Il Pd “tiepido” su Mr. Bce A Torino col M5S vince

Liberare il Pd dallo strapotere delle correnti e “mescolare” tutto: la speranza di Enrico Letta di riuscire nella mission impossible di non farsi schiacciare dalle dinamiche interne del suo partito (e dalla complessa dialettica con il governo Draghi) passa da qui. E dunque, appena eletto il segretario, ha lanciato una consultazione nei circoli per definire l’agenda del “suo” Pd. A partecipare sono stati 39.742 iscritti, che hanno prodotto circa 1972 vademecum, in un totale di 2949 circoli. Sono stati sottoposti 21 punti e ogni circolo aveva 100 parole a disposizione per illustrare proposte e criticità. Rispetto alle anticipazioni del Nazareno, qualche tendenza si può già evidenziare: in cima alle priorità restano i diritti dei lavoratori (per il 18,1%), nella tradizione di una formazione di sinistra. Seguono il Next Generation Eu (17,4%), che però in buona parte si sta definendo lontano dalle stanze non solo dei circoli, ma pure dei partiti e la partecipazione (17,3%).

Al punto “L’economia della condivisione”, il 33% sostiene che il Pd debba essere il partito del lavoro e il 12% chiede la partecipazione dei lavoratori agli utili. Per stare nel dibattito di questi tempi, il 37% chiede una riforma del Titolo V. Lo ius soli e i diritti civili degli esclusi sono importanti per il 49%, il voto ai 16enni interessa il 25%. Su come dovrà allearsi il Pd, opinioni diverse: per il 21% serve un centrosinistra unito, sul modello Ulivo, per il 20% il dialogo con M5S, per il 16% riaffermare l’identità del Pd.

Sulla questione, però c’è anche un’altra rilevazione, questa volta torinese: il sondaggio Ipsos commissionato da Francesco Boccia, che dice non solo che il centrosinistra alleato con Guido Saracco vincerebbe al primo turno (con il 50, 8% dei voti), ma anche che il giudizio sull’amministrazione uscente (e dunque sull’Appendino) è positivo per il 45% degli interpellati. Mentre invece il Pd da solo è destinato a perdere: il candidato della destra, Damilano è comunque sopra (con il 42,5% dei voti) a quello del centrosinistra senza M5s (41,5%). Tra i possibili candidati del Pd, il gradimento dell’unitario Saracco rimane il più alto, seguono Mauro Berruto e Stefano Lo Russo (voluto da Chiamparino). Tutto è ancora da decidere, mentre a Roma è ormai certo che si andrà alle primarie, probabilmente a metà giugno.

Tornando ai Circoli. Sul governo Draghi, mentre il 40% si esprime per “il sostegno, ma difendendo la nostra identità”, il 25% crede che sarebbe meglio prepararsi alle elezioni. E il 24% vorrebbe il Pd protagonista del Recovery. Ancora, il 15% dice no alle liste bloccate, per il 4% il taglio dei parlamentari è un problema. Identità in movimento. Le slide complessive sono 50. L’operazione, spiega Michele Bellini, capostaff di Letta, che l’ha coordinata, si è avvalsa di una metodologia mista tra digitale e umano. Anche questo, un tentativo di rivoluzione.

Solo slide e nessun dettaglio: il Recovery in bianco di Draghi

Di ufficiale, a due settimane dalla consegna del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ci sono solo delle slide. Piene di buoni propositi, raccontano i rappresentanti di Regioni, Province e Comuni a cui sono state presentate tra ieri e l’altroieri, ma di fatto “ferme alle cose che ci dicevamo sei mesi fa”. Nessun dettaglio sulla governance, né sul coinvolgimento degli enti locali – sollecitato sia dal presidente della conferenza delle Regioni, il leghista Massimiliano Fedriga, che dal sindaco dem di Firenze Dario Nardella – né tantomeno sulle modalità con cui verranno espletati i bandi. Al punto che ormai sono sdoganati a destra e sinistra i paragoni ironici col governo Conte: “Sono riusciti nell’impresa di farlo ancora più confuso e generico di prima”. C’è sconforto, qualcuno dice addirittura “sconcerto”, per le “pletoriche” riunioni che “imbarazzano” tecnici e politici.

