“Chi era mio padre? Un artista straordinario che ha sofferto molto come uomo: nella sua vita non ha mai trovato la pace e la serenità, ma con la fortuna di avere al suo fianco una donna come mia madre, in grado di mantenerlo in equilibrio. Senza di lei si sarebbe perso anche artisticamente”.
E invece Nino Manfredi è diventato uno dei colossi del cinema mondiale, non solo italiano; con Tognazzi, Gassman, Mastroianni e Sordi è uno dei cinque “mostri”, “fenomeni”, “mattatori”, “colonnelli” a seconda delle latitudini artistiche; e tra i cinque forse era il più riservato, sicuramente l’attore che ha raggiunto la consacrazione e la fama più tardi, “grazie a Canzonissima: prima di quella storica puntata, non lo prendevano in considerazione, veniva utilizzato da doppiatore. Anche di Mastroianni”.
Chi lo ricorda è il figlio, Luca Manfredi, regista cinematografico e televisivo, già dietro la macchina da presa per l’omaggio in tv In arte Nino, con Elio Germano nei panni del padre, e ora autore della biografia Un friccico ner core per festeggiare “Nino” a 100 anni dalla nascita. Una biografia nuda per quanto vera, con i prismi di un carattere complesso, non solo complicato. Le donne, tante. L’amore per la terra. L’infinita ricerca artistica. La solitudine. La depressione. La morte. La malattia. Le cure. Le assenze. Il sorriso.
Il libro è dedicato a sua madre.
Grande pilastro della nostra famiglia; c’è un film simbolico per inquadrare il nostro equilibrio: Il padre di famiglia di Nanni Loy. È la storia di una coppia che si conosce durante gli scontri universitari tra monarchici e repubblicani: si piacciono, si sposano, mettono su famiglia, poi lui si fa l’amante. In quella pellicola il vero “padre di famiglia” non era mio padre, lì protagonista, ma la moglie; (pausa) la stessa cosa è accaduta in casa nostra: mamma ha ricoperto entrambi i ruoli.
Lei è molto lucido nel ricostruire il rapporto con suo padre.
Da ragazzino non ho avuto un padre, perché non c’era mai: per vederlo dovevo chiedere a mamma di portarmi sul set; lì ho scoperto un mondo magico, carico di fascino, in cui amavo studiare le varie fasi di un film e chiedevo a tutti spiegazioni.
Anche a suo padre?
No, preferivo concentrarmi sul direttore della fotografia, i macchinisti, gli elettricisti: ero un vero rompiscatole, ma almeno così stavo con lui.
Solo quello.
Non è mai venuto a prendermi a scuola o a vedermi in una gara sportiva; non ha mai condiviso una parte del suo tempo libero o qualunque altra comune situazione genitoriale.
Le ha mai detto: “Torna presto”?
(Stupito) A me? Mai (cambia tono); tre giorni alla settimana dormivo a casa di Vincenzo, il mio migliore amico, e la mattina, prima di andare a scuola, la madre mi prestava mutande e camicia. In sostanza ero stato adottato.
E sua madre?
Spesso seguiva Nino.
Lo chiamavate sempre Nino?
Dipendeva dai momenti, dal caso; per lui era uguale (ci pensa); papà era un insieme di personalità, mia madre sostiene una tesi illuminante: “Lui era gente, non era solo Nino, ho imparato a conoscerlo attraverso i personaggi dei suoi film”. La sua personalità era complessa, molto tormentata, tutto nasce dall’esperienza terribile in sanatorio.
Tre anni chiuso…
In quei tre anni ha superato due estreme unzioni e ha visto morire tutti gli altri ragazzi malati; ragazzini che la mattina andavano a pregare per essere risparmiati, mentre lui, unico non credente, è sopravvissuto. Da lì sono nati i suoi interrogativi, poi sfociati nel film autobiografico, il più importante, Per grazia ricevuta.
Film molto coraggioso.
All’inizio volevano vietarne la proiezione nelle sale parrocchiali.
Secondo i figli di Tognazzi, il loro padre era di tutti…
Le poche volte che sono uscito con i miei genitori, magari al cinema, emergeva tutta la mia timidezza, per questo non mi sedevo mai accanto a loro ma dieci file più avanti: temevo l’intervallo con la gente accalcata intorno a papà per un autografo o una stretta di mano.
