Il libro. La lezione anti-liberista di Supiot: rifondare la globalizzazione su un diritto estraneo al mercato

Con la pandemia ci siamo scontrati con limiti che credevamo appartenere al passato: confinamenti, lockdown, blocco forzato dell’economia. Il senso del limite ci ha sorpresi anche quando pensavamo di aver trovato la via d’uscita: dagli insufficienti rifornimenti di vaccini in Europa alla simbolica vicenda della Ever Given, incagliata nel canale di Suez. In questa atmosfera economica e sociale, vari pensatori rivendicano il bisogno di porsi limiti sociali e politici ben chiari. Fra chi sostiene questa necessità c’è il giurista francese Alain Supiot, di cui sono stati recentemente tradotti in italiano alcuni saggi.

Il volume che li raccoglie, intitolato La sovranità del limite, offre strumenti utili a costruire un nuovo paradigma politico e giuridico. Il punto di partenza è il riconoscimento dei limiti del modello neoliberale e di quel “tutti contro tutti” innescato da una globalizzazione senza solidarietà.

Secondo Supiot, l’interdipendenza fra Paesi deve diventare “mondializzazione”: la creazione di una casa convissuta attraverso la solidarietà fra le nazioni. In questo senso, il Diritto (con la d maiuscola) deve essere affermato come qualcosa di superiore al mercato.

Per il pensatore francese la globalizzazione è infatti “l’instaurazione su scala globale di un ‘Mercato totale’”. Quest’ultima formula non convince del tutto: anche nella società neoliberale gli Stati giocano un ruolo attivo. La deregolamentazione stessa è una forma di regolamentazione, per non parlare dei salvataggi pubblici durante le crisi finanziarie e del ruolo dei “capitalismi politici” nell’arena globale. Dinamiche non riconducibili a una mera logica di mercato.

In ogni caso, Supiot coglie il punto quando afferma che “il neoliberalismo pone il Diritto stesso sotto l’egida di calcoli d’utilità economica”. Il giurista francese rivendica un diritto che torni a occupare il suo posto legittimo nella società. Un diritto che si fondi su un senso di giustizia e non cerchi la sua legittimazione esclusivamente in altre discipline come l’economia o la scienza.

Diritto e scienza non si possono confondere: pur cercando entrambi la verità, hanno scopi diversi. Mentre la scienza cerca la verità in sé, il diritto cerca una verità capace di fondare i rapporti sociali. Per Supiot il diritto non esclude la rilevanza delle conoscenze scientifiche, ma la sua natura civica si fonda inevitabilmente su assunzioni non dimostrabili. Una prospettiva interessante nel solco della critica ai cosiddetti “competenti”, ben trattata in Italia da studiosi come Lorenzo Castellani e Raffaele Alberto Ventura.

La cerniera del libro è l’ultimo saggio, in cui Supiot, rifacendosi a Simone Weil, collega le nozioni di limite e sovranità. Sovrano è chi riconosce il limite al suo interno e così non si condanna a trovarlo al suo esterno. Questa definizione può essere il punto di partenza per una riforma della globalizzazione, in cui si riconosca sia l’interdipendenza reciproca, sia la sovranità e diversità di ciascuno Stato.

 

Sul North Stream2, la guerra Usa-Berlino: a perderci è l’Ue

Il Presidente statunitense Joe Biden vuole rilanciare la Nato e utilizza toni da Guerra Fredda contro la Cina e la Russia. Il segretario di Stato Blinken ha attaccato Putin, confermando le sanzioni comminate nel dicembre 2019 contro le società che partecipano al progetto North Stream 2. Il gasdotto (quasi completato) che dovrebbe portare gas russo direttamente in Germania è stato definito “un progetto geopolitico russo per dividere l’Europa e indebolire la sicurezza energetica europea”. L’Unione europea dipende dal gas russo per il 40% del suo fabbisogno e assorbe l’80% delle esportazioni russe. Sul totale di circa 200 miliardi di metri cubi (mmc) l’anno provenienti dalla Russia, circa 50 mmc arrivano con il North Stream, completato nel 2011. Il North Stream 2 raddoppierebbe la capacità di importazione tedesca. Il gas naturale nel 1994 ha superato il carbone come seconda fonte energetica Ue, divenendo una componente fondamentale del suo mix energetico.

La controversia sul North Stream 2 contrappone Stati Uniti e Germania in un duello nel quale entrambi hanno torto. Non è da oggi che i presidenti americani si agitano contro l’interdipendenza energetica tra Europa occidentale e Russia. All’inizio degli anni ’60 ce l’avevano col presidente dell’Eni Enrico Mattei, reo di aver importato petrolio russo per svincolarsi dal monopolio delle “Sette sorelle” anglo-americane. Poi arrivò Ronald Reagan che ingaggiò all’inizio degli anni ’80 una feroce battaglia contro la costruzione del faraonico gasdotto che avrebbe portato il gas siberiano in Europa. Nonostante il boicottaggio di Washington, fu completato grazie a tecnologia e acciai speciali europei. Poi è arrivata l’opposizione al North Stream, reo di tagliare fuori Paesi dell’Europa orientale, in primo luogo l’Ucraina, indebolendone così il potere ricattatorio su Mosca.