Ieri il premier Mario Draghi ha iniziato il suo ciclo di incontri con i partiti, cominciando da Movimento 5 Stelle e Lega. E al di là delle dichiarazioni piene di “ottimismo ed entusiasmo” rilasciate da Vito Crimi al termine della riunione in cui ha “sollecitato coraggio” sulla transizione ecologica, gli incontri non devono essere considerati esattamente determinanti, se Matteo Salvini ha addirittura deciso di disertare l’appuntamento per tornarsene a Milano. Non solo. La Lega non ha sollevato nessun problema sul Piano, nel complesso si dice soddisfatta delle parole ascoltate. Si è limitata a chiedere “attenzione a finanziare filiere di produzione nazionale”. Una questione a tutela dell’industria italiana. Tanto che sembra una excusatio non petita la dichiarazione del capogruppo a Montecitorio, Riccardo Molinari: “Sul Recovery riteniamo che la delega al governo non sia in bianco: capiamo che i tempi siano stretti ma vogliamo dare indicazioni, anche sulle proposte raccolte dalle Regioni”.

Il punto è che il dossier è tutto nelle mani del premier, che il 26 e 27 aprile – con soli tre giorni di anticipo rispetto alla consegna a Bruxelles – illustrerà in Parlamento il piano italiano del Next Generation Eu. Non ci sarà un altro voto, oltre a quello che si è già avuto sulle linee guida. La deadline europea è il 30 aprile e dunque non c’è il tempo materiale di intervenire, se mai qualcuno avesse avuto intenzione di farlo. La realtà è che, mentre crescono i malumori nei confronti del premier, nessuno all’interno della maggioranza sembra avere la forza di incidere sul dossier che ha fatto cadere il Conte bis.

Il che la dice lunga sulla dialettica in corso. Mentre le critiche della Lega sono quotidiane, il Pd non esce allo scoperto. Ma lo scontento è trasversale: Draghi non convince l’area più a sinistra di Peppe Provenzano, non convince Nicola Zingaretti, ma non convince neanche Dario Franceschini, anche se Enrico Letta ha fatto del sostegno al governo un punto fermo. Però, il premier è considerato troppo lontano. Dalla gente, dal Parlamento, dagli stessi politici che con lui governano. Dal canto suo, lo stesso Draghi sembra del tutto distante dalle forze politiche. A Palazzo Chigi sono molto critici: da Pd e M5s si sarebbero aspettati, dicono, più protagonismo. Non solo: le divisioni tra i dem e Forza Italia e le tribolazioni dei Cinque Stelle fanno sì che non venga individuata un’interlocuzione chiara e definita. Cosa che, invece, seppur a suo modo, fornisce la Lega.

Alla quale, peraltro, Mario Draghi ancora una volta ha chiarito che si tratta di un “governo di unità nazionale”, dunque, “non bisogna farsi dispetti e alimentare polemiche”. La Lega a sua volta ha evidenziato a Draghi “gli attacchi, gli insulti e le provocazioni quotidiane” di segretario, ministri e dirigenti del Pd. L’ultima proprio ieri, quando Letta ha ricevuto al Nazareno Oscar Camps, il fondatore di Open Arms, l’ong responsabile del salvataggio dei migranti per cui Salvini è a processo.

Più deficit per imprese e piano Ue Pil appeso alla campagna vaccini

La sintesi, brutale, è questa. La crisi innescata dal Covid ha tagliato le stime di crescita di quest’anno e anche un governo in cui le leve della finanza pubblica sono in mano a tecnici non certo ostili al rigore di bilancio non può evitare che la situazione peggiori. Via libera quindi a un nuovo scostamento di bilancio da 40 miliardi – per metà indirizzati a imprese e partite Iva e per l’altra a misure di sostegno alla liquidità – mentre il Recovery plan salirà di circa 30 miliardi (in deficit) rispetto ai 200 già previsti. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al Documento di economia e finanza – il primo del governo Draghi – assieme alla richiesta al Parlamento di autorizzare un altro extra-deficit. L’obiettivo è approvarla il 22. Il premier invece riferirà in Senato il 27 sul Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) che deve impiegare i fondi europei e che sarà poi inviato a Bruxelles. È ormai chiaro che arriverà in Parlamento a scatola chiusa.

