge spesso al Padreterno. C’è un pezzo in cui ci dialoga, ‘A un passo da Dio’, in un altro lo dipinge con indosso una minigonna.

Provocatorio? Sono ipercredente. Ma Dio non ha genere, né sesso, è qualcosa di superiore che non ha forma.

E se dovesse fare una domanda a Dio?

‘Qual è il senso di tutto?’.

Ha provato a rispondersi da solo?

Non ci riesco. Nell’enigma della vita io continuo a tormentarmi. Sono malinconico se penso al passato e sognatore quando mi proietto nel futuro. Non voglio accontentarmi di quel che trovo qui e oggi. Nel presente trovo pace solo mentre scrivo. Ma appena finito un disco non lo ascolto più.

Questo nuovo è pieno di suggestioni.

Con due macroaree: una più introspettiva, dove affronto le tempeste dell’anima, e un’altra in cui spingo con punk e grunge. In Femmina e Marilù affronto il problema del maschilismo insidioso che si nasconde dietro la facciata della virilità a tutti i costi.

Lei incarna una sensibilità fluida e libera, in tempi in cui occorrono leggi per poter tutelare l’amore.

Qui parliamo di diritti umani. Se non ledo la libertà degli altri, perché devo darne conto agli omofobi? Condivido quel che dicono Elodie, Mahmood, Fedez.

In ‘Generazione X’ e ‘Solo noi’ affronta lo sbandamento dei suoi coetanei.

Rischiamo di diventare tutti schiavi della tecnologia. Dipendenti dalla mela di Jobs. In pandemia siamo stati privati della socialità, e gli effetti li vedremo tra dieci anni. Il tasso di depressione e degli istinti suicidi è fuori controllo. Per non dire dei ragazzini che non sono potuti andare a scuola.

Lei ci andava?

Non ho avuto un’istruzione ordinaria. Il liceo scientifico però l’ho frequentato.

Per quanto?

Tre settimane.

Cosce, negri, finocchi. La beata scorrettezza del cinema che fu

Non dove, non come, che è ormai assodato, ma quando andremo a finire: molto presto, prima di quanto si possa pensare. Le polemiche e quindi le scuse obbligate – o obbligatorie? – di Michelle Hunziker e Gerry Scotti per la puerile e innocua scenetta sui cinesi a Striscia la notizia preludono a vittime eccellenti, e individuano lo stesso carnefice: il politicamente corretto.

Carlo Verdone il problema l’ha chiaro, non da oggi: “Per me continuare con questo politicamente corretto è un errore micidiale. A forza di seguirlo – ha detto lo scorso agosto all’arena del Piccolo Cinema America in Trastevere – uno si sente sempre incatenato e non riesce a esplodere, è così. Noi avremo dei grossi problemi in sede di sceneggiatura, faremo meno ridere, avremo meno battute, non si potrà dire più questo perché s’offende quello… E anche tanti miei colleghi incominciano ad averne un po’ le palle piene, perché il politicamente corretto sta diventando un po’ una patologia. E basta, per cortesia, basta!”.

Se la società, come l’arte e lo spettacolo, vuole strumenti di misura e parametri di giudizio coevi, il pericolo è di farci la bocca, ovvero emendare la nostra stessa storia. Sacrificarci sull’altare del politically correct: rischio cogente, con valore retroattivo. Nessuno potrebbe stracciarsi le vesti per la reprimenda alle “elle” al posto delle “erre” di Michelle e Gerry, giacché la questione si esaurisce agevolmente al kindergarten, ma qualora a repentaglio venisse messa la gloriosa commedia all’italiana?

Se il peccato è nell’occhio di chi guarda, dipende quel che si guarda: un conto è Striscia la notizia, un altro Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) di Lina Wertmüller, in cui Giancarlo Giannini apostrofava Mariangela Melato “Brutta bottana industriale socialdemocratica!”. E se oggi una socialdemocratica gridasse allo scandalo, che facciamo?, troviamo riparo tra i luddisti o esponiamo al pubblico ludibrio revisionista la somma Wertmüller, prima regista a essere candidata all’Oscar per Pasqualino Settebellezze nel 1977? Aveva capito tutto la Sandrine Bonnaire di Verso sera (regia di Francesca Archibugi, 1990), che così regolava il suocero Marcello Mastroianni: “Madonna, quanto siete arcaici quando fate i moderni!”.