Se gli strali americani non hanno mai colpito nel segno è perché il “ponte del gas” tra la Siberia e l’Europa ha generato benefici. Gli europei hanno approfittato di una fonte energetica sicura, economica e relativamente pulita (il gas naturale rilascia solo C02 e in quantità minori di carbone e petrolio), nonché di mercati per le proprie esportazioni (la Germania è il secondo partner commerciale russo dopo la Cina). I russi ne hanno ricavato moneta forte che ha consentito loro di alimentare il bilancio pubblico, che dipende per il 40% dai proventi dalle esportazioni di idrocarburi. Questa interdipendenza ha resistito a Reagan, alla fine della Guerra fredda, alla politica muscolare di Putin, alle regole della Commissione europea sul “libero mercato” del gas, alle crisi ucraine e, con tutta probabilità, resisterà anche a Blinken.

Per la Germania il gas russo è stato prima un modo per ricucire gli strappi della “Guerra fredda” (la Ostpolitik di Willy Brandt) poi è rimasto un’architrave della politica estera tedesca. Quando Gerard Schroeder smise la veste di Cancelliere tedesco nel 2005, subito dopo indossò quella di lobbista di North Stream (oggi è presidente della società pubblica russa Rosneft), exploit al cui confronto i ben remunerati sproloqui di Renzi a favore del saudita Bin Salman impallidiscono. Queste relazioni hanno oggi meno ragion d’essere. La domanda di gas naturale nell’Ue è diminuita dal picco del 2010. L’Europa è collegata con gasdotti al Mare del Nord, al Nord Africa, al Caspio e possiede una fitta rete di rigassificatori. Il gas naturale è poi una fonte fossile: non è una “energia di transizione”. La Banca europea degli investimenti bloccherà i finanziamenti alle fonti fossili dal 2022 ed è in corso un accesso dibattito sulla “tassonomia Ue” che si spera tagli fuori la maggior parte del gas naturale dai finanziamenti per lo “sviluppo sostenibile” inclusi quelli del Recovery Plan. Il raddoppio del North Stream ha basi economiche fragili ed è contradditorio in termini ambientali, anche se dovessero adattarlo all’idrogeno (sarebbe “idrogeno blu” prodotto bruciando gas naturale). Per la Russia meglio sarebbe concentrarsi sulle enormi potenzialità del mercato cinese.

Qui i nodi arrivano al pettine. È dallo shock petrolifero del 1973 che si parla di una “politica energetica europea”, mai veramente nata. Quel che esiste sono: target alle emissioni di CO2 (riduzione del 40% rispetto al 1990 e “decarbonizzazione” nel 2050); incentivi alla diversificazione degli approvvigionamenti e alle fonti rinnovabili (32,5% al 2030); mirabolanti progetti per “l’idrogeno verde” da elettrolisi; legislazione per creare una “libero mercato” dell’energia. Non esistono target europei alle importazioni di fonti fossili che, ancora oggi, coprono il 75% del nostro fabbisogno. Sono la sfida del futuro: fornirebbero ai nostri partner indicazioni chiare, prezzi stabili e consentirebbero una pianificazione realistica dell’uscita dalle fonti fossili.

Aviazione, 40 mld per salvare i colossi che inquinano di più

Le compagnie aeree rischiano di aggravare il cambiamento climatico e di farlo coi soldi dei contribuenti. Secondo i dati acquisiti dal Fatto, Alitalia emette annualmente 4,53 tonnellate di CO2, piazzandosi all’ottavo posto della Top 10 europea. L’azienda italiana in crisi non ha alcun obbligo di riduzione per il 68% delle sue emissioni (quelle rilasciate dai suoi voli extra-europei). Non ha dovuto sottoscrivere un tale impegno neanche in cambio dei quasi 300 milioni di euro con cui lo Stato italiano ha soccorso le sue casse, svuotate dal crollo dei collegamenti causati dall’emergenza Covid.

Questa cifra è una frazione dei circa 37 miliardi di aiuti statali complessivamente approvati finora dalla Commissione europea (sui 43,8 richiesti) per salvare dalla bancarotta il trasporto aereo del Vecchio Continente. Un settore che, dopo il traffico stradale, è il secondo maggior emettitore di gas serra nell’Ue (il 3,8% nel 2017). Il suo impatto a livello globale potrebbe triplicare entro il 2050. Eppure, dal marzo 2020 le prime 11 aziende europee più inquinanti (con 100 milioni di tonnellate di CO2 nel 2019, calate drasticamente con la pandemia) hanno intascato 26 miliardi di euro, senza nessuna condizionalità ambientale. Quando i voli riprenderanno a regime, potrebbero quindi ricominciare ad emettere gli stessi volumi di prima. A denunciare il regalo anti-ecologico fatto dai governi al business alato è un nuovo rapporto dell’Ong Transport & Environment (T&E). Per la prima volta vengono svelate le emissioni delle principali compagnie europee.