I numeri. Com’era atteso, la crescita del Pil per quest’anno si riduce al 4,5% dal 6% previsto lo scorso autunno. Salirà del 4,8% l’anno prossimo, del 2,6% nel 2023 e dell’1,8% nel 2024. “Un incremento mai visto nell’ultimo decennio”, scrive il ministro dell’Economia, Daniele Franco. La realtà è che torneremo al livello pre-Covid (forse) solo nel 2023. E questo nonostante 180 miliardi di deficit e il Recovery Plan europeo. A ogni modo, le stime 2021 si basano su una ripresa nel secondo trimestre e sulla riuscita del piano vaccinale affidato al commissario Francesco Paolo Figliuolo (“80% della popolazione immunizzata entro settembre”), che al momento stenta a decollare, e nell’idea che dopo l’estate “le misure di contrasto alla pandemia avranno un effetto moderato”. Il governo è fiducioso che anche con i ritardi attuali si slitterà al massimo a ottobre, ma ipotizza anche uno “scenario avverso di limitata efficacia dei vaccini contro le varianti del virus”: in quel caso la crescita si dimezzerebbe al 2,7%.

Imprese. Oltre ai 32 di gennaio, arrivano altri 40 miliardi per finanziare un nuovo decreto Sostegni entro aprile. Metà andrà a ristorare le imprese, guardando anche ai costi fissi (sgravi, bollette, credito d’imposta per gli affitti). L’altra metà andrà alle imprese per rifinanziare le garanzie pubbliche sui prestiti bancari. I numeri mostrano che sono loro a beneficiare del “sussidistan” tanto deprecato da Confindustria: parliamo del grosso degli aiuti, 56 miliardi nel 2020, 70 totali nel quinquennio (senza considerare gli ultimi 20 e dispari dei dl Sostegni); rispetto ai 30 miliardi destinati al lavoro e ai 6 al sostegno alle famiglie e al sociale.

Deficit. Come detto, i nuovi interventi porteranno il deficit totale emesso per fronteggiare la pandemia a 180 miliardi. Il disavanzo salirà quest’anno all’11,8% del Pil, rispetto al 9,5% raggiunto lo scorso anno (il debito/Pil sfiorerà il 160%). Il governo si impegna a farlo calare vicino al 3% entro il 2024 per rispettare le regole europee. Bruxelles ha sospeso il Patto di stabilità fino al 2023, il governo spera non ritorni com’era, eppure si muove come se venisse ripristinato tout court. Se avvenisse, la stretta fiscale sarebbe imponente e rallenterebbe ancora di più la crescita. Al momento sono numeri scritti sulla sabbia.

Recovery Plan. Il governo conferma che userà tutti i 200 miliardi del piano Ue (68 di sovvenzioni, il resto prestiti). Prevede poi un fondo in deficit di altri 30 miliardi da spendere per progetti che non possono rientrare nel Pnrr, perché inammissibili o con tempi incompatibili con la scadenza del 2026 (come gli investimenti sull’Alta velocità ferroviaria). In totale parliamo di 237 miliardi, di cui la metà per progetti “aggiuntivi”, con un impatto positivo sulla crescita. Draghi, insomma, non riduce la portata (di per sé limitata) del piano. I tempi in cui i governi traballavano per uno zerovirgola di deficit sono finiti.

Comitato vittime “sulla strage sta scendendo l’oblio”

Ormai ci sembra tutto normale, forse troppo. L’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi sta mettendo a nudo un vero sistema criminale che per anni ha mistificato la realtà e ha messo in pericolo tutti i cittadini, costretti a prendere le autostrade. Certo, quelli che possono spostarsi in “aereo” probabilmente sono meno preoccupati… E ridacchiano anche, come emerge dalle intercettazioni.

