Vitalizio, oggi vince la legge del cane non mangia cane

Si chiede Maurizio Paniz, l’abile avvocato di Roberto Formigoni e di molti altri ex senatori e onorevoli a caccia del perduto vitalizio: “A un ergastolano, se l’ha maturata, la pensione viene data: a un ex parlamentare non bisogna darla?”. La domanda, seppur retorica, merita risposta. La nostra è questa: “Sì, la pensione-vitalizio al parlamentare condannato per reati contro la Pubblica amministrazione non va data. Va concesso, se il parlamentare è indigente, solo un contributo minimo che gli consenta, come è giusto, il sostentamento”.

Il perché è semplice. E non nasce da sentimenti anti-casta. Ma al contrario scaturisce dal profondo rispetto che nutriamo per le istituzioni oltraggiate da chi, approfittando del suo ruolo, si è venduto in cambio di denaro o altre prebende. Chi viene eletto ha oneri e onori diversi da quelli dei semplici cittadini. Quando assume un incarico pubblico si impegna a svolgerlo con “disciplina e onore”. Se è parlamentare “rappresenta la nazione” e perché lo possa fare liberamente le leggi stabiliscono per lui l’assenza di vincoli di mandato, l’impossibilità di essere perquisiti, arrestati o intercettati senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma non basta. Proprio perché la funzione del parlamentare è importante, il legislatore ha anche previsto un’aggravante di pena in caso di diffamazione. Se un giornalista scrive cose false su un semplice cittadino, subirà una condanna più lieve rispetto a quella che gli verrà comminata se attribuisce gli stessi fatti a chi fa parte di un “corpo politico dello Stato”.

Da questo punto di vista, insomma, l’eletto è molto diverso dall’elettore. Ed è diverso ovviamente anche dall’ergastolano citato da Paniz. Il quale con i suoi comportamenti negativi ha infangato solo se stesso, non la sua nazione, il Parlamento e chi lo ha votato pensando che fosse una brava persona.

Questa diversità è spesso rivendicata con orgoglio dai nostri rappresentanti. Anche per questo sia alla Camera sia al Senato vige ancora l’autodichia: una prerogativa che permette al Parlamento di risolvere controversie attinenti ai propri dipendenti attraverso propri organi giurisdizionali, senza ricorrere ai tribunali esterni che di regola giudicano su queste vicende. In caso di licenziamento, per esempio, i commessi della Camera non possono ricorrere al Tribunale del lavoro. E sempre in base all’autodichia è stato deciso che nel Palazzo non vale la legge sui whistleblower (che protegge chi svela episodi corruzione) e nemmeno quella che abolisce i co.co.co e i contratti a termine oltre il terzo anno (col risultato di garantire meno diritti ai cosiddetti portaborse rispetto agli altri lavoratori).

Anche la Commissione Contenziosi (composta da un esponente di Forza Italia, da due della Lega e da due tecnici) che ha restituito i vitalizi ai tangentisti si è espressa in base all’autodichia. Per questo rivendicare come una vittoria del diritto le pasticciate motivazioni della Commissione è sbagliato. Si è trattato semplicemente di una scelta politica dettata dal vecchio principio secondo cui cane non mangia cane. Perché in base all’autodichia la Commissione Contenziosi avrebbe potuto benissimo citare la legge sul reddito di cittadinanza (che esclude dal sussidio solo chi ha commesso reati di mafia o si è sottratto alla pena) non per restituire ai ladri di Stato il lauto vitalizio, come ha fatto, ma semplicemente per assegnare loro 780 euro al mese. Il minimo per la sussistenza. E nessuno avrebbe potuto dir nulla. Intanto, il Palazzo decide da solo.

 

Nuovo assalto della politica all’indipendenza dei giudici

“Quod non fecerunt barbari fecerunt barberini”: è quel che fa venire in mente il progetto di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura di vari deputati (FI, Lega, Iv e Az). C’è infatti un precedente che non ha funzionato ma che ora si ripropone sperando di farcela. Protagonista del precedente (2003) fu il parlamentare di FI Bondi: per verità un politico-poeta, nient’affatto un barbaro, per cui la “pasquinata” gli va stretta. Ma di fatto fu un precursore dei “barberini” di oggi. Bondi, mentre l’alleato leghista discettava sul “costo delle pallottole” per i magistrati, aveva pensato a una Commissione parlamentare “per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane”. Occorreva “sistemare” i magistrati che davano fastidio, non rispettando certi “santuari” tradizionalmente impuniti. Di quel progetto non si fece nulla, ma chi non crede nella giustizia vi trovò una spinta formidabile. Può accadere anche oggi, tanto più che si tratta di colpire un corpo (sia pure con lodevoli eccezioni) culturalmente indebolito e tramortito da crisi non solo di efficienza, ma anche di credibilità. Crisi che da tempo erodono la fiducia nella magistratura, da ultimo con il pingue contributo del caso Palamara (motore di un Sistema di cui ora si proclama vittima) e della pandemia che non ha risparmiato il servizio giustizia.