Il principio del rilancio all’insegna delle sostenibilità che l’Ue intende imporre a gran parte dell’economia tramite il Green Deal e il Recovery Fund non pare, per ora, estendersi all’aviazione civile. Il grosso delle sue emissioni resta infatti esente dall’Ets, il meccanismo che regolamenta le soglie e lo scambio di CO2. Per rispettare i limiti, le società coinvolte nel sistema hanno due opzioni: investire in tecnologie o energie più pulite o compensare le proprie eccedenze acquistando permessi di emissione equivalenti ai quantitativi di CO2 abbattuti da realtà più virtuose. Dal 2012 è assoggettata all’Ets esclusivamente la CO2 rilasciata durante i voli verso destinazioni nello Spazio economico europeo (Ue più Regno Unito, Norvegia, Islanda e Svizzera). Non lo è invece quella scaricata in atmosfera sulle rotte intercontinentali, che per i vettori più grandi rappresenta mediamente il 64% del totale (un europeo che va e viene tra Lisbona e New York emette tanto quanto il suo riscaldamento domestico per un anno intero). Su tale porzione le linee aeree non devono spendere in permessi di emissione. Pertanto non sono sufficientemente incentivate a passare a carburanti verdi (cherosene elettronico e biocarburanti avanzati) che l’Ue vuole rendere obbligatori di fronte all’esponenziale aumento dei viaggi (tra il 2005 e il 2017 la diminuzione del 24% del combustibile per passeggero è stata superata da una crescita del 60% delle persone imbarcate).

Lufthansa, British Airways e Air France, a cui è andato un terzo di tutti gli stanziamenti pubblici, non pagano un centesimo rispettivamente per il 77%, l’86% e l’83% delle loro emissioni, visto che le distanze da esse coperte da e per l’Europa sono molto più lunghe di quelle interne. E c’è da dire che gli operatori dovrebbero sborsare una percentuale minima rispetto ai loro profitti. Ad esempio, al prezzo corrente della CO2 contrattata nell’Ets pari a 41,6 euro a tonnellata, l’inclusione dei tragitti extra-europei costerebbe all’Alitalia appena il 4% del proprio fatturato pre-crisi. “La Commissione non dovrebbe approvare piani di salvataggio senza sforzi nazionali per la decarbonizzazione dell’aviazione – spiega Matteo Mirolo, policy officer di T&E – L’Italia appoggi l’idea di far pagare alle compagnie tutte le loro emissioni”.

I limiti emissivi per i voli intra-europei hanno neutralizzato annualmente per l’intera aviazione 17 milioni di tonnellate di CO2, meno di quelle rilasciate dalla sola Lufthansa. In realtà, la riforma nell’Ets adottata nel 2008 (valida anche per i vettori non europei) comprendeva anche le tratte intercontinentali, ma l’Ue ha accettato di lasciarle temporaneamente fuori a causa dell’opposizione dell’industria del settore insieme a Usa e Cina che minacciavano ritorsioni.

Nel 2016, l’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (Icao), agenzia specializzata dell’Onu, ha introdotto il programma “”CORSIA” (Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation). Gli Stati vi partecipano facoltativamente (quelli Ue hanno aderito tutti). L’obiettivo è monitorare le emissioni, che l’Icao sta attualmente raccogliendo in un’unica banca dati, e stabilizzarle a partire da quest’anno ai livelli del 2020. Potranno essere compensate coi crediti generati da progetti che abbattono i gas serra in altri comparti. Tali crediti sono tuttavia negoziati su piattaforme volontarie e i prezzi sono inferiori rispetto ai permessi di emissione Ets. L’eccessiva offerta di crediti voluta dall’industria ne ha abbassato il valore a meno di 1 euro a tonnellata. Ai vettori conviene dunque continuare a comprarli pur di non dover limitare sostanzialmente le proprie emissioni. A spiegarlo è un recente studio della stessa Commissione, secondo cui i deboli vincoli di CORSIA potrebbero compromettere l’obiettivo Ue di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Un traguardo che richiede una diminuzione del 90% (rispetto ai livelli del 1990) delle emissioni dei trasporti, di cui l’aviazione rappresenta il 14%.

Entro giugno l’esecutivo di Bruxelles presenterà una revisione normativa. Potrebbe optare per l’adeguamento di CORSIA. Oppure per la reintegrazione nell’Ets di tutti i voli in entrata e in uscita negli aeroporti europei, come richiesto da T&E (vendendo ai vettori un certo numero di quote iniziali mediante aste pubbliche). Spetterà poi all’Europarlamento e ai 27 governi approvare il nuovo regolamento.

Earth2 e i nuovi latifondisti: terre virtuali con soldi reali

Riprodurre la terra, tutto il pianeta, in un mondo virtuale e ritagliarsene una fetta pagandola – mentre pian piano si popola – con carta di credito e Paypal. La prospettiva è puramente speculativa: rivenderla al migliore offerente quando questa compravendita virtuale sarà diventata talmente virale da convincere gli utenti a sborsare un bel po’ di soldi pur di farne parte: è, in sintesi, lo stato dell’arte dietro all’ultima tendenza online chiamata Earth2. Anche in questo caso parliamo di Nft, i cosiddetti “non fungible token”, di cui leggete più diffusamente nell’articolo qui accanto, e che in pratica rappresentano una categoria speciale di risorse digitali “certificate” su blockchain (il registro digitale che tiene traccia di ogni evento o movimento o spostamento di una qualsiasi risorsa che lo utilizzi) e dunque uniche, non intercambiabili e impossibili da suddividere o da replicare senza che quella replica sia riconoscibile come tale. Il tracciamento infatti identifica chi “possiede” quella risorsa digitale e ne ricostruisce la storia, impedendo che la sua riproduzione all’infinito (caratteristica specifica del mondo digitale) faccia perdere il valore dato dalla sua unicità. Certifica l’archetipo, rendendolo simile a una risorsa reale e permettendo di venderlo come fosse tale.