Esistesse la macchina del tempo, i più illustri sceneggiatori di ieri nella migliore delle ipotesi oggi sarebbero disoccupati oppure pregiudicati: sessismo e atti ostili verso uno Stato estero – altro che Draghi… – per il Federico Fellini di Casanova, che s’inventò un “Possiate finire i vostri giorni nei più laidi postriboli della Turchia!”, destinato da Donald Sutherland a Carmen Scarpitta e Diane Kurys.

Non se la passerebbe bene nemmeno un monumento della comicità quale il principe De Curtis, che su imbeccata di Ettore Scola e Steno così si rivolgeva a Ugo Tognazzi in Totò nella luna: “Tuo padre era il guardiano dello zoo e tua madre, credi a me, durante la gestazione frequentava il reparto rettili”. Qui e ora insorgerebbero madri, padri, animali, animalisti, rettili, rettiliani e figli. Eppure, come ogni genio che si rispetti, Totò nello stesso film dava prova di elasticità mentale e di fluidità di genere: “Visto che ho un corpo, ho bisogno di una corpa. Mi sono spiegato?”.

Già che ci siamo, nel body shaming incapperebbero il Francesco Nuti di Madonna che silenzio c’è stasera, “Puppe a pera, tu c’hai le puppe a pera, pera pera pera…”, e l’Ugo Tognazzi de L’udienza (regia di Marco Ferreri, 1972), con gli ondivaghi complimenti a Claudia Cardinale: “Sei solo carne e cosce, carne e cosce. Belle magari…” e “Non ti abboffare che t’allarghi, ti vengono le gambone. Belle queste gambone popolane, sode…”.

Ancora più riprovevoli gli Amici miei (1975) scritti da Pietro Germi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli e diretti da Mario Monicelli: dal “Descrivimi minuziosamente come sono fatti i tuoi capezzoli!” del Conte Mascetti (Ugo Tognazzi) al “Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?” del Melandri (Gastone Moschin), c’è di che indignarsi, alla voce molestie e discriminazione sessuale.

Per tacere del turpiloquio botta e risposta, ancora il Mascetti: “Dove sei stata, troia? – A cavallo! – Di chi, puttana?”. Il Conte incarnato da Tognazzi aveva gusti precisi, “Culo alto, ci fo un salto”, e la rima ingolosiva anche il Marcello Mastroianni del Ginger & Fred felliniano: “Chiappa tonda, fava gioconda!”: a posteriori, ehm, sarebbero dolori.

Nel caso, li condividerebbero con un loro pari, il Vittorio Gassman di Profumo di donna (regia di Dino Risi, che scriveva con Ruggero Maccari dal romanzo di Giovanni Arpino, 1974): “Cosa credi? Che io soffra perché non posso più vedere i tramonti, o la cupola di San Pietro?! Il sesso! Le cosce! Due belle chiappe, ecco la sola religione, la sola idea politica, la vera patria dell’uomo! Hai capito?! La fica!”. Sì, sarebbero tutti a spasso, attori e sceneggiatori, Tognazzi e Carlo Lizzani (regista), Luciano Vincenzoni, Sergio Amidei de La vita agra (1964): “La prostituta che specializzandosi si riduce a macchina e diventa la cortigiana, la mondana, la battona, la cagna, la mignotta, la zoccola, la ragazza squillo, la passeggiatrice e poi giù fino ad arrivare alla barbona, alla busona, alla spolverona, alla merdaiola”, Gassman e Risi (regista), Scola, Ruggero Maccari de Il sorpasso: “Sei razzista? -No, no. E tu? -Figurati, non mi conosci. Una volta sono stato con una che era ebrea e pure negra”.

Moriremo, insomma, politicamente corretti, meno italiani e infinitamente più puntuali. Senza sorpresa.

Orson Welles ci aveva avvisati settant’anni fa, ne Il terzo uomo di Carol Reed (1949): “In Italia per trent’anni, sotto i Borgia, vi furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù”.