Certo, non è più quella di Bondi la formula oggi usata. Vi si parla di correnti, attribuzioni di incarichi direttivi e funzioni del Csm, di fatto accusato di “far come gli struzzi” a fronte delle sconvolgenti rilevazioni del sullodato Palamara. Ma la sostanza rimane la stessa: indagare sul supposto uso politico della giustizia e sul lavoro delle toghe in generale, compreso il Csm nell’esercizio nelle sue funzioni istituzionali. Si può rigirarlo fin che si vuole, ma resta – come ai tempi di Bondi – un attacco all’indipendenza della magistratura. E se allora l’iniziativa era stata di un “semplice” parlamentare, portavoce di FI, oggi tra i primi promotori troviamo addirittura un esponente dell’esecutivo, la ministra, sempre di FI, Gelmini. Ma certe cose non si possono fare in uno Stato democratico fondato sul principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario): una conquista storica e politica della civiltà occidentale che garantisce l’indipendenza dei giudici. In Italia mai gradita dai poteri (pubblici e privati) restii al controllo di legalità, che in vari modi han sempre cercato di regolare i conti in sospeso, ricacciando i magistrati nel loro “tradizionale” angolo di sottomissione. La voglia di indagini parlamentari sulla magistratura per un verso o per l’altro tende sempre a questo scopo, tipico di chi si sgola per chiedere più giustizia ma in realtà ne vuole sempre meno. L’obiettivo sembra oggi a portata di mano grazie al clima mefitico che incombe. E allora ecco che invece delle serie riforme di ampio respiro assolutamente necessarie (quelle impostate dai ministri Bonafede e poi Cartabia), una certa politica innesca un’indebita ingerenza nell’esercizio di un altro potere dello Stato e quindi un conflitto fra poteri istituzionali le cui conseguenze potrebbero essere devastanti. Prima di tutto per l’indipendenza della magistratura: patrimonio dei cittadini che credono nell’uguaglianza, non della “casta” dei magistrati. Che però devono essere i primi a difenderlo, scacciando “i mercanti dal tempio” per recuperare l’orgoglio e la responsabilità che in momenti ben peggiori (terrorismo e stragi) han saputo esprimere.

 

Con Bianchi alla scuola si premia chi è più ricco

Da qualche giorno, informa ilare il sito del ministero dell’Istruzione, è disponibile “la piattaforma per la compilazione del Curriculum dello Studente: il nuovo documento debutta quest’anno all’Esame di Stato del secondo ciclo di istruzione”. Il curriculum che mezzo milione di maturandi dovranno compilare è diviso in tre parti: Istruzione e Formazione, Certificazioni, Attività Extrascolastiche. In questa ultima parte i ragazzi sono invitati a inserire “informazioni sulle attività svolte in ambito extrascolastico e sulle certificazioni che possiedono, con particolare attenzione a quelle che possono essere valorizzate nell’elaborato e nello svolgimento del colloquio”. E “al termine dell’Esame, il Curriculum sarà allegato al diploma e messo a disposizione di studentesse e studenti all’interno della piattaforma”.

Non è un’idea del ministro Patrizio Bianchi, era una delle “innovazioni” contenute nella Buona Scuola di Renzi: per fortuna finora lasciata inattuata da ministri con un residuo di consapevolezza della missione della scuola della Repubblica e della Costituzione. Ma l’economista ferrarese a cui Mario Draghi ha affidato la scuola ha rotto gli indugi, varando il Curriculum. Si tratta di una delle decisioni che chiariscono meglio la natura di questo governo: un gabinetto paleoliberista di destra, guidato dalle idee di Giavazzi e dell’Istituto Bruno Leoni.

Il curriculum mette tra parentesi il diploma a cui è allegato: perché al mercato non basta il valore legale del titolo di studio, e nemmeno il voto. Il mercato vuole sapere cosa sta comprando. E così il ministero glielo dice: rendendo ben chiaro che la scuola deve servire non a formare cittadini, e prima persone umane, ma a piazzare capitale umano sul mercato del lavoro. E questo curriculum serve egregiamente a far capire che tipo di “pezzo di ricambio” è il ragazzo a cui sta attaccato – proprio come un cartellino sta su un pezzo di carne, sul bancone del supermercato. Ma il peggio deve venire, ed è legato alle Attività Extrascolastiche. Le commissioni della maturità si troveranno a interrogare e a valutare anche in base a un esplicito documento dell’abisso di diseguaglianza economica, sociale e culturale che divide e inghiotte i ragazzi della nostra scuola. Perché è chiaro a tutti che soggiorni all’estero, viaggi, sport, corsi di lingua, di teatro, di fotografia, di danza, di informatica, di musica… che i ragazzi inseriranno tra le Attività Extrascolastiche certificheranno solo una cosa: la ricchezza e la povertà delle rispettive famiglie. Dalla scuola in grembiule, solennemente egualitaria, siamo passati a un’esibizione della ricchezza autorizzata, anzi sollecitata, dal superiore ministero.

