Gli attacchi del faccendiere: “Giuseppe è un uomo Beta”

“Incapace”, “vanitoso” e “presuntuoso”. Cosa pensasse Gianmario Ferramonti di Giuseppe Conte lo ha scritto ieri il Fatto quotidiano, anticipando l’inchiesta di Report di questa sera: “un cretino” da silurare insieme al suo governo, tanto che Ferramonti, “gelliano” ed ex tesoriere della Lega, nei mesi scorsi aveva contattato Maria Elena Boschi e millantava “un milione di voti” da portare in dote a Italia Viva se avesse fatto cadere l’esecutivo. Per capire che aria tirasse in certi ambienti massonici, però, c’era una cartina di tornasole ben più alla luce del sole: nell’ultimo anno, sui giornali del forzista Antonio Angelucci sono comparse decine di articoli a firma di Luigi Bisignani, giornalista il cui nome comparve nelle famose liste della P2, tutti con toni durissimi nei confronti di Conte, più volte invitato ad andarsene da Palazzo Chigi.

Già il primo marzo 2020 Bisignani lanciava antaemi sul Tempo: “Giuseppi è al capolinea”. Svolgimento: “Conte è uno yogurt scaduto e l’addio è ormai scritto. Non solo per l’incapacità di gestione del coronavirus, per l’isolamento internazionale e per la crisi economica in cui ha gettato l’Italia, ma semplicemente perché non sa governare”. Il 9 marzo, questa volta su Libero, una nuova sentenza: “Gestire una crisi per un premier può essere un’opportunità. Per Conte sarà una catastrofe”. Il 12 aprile 2020, Bisignani sembra profetizzare l’invito di Ferramonti alla Boschi: “Perché Renzi non molla Conte?”. Siamo ancora sul Tempo di Angelucci e il Nostro sembra aver perso la pazienza: “Cosa dovrà mai ancora succedere affinché Renzi ritiri i suoi ministri da questo governo arronzato, incapaci di gestire il pre, il durante e il dopoCovi-19? La speranza è che Renzi riesca a rimettere in moto la politica e non permetta che Giuseppi si faccia il suo partito di manettari e diventi un dittatorello sudamericano”.

L’unica speranza, insomma, sembra Italia Viva e per legittimare questo smodato desiderio di un ribaltone a Palazzo Chigi, Bisignani dipinge un presidente del Consiglio allo sbando: “Il Papa stufo di Giuseppi” (28 aprile 2020), “Il Colle s’è stufato di Conte” (3 maggio), “I cattolici scomunicano Conte” (31 maggio), “I mercati ci mandano al voto” (12 luglio). Niente male per il leader più apprezzato nei sondaggi. Il 6 settembre Bisignani sembra fiutare la crisi: “I disastri economici e sociali stanno logorando il premier. L’incantesimo sta finendo”. Passa un mese e il 4 ottobre c’è un’altra fatwa: “Stretta mortale su Conte”: “Da un momento all’altro rischia di inabissarsi il suo intrepido volo nella galassia del potere”. Il 15 novembre è il Colle a “perdere la pazienza” e ormai è questione di ore: “La tempesta perfetta sul governo Conte sta per arrivare”, anche perché il premier “continua a infilare clamorosi autogol che indeboliscono ulteriormente la sua credibilità”.

Ad anno nuovo, quando Italia Viva sta per realizzare i sogni di Bisignani, lui si concede gli ultimi ritratti al cianuro: “Conte non ha messo da parte la sua infinita vanità”, un “tipico uomo beta che si è fatto le ossa all’ombra di uomini alfa” (3 gennaio). Il 14 gennaio, Renzi ritira le ministre di Iv e Bisignani brinda: “Conte ha fallito, torni a casa”. Il premier “è solo al comando, ma non decide”, “risponde solo ai dioscuri che si è scelto e che lo guidano nella gestione della sua vanità”. Secondo Bisignani, “è dall’estate scorsa che, tra ridicole task force, Colao e Stati generali, tiene bloccato il Paese”(17 gennaio). Insomma, “Conte è rimasto solo, lasci Palazzo Chigi”(24 gennaio), ormai “chiuso in una bolla ha perso il contatto con la realtà”.

Per fortuna che poi arriva Mario Draghi coi suoi migliori e la musica cambia :”Supermario è l’opposto di Conte” (7 febbraio): “Grazie a Renzi e a Mattarella, l’Italia avrà finalmente un governo autorevole”. Draghi “è proprio l’antipode di Conte”, anche solo per meriti dinastici: il primo “nato e cresciuto a Roma, figlio d’arte di un funzionario della Banca d’Italia”, l’altro “è nato in un paesino del foggiano, con un papà segretario comunale”. Abbastanza per giustificare la crisi.