E lui?
Ogni volta, apposta, si alzava in piedi e urlava: “Luchino, che fai laggiù? Vieni qui da papà”; stessa scenetta quando riceveva un premio: dal palco mi salutava e mi invitava a salire accanto a lui. Io scappavo.
Trattava diversamente lei dalle sue sorelle?
No, uguale, cambiava la nostra capacità di reazione; una sorella è fuggita prestissimo di casa e si è fidanzata con Alan Sorrenti, all’epoca sconosciuto musicista di una piccola band composta da Pino Daniele e Tony Esposito.
Una robetta…
Conosciuto al baretto di Scauri, paesino tra Campania e Lazio, dove papà aveva acquistato una casa su suggerimento di Alberto Sordi, solo che poi Alberto se n’è andato a Castiglioncello.
Sorrenti in quegli anni…
(Ride) Un giorno mia sorella decide di presentarlo a papà: all’epoca non era ancora “il Sorrenti” da figlio delle stelle, ma suonava una musica impegnata, con sonorità indiane, e si vestiva come un santone in sandali. Al primo incontro ha offerto uno spinello a Nino, con papà che ci rimase malissimo.
Sostiene la Sandrelli: “Manfredi? Spiritosissimo, ma il suo umorismo conteneva una fatica, una fatica che difendeva dalle critiche altrui”.
Da uomo tormentato ha sempre portato nei suoi personaggi una doppia anima: una più leggera, ironica e una più drammatica e malinconica; lui era un po’ alla Charlie Chaplin, che riteneva fosse il suo maestro; (ci pensa) ai suoi ruoli dava sempre una grande dignità, una grande onestà priva di quel cinismo che invece avevano i personaggi interpretati da Sordi o Gassman.
Dino Risi: “Era un rompiballe: arrivava in camera mia, alle tre di notte, per correggere il copione”.
È vero, era un maniaco, un artigiano della recitazione e della preparazione del personaggio; era quasi uno da scuola statunitense, per questo lo definisco il più americano di quella generazione e tutto parte dagli insegnamenti in Accademia di Orazio Costa.
Quegli insegnamenti sono storia…
Per Costa prima della parola bisognava imparare a esprimersi con il corpo, così costringeva gli attori a personificare il cielo, la pioggia, il vento e, se uno doveva interpretare un personaggio nevrotico, consigliava di guardare la formica.
I suoi personaggi varcavano la porta di casa?
Quando staccava dal set tornava lui; a casa portava lo stacanovismo e gli avanzi del cestino, poi si chiudeva nello studio per lavorare e, nonostante fossimo ragazzini, pretendeva il silenzio. Se scappava qualche rumore, usciva incavolato perché, magari, stava con Age e Scarpelli o Benvenuti e De Bernardi.
Il gotha.
Da casa è passato il mondo di quella stagione fantastica: ho visto da Totò a De Sica, da Elio Petri a Germi e Comencini; ho avuto il privilegio di vivere la genialità dell’epoca: mi piazzavo in un angolo dello studio e assistevo alle sedute.
Com’erano?
Per tre quarti erano basate sul cazzeggio, su racconti, barzellette e insulti, poi si lavorava.
Totò.
Me lo ricordo a Napoli quando giravano Operazione San Gennaro: in quel periodo Nino aveva raccattato per strada un cane randagio che mi aveva attaccato una brutta malattia; il veterinario ci consigliò di portarlo al canile, e siccome Totò ne finanziava uno, l’affidò a lui, che gli diede il nome di “Manfredi”; quando il cane morì, fu proprio Totò a chiamare mio padre: “Ti devo dare una brutta notizia: è morto Manfredi. Ma per fortuna è il cane, perché quello bravo è ancora vivo”.
Doppio senso.
Nel mondo del cinema “l’attore cane” è un classico.
Per molti attori è suo padre il punto di riferimento.
Non a caso per In arte Nino ho scelto Elio Germano: ho sempre visto i suoi film e in lui, nella mimica, ho riconosciuto micro-reazioni legate a papà; durante il nostro primo incontro gli ho chiesto: “Qualche volta ti sei ispirato a lui?”. “Qualche volta? Sempre! È il mio attore di riferimento”.