Così il governo dell’oligarchia ci spiega cosa sia, per lui, la meritocrazia: esattamente ciò che il diritto divino era per l’aristocrazia dell’antico regime, cioè la rassicurante certezza che chi sta sopra ci sta perché se lo merita, perché Dio vuole così. E che nulla, ma proprio nulla, arriverà mai a sovvertire questa immutabile scala sociale. Papa Francesco non si stanca di ripetere che da questa pandemia non si esce come prima: ma solo migliori, o peggiori. Che dopo due anni scolastici all’insegna della più turpe diseguaglianza (perché è questa, e non già l’ignoranza, la più grave conseguenza della didattica a distanza), il ministero della (già Pubblica, ora sempre più privata) Istruzione se ne esca con una simile nefandezza, lascia pensare che ne usciremo certamente peggiori.

In un suo recente, ottimo libro (La meritocrazia, Futura 2020) lo storico delle dottrine politiche Salvatore Cingari nota come “questi processi svuotino la scuola della sua funzione etica proprio nella misura in cui cercano di valorizzare il merito in una prospettiva competitiva che divide docenti e studenti in vincenti e perdenti, anziché come incomparabile potenzialità di ognuno. È proprio la coniugazione con la competizione che sottrae il merito alla sfera della libera realizzazione della propria individuale differenza, dell’espressione dei talenti nella più vasta accezione possibile della messa in comune della diversità, facendolo diventare parola chiave della diseguaglianza e della omologazione”. Che il merito così inteso non possa essere altro che la manifestazione dello status economico della famiglia degli studenti è ovvio: ma se si arriva a far considerare alle commissioni della maturità le “attività extrascolastiche” (che per un diciassettenne-diciottenne non possono che essere quelle assicurategli dalla famiglia), significa che ormai questa ratifica della diseguaglianza per censo non è un effetto collaterale, ma proprio il fine ultimo assegnato alla scuola. Nella sua strepitosa imitazione, Maurizio Crozza ritrae il ministro Bianchi a giocare a carte col morto: e il morto è la scuola. Ci stiamo andando pericolosamente vicini.

 

Venezia e Grandi Navi. Il bando “Fuori dalla Laguna” è ingannevole

Il Bando governativo per un progetto finalizzato a portare le Grandi Navi Fuori della Laguna di Venezia rimane assai vago, non precisando il punto dove esse saranno sistemate. Si pensa che il problema sia risolto per il solo fatto di non vederle più passare per il Bacino di S. Marco davanti al Palazzo Ducale. I confini della Laguna per legge e per la giurisdizione che vi ha ancora su di essa l’attuale ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cominciano all’inizio delle dighe Foranee dalla parte del Porto di Lido, di Malamocco e di Chioggia fino alla terraferma. Il “Fuori della Laguna” comincia al di là di questi confini. Tuttavia fin dal decreto Clini-Passera di 10 anni fa, questo Fuori della Laguna è stato utilizzato in realtà come slogan fuorviante e ingannevole soprattutto dai sostenitori del progetto Duferco-De Piccoli e in particolar modo dal Comitato NO! GRANDI NAVI. Anche dal senatore Felice Casson in un’intervista di qualche giorno fa a un giornale locale. Tale progetto infatti prevederebbe un approdo di Grandi Navi all’interno della Laguna, al di qua delle dighe foranee, lato diga di Treporti Cavallino, zona ambientale ad alto tasso turistico e a 500 metri di distanza dalla recente Isola del Mose. Il pericolo (che quasi nessuno conosce e che non viene mai nominato) derivante dall’attuazione di tale progetto è che esso è obbligato allo scavo di ben 2.3000.000 metri cubi di fondale (forse qualcosa meno poiché solo recentemente il Duferco-De Piccoli ha ridotto la presenza delle banchine di attracco). Lascio immaginare le conseguenze devastanti che un tale scavo comporterebbe sulla potenza del grande volume di acqua che si abbatterebbe nel bacino lagunare in cui si trova la città di Venezia, con un effetto di aumento dell’acqua alta e corrosione ulteriore sulle circostanti barene. Uguali problematiche derivano dall’ingresso delle Grandi Navi per il porto di Malamocco percorrendo il Canale dei Petroli (assieme a un traffico commerciale) per giungere alla Marittima. Anche qui sono necessari scavi di fondali ugualmente deleteri. Occorre convincersi che non ci sono soluzioni su questo problema nel voler far coesistere due elementi incompatibili: la città e il suo ecosistema con la crocieristica com’è prospettata attualmente. Il Fuori della Laguna dovrebbe essere off-shore in mare (demenziale) o altro porto come Trieste o altri luoghi che hanno il porto fuori della città, non come Venezia che ce l’ha al suo interno. Se la mettiamo sul piano della salvaguardia dei valori occupazionali relativi alla crocieristica, allora bisogna puntare su navi di stazza ben minore dei modelli attuali spinti sempre di più a un gigantismo estremo. Ne beneficerebbe soprattutto la qualità del turismo e gli insostenibili flussi che ne stanno distruggendo l’anima.