Quello che ci lascia perplessi è che quasi tutti pare si stiano abituando a queste notizie, la brutta sensazione è che stia un po’ scendendo l’oblio, a volte non si ritengono doverose di grande attenzione queste notizie. Credo che in altri luoghi, forse anche solo immaginari, con notizie del genere i cittadini sarebbero scesi in piazza in modo pacifico e avrebbero chiesto pulizia. Anche la gestione in concessione continua con la stessa società. Per noi nessun cambio manageriale può cancellare quello che è stato. Stiamo ancora a “contrattare” con questa gente e la loro arroganza, mi sembra di vivere in un film d’orrore in cui il male alla fine vince sempre. Ogni tanto vorremmo a occhi aperti sognare un nuovo scenario, ma al momento purtroppo non lo intravediamo neanche. Senza questo cambiamento, piangeremo altri morti e altre stragi.

Egle Possetti, fondatrice del Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi

Il controllore del Morandi: “Il ponte? E chi l’ha visto…”

L’uomo che aveva il compito di classificare il rischio del ponte Morandi non lo aveva mai visto dal vivo. E oltre a non avere ispezionato di persona l’infrastruttura più malmessa d’Italia – unica tra le migliaia di opere gestite da Autostrade per l’Italia a “meritare” fin dal 2013 una menzione nei documenti interni per il “rischio crollo a causa di ritardate manutenzioni” – quel funzionario nel capoluogo ligure non era mai stato nemmeno per turismo: “Io manco ci ero mai andato a Genova… a vedere questo ponte… mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

È il 28 marzo del 2019 e Roberto Salvi, membro operativo del risk management di Autostrade per l’Italia, ne parla al telefono con il padre. È sotto pressione, ha appena ricevuto la visita della Guardia di Finanza, che vuole capire con che criteri sia stato redatto il Catalogo dei rischi aziendali di Atlantia. La spiegazione Salvi la dà in diretta al genitore, nel corso di un lungo sfogo: “Mi sono posto il problema e sono andato da quello che si occupa dei ponti. Gli ho chiesto: dov’è che potrebbe avvenire una catastrofe? Lui mi ha aperto il computer e mi ha fatto vedere: ‘Ecco, qui’. Finito. È così che è nata”.

Un passo indietro. Il catalogo dei rischi è ritenuto dalla Procura di Genova un documento cruciale, non solo perché contiene esplicitamente, a partire dal 2013, quella profezia sinistra: il “rischio crollo ponte Morandi a causa di ritardate manutenzioni”. Ma perché il rischio, invece di aumentare nel tempo, diminuisce, senza che venga effettuato alcun intervento. Nel 2015 dalla dicitura scompare la causa, il riferimento alle “ritardate manutenzioni”. Poi nel 2016 salta via anche il “rischio crollo”, sostituito con una più rassicurante “perdita di funzionalità statica del viadotto Polcevera”. Insomma, un downgrading. Di cui Salvi, anche in questo caso, fornisce una spiegazione: “Con Marco Pace (suo superiore) metodologicamente scompare il concetto dell’impatto di probabilità… allora, mettendo a confronto i tre cataloghi – 2013, 2014 e 2015 – perché prima c’era il concetto di impatto di probabilità e poi è sparito? Perché il nome prima si chiamava ‘crollo del Polcevera in caso di ritardata manutenzione’ e poi è sparito il nome?”. Quelle modifiche, emerge da un’altra conversazione, “furono concordate con il risk owner”. Salvi poi aggiunge: “Questi vogliono fare i direttori, pigliarsi la macchina tremila di cilindrata, pigliarsi i soldi… – continua Salvi – e poi dopo non vogliono pigliarsi le… ma rispondessero pure loro! Io li ho mandati all’ottavo piano. Ho fatto mettere i nomi sui verbali. Chi se ne doveva occupare… i responsabili dell’audit, Simone Buontempo, Concetta Testa”.

C’è un ultimo dettaglio, che chiude il cerchio. Il rischio crollo ogni anno, era stato valutato “basso”. Su che base veniva dato quel voto? In teoria la risposta veniva dai dati forniti da sensori montati sul Morandi. Apparecchi che, come hanno scoperto poi i finanzieri, non esistevano. Erano stati tranciati durante un cantiere da operai di Pavimental, società controllata da Autostrade. E nessuno, da quel momento un poi, li aveva più riattivati. “Io ero convinto che ci fossero e che fornissero informazioni alla Direzione di Tronco – giura Salvi al padre –. Il sensore è come se tu la notte tremi e hai la mano appoggiata a me, io lo sento che tremi. Invece il maresciallo mi ha detto che non c’erano sensori. E mi ha chiesto se questo oggi cambierebbe la mia valutazione. E certo che la cambierebbe!”. È andata a finire come sappiamo. Quando il ponte ha tremato, non c’era nessuna mano a sentire. E oggi piangiamo 43 morti.