Casaleggio dichiara guerra al M5S. Conte: “Non gestirò l’addio”

“Non posso intervenire io su un rapporto consolidato negli anni”. Adesso Giuseppe Conte lo dice chiaro ai deputati 5 Stelle: non sarà lui a gestire la grana del divorzio tra il Movimento e Rousseau, l’associazione che reclama fior di milioni dagli eletti e che da mesi parla e ragiona da corpo esterno rispetto alla nuova direzione presa dalla creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Tanto che lo scontro è ormai quotidiano, come dimostra lo scambio di colpi bassi di ieri tra Davide Casaleggio e i big del Movimento.

Dei termini della separazione, però, Conte ritiene di non doversi occupare. L’ex premier partecipa da poco alle dinamiche interne del Movimento e non crede sia opportuno insediarsi da leader mettendo la faccia su una rottura storica, le cui ragioni nascono in tutt’altra èra politica: “Aspetto che il Movimento chiarisca con Rousseau – spiega Conte ieri ai deputati grillini riuniti via Zoom –, io sono l’ultimo arrivato e non posso intervenire in un rapporto consolidato negli anni”. Anche se, secondo l’ex presidente del Consiglio, al di là dei modi, la rotta è tracciata: “È fondamentale garantire la modalità di partecipazione ad un ampio numero di partecipanti. La democrazia digitale presuppone assoluta trasparenza. Il voto online può essere demandato a una società esterna, ma tutto deve essere gestito dal Movimento, a cominciare dalla formazione”. Tradotto: l’idea di affidarsi a un contratto di servizio con una azienda esterna resta la via maestra, perché il nuovo M5S non rinnegherà l’importanza della partecipazione, la cui relazione – anche economica – col Movimento non potrà però perpetuare le ambiguità e i malumori interni deflagrati in questi anni.

Che il divorzio non sia materia semplice, però, è chiaro a tutti. Soprattutto se ad occuparsene dovrà essere chi da settimane non si risparmia accuse reciproche, anche personali. E così a Mezz’ora in più su Rai Tre, Davide Casaleggio dimostra di non avere alcuna voglia di farsi da parte alla leggera: “Pare che ci sia un tentativo di mettere in difficoltà finanziaria Rousseau ponendo sul tavolo alcune regole fondamentali del Movimento 5 Stelle, come il limite ai due mandati o la democrazia diretta. A pensare male si fa peccato, ma, come diceva Andreotti…”.

L’aforisma è tronco, ma tanto basta a Vito Crimi per replicare stizzito durante l’assemblea coi parlamentari, quando definisce “false, diffamatorie e misere” le accuse del guru dell’Associazione. Anche perché, ricorda Crimi, “i portavoce del Movimento hanno versato oltre 3 milioni e mezzo per la piattaforma”. Mentre altri “7,4 milioni sono bloccati nel conto corrente delle restituzioni – è la versione del capogruppo alla Camera Davide Crippa – perché Rousseau non ci fa votare”.

E poco importa da quelle parti se Casaleggio boccia “la trasformazione in partito” e rivendica che anche suo padre “riteneva necessario avere un’organizzazione indipendente dalla politica” per gestire la parte informatica. Sulla direzione politica, Conte tira dritto: “Movimento o partito? A noi le classificazioni non importano un fico secco, ma dobbiamo organizzarci e strutturarci bene partendo dai territori”. Un vecchio mantra, quello della ripartenza dai territori, che però finora ha sempre mancato di una struttura in grado di fare da raccordo tra gli attivisti locali e i vertici nazionali. Missione per la quale si sono rivelati insufficienti anche i famosi “facilitatori” lanciati a fine 2019 dopo le delusioni elettorali nelle Regioni.

Ora Conte, che invita i suoi a dargli del tu e lancia un indirizzo mail per “spunti, idee e proposte” riguardo alla nuova fase politica, spera che la riorganizzazione delle cariche aiuti il dialogo. Purché, come sottolinea il deputato Francesco D’Uva, “ci sia chirezza sui ruoli” e ci si basi “sul merito, non sulla meritocrazia”. Il tutto, però, secondo Conte avrà significato soltanto con la definizione di una identità precisa del M5S: “Se vogliamo rifondare l’azione del Movimento, è fondamentale definire chi siamo e sarà essenziale una carta dei principi e dei valori. Sarà la premessa indispensabile per poter partecipare e aderire al Movimento”. Ed evitare fraintendimenti sul suo posizionamento, causa dello scontro con decine di eletti durante questa legislatura: “Sulla politica migratoria siamo accoglienti o contro le Ong? – brutalizza l’onorevole Conny Giordano – Sui diritti civili siamo a favore delle adozioni e delle unioni gay o ancora non lo sappiamo?”.