Enrico Ricciardi

Mail box

 

La lezione di Franzoso: torna “Il disobbediente”

In un Paese normale non servono cittadini eroi, ma semplicemente cittadini. Quelli che non si girano dall’altra parte, quelli che non si rassegnano a non vedere e non sentire, quelli che non accettano che un diritto sia confuso con regalìa. È la lezione di Andrea Franzoso che torna in libreria con Il disobbediente (Bur-Rizzoli). Tuttavia non è una semplice ristampa del libro uscito quattro anni fa. La storia è la stessa, ma la differenza sostanziale sta nel fatto che si passa da una vicenda strettamente personale a una presa di coscienza pubblica. Tra un’edizione e l’altra è successo qualcosa di significativo: sull’eco mediatica suscitata dal libro si è arrivati, dopo anni di insabbiamento, all’approvazione della prima legge italiana a tutela del whistleblower, alla lettera il soffiatore di fischietto. Un brutto quanto inutile anglicismo tradotto spregiativamente in spione, ovvero quello che fa la soffiata, per poi essere nobilitato come colui che non accetta e non si rassegna all’omertà: in qualsiasi contesto della convivenza civile. Soprattutto quando si trova di fronte a spreco di denaro pubblico per fini personali. Malaffare perseguito senza pudore, quasi sbandierato con quella sfacciataggine di chi si sente non solo un privilegiato, ma un intoccabile. A sigillare questo passaggio dal fatto personale alla dimensione pubblica sono la prefazione di Gian Antonio Stella completamente rifatta e la postfazione di Raffaele Cantone, approfondita con una riflessione sulla nuova legge.

Luigi Ingegneri

Nei piani vaccinali sono scomparsi i fragili

Risiedo a Genova. Ho 69 anni. Per la vaccinazione anti SARS-CoV-2 sono stata inserita dal medico di famiglia nella categoria dei fragili (non ultravulnerabili) per patologie pregresse (tre tumori e portatrice di mutazione genetica BRCA2). Dovevo essere vaccinata con Pfizer, ma all’accettazione del centro vaccinale mi è stato detto che sarei stata vaccinata con Astrazeneca perché Pfizer era solo per gli over 80. Ho rifiutato. Lunedì mattina la Regione Liguria aveva annullato le prenotazioni degli under 60 (che non potevano più ricevere Astrazeneca) e aveva ordinato ai medici di famiglia vaccinatori di fare Pfizer solo agli over 80 e Astrazeneca agli over 60. Come paziente fragile mi chiedo perché i fragili tra i 60 e gli 80 anni sono trattati come quelli che non hanno particolari problemi di salute e vengono vaccinati con Astrazeneca, cioè con un vaccino che non è somministrato né agli under 60 né alle categorie a rischio (ultravulnerabili e over 80). I fragili sono scomparsi da ogni informazione sulla campagna vaccinale. Si parla solo di fasce per età. Perché allora i fragili sono stati individuati secondo una tabella specifica di criteri e segnalati alla Asl? Per vaccinarli all’interno della loro fascia d’età senza distinzioni? Per smaltire le scorte di Astrazeneca e poi anche di Johnson&Johnson?

Laura Malfatto

 

Le poltrone che servono con la Turchia a giugno

Ho letto che per la partita inaugurale degli Europei di calcio a Roma saranno ammessi 17.000 spettatori. A mio avviso sono pochi. Trattandosi di Italia-Turchia il numero giusto sarebbe 17.003. Bisogna far aggiungere tre poltrone in tribuna d’onore: al centro per Erdogan, alla sua destra per Von der Leyen e alla sinistra per Draghi. Occorre una decisione “dittatoriale” altrimenti potremmo essere tacciati di “maleducazione”!

Pio Macchiavello

 

Se Conte avesse dato del “dittatore” a Erdogan

Se Conte avesse chiamato Erdogan “dittatore” avremmo letto titoli di questo tenore. Sole 24 Ore: “Persi 2,4 punti di pil a causa della contrazione degli scambi commerciali tra Italia e Turchia”. Corriere della Sera: “Ambasciata e Consolati italiani in Turchia sotto assedio. A rischio l’incolumità dei nostri connazionali” Stampa-Repubblica: “Danni ingenti alle nostre esportazioni in Turchia” Il Secolo XIX: “La Turchia revoca il contratto con Leonardo e Fincantieri” Il Giornale: “Flash Mob a Istanbul: lancio di borse e scarpe Dolce e Gabbana nel Bosforo” Libero: “La Turchia blocca l’esportazione del pistacchio. In ginocchio l’industria dolciaria italiana” Il Foglio: “Turchi incendiano ristorante italiano in piazza Taksim e tagliano le gomme alla Ferrari del ristoratore” Il Messaggero: “Allarme a Trastevere: i turchi sputano nei kebab. Distrutta la movida” Il Mattino: “I turchi si vendicano sulle nostre donne. ‘O sarracino’ non è più ‘nu bellu guaglione”

Carmelo Sant’Angelo

Si parla male del “Fatto” nelle rassegne di Sky

In una delle poche volte che è stato citato il Fatto nella rassegna stampa del mattino, il giornalista ha aggiunto che adesso il nostro giornale attacca il governo Draghi. Solo perché siete abituati a scrivere la verità o perché scrivete cose che gli altri manco si sognano? Ma che gli avete fatto al direttore e a tutta la redazione di Sky?