Mascherine, i pm vogliono ascoltare Massimo D’Alema

L’ex premier Massimo D’Alema e la sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra, saranno ascoltati dai pm di Roma come persone informate sui fatti nell’ambito dell’inchiesta per traffico di influenze che coinvolge gli imprenditori Vittorio Farina e Roberto De Santis. Guerra e D’Alema sono estranei all’inchiesta. L’intenzione della Procura è di convocarli appena arriveranno sulla scrivania della pm Rosalia Affinito le perizie sui telefoni degli indagati. Il fascicolo nasce dall’indagine per truffa che ha portato all’arresto, il 3 marzo, di Farina e dell’editore Andelko Aleksic, accusati di aver fornito alle regioni Lazio e Sicilia mascherine cinesi con certificazione falsa. De Santis, dalemiano della prima ora, è risultato destinatario di un bonifico “sospetto” da 30mila euro ed è anche grazie a lui che, per i pm, “Farina riesce ad agganciare i vertici della P.a.”. Sono due gli episodi da cui nasce l’esigenza di ascoltare D’Alema e Guerra. Il 16 agosto 2020 Farina informa l’ex socio Luigi Bisignani (non indagato) che il giorno dopo sarà a pranzo con De Santis e D’Alema, cosa confermata da una telefonata in cui Farina passa il suo cellulare all’ex premier, di cui gli investigatori ascoltano la voce. “Che i rapporti con De Santis e D’Alema siano finalizzati a ottenere un incontro con Domenico Arcuri emerge dalle successive telefonate”, annotano gli inquirenti. Non solo. A ottobre a Farina viene proposto un “detector diagnostico per il Covid” e vuole proporlo al ministro Roberto Speranza. Il 16 novembre, Farina e un broker entrano nella sede della Fondazione Italiani-Europei presieduta da D’Alema, della quale fa parte anche Guerra. “Quei tamponi sono già al vaglio di Guerra”, dice Aleksic in un’altra telefonata. Il 17 novembre Farina e il broker vengono visti entrare al ministero della Salute. Il giorno dopo, Farina chiede se è stato “chiamato da Roma?”, ma il broker nega e gli chiede: “Il Max non interviene?”.

Libertà per i mafiosi: “Ergastolo ostativo incostituzionale, ma decida il Parlamento”

La Corte costituzionale non si è fatta tirare per la giacchetta dal governo e sull’ergastolo ostativo-libertà condizionale per i mafiosi detenuti non ha stabilito modifiche, come aveva chiesto l’Avvocatura dello Stato. Ha, invece, deciso di chiedere l’intervento del Parlamento, che dovrà esprimersi entro un anno. Rendendosi conto che c’è in gioco la credibilità dello Stato nella lotta alle mafie, non si è spinta, come l’anno scorso, sia pure tra diversi paletti, a consentire i permessi-premio. Era stata la Cassazione a chiedere alla Consulta che dichiarasse l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario secondo la quale gli ergastolani mafiosi non hanno diritto alla libertà condizionale se non hanno collaborato con la giustizia.

La Corte, con la sentenza di ieri, ha sì detto che questa norma viola gli articoli 3 e 27 (uguaglianza dei cittadini, rieducazione della pena) e l’articolo 3 della Cedu (divieto di pena disumana), ma ha anche deciso che deve farsi carico il Parlamento di una modifica di legge dato che “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. La Corte ha dato al Parlamento tempo fino a maggio 2022 “per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. La sentenza arriva a tre settimane dall’udienza, non solo per le vacanze pasquali di mezzo, ma perché c’erano posizioni contrapposte tra i giudici e la questione è stata molto dibattuta. Il 23 marzo scorso, in udienza, l’Avvocatura dello Stato, a governo cambiato da poco, aveva modificato la sua posizione. Mentre nella memoria depositata quando ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede, aveva chiesto il rigetto del ricorso della Cassazione, in udienza, invece, con ministro della Giustizia Marta Cartabia, ha detto no alla richiesta della Cassazione di dichiarare incostituzionale la norma, ma ha suggerito alla Corte di interpretarla nel senso di dare discrezionalità al giudice competente che, caso per caso, avrebbe potuto decidere se l’ergastolano mafioso potesse ottenere la condizionale o meno. L’Avvocatura dello Stato, quindi, avrebbe voluto che la Corte mutuasse la sentenza del 2019, quando presidente era proprio la ministra Cartabia, che ha dichiarato incostituzionale la stessa norma, ma solo il comma in cui venivano negati i permessi premio. Sia M5S sia Lega hanno detto che si batteranno perché non ci sia alcuna modifica.