Earth 2, dicevamo, è una piattaforma che consente alle persone di acquistare proprietà immobiliari virtuali con denaro vero. Ad oggi, in tantissimi stanno spendendo migliaia di dollari per costruire i loro latifondi virtuali. Si legge sul sito: “Earth 2 è un concetto futuristico per una seconda terra; un metaverso, tra realtà virtuale e fisica in cui le geolocalizzazioni del mondo reale su una mappa sezionata corrispondono ad ambienti virtuali digitali generati dagli utenti”. Al di là della difficile comprensione, si tratta in sostanza di una mappa in stile Google (fornita da MapBox) su cui il pianeta è diviso in piccole tessere che possono essere comprate partendo da una tariffa base di 10 dollari.

Quando è stata creata, poco più di un anno fa, il costo dei quadratini era di circa 10 centesimi l’uno (il globo è diviso in 40 trilioni di quadratini) e i ricavi iniziali sono finiti al suo ideatore, Shane Isaac, che si definisce uno con “un’avida passione per i grandi concetti e il pensiero fuori dagli schemi”, con un passato da managing director di XYZ Social Media e una coorte di sviluppatori noti nell’ambiente (Wolfgang Walk, Nathaniel Doldersum, Rogerio Rocha e Samuel Dale) insieme al guru di MapBox Steve Bennett e dall’advisor Stojce Slvakovski.

Al momento, il sistema funziona così: in pochi clic e pagando ci si può accaparrare tanto pochi metri quadrati di terra quanto interi stati. C’è chi già detiene oltre un quarto di milione di dollari di tessere terrestri. Ma perché? Come con molti altri Nft (anche se al momento Earth2 non è sviluppato su blockchain, ma c’è l’intenzione di trasferirlo) si è di fronte a una speculazione. L’idea, secondo il poco che è trapelato sulle prossime fasi della piattaforma, è far sviluppare su questa Terra bis altre applicazioni che potrebbero generare ulteriori fonti di guadagno. È in parte il motivo per cui i pezzi che costano di più e i più ricercati riguardano città o immobili o monumenti già famosi. Si preme sulla viralità e la notorietà. Più il “gioco” è sponsorizzato (ed esistono appositi bonus che regalano sconti e che promettono guadagni a chi li diffonde col noto sistema piramidale), più diventa una moda e più ci si guadagna.

Il valore sale solo se le persone ci credono e decidono di comprare casa propria o aspirano a possedere la Torre di Pisa. Molti dei blocchi, identificati dalla bandiera del paese che l’utente ha selezionato per rappresentare se stesso, arrivano a valere fino a migliaia di dollari. In Italia, il Vaticano vale circa 100 dollari a lotto, Bergamo 12. Se si vuole comprare il Colosseo bisogna pagare a tal “Claximuss” 16 dollari a quadratino, più di 2mila totali. Lui li ha pagati 4 dollari circa un anno fa.

L’idea dell’evoluzione di questa realtà virtuale non è ancora ben definita e in tantissimi hanno seri dubbi su efficacia e serietà. Potrebbe tanto diventare un pianeta parallelo complesso, interattivo ed esplorabile in 3D (quindi magari il Colosseo si potrà un giorno visitare e si pagherà un biglietto virtuale) oppure potrebbe progredire solo su base speculativa e a quel punto c’è il serio rischio che la bolla esploda e che gli investitori, raggiunti livelli di liquidità poco sostenibili, perdano i loro soldi.

La rivoluzione Nft: così si vende e compra un’opera immateriale

Immagini, video, musica, testi. Tweet, meme, rendering architettonici, personaggi ed elementi per giochi online o mondi virtuali. Nomi di dominio, finanza decentralizzata (DeFi), oggetti da collezione fisici. C’è ben poco che non possa trovare la propria rappresentazione digitale, cristallizzata in un token digitale non fungibile o Nft.

Nei giorni scorsi Morgan, il cantante Marco Castoldi ex anima dei Bluvertigo, ha venduto all’asta la sua canzone “Premessa della premessa” attraverso un Nft registrato sulla blockchain di Ethereum. Per 10 ethereum, circa 21mila dollari, l’acquirente ha conquistato il token che garantisce la titolarità esclusiva dell’opera. Un altro gruppo, i Belladonna, il 27 marzo ha ricavato mille dollari da un Nft sulla canzone “New Future Travelogue”. La rock band americana Kings of Leon ha emesso Nft che consentono agli acquirenti di ottenere vinili in edizione limitata o posti a sedere nei concerti. In Italia Hackatao, il duo di artisti formato da Sergio Scalet e Nadia Squarci, ha tokenizzato le proprie opere come Nft.

Cosa sono gli Nft? Il concetto risale al 2012 ma la loro invezione è del 2017. Secondo Pietro Grassano, responsabile Business solutions per l’Europa di Algorand, l’impresa fondata nel 2017 dal crittografo italiano Silvio Micali che sviluppa una propria blockchain agile e meno energivora, “sono un sottoinsieme dei token digitali la cui rappresentazione digitale non può essere ‘copincollata’. Mentre esistono token che sono fungibili e indistinguibili tra loro, come le criptovalute, ciascun Nft è invece diverso dall’altro. La tokenizzazione è la rappresentazione su blockchain di un ‘asset’ digitale che non può essere speso due volte. Una rappresentazione del valore efficiente, sicura e, potenzialmente, poco costosa”.