Delfino Biscotti

 

Caro Delfino, temo che ci venga rimproverato un deficit di lingua e di ghiandole salivari.

M. Trav.

Perché dipinti e sculture hanno come immagine iconica la Madonna nera

E per la serie “Sbrigatevi a vaccinarvi che voglio vedere l’ultimo di James Bond”, la posta della settimana.

Caro Daniele, perché in certi santuari si venera una Madonna nera, come a Loreto e a Oropa? (Sabrina Gallorini, Firenze)

Dipinti e sculture che rappresentano una Madonna nera risalgono a una tradizione orientale, a sua volta influenzata dal precedente culto di Iside (Di Cocco, 2007). Per millenni, le civiltà del Mediterraneo hanno pregato Iside, la dea madre suprema e universale, regina benigna, misericordiosa e ausiliatrice, divinità dai mille nomi (Minerva, Venere, Afrodite, Diana, Atena, Maia, Kore, Temi, Artemide, Astarte, Proserpina, Cerere, Ecate). Iside è il Principio femminile di fertilità che domina i tre mondi (sotterraneo, terrestre, celeste). Ritroviamo questo simbolismo del numero tre nelle cellette mariane ai trivi, che derivano dagli antichi tabernacoli dedicati a Ecate trivia, regina dei tre mondi; e nelle cattedrali gotiche francesi del XIII secolo, tutte dedicate a Maria, con la Madonna nera (ipogea) nella cripta, la Madonna bianca (terrestre, delle messi, come Cerere) sull’altare maggiore, e la Madonnina d’oro (celeste) sulla guglia. “Triviale” significa “volgare” perché presso i tabernacoli dei trivi si trovavano le prostitute, anticamente custodi di una dea legata ai cicli della fertilità. L’antico mito egizio narra di Iside, sorella madre e sposa di Osiride. Osiride viene ucciso dal fratello Seth e il suo corpo viene smembrato. Iside va in cerca delle parti del corpo di Osiride, le ricompone, vi soffia la vita e Osiride risorge. Il mito è un’allegoria astrologica: Osiride è il Sole, Iside è la Luna. Le feste della morte e resurrezione di Osiride andavano dall’equinozio d’autunno (sue vestigia: la festa delle lanterne a Colonia e le fiere “di S. Martino” l’11 novembre, la rificolona a Firenze, la festa dei morti buddista, Ognissanti e Halloween) a quello di primavera (Navigium Isidis, Pasqua, capodanno babilonese) attraverso le feste del solstizio d’inverno (natale di Horus/Osiride, Natale cristiano). Iside in trono con la mammella nuda che allatta un bambino viene trasformata nell’iconografia cattolica della Madonna col bambino. Iside che piange Osiride tenendolo in grembo ispirerà invece le varie Pietà. La Madonna è Iside. L’iconologia mariana la mostra spesso su una nave, come Iside. La nave a volte è a forma di falce lunare (per esempio a Notre Dame de Paris). Nelle pitture pompeiane, Iside poggia il piede nudo sul serpente in quanto regina delle forze ctonie (il serpente, per i Romani, è il Tempo): la Madonna viene raffigurata allo stesso modo. Quando Alessandro Magno conquista l’Egitto, il culto di Iside si diffonde in tutto il Mediterraneo, diventando la dea dai mille nomi che racchiude tutte le altre dee, come narra Apuleio. I Romani coniano monete con l’effigie di Iside già nel 90 a.C. Con Vespasiano il culto di Iside diventa religione imperiale, ma gli eccessi di Caracalla gettano una cattiva luce sui culti isiaci, e in età tardo-imperiale il culto di Iside viene sussunto nella trasformazione del cristianesimo in cattolicesimo a opera di Costantino. Il controllo dell’Impero avviene innanzitutto grazie allo strumento della nuova religione, che unisce isismo, cristianesimo e culto del dio Sole. Trasformati in realtà storica simboli e allegorie, l’Imperatore può lucrare dal Dio la sua autorità, come facevano i Faraoni: la politica crea la religione. Io ero cattolico, finché una notte Dio mi è apparso in sogno e mi ha rivelato che erano tutte favole. Ok, non era un sogno: mi ha parlato da un roveto ardente. Ok, non era un roveto ardente: era il boschetto di una ragazza che stavo leccando. Ma era divino. Mi ha convinto.