Ma mi faccia il piacere

Camillo, penso. “Cavour fece il trasferimento da Torino a Firenze della nostra capitale” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 11.4). Purtroppo Cavour morì prematuramente nel 1861 e la capitale fu trasferita a Firenze nel 1865. Ma Repubblica non la leggono nemmeno i suoi redattori?

Brum-brum. “A metà aprile 500mila vaccini al giorno” (gen. Francesco Paolo Figliuolo, 20.3). “Anziani al sicuro, il governo accelera: 3 milioni di vaccini in 10 giorni” (Repubblica, 10.4). “Il governo ora accelera. Figliuolo: ‘Sei milioni di vaccini agli anziani in un mese’” (Stampa, 11.4). Non riuscendo a fare 500mila vaccini al giorno, e nemmeno 300mila, se ne annunciano 3 milioni in 10 giorni (cioè 300mila al giorno) e poi 6 milioni in 30 giorni (cioè 200 mila al giorno). Ma mica si frena: si accelera.

Maglieria intima. “La depressione post partum di Chiara Ferragni produce denunce politiche feroci alla Lombardia. Sempre la vecchia storia di fare il proprio mestiere (si fa per dire)…” (Maria Giovanna Maglie, “giornalista”, Twitter, 2.4). Resta da capire che mestiere faccia la Maglie.

Lecca-Letta. Bruno Vespa: “Buonasera, lei sa quante volte è venuto qui a Porta a Porta?”. Enrico Letta: “Due, tre, quattro…”. Vespa: “No, 48 volte!” (Porta a Porta, segnalato da @nonleggerlo.it, Rai1, 1.4). Sono soddisfazioni.

Barbarie. “Avrei preferito Wallace di Braveheart ai rapporti con le correnti. Temo che Conan il barbaro sia troppo fondamentalista” (Andrea Marcucci, presidente uscente dei senatori Pd, a Letta che scherza su Arnold Schwarzenegger delegato ai rapporti con le correnti Pd, Twitter, 1.4). E provare con Onan il Barbaro?

Bel suol d’amore/1. “Draghi vola in Libia per blindare Dbeiba e fermare i migranti” (Stampa, 6.4). Con la sola forza del pensiero.

Bel suol d’amore/2. “C’è un alito di vento fresco che sa di futuro, ha spazzato via le nubi di sabbia e riecco il sole, il lungomare di Tripoli coi bambini sui rollerblade, il meraviglioso Macchiato cremoso nei caffè all’italiana. Quiete e speranza nel traffico caotico paralizzato dalla visita, attesissima, di Mario Draghi. Se solo metà della carne che il premier italiano e il primo ministro libico hanno messo al fuoco non diventerà l’ennesimo tizzone di speranze in fumo, questa missione non segna solo un punto fermo politico ed economico: scrive una pagina di Storia” (Paolo Brera, Repubblica, 6.4). Gli editori stanno già bruciando milioni di manuali.

Slurp. “Il neo-lettismo è Bim Bum Bam. Autoironia sui social, Subbuteo. Il segretario Pd sceglie la cultura pop per scardinare il passato” (Massimiliano Panarari, Espresso, 11.4). Il Viminale sta già transennando i seggi.

Colpa nostra. “Altre dosi in ritardo e 255 iniezioni a Pasqua e Pasquetta. La rabbia di Figliuolo” (Giornale, 7.4). Questo ce l’ha di nuovo con noi.

Annamo bene. “Figliuolo sul piano vaccini della Lombardia: ‘È coerente con quello nazionale’” (Corriere, 1.4). Quindi, a occhio, è sbagliato quello nazionale.

Timori. “Italia viva teme l’addio di Renzi” (Repubblica, 6.4). Teme?

Un po’ per uno. “Roma, il centrodestra torna a puntare su Bertolaso” (Corriere, 1.4). Dopo i lombardi, anche i romani han diritto a un po’ di svago.

Massimo Stratega. “Mio caro Conte, avete sbagliato politica estera”, “Il volo improvvisato a Bengasi e le modalità con le quali è stato organizzato il rilascio dei 18 pescatori sequestrati, con tanto di photo-opportunity pretesa da Haftar, restano una pagina opaca della nostra storia diplomatica” (Massimo Giannini, Stampa, 7.4). Invece di scomodarsi, bastava indire una conferenza stampa e dare del dittatore ad Haftar.