Gli Nft assomigliano dunque a certificati digitali di proprietà unici, iscritti e scambiati su una blockchain, non emessi o “estratti” in serie come le criptovalute. La blockchain è un registro pubblico delle transazioni e consente a chiunque di verificare l’autenticità e la proprietà di ciascun token, ma solo il proprietario ne è titolare. Gli Nft sono acquistati sia con criptovalute che con valute “fiat” e depositati su dei portafogli, i wallet, e scambiati su listini, i marketplace, tra i quali Nifty, OpenSea, SuperRare. Non sono strumenti inutili: gli Nft hanno implementazioni in molti settori. Si va dalle aziende che li usano per gestire la compliance dei disciplinari agroalimentari alla gestione delle catene di approvvigionamento manifatturiere, alla moda, alla distribuzione, ai controlli di gestione aziendali, alla registrazione dell’identità digitale, fino alla raccolta di dati ambientali. Altre applicazioni riguardano la finanza decentralizzata, il gaming, la produzione dei contenuti. Il problema è identificare situazioni a valore aggiunto rispetto a quelle inutili. Gucci e Nike usano gli Nft per garantire l’originalità dei loro prodotti, sia fisici (come le sneakers) che digitali, come le skin per i giochi online. Il primo caso di Nft realizzato su Algorand risale ad aprile 2020 quando Blockchain Italia srl, il sindacato Flp e l’associazione Italia4Blokchain hanno lanciato il progetto “Italian Wonders” per raccogliere fondi per aiutare i Comuni in difficoltà e i luoghi d’arte colpiti dalla pandemia. Il sito italianwonders.io ospitava un marketplace di oggetti da collezione virtuali, ricreati sulle blockchain Algorand ed Ethereum e raffiguranti le principali opere d’arte italiane. I francobolli digitali “Italian Wonders” venivano assegnati a fronte di un contributo devoluto ai territori. Nel 2020 Blockchain Italia e Auditel hanno portato i dati digitali e analogici televisivi raccolti dal campione statistico per quantificare lo share notarizzandoli sopra la blockchain di Ethereum e Algorand, per dimostrare che nessuno li alteri.

Una delle ultime applicazioni è del 24 marzo, quando Siae e Algorand hanno creato più di 4 milioni di Nft che rappresenteranno digitalmente i diritti dei 95mila autori associati Siae, riversandoli su una blockchain pubblica e trasparente. La scelta di Algorand, dopo la partnership siglata nel 2019, è basata sull’efficienza: secondo la Siae, il costo totale per generare 4 milioni di Nft è stato dell’ordine di qualche decina di migliaia di euro, mentre sull’attuale blockchain di Ethereum sarebbe costato circa 400 milioni di dollari.

Matteo Fedeli, direttore della divisione musica di Siae, è convinto che “questa tecnologia possa divenire interessante e realizzare effetti positivi per i nostri associati. Gli asset digitali non rappresentano le opere o le loro esecuzioni ma i diritti, cioé le anagrafiche degli associati. Il dato rappresentato da queste informazioni è onchain e diviene la base per costruire un nuovo ecosistema. Ogni giorno nasce una startup che assicura che modificherà il settore dell’intermediazione dei diritti d’autore e dei contenuti. Ma è difficile verificare la fiducia data a qualcuno o qualcosa che è offchain. L’inserimento dei metadati degli associati nell’ecosistema della blockchain degli Nft consente di andare verso questa nuova realtà”.

L’operazione della Siae ha sollevato interesse in molti soggetti del settore. “Intendiamo diffondere gratuitamente questa tecnologia per liberare il vero potenziale verso un universo decentralizzato. Non solo spieghiamo come funziona, ma siamo anche disposti a distribuire il pacchetto software da installare per interagire con la blockchain e lavorare in maniera decentralizzata. Le società di collecting oggi gestiscono questi dati ma nei prossimi dieci anni ci sarà probabilmente una forte spinta degli autori più evoluti a riprendersi i dati e il reddito che generano”, conclude Fedeli.

A fronte di applicazioni concrete, gli Nft hanno già catalizzato speculazioni multimilionarie. A marzo l’asta benefica per accaparrarsi la titolarità del primo tweet di Jack Dorsey, il fondatore di Twitter (“Ho appena impostato il mio twttr”), datato 21 marzo 2006, si è chiusa a 2,5 milioni di dollari. Il record attuale è dell’11 marzo, quando la casa d’aste Christie’s ha venduto per 58,2 milioni un collage di 5mila immagini digitali riunite in un file jpeg (che vedete a sinistra) dal grafico americano Mike Winkelmann, noto come Beeple, intitolato “Everydays: The First 5000 Days”. Solo quest’anno i volumi di scambio totali di Nft sulla blockchain di Ethereum ammontano a oltre 700 milioni, cifra ancora minima rispetto alle criptovalute ma in enorme crescita. Secondo molti, la speculazione è dovuta all’eccesso di liquidità immesso nei mercati finanziari dalle banche centrali che va in cerca di qualsiasi forma di investimento. Ma non è detto che chi compra oggi un Nft a cifre folli possa rivenderlo domani e guadagnarci. La bolla potrebbe esplodere in ogni momento, lasciando con il cerino in mano troppi sprovveduti investitori.