 

Come a scacchi: seconda mossa sui “dittatori”

Non sappiamo se Mario Draghi sappia giocare a scacchi, ma sicuramente non gli sfuggono due regole basilari del gioco, e del potere: mai improvvisare e prevedere sempre le mosse successive. Ora ci viene confermato che aver definito “dittatore” il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, nella conferenza stampa di una settimana fa, non fu “voce dal sen fuggita” ma gesto calcolato pur non privo di azzardo. Lo sappiamo perché malgrado le forti pressioni diplomatiche di Ankara per una sollecita marcia indietro, Draghi è rimasto in silenzio. Chi ha dimestichezza con il premier sa che egli pur non sottovalutando (e come potrebbe?) le conseguenze economiche di una rottura con la Turchia per le aziende italiane, intende mantenere il punto. Nei confronti dei tiranni – siano essi partner strategici o meno – amanti del filo spinato e delle carceri per gli oppositori e i giornalisti. Anche quando con essi si è costretti a scendere a patti, come sulla questione immigrazione. Del resto, la risposta di Erdogan a Draghi (“è un gran maleducato”) è sembrata più che altro un ridicolo segno di debolezza da parte di chi reagisce a un ceffone citando il galateo. Adesso però nella presa di distanza dai regimi autocratici, il governo italiano è chiamato a una inevitabile seconda mossa poiché se parliamo di violazione dei diritti umani, il governo egiziano di Al Sisi non ha certo meno benemerenze del sultano turco. Mentre l’inchiesta sull’assassinio di Giulio Regeni si arricchisce di nuovi depistaggi (gli agenti sapevano della sua morte e decisero di inscenare una rapina finita male), mercoledì al Senato la richiesta di concedere la cittadinanza italiana allo studente egiziano Patrick Zaki, detenuto nelle carceri del Cairo sulla base di accuse pretestuose, è stata pressoché unanime. Di particolare valore morale e simbolico la presenza in aula della senatrice a vita Liliana Segre, 90 anni, che ha detto: “Sarò sempre presente quando si parla di libertà. Ricordo cosa si prova da innocente in prigione”. Insomma, definendo Erdogan per quello che è, in difesa dei valori basilari della democrazia, Draghi ha intrapreso una strada accidentata che non gli procurerà molte simpatie da parte di certi nostri vicini che con la parola democrazia si puliscono gli stivali. Ma come ogni percorso consapevole, non può fermarsi alla prima tappa.

Stellantis sfida l’auto elettrica Ma l’ex Fca è già tagliata fuori

L’auto elettrica è già la realtà dell’automotive mondiale. E lo è, afferma l’ad di Stellantis Carlos Tavares, “per preparare la prevedibile fine della vita del motore termico”. Per il momento, però, le certezze dichiarate dal gruppo indicano solo negli stabilimenti francesi e tedeschi, e soprattutto nell’alleanza tra i governi di Parigi e di Berlino, il fulcro di questa spinta sul fronte, in particolare, delle batterie di nuova generazione che garantiscano indipendenza dai fornitori asiatici. E che ne sarà allora dell’Italia dei sette stabilimenti dell’ex Fca, tra i quali Mirafiori, con 17 mila dipendenti e un indotto che ne rasenta 50 mila? Ieri è stata una giornata particolare e del tutto interlocutoria per questo interrogativo che chiama in causa il governo italiano, così come ha chiesto la sindaca di Torino, Chiara Appendino, con una lettera a Mario Draghi e al ministro Giancarlo Giorgetti: “La nostra città è il luogo naturale da cui deve ripartire il rilancio della filiera automobilistica italiana. Vi chiedo di prevedere l’utilizzo di parte delle risorse del Recovery Plan per permettere a Torino di continuare il suo percorso. Per il momento, invece, c’è solo silenzio”.

Nel pomeriggio, infatti, proprio sotto la Mole si era svolto il vertice tra il numero due dell’area Europa di Stellantis, Davide Mele, e i sindacati metalmeccanici, conclusosi con le prime dichiarazioni su “un avvio del confronto, dubbi non tutti fugati, necessità di un tavolo col governo”. Al mattino, invece, si era tenuta a Parigi la prima assemblea del nuovo gruppo, presieduta da John Elkann. Tavares ha parlato del piano industriale di integrazione tra Psa e Fca per il 2022, definendolo “non difensivo, ma offensivo e con rotture significative”, aggiungendo che la produzione di vetture elettriche è già un impegno: “Mi aspetto vendite per 400 mila veicoli, il triplo del 2020”. Le strategie di Tavares e dello Stato francese, che detiene il 6,2% del gruppo, erano però già state illustrate lunedì scorso in un’iniziativa inedita nel panorama dell’informazione economica: un’intervista parallela su Le Figaro all’ad di Stellantis e al ministro dell’Economia Bruno Le Maire. Il ministro ha subito ribadito la volontà di mantenere alla Francia il ruolo di “grande nazione automobilistica”. Dopo, i due hanno duettato sul futuro dell’automotive in “salsa francese”.