 

Il dantista brigatista: “Colpa della superbia, non del Poeta”

Dantista e brigatista rosso. Enrico Fenzi, classe 1939, faceva parte della colonna genovese dell’organizzazione guidata da Renato Curcio e partecipò al ferimento del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano. Già allora era uno dei più giovani e riconosciuti studiosi di Dante e Petrarca tanto che, racconta, mentre era in clandestinità con Mario Moretti curava per la Utet un’introduzione al “Convivio”. Poi l’arresto, il carcere, la dissociazione e, negli anni Novanta, la libertà ritrovata. E il filo di quegli studi profondi “al quale riannodare la mia vita”. Questo e molto altro racconta Enrico Fenzi in una lunga intervista a Ettore Boffano sul mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, in edicola da domani con un numero che parte dai settecento anni dalla morte di Dante Alighieri per raccontare l’Italia e gli italiani di allora e di oggi. Con i loro inferni, purgatori e paradisi. Ve ne proponiamo un estratto.

Professor Fenzi, come fu possibile che un intellettuale comunista e docente di Letteratura italiana all’Università di Genova finisse nella banda fondata da Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini?

Tenterò di essere brevissimo, dicendo che una visione puramente intellettuale delle cose non garantisce nulla: al contrario, è esposta a qualsiasi risultato, e tanto più estremo quanto più si presume pura e rigorosa. Dante e Petrarca non hanno influito per nulla, in ogni senso, e neppure Marx che ho studiato per anni. Ha influito, semmai, una cieca superbia intellettuale che non riusciva a vedere niente oltre se stessa.

Non si stupirà, credo, se lo ripeto: trovo comunque difficile mettere assieme Dante con le Br.

Per rispondere dovrei interpretare me stesso, e non è facile. Sono passati più di quarant’anni e l’Italia di oggi non è più quella. E in ogni caso, per tutto quanto segue, vale il Digesto: “Nullus testis idoneus in re sua”, nessuno può essere ritenuto testimone idoneo in una cosa che lo riguardi. Comincerei col dire che l’essere uno studioso non ha mai giocato né pro né contro, e che, per curioso che possa sembrare, non è mai passata di lì l’esperienza del dubbio, del dramma personale, della contraddizione (…)

Ma quando era un brigatista, quel suo patrimonio culturale è mai riaffiorato? Non si è mai chiesto: “Che ci faccio io qui?”.

Posso cominciare da qualcosa di reale, che mi sembra d’aver già raccontato. Mi trovavo a Formia in un appartamento, insieme a Mario Moretti. C’erano però anche dei giorni in cui ero solo. Allora, ne approfittavo per andare a Napoli, all’Istituto di Letteratura italiana, per finire una introduzione al Convivio di Dante che sarebbe poi stata pubblicata dalla Utet. Poco correttamente, non lo dicevo agli altri, perché sapevo benissimo quale sarebbe stata la loro reazione: “Ecco, ancora ti illudi di poter tenere il piede in due scarpe”. Lo sapevo, e però non me ne importava perché non mi sentivo in contraddizione, non mi sentivo per nulla un bierre a rischio perché studiavo il Convivio. Paradossalmente, proprio perché riuscivo a farlo, ne ricavavo un senso di normalità e quasi una garanzia d’essere nel giusto. Quanto poco valesse quella garanzia e quanto ne avessi bisogno è un altro più lungo e troppo doloroso discorso: avevo appena lasciato la mia compagna incinta, e gli altri figli piccoli…

La sua cultura e Dante, invece, hanno rappresentato qualcosa dopo, nel ritorno alla vita normale? Qualche mese fa, un gruppo di suoi colleghi le ha dedicato una raccolta di saggi intitolata: “Per Enrico Fenzi”.

La risposta è già nella domanda. La cosa non è poi così banale: per me è stato un grande aiuto e un grande privilegio avere un filo al quale riannodare la mia vita, per adattarla senza ulteriori traumi agli affetti familiari che mi hanno protetto e salvato. Ed è stata una emozionante sorpresa aver scoperto che quel filo era così robusto da non essersi, in realtà, mai rotto.

Proviamo allora a “divulgare” Dante. Chi era davvero, oltre l’iconografia più scontata?

Ci si può approssimare a una risposta che non sarà mai esauriente, anche perché chi fosse non lo sappiamo. Lo conosciamo soprattutto attraverso l’immagine che egli stesso ha dato di sé. Restano i tratti di un carattere difficile, di una terribile serietà, di una forte carica di passione e di indignazione che, specialmente a partire da quanto ha scritto Boccaccio, hanno contribuito a formare un ritratto che aggiunge poco o nulla a quanto le opere esprimono (…).