Rispetto ai suoi colleghi, Manfredi sembrava meno guascone.
Era un soldato del suo lavoro, e per questo una volta litigò con Ugo (Tognazzi, ndr): se la convocazione sul set era alle otto, pretendeva di arrivare alle sette e mezzo, e non solo aveva già studiato la sua parte, ma sapeva a memoria pure quella degli altri.
Quindi…
Una mattina avevano iniziato a provare, solo che Ugo aveva passato una delle sue notti brave ed era arrivato sul set senza sapere neanche in quale film stava; allora mio padre, in maniera provocatoria, ha recitato la sua parte e quella di Tognazzi; finita la prova ha guardato il regista e in maniera fredda ha marcato la sua filosofia: “Adesso vado in camerino, e quando questo signore ha imparato la sua parte, chiamatemi”. Da quel giorno non si sono parlati per anni, fino a quando Ugo lo ha invitato al villaggio.
Villaggio Tognazzi.
Sì, lì ha ritrovato un Ugo diverso, depresso.
La depressione è una costante del mondo attoriale.
È difficile vivere il successo ed è altrettanto difficile vivere il tramonto e accettare l’invecchiamento; mio padre, dopo aver rischiato la vita a 15 anni, in qualche modo ha affrontato il dopo come un qualcosa in più; a 15 anni non sapeva nulla della vita, tantomeno del teatro: in ospedale vide uno spettacolo della compagnia di De Sica ed era convinto che De Sica fosse un ex malato. Non credeva potessero esistere i professionisti della recitazione.
Suo padre accusava Sordi di interpretare sempre e solo se stesso.
Anche io sono d’accordo: Nino era un camaleonte che spariva nel personaggio: diventava il portantino di C’eravamo tanto amati, l’emigrante di Pane e cioccolata o il baraccato di Brutti, sporchi e cattivi; mentre la personalità di Sordi era talmente straripante da venir fuori in tutti i ruoli, quasi li vampirizzava.
Perché?
Alberto era un grandissimo istintivo, uno che non ha mai curato il suo talento, infatti Nino sosteneva di possedere la metà delle sue capacità, ma solo grazie allo studio era riuscito a ottenere buoni risultati; per lui se Sordi avesse coltivato le sue doti, avrebbe raggiunto vette inarrivabili.
Glielo diceva?
Sì, ma Alberto cinicamente rispondeva: “A Ni’, ma che me frega, più de quello che faccio e guadagno…”.
Secondo Marcello Fonte per capire Nino Manfredi basta vedere la sua tomba: “È sobria, mentre Sordi si è costruito una villa”.
(Ride) È vero, poi mia mamma non ha il culto dei morti, ogni tanto vado io con le mie figlie (cambia tono); mio padre e Mastroianni erano molto amici, proprio Marcello propose a papà di acquistare due tombe vicine. E così sono a quindici metri di distanza.
Ha studiato molto Nino Manfredi.
Sono un fan dal punto di vista artistico, meno come figlio.
Con i suoi figli quale errore di suo padre evita?
Ne ho quattro da tre madri differenti, quindi non è semplice, ma cerco di dedicar loro tutto il tempo possibile, cerco di passare i weekend insieme.
La passione per le donne l’ha presa da lui.
(Sorride) Me l’hanno detto, ma non è vero.
E professionalmente?
La serietà sul lavoro: nulla è affidato all’improvvisazione, sul set devo avere tutto in testa.
È religioso?
Ateo come lui; papà ha passato la vita a cercare un Dio che non ha mai trovato; (ci pensa) ribadisco: per fortuna c’è stata mia madre.
A dare equilibrio…
È stata lei a salvarlo dalla depressione, a cercare le cure giuste quando parlava di suicidio. Lei gli ha dato stabilità. E papà lo ha sempre riconosciuto: anche quando erano separati in casa, quando lei non ne poteva più delle infinite storie con altre donne e lui viveva nell’attico e lei al pianoterra, per cena scendeva giù, e dopo mangiato si piazzavano sul divano per guardare insieme la televisione. Mano nella mano. Ed è un’immagine che mi porterò per sempre dentro.