Lo spunto sono state le proteste dopo l’annuncio del trasferimento della produzione di un motore a benzina in Ungheria dallo stabilimento di Douvrin. “Non ci sono rischi per l’occupazione”, ha spiegato Tavares, “Douvrin sarà uno dei siti in cui accompagnare il lento abbandono del motore termico, con miliardi di investimenti industriali e di ricerca in Francia e un enorme trasferimento di attività per motori elettrici, cambi, batterie, che da soli rappresentano il 35% del valore di un’automobile e che noi non importeremo più dall’Asia. Ed è lì che, entro il 2023, nascerà la futura gigafactory del progetto Acc (Automotive cells company), con il sostegno dei governi francese e tedesco, della regione Hauts-de-France, e in collaborazione con Total-Saft, per la produzione di batterie: un investimento di 5 miliardi di euro”. L’altro polo per le batterie sorgerà in Germania, a Kaiserslautern, a fine 2025. Un progetto che Le Maire ha inserito nel piano di Stato “per la trasformazione della nostra industria automobilistica” e che intende coinvolgere anche Renault, l’altro marchio transalpino a partecipazione pubblica. “Un impegno da 8 miliardi che si basa sugli incentivi e aiuti per l’auto elettrica: ne discuteremo il 26 aprile. Se continueremo ad affidarci a tecnologie obsolete, entro il 2030 potrebbero sparire 50 mila posti di lavoro”.

Analisi e impegni che, però, non hanno aperto spiragli sul ruolo di Stellantis in Italia. Che, aldilà delle preoccupazioni sugli attuali livelli occupazionali sottolineate dai sindacati nell’incontro di Torino (come il ripetuto ricorso alla cassa integrazione e la cancellazione di una linea produttiva a Melfi) impone al nostro governo un’iniziativa che chiami in causa Tavares. “Per un coinvolgimento nell’asse franco-tedesco sull’innovazione elettrica – dice Giorgio Airaudo, segretario della Fiom Piemonte – ci vogliono un polo per le batterie anche in Italia e una garanzia sui modelli e sui volumi produttivi”. Imboccando la via dell’utilizzo di una parte del Recovery Plan e della transizione ecologica che affianchi Stellantis e ottenendo in cambio garanzie per quella che fu la Fiat di Gianni Agnelli. Magari cominciando da quella rete per la ricarica delle vetture elettriche e con il coinvolgimento di interlocutori come Eni ed Enel. Qualcosa su cui Le Maire (e dunque anche Tavares) è già molto avanti in Francia: “Abbiamo riunito società energetiche, società autostradali, concessionarie. Entro la prossima estate, il 40% delle aree di sosta autostradali dovrà offrire stazioni di ricarica rapida”.

“La Casta prova a riprendersi tutto”

“Lorsignori stanno riprendendo il sopravvento”. È il commento a caldo di Primo Di Nicola, senatore del M5S e giornalista d’inchiesta di lungo corso (è autore di Orgoglio e Vitalizio per Paper First) a proposito della restituzione del vitalizio a Roberto Formigoni e non solo a lui. “Il partito forzista e leghista del vitalizio ha messo a segno un altro colpo nel percorso di pieno ripristino di questo vergognoso privilegio: ridare l’assegno persino agli ex parlamentari condannati per reati gravissimi contro la Pubblica amministrazione infligge una umiliazione micidiale per la moralità della vita pubblica: ingiustizia è fatta!”.

La Commissione Contenziosa di Palazzo Madama dice di aver applicato la legge.

Macché. La delibera del presidente Grasso del 2015, che nega il vitalizio ai condannati, aveva richiesto mesi e mesi di lavoro oltre che il conforto di esimi giuristi. Era parametrata sulla legge Severino che mi risulta abbia passato il vaglio della Corte costituzionale. Ma evidentemente quel principio di integrità e quegli standard minimi richiesti ai parlamentari per aver diritto a godere dell’assegno sono risultati indigesti.

Col vitalizio ridato ai condannati è “tana liberi tutti”.

Bisognerà quantomeno essere mafiosi o terroristi per perderlo. Non che i politici non siano riusciti a macchiarsi anche di questi reati, ma assai più spesso quando sgarrano lo fanno per soldi. Escludere reati come la corruzione significa quasi accordare una licenza di rubare alla classe politica. Che tradizionalmente ha considerato la sanità uno dei suoi principali canali di finanziamento con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Allude alla Lombardia di Formigoni?

Ho sentito le sue invettive rabbiose contro chi in questi anni si è battuto contro ruberie e privilegi. A quanto pare a vergognarsi devono essere i cittadini onesti.

Il Senato gli ha dato ragione…

Grazie a giudici come Caliendo che hanno preteso di applicare norme improbabili (la legge sul reddito di cittadinanza, ndr) al caso di Formigoni. Mentre tutti abbiamo capito il senso politico di questa sentenza.