“Afghanistan, è finita una guerra iniziata con false motivazioni”

L’annuncio del ritiro americano dall’Afghanistan dopo vent’anni ha fatto tirare un sospiro di sollievo al fondatore di Emergency, Gino Strada, considerato da tutti gli afghani, talebani compresi, un medico che ha fatto del Giuramento di Ippocrate, ovvero del dovere di curare tutti coloro che ne hanno bisogno indipendentemente dall’appartenenza etnica, politica e religiosa, il faro della propria missione.

Perché la nuova Amministrazione statunitense ha deciso di ritirare l’esercito dall’Afghanistan?

Innanzitutto perché l’Amministrazione Biden ha bisogno di liberare le truppe per utilizzarle nel contrastare l’espansione cinese; secondo, perché questa lunghissima guerra è costata all’America migliaia e migliaia di vite e la cifra di 2mila miliardi di dollari. Inoltre, come i russi e gli inglesi ancora prima, gli americani si sono finalmente resi conto che gli afghani non accetteranno mai l’invasore e che piuttosto sono disposti a riunire tutte le tribù specialmente se si tratta di occupanti che per giustificare la guerra accampano motivazioni false dalle conseguenze disastrose, per usare un eufemismo.

Cioè ?

L’invasione dell’Afghanistan da parte americana non è stata causata dal fatto che il regime talebano ospitasse Osama bin Laden, il fondatore di al Qaeda nonché mente dell’11 settembre. Se ne parlava infatti già durante la presidenza Clinton e, non va dimenticato, prima di bombardare questo già martoriato paese, l’Amministrazione Bush tentò un accordo con i talebani per convincerli a farla entrare nella partita della rotta petrolifera che parte dai territori delle ex repubbliche sovietiche per arrivare in Occidente. La questione dell’emarginazione femminile, l’altra giustificazione usata dalla coalizione occidentale, sotto le insegne Nato, per muovere guerra ai talebani non è mai stata reale. A nessuno è mai interessata realmente la condizione delle donne costrette a portare il burqa. Se così fosse, gli americani e, di conseguenza, i paesi alleati servili, tra cui l’Italia, sarebbero dovuti intervenire in molti paesi. Uno degli esempi più eclatanti è l’Arabia Saudita, stretta alleata degli Stati Uniti e anche dell’Europa che non solo non è mai stata invasa ma a cui vengono vendute enormi partite di armi nonostante la figura femminile sia discriminata e repressa.

A proposito di condizione femminile, il ritorno dei talebani al potere, conseguenza dei recenti negoziati di Doha cancellerà i passi avanti compiuti in questi vent’anni ?

Io sono stato a lungo in Afghanistan dove ho anche conosciuto i mujaheddin del comandante Massud così come i talebani. A differenza dei talebani, Massud voleva che le donne potessero studiare e lavorare affinchè, di conseguenza, si liberassero dal burqa e non viceversa. Ritengo pertanto che la questione del burqa e delle limitazioni a cui sono sottoposte le donne risiedano più nella tradizione oscurantista nelle aree rurali, che nel volere dei talebani; loro del resto, sono l’espressione del volere della maggior parte degli afghani data la loro appartenenza all’etnia pashtun che rappresenta il 65 per cento della popolazione.

Ritiene inevitabile il ritorno al potere dei talebani?

Sicuramente avranno un ruolo di peso nell’imminente riassetto politico, ma voglio sottolineare un fatto: i talebani non sono un fronte così compatto e omogeneo come si crede. Io ne ho conosciuti molti e tra questi c’erano fanatici estremi ma anche persone intelligenti e moderate. Nei nostri ospedali e presidi compresi quelli nella roccaforte talebana di Lashkargat, non abbiamo mai avuto problemi a impiegare personale infermieristico femminile.

Ci sarà una nuova guerra civile che contrapponga i talebani ai vari signori della guerra assorbiti dall’attuale governo centrale di Kabul ?

Potrebbe ma non è certo, mentre è sicuro che finché l’Afghanistan sarà occupato da potenze straniere ci sarà sempre e solo guerra. Questa iniziata all’indomani dell’11 settembre con false motivazioni, ha impoverito l’Afghanistan sotto tutti i profili e costretto a fuggire migliaia di giovani che ora l’Occidente respinge con l’ignobile menzogna che si tratti di migranti economici. Sono invece in tutto e per tutto dei profughi di guerra nati e vissuti sotto le bombe.

A proposito di paesi e regioni povere e corrotte, l’impegno di Emergency in Calabria prosegue ?