’Ndrine in Toscana, indagati per corruzione l’uomo di Giani e il consigliere vicino a Letta

In Toscana la ’ndrangheta aveva messo le mani sul traffico di droga e sullo smaltimento di rifiuti. È quanto è emerso dall’inchiesta della Dda di Firenze che ha portato a 23 arresti. In uno dei filoni, quello sullo smaltimento dei rifiuti, tra i 19 indagati c’è Ledo Gori, capo di gabinetto del governatore toscano Eugenio Giani (estraneo all’inchiesta). Gori è accusato di corruzione: si sarebbe reso disponibile a soddisfare le richieste del “sodalizio” di imprenditori, composto anche dai conciatori, in cambio del loro impegno a chiedere a Giani di confermarlo come capo di gabinetto. Richiesta fatta a una cena elettorale del marzo 2020: Gori è stato nominato il giorno dopo la vittoria di Giani. Ieri il governatore non ha commentato, sta acquisendo elementi. È indagato per corruzione anche il consigliere Pd Andrea Pieroni, pisano, molto vicino a Enrico Letta (del tutto estraneo all’inchiesta): secondo il gip, Pieroni aveva promesso ai conciatori di presentare un emendamento a loro favore in cambio della “promessa di utilità” da 2-3mila euro in campagna elettorale.

“Dosi a polizia e carabinieri, noi dell’Esercito dimenticati”

L’operazione Minerva, vale a dire la vaccinazione delle forze armate, è sospesa fino a data da destinarsi. Stop anche alle somministrazioni alle forze dell’ordine. Per i militari, la disposizione arriva dal Coi, il comando operativo di vertice interforze. Del vaccino Vaxzevria (AstraZeneca) potranno essere somministrate solo le seconde dosi, i sieri Pfizer e Moderna saranno invece utilizzati solo per il personale sanitario o per chi ha già ricevuto la prima dose. Ordine che vale per tutti, anche per i militari di stanza nella base aeronautica di Pratica di Mare, centro nazionale di stoccaggio e smistamento dei vaccini.

Ma i sindacati dei militari – che tra aeronautica, esercito e marina sono circa 160 mila – non ci stanno. Attendono un chiarimento dal Commissario all’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, che però non è ancora arrivato. “Non siamo nemmeno a conoscenza del numero di militari che sono stati vaccinati finora. I vertici non ci rispondono, il generale Figliuolo non affronta l’argomento: siamo gli unici che non sappiamo nulla, a differenza di carabinieri e poliziotti”, dice Salvatore Rullo, presidente del sindacato Siulm.

Tutto sulla scia dell’ordinanza con la quale lo stesso Figliuolo ha disposto che le somministrazioni procedano per classi di età e per condizioni di fragilità. Martedì scorso, i carabinieri che avevano già ricevuto la prima dose erano 82.357, la quasi totalità di quanti hanno aderito alla campagna vaccinale, che sono 85.102. Per quanto riguarda i poliziotti, invece, l’ultima comunicazione del ministero dell’Interno (8 aprile) parla di 67.053 vaccinati con prima dose, pari al 69% della forza totale. Nulla si sa, invece, dei militari. Intanto, le somministrazioni procedono in molti casi spesso a rilento rispetto all’obiettivo fissato da Figliuolo per la settimana che va da domani al 22 aprile: più di 315 mila al giorno, per un totale di 2,2 milioni. Per allinearsi le Regioni dovranno recuperare 22 mila vaccinazioni al giorno rispetto a mercoledì, quando sono state poco più di 293 mila.