Ossia “ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost…

Per i parlamentari che dovrebbero svolgere il ruolo con disciplina e onore non basta versare per riscuotere un vitalizio che è ancora marchiato da regole di favore che i comuni cittadini possono solo sognare. Un vero e proprio schiaffo in faccia agli italiani peraltro in un momento come questo di massima difficoltà. La Casta si sta riprendendo la sua rivincita e temo non sia finita qui: se queste sono le premesse, ora Lorsignori riusciranno anche a cancellare il taglio dei vitalizi che hanno dovuto subire.

Ma torniamo ai condannati. Ora Palazzo Madama restituirà il vitalizio anche a Del Turco.

Con tutto il rispetto per le condizioni di salute di Del Turco, la sua protestata innocenza rispetto alle mazzette ricevute dall’ex ras delle cliniche abruzzesi Vincenzo Angelini non trova conforto nelle sentenze che lo riguardano. Eppure la narrazione è ribaltata e sembra che siano i giudici sotto processo: non una parola è stata detta a tutela del loro operato.

Vitalizi, 5Stelle in trincea: “Il Senato faccia ricorso”

Era già tutto previsto: il Senato continuerà a erogare il vitalizio al condannato Ottaviano Del Turco, che beneficia della sentenza resa sempre a Palazzo Madama a favore di Roberto Formigoni, su cui è deflagrata la protesta.

Perché ora il Movimento 5 Stelle chiede a Sua Presidenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati, di muoversi in modo che l’amministrazione del Senato blocchi l’esecuzione della decisione con cui la Commissione contenziosa, presieduta dal forzista Giacomo Caliendo, ha ridato l’assegno all’ex governatore della Lombardia (ai domiciliari per aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele). Una decisione che fa carta straccia della delibera Grasso del 2015, che prevedeva la sospensione dell’assegno agli ex parlamentari condannati per mafia, terrorismo ma anche per reati contro la Pubblica amministrazione con pene superiori ai due anni di reclusione: un tana libera tutti non solo per il Celeste, ma anche per gli altri condannati rimasti o che rischiavano (come Del Turco) di rimanere a secco.

Per i pentastellati in pressing sulla Casellati, l’amministrazione dovrebbe fare esattamente come accaduto qualche tempo fa, sempre per via di una sentenza di Caliendo&C.: quella con cui la Commissione presieduta dal forzista aveva bocciato il taglio di tutti i vitalizi sì inviso agli ex inquilini di Palazzo. In quell’occasione l’Amministrazione, evitando di dover immediatamente restituire milioni di euro a chi era già pronto a battere cassa, aveva fatto ricorso presentando da subito un’istanza cautelare. Accolta la quale, la sentenza è stata stoppata fino alla definizione del giudizio di appello.

“Abbiamo chiesto alla presidente Casellati di procedere con il ricorso e con la sospensione della sentenza chiedendo l’intervento del Segretario generale, su richiesta del presidente” ha detto Paola Taverna al termine del Consiglio di presidenza di Palazzo Madama che era stato convocato sul caso del vitalizio di Del Turco e in cui si è preso atto degli effetti erga omnes della sentenza pro Formigoni. Rincara la dose l’altra pentastellata Laura Bottici, pure lei membro del Consiglio di Presidenza: “La richiesta è stata fatta anche considerando ciò che potrebbe accadere al bilancio interno del Senato, perché se l’annullamento della delibera su Formigoni rende automatica la decadenza delle altre delibere, che fine fanno le somme sospese in precedenza? Non ne possiamo accettare il ripristino, a maggior ragione verso un ex parlamentare che proprio nel campo sanitario ha commesso dei reati vergognosi. Al di là delle sentenze, è importante che la politica dia un segnale, in questo momento tutto ciò che è legato al tema della sanità merita rispetto e attenzione”.

Anche l’ex capogruppo M5S Perilli interviene in punto di diritto contro i meccanismi che governano a Palazzo. “L’autodichia, cioè il principio per cui le Camere possono decidere in autonomia sul proprio funzionamento, non può essere utilizzata a convenienza né servire solo quando c’è da difendere o attribuire privilegi”. Ma il dibattito non tira: gli altri partiti restano muti in attesa che passi la burrasca. Si cimenta solo il forzista Francesco Giro per salire in cattedra: “La richiesta dei 5stelle rivolta alla presidente Casellati di promuovere rispetto l’amministrazione del Senato un ricorso alla sentenza Caliendo, è impropria perché solo il vertice della stessa amministrazione, nella persona del Segretario generale può impugnare il provvedimento in piena autonomia, sentita l’Avvocatura dello Stato. Personalmente non credo vi siano i presupposti per invocare i presupposti di autotutela del Senato rispetto a una sentenza giuridicamente ineccepibile. Ricorsi temerari vanno assolutamente evitati”.