Sì, a Crotone c’è ancora la nostra presenza con un reparto dedicato al Covid all’interno dell’ospedale. Non abbiamo bisogno di stellette per fare il nostro dovere e collaboriamo con la Protezione civile.

 

Mi faccio il vaccino seduto nel talk show

Dopo avere ascoltato ogni giorno, a qualsiasi ora del giorno, in televisione, in radio o sui giornali, i professori Galli, Viola, Pregliasco, Crisanti, Gallavotti, Capua, Burioni, Bassetti, Sileri; dopo avere preso appunti, fatto schemi, copiato i grafici di Burioni alla lavagna, sentiti gli opinionisti, eseguito il presentat-arm davanti al generale Figliuolo, ecco quello che sono riuscito a capire sul vaccino AstraZeneca.

AstraZeneca non si chiama più AstraZeneca, ma tutti continuano a chiamarlo AstraZeneca specificando che non si chiama AstraZeneca. Vaccinarsi con AstraZeneca è meno rischioso che prendere un’aspirina, volare in aereo o bere un liquore all’anice, 46 gradi (Pietro Castellitto a Dimartedì).

La prima dose si fa con Boris Johnson, la seconda con Johnson&Johnson, la terza è sospesa. La prima dose è sconsigliata ai trentenni; la seconda dose è consigliata ai sessantenni, la terza dose è consigliata dalla lotteria degli scontrini.

La fascia fino a trent’anni è la fascia rossa, la fascia dai quaranta ai sessanta è la fascia arancione, la fascia dai sessanta in poi è la fascia gialla (almeno fino a venerdì, poi vediamo i dati).

La prima dose si può fare presso il domicilio o la residenza, la seconda dose si può fare anche nella seconda casa. Se uno ha fatto la prima dose saltando la fila, la seconda dose gli viene condonata.

Quelli che tra la prima e la seconda dose hanno compiuto sessant’anni dovranno restituire la prima dose prima di ricevere la seconda.

Quelli che hanno ricevuto la prima dose a Stoccolma con tutti i comfort faranno la seconda dose ad Ankara seduti su un sofà. La prima dose si fa in presenza, la seconda viene bonificata in base al fatturato. Eccetera.

Forse ho fatto un po’ di confusione, ma che volete, mi hanno raccontato che la sanità italiana è un modello invidiato nel mondo e io mi sforzo di crederci. È vero che non riesco a parlare con il mio medico di famiglia, ma in compenso ogni giorno ho a disposizione un sacco di talk show.

Mazzetta in cella, galera più bella

Un’altra settimana davvero molto soddisfacente qui a Criminopoli: in media, ogni 24 ore, abbiamo contato 3,7 nuovi indagati per corruzione e 12 per associazione mafiosa (o per aver favorito la mafia). Totale della settimana: 26 accusati di corruzione e 88 accusati per reati di mafia. Totale nel 2021: 264 nuovi indagati per corruzione e 938 per associazione mafiosa. Il Premio Mazzetta della Settimana va a Michele Pedone, poliziotto penitenziario con grado di Sovrintendente in servizio nel carcere siciliano di Augusta. Secondo l’accusa, con tariffa standard da mille euro, introduceva nel penitenziario “bicarbonato di sodio”, ovvero cocaina, nonché telefoni cellulari e svariati annessi accessori. Pedone vince il premio – seppur simbolico gli sarà revocato nel caso in cui venga archiviato o assolto – per la migliore regia e interpretazione dell’anno. Non è solo il modo in cui s’intasca la mazzetta a fare la differenza, ma anche la sceneggiatura e la presenza scenica. Raccontano i testimoni: la consegna del materiale al detenuto avveniva infatti nell’infermeria del carcere dove uno dei destinatari “simula di stare poco bene in modo da farcisi portare. A quel punto, una volta che in infermeria si sono accertati che non c’è nessun problema particolare, Pedone riaccompagna il detenuto alla cella al piano superiore e lo scambio avviene quindi durante il tragitto (…) verosimilmente nell’ascensore (…) ancora, il detenuto spiega alla donna dove nasconde la merce ricevuta e …nella minchia, nel culo, dentro le mutande… io o altri abbiamo magari il giubbotto (…) lo usiamo solo per questo (…)”. In altre occasioni, sempre secondo i testimoni, il poliziotto rimprovera il detenuto che ha simulato il malore e lo porta con sé per effettuare la consegna. Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.179 giorni.