Festa è dovere. Pasqua, le cattive tradizioni: “La mattanza degli agnellini è obbligatoria?”

E anche quest’anno abbiamo svoltato la Pasqua. Certo, il periodo pasquale è meno impegnativo di quello natalizio che comincia il 24 dicembre e finisce con l’Epifania.

Lì, siamo costretti a sorbirci per quasi un mese: luminarie, addobbi, alberi, stelle comete, senza contare i soldi per i regali che sono obbligatori perché chi non li riceve si offende a morte, ma continua a ripetere “…ma figurati. Io? No, non voglio regali, a me basta la presenza”. Fortunatamente questi obblighi a Pasqua non ci sono, infatti il vecchio adagio recita “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Però attenzione, anche Pasqua porta con se le sue tradizioni imposte: l’uovo al cioccolato, la colomba che fra l’altro è buonissima, secondo me superiore di gran lunga al panettone, grazie alla sua crosticina mandorlata e zuccherosa. Io sto parlando delle gite fuori porta! Perché a Pasquetta siamo costretti a fare le gite, a stare tutti in fila come a Ferragosto, con l’angosciante speranza del meteo? Perché la gita fuori porta come scrive Luca nel Vangelo, ricorda l’episodio di Gesù che, fresco di resurrezione, si mostrò ai discepoli che erano in viaggio verso Emmaus, amena località alle porte di Gerusalemme.

Del resto Pasqua, in ebraico Pesah, ricorda la fuga degli ebrei dall’Egitto. Questo non basta a metterci in fila sull’autostrada! Ma la peggiore delle “tradizioni” pasquali è la strage degli agnelli. Il rito sacrificale delle antiche religioni non c’è più, ma è rimasta la tradizione della mattanza dei poveri agnellini, una vera ecatombe! Una strage mondiale che serve solo a far godere i palati di milioni di cannibali senza pietà.

Quanto siamo manipolati come consumatori a tavola, anche quando dietro un piatto apparentemente innocuo ci sono sangue, violenze e tradizioni antiche che non muoiono mai in nome del profitto e del consumismo!

 

L’invenzione del Covid. Il complotto prende il volo se la scienza litiga e la politica si guarda l’ombelico

Non credo sia utile scartare questo libro come una farneticazione pericolosa per sostenere l’attraente tesi dell’epidemia prefabbricata (attraente perchè restituisce autorità, benché malevola, all’intelligenza e all’iniziativa umana). La responsabilità degli autori è di avere allegato a tutta la massa di eventi della pandemia una “dimostrazione” di artificio, inganno e colpa che – insieme – sono il reato; con il sigillo di una autorevole prefazione.

Sto parlando di Strage di Stato, le verità nascoste della Covid 19 di Pasquale Bacco, medico, e Angelo Giorgianni, magistrato (Editore Lemma Press). E con la prefazione di Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, tra i nomi più autorevoli della magistratura italiana. Il saggio di Bracco e Giorgianni propone un groviglio di complotti, percorsi segreti e progetti delittuosi per far nascere, diffondere e radicare il virus solo apparentemente sconosciuto; che continua, come una misteriosa carta moschicida, ad attrarre vittime provocando milioni di morti nel mondo. Per sostenere la tesi, gli autori hanno trovato una buona “scorta” nella prefazione.

La vicenda pone due problemi. Il primo è che cosa ci fa Nicola Gratteri come parte autorevole di un trattato molto accurato fondato su racconti non veri (oppure spiazzati, oppure costruiti montando i pezzi di altre storie) e rigorosamente antiscientifico. Il secondo: come si spiega tanto impegno e astuta abilità di montaggio ,in una storia che punta sopratutto a togliere ogni credibilità alla politica e alla scienza? Cosa pensano che ci sia, dopo o altrimenti, gli autori? Riconosciamo (senza che ciò spieghi la partecipazione di Gratteri) che politica e scienza hanno lasciato ampio spazio libero a speculazione e invenzione.

La politica ha continuato testardamente a guardarsi dentro, evitando di cercare o disegnare vie d’uscita per il disastro sanitario che stava arrivando, con chiari e allarmanti segnali. Personaggi come Trump, Bolsonaro e Johnson sono stati, in tutta la prima parte del dramma, simboli e annunci del gravissimo vuoto, e dell’abbandono a se stessi dei cittadini ammalati e spaventati. La scienza – pur mostrando subito grande impegno – ha rivelato due qualità negative del tutto nuove: non ha personaggi credibili e autorevoli nel campo dei Coronavirus (come Montagnier e Gallo ai tempi dell’esplosione dell’Aids) e i vari capofila di istituzioni diverse tendono a contraddirsi e a parlare linguaggi diversi, creando un disorientamento mai conosciuto in tutto l’altro secolo.

È in questo vuoto che entrano i libri del complotto e le teorie della malattia artificiale. È più facile ribellarsi al complotto che alla natura, e identificare colpevoli in carne ed ossa piuttosto che pericolosi castighi di ben altra potenza. Pochi conoscono gli autori del libro di cui qui, con allarme, si parla. Tutti conoscono e stimano Nicola Gratteri, molti non pensano alla malafede ma all’autocritica.

 

Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19.

Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni

Pagine: 368

Prezzo: 19

Editore: Lemma Press

Turismo. L’Egitto spende milioni contro i souvenir “made in China”

La pandemia finirà, i turisti torneranno e l’Egitto non vuole farsi trovare impreparato, specie per quanto riguarda i souvenir, un mercato che da solo vale quasi 50 milioni di dollari l’anno. I souvenir di fabbricazione cinese di scarsa qualità (e prezzo) hanno invaso suk e mercati, negozi e centri commerciali. Nel Paese del Faraoni è stata avviata la prima e la più grande fabbrica di riproduzioni archeologiche del Medio Oriente. Il progetto aiuta l’Egitto a preservare i diritti di proprietà archeologica e fornirà riproduzioni originali egiziane come alternativa ai prodotti Made in China. Un progetto dal quale ci si aspetta grande impatto nei settori economico, turistico e archeologico.

Secondo Mustafa Waziri, segretario generale del Consiglio supremo delle Antichità, la fabbrica – fondata nella città industriale di Obour in collaborazione con la “Egyptian Treasures Company for Archaeological Models” – occupa 144 artisti e lavoratori specializzati in vari settori come scultura, disegno e pittura, lavorazione dei metalli, ceramica, lavorazione del legno, ma i numeri degli addetti è destinato a crescere rapidamente. L’impianto costato circa 100 milioni di sterline egiziane (6,38 milioni di dollari), ha linee di produzione manuali e meccanizzate per la fusione dei metalli, per la lavorazione del legno, per gli stampi delle sculture. Magdi Shaker, capo archeologo presso il Ministero del Turismo e delle Antichità, è certo che la fabbrica spazzerà via le copie Made in Cina. “Il prodotto cinese è di scarsa qualità e prezzo inferiore. I turisti li comprano e poi si lamentano che sono rotti anche prima di lasciare l’Egitto per la cattiva qualità”. I prodotti della fabbrica di Obour saranno venduti all’interno delle principali attrazioni turistiche come le Piramidi a Giza e Saqqara, a Luxor, nella Valle dei Faraoni.

Ogni souvenir che uscirà dall’impianto avrà un timbro speciale del Consiglio Supremo delle Antichità e un certificato che attesta che si tratta di un pezzo originale, oltre a un codice a barre per una facile identificazione che contribuirà a proteggere i prodotti della fabbrica dalle contraffazioni.

 

Il duca strappamutande e l’operaio licenziato: Italia, una brutta fiction

 

Bocciati

Un paese normale. Per settimane, dopo Natale, si è parlato a quotidiani unificati di Bridgerton (serie Netflix di rara mediocrità) perché pareva rivoluzionario che fossero inseriti protagonisti di colore (tra cui il duca strappamutande di Hastings) nell’Inghilterra del 1813 (epoca in cui il Regno Unito commerciava in schiavi). Tutti a dire delle magnifiche sorti progressive dell’arte che innova, rimodula i paradigmi e via dicendo. A Pasqua, un lavoratore dell’ex Ilva è stato licenziato perché ha condiviso un post su una fiction di Canale 5, “Svegliati amore mio” (storia di una mamma in lotta contro l’inquinamento che ha fatto ammalare la sua bambina di leucemia, in una città sede di un grande polo siderurgico). Sui maggiori quotidiani è uscito qualche stentato trafiletto. Se quindici anni fa qualcuno ci avesse detto che l’ultimo baluardo della difesa del lavoro sarebbero state attrici e registe (Sabrina Ferilli e Simona Izzo) di una fiction (peraltro Mediaset), ci saremmo messi a ridere. Eppure è proprio così: e dobbiamo ringraziare Simona Izzo e Sabrina Ferilli per le loro esemplari parole (come previsto il ministro del Lavoro, che ha fatto in tempo a essere consigliere comunale del Pci, è intervenuto in ritardo, e soltanto dopo un comunicato della Fiom). Ci meritiamo Bridgerton.

 

Promossi

Fischiatevi voi. Aurora Ramazzotti ha postato un video mentre faceva jogging: “Ci rendiamo conto che nel 2021 succeda ancora di frequente il fenomeno del cat calling? Un fenomeno che ha come oggetto complimenti di cattivo gusto rivolti per strada a donne. Sono l’unica a esserne vittima costantemente nonostante mi vesta abbastanza da maschiaccio? Appena mi metto una gonna o mi tolgo la giacca sportiva devo sentire i fischi, i commenti sessisti, schifezze varie”. Non si tratta di “fare i complimenti” o di riceverli, ma di sentirsi indirizzare non richieste frasi poco commendevoli. A parte che ignoravamo che si chiamasse “cat calling”, una potrà andare a correre senza il problema che se suda non si può togliere la felpa, a meno di non incorrere in volgari apprezzamenti? Per capire quanto in basso siamo arrivati basta dire che il centro della vicenda è diventato, nel sempre più insopportabile dibattito social, se Aurora Ramazzotti sia abbastanza avvenente per attirare apprezzamenti volgari. Ma cosa vi dice il cervello?