Servono vaccini! Ma poi si blocca il brevetto libero

Caro direttore, sbagli. Il Piano vaccini di Figliuolo non è quello di fare piani ma – come dice il nome – di fare piano. Accelerando la somministrazione degli annunci mentre il migliore dei banchieri prima obbliga per decreto i medici a vaccinarsi e poi colpevolizza gli psicologi che gli obbediscono (il passo successivo è bloccargli i bancomat per punizione, come fece con i greci). Nel frattempo, le regioni decidono se somministrare i pochi sieri a disposizione prima agli anziani o prima alle categorie produttive, dilemma risolto con lungimiranza da Pd e Forza Italia votando a favore della legge Fornero (a proposito: il Salvini che doveva abolirla è lo stesso che governa con chi l’ha approvata?). Non c’è fretta, lasciamo che i ristoratori scendano in piazza al grido di “Siamo i nuovi poveri” (quelli prima erano i loro camerieri) e aspettiamo fiduciosi le dosi promesse, restando ostaggio delle multinazionali farmaceutiche e delle agenzie del farmaco a esse collegate attraverso pratiche porte girevoli.

Spiace, tuttavia, che lo stesso premier così franco da accusare Erdogan di essere un dittatore (precisando poi che era un complimento: “I dittatori ci servono”: non possono mica fare tutto i banchieri) non sia altrettanto risoluto nell’esigere una moratoria sui brevetti dei vaccini e i farmaci anti-Covid, il che permetterebbe di accelerare la produzione e verificarne la sicurezza avendo come primo obiettivo quello di prevenire e curare il virus e non quello di fare profitto vendendo al miglior offerente. Una deroga sulla licenza obbligatoria dei vaccini e dei farmaci non è fantascienza: in caso di emergenze di sanità pubblica è prevista dagli accordi internazionali (TRIPs – Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights). Basterebbe richiederla, come hanno fatto oltre 100 Paesi aderenti al Wto. Non l’Italia e non l’Ue, che con gli Stati Uniti, l’Inghilterra, il Giappone, il Brasile, il Canada, la Svizzera, l’Australia e Singapore hanno preferito tutelare i profitti di Big Pharma piuttosto che la salute delle donne e degli uomini di tutto il mondo. Profitti che lievitano durante la pandemia, che per qualcuno è una sciagura e per qualcun altro un’opportunità.

Pensa che nel 2020 al mondo è nato un nuovo miliardario ogni 17 ore. Quasi tutti nel settore digitale, quello lievitato durante il lockdown, quello che paga meno tasse. Sfortunatamente, gli stessi che hanno firmato le leggi per redistribuire la ricchezza, hanno firmato i contratti per distribuire i vaccini. Contratti così pieni di omissis e scarichi di responsabilità che al confronto una deposizione di Berlusconi è esauriente e onesta. Noi, però, possiamo difenderci. Firmando sul sito noprofitonpandemic.eu, Nessun Profitto dalla Pandemia, a sostegno dell’Iniziativa dei Cittadini Europei (Ice) per obbligare l’Ue a modificare la sua posizione sui brevetti. Occorrono un milione di firme. In Italia la campagna è sostenuta da centinaia di medici e attivisti, Da Gino Strada a Don Ciotti e Vittorio Agnoletto, portavoce della Campagna europea Diritto alla cura. Stupisce che non ci abbia già pensato Draghi, così solerte nel difendere i cittadini dagli appetiti delle multinazionali da bloccare le acquisizioni delle nostre aziende da parte della Cina (“Non possiamo farci comprare le aziende strategiche dai cinesi!” ha tuonato in conferenza stampa. Le abbiamo promesse agli arabi). Deve essere troppo preso a mediare tra Salvini che vuole riaprire appena i dati sui contagi lo consentiranno e Speranza vuole tenere chiuso fino a quando i dati sui contagi lo richiederanno, che poi è la stessa cosa solo che c’è chi vede l’elettorato mezzo pieno e chi lo vede mezzo vuoto.

Aspettiamo fiduciosi, prima o poi i vaccini arriveranno. A occhio, prima dei soldi del Recovery fund.