 

Non classificati

Spartito colonialista? Notizia recuperata dalla scorsa settimana. Il Telegraph scrive che a Oxford, per i corsi musicali che partiranno l’anno prossimo, un gruppo di professori sta lavorando a modifiche in chiave politicamente corretta dei programmi e dei metodi di insegnamento, e tra gli aspetti più eclatanti ci sarebbe il ridimensionamento dello spazio da dedicare ai grandi musicisti classici occidentali: meno Mozart, meno Beethoven, meno Bach. Il Messaggero, che ha ripreso la notizia, scrive che “si ipotizza anche l’eliminazione degli spartiti musicali, visto la musica scritta è considerata una pratica esclusivamente occidentale e dunque colonialista”. E che potrebbero perdere l’obbligatorietà anche “alcune abilità come quella di suonare la tastiera o dirigere un’orchestra perché incentrate su repertori di musica europea bianca che causano un grande disagio agli studenti di colore anche perché, conclude un documento interno, la maggior parte dei tutor sono uomini bianchi”. Alla fine Oxford ha smentito il pezzo del Telegraph, che probabilmente faceva una sintesi grossolana del dibattito interno all’ateneo. Un portavoce dell’università ha spiegato che “manterremo la nostra tradizionale eccellenza nell’analisi critica, nella storia e nell’esecuzione della grande varietà della musica occidentale, ma stiamo studiando dei modi per dare ai nostri studenti la possibilità di studiare una gamma più ampia di musica non occidentale e pop da tutto il mondo, rispetto all’attuale offerta”. Insomma l’oboe è salvo, e pure il didgeridoo.

 

Champions. Il Gotha dei “super perdenti”, dove Patrice Evra supera tutti (pure Buffon)

All’inizio fu Torres. All’anagrafe José Augusto da Costa Séneca Torres, detto Bom gigante (gigante buono), classe 1938, attaccante del Benfica: lo squadrone portoghese guidato da Eusebio che agli albori della Coppa dei Campioni (diventata Champions League nel 1992-’93) andò in finale qualcosa come 5 volte in 8 stagioni, dal ’61 al ’68, vincendo le prime 2 e perdendo le successive 3: contro il Milan nel ’63, l’Inter nel ’64 e il M. United nel ’68. Ebbene, al termine del suo ciclo d’oro il Benfica si ritrovò con 6 giocatori protagonisti di ben 3 finali perse: Coluna, Cruz, Eusebio, Jose Augusto, Simoes e Torres. Ma solo quest’ultimo, Torres, entrò nel Guinness dei Primati alla voce “Solo e sempre sconfitto”: a differenza degli altri, non aveva preso parte né alla prima finale vinta (3-2 al Barcellona, 1961), né alla seconda (5-3 al Real Madrid, 1962).

Perdere 3 finali di Coppa Campioni senza mai averne vinta una: una beffa atroce, qualcosa di molto vicino alla maledizione. Un Albo d’Oro all’incontrario (potremmo chiamarlo Albo d’Ombra), inaugurato dal gigante buono Torres nel ’68 e popolatosi, nel tempo, con l’ingresso di pochi altri protagonisti: tutti a noi molto conosciuti. I primi due si aggiungono nel 2003, quando la Juventus perde a Manchester la finale contro il Milan, e rispondono al nome di Montero e Tacchinardi. Entrambi hanno attraversato lo stesso sentiero di guerra: erano in campo in Borussia Dortmund-Juventus 3-1 nel ’97 (Tacchinardi solo per 3’ giocati al posto di Boksic), erano in campo in Real Madrid-Juventus 1-0 nel ’98 (Tacchinardi per 45’ al posto di Di Livio), erano in campo, per l’appunto, in Milan-Juventus 3-2 (dopo i rigori) nel 2003 con Montero che sbaglia il rigore e Tacchinardi schierato da Lippi fin dall’inizio. Con loro a dire il vero ci sarebbe anche Del Piero: che però una finale, quella del 96 con l’Ajax, almeno l’ha vinta.

A Manchester nel 2003 perde la sua prima finale un altro juventino illustre: Gigi Buffon. Che sarà il terzo bianconero a finire nel Guinness dei 3 volte sempre perdenti avendo poi difeso i pali della Juventus sia nel 2015 (finale persa 3-1 contro il Barcellona) sia nel 2017 (4-1 contro il Real Madrid). Domanda: c’è qualcuno nel calcio che possa dirsi più frustrato e umiliato dei “3 volte perdenti in Champions”, e cioè il poker composto da Torres, Montero, Tacchinardi e Buffon? La risposta è sì e no allo stesso tempo. Perché mentre Torres soccombeva alla “Maledizione di Guttmann” (l’allenatore che vinse le due Coppe col Benfica e che, licenziato, augurò al club un secolo d’insuccessi) e mentre Montero, Tacchinardi e Buffon soccombevano al sortilegio-Juve, c’era un certo Patrice Evra, francese, che da un lato riusciva addirittura a perdere non 3, ma 4 finali e (udite udite) indossando per di più 3 maglie diverse; dall’altro riusciva però a gioire portandone a casa una, nel 2008 con lo United ai rigori contro Chelsea. Per la cronaca: le 4 sconfitte sono quelle del ’94, nel Monaco di Deschamps perdente 3-0 contro il Porto di Mourinho; del 2009, nel Manchester di Ferguson battuto 2-0 dal Barcellona; del 2011, sempre nell’United e contro il Barça (3-1); e infine l’1-3 con la Juve nel 2015 inchinandosi per la terza volta al Barcellona, non più di Guardiola ma di Luis Enrique. E insomma, decidete voi: peggio Evra, primatista di finali perse con 4 ma con una coppa da lucidare in bacheca, o Buffon, che capeggia al piano di sotto, il piano 3, il Club dei “Solo Perdenti”?