Tubinga or not Tubinga. “Nardella: ‘Pronti a portare a Firenze il modello Tubinga’” (Foglio, 1.4). Ma non è più pratico esportare Nardella a Tubinga?

Sindacato Tangentari. “L’insulto del Senato alla storia del sindacato: vaffa a Del Turco” (Piero Sansonetti, Riformista, 1.4). Giusto: a insultare il sindacato non è un sindacalista che intasca 850mila euro di tangenti, ma il Senato che applica le norme e gli leva il vitalizio.

L’ideona. “’Nessun danno erariale’. Bertolaso assolto dopo 8 anni di gogna sul G8 del 2008 spostato dalla Maddalena a L’Aquila” (Giornale, 10.4). In effetti organizzare il G8 in un posto e poi farlo in un altro fu un affarone.

Il titolo della settimana/1. “Fontana è stato trasparente: indagato” (Libero, 1.4). S’è solo scordato un conto in Svizzera e due firme false, che sarà mai.

Il titolo della settimana/2. “Letta vede Renzi, ma gli preferisce Conte” (Foglio, 7.4). Ingrato: dopo tutto quel che ha fatto Renzi per lui.

Il titolo della settimana/3. “Letta e Renzi parlano di sindaci e Colle. ‘Serve intesa su un nome forte’” (Repubblica, 7.4). Io ci vedrei bene bin Salman.

Il titolo della settimana/4. “AstraZeneca ha effetti collaterali. Ma è comunque meglio del Covid” (Domani, 8.4). Quindi se, prima di vaccinarvi, vi chiedono se volete una dose di Covid o una di AstraZeneca, sapete già cosa rispondere.

Le persone non possono muoversi, gli oggetti sì: l’arte si reinventa con i taccuini viaggiatori

Da Bologna a Londra, passando per la costa spagnola in direzione Dublino, lanciandosi verso Trieste a cercare la Puglia. E poi chissà. Non hanno un percorso certo o stabilito i taccuini di Barbara Gozzi. Creativa editor di Bologna, stanca delle video-chiamate online e della mancanza di contatto, ha spedito in giro per il mondo dieci pezzi di sé: dieci quaderni in cui ha scritto, appuntato ricordi, disegnato. “Ho ritrovato le foglie che da bambina inserivo nei libri per seccarle e le ho messe in un taccuino, in un altro ho incollato la carta di un cioccolatino per me proustiano, capace di evocare mio nonno e la mia infanzia. Come creativi, trovarsi distanti per così tanto tempo inficia la stessa produzione, senza confronto o scambio siamo nulla, anche stare seduti a un bar e ascoltare le chiacchiere altrui può far nascere un libro. Mi sentivo l’avatar di me stessa e per gioco è nata questa idea”.

I quaderni adesso sono in viaggio da e per varie parti d’Italia e del mondo. “Scrittori, grafici, un producer, illustratori, un traduttore e una libraia sono solo alcune delle professioni coinvolte, ognuno di loro li modificherà, aggiungerà un frammento e poi li spedirà a sua volta, ci sono già delle prenotazioni, è molto divertente e sono curiosa di vedere quanti ne torneranno indietro e come saranno diventati i taccuini viaggiatori ai tempi del Covid”.

Tra i primi protagonisti di questa avventura scritta molti sono legati a Book on a Tree, agenzia letteraria e factory creativa d’ispirazione warholiana fondata da Pierdomenico Baccalario, scrittore (forse) sconosciuto agli adulti ma adorato dai più piccoli, capace di vendere più di quattro milioni di copie nel mondo con le sue serie come Ulysses Moore (edito da Piemme).

I libri come i taccuini “perché noi non possiamo muoverci, ma almeno la carta possiamo toccarla, l’oggetto diventa il tramite e recuperiamo una dimensione anche fisica: nel taccuino che ho spedito a una musicista ho inserito un pentagramma con alcune note, un pezzo di canzone dedicato per trasmettere l’idea, almeno, di un abbraccio, far scattare un’emozione e condividere un momento” – sottolinea Gozzi, editor senior di Book on a Tree –. “Siamo orfani di tante avventure, è appena stata cancellata la parte in presenza della Bologna Children’s Book Fair 2021, la kermesse dedicata all’editoria per bambini e young adult, e dobbiamo cercare di resistere alla distanza e non perderci”.

Suez prima del Canale: un crocevia di pepe e pietre

Il gigantesco affollamento di navi bloccate a Suez si è risolto, ma paradossalmente proprio quel blocco, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, ci ha reso l’idea di quanto il Canale sia indispensabile. Ma che cosa succedeva quando quel Canale non c’era ancora?

Non solo non c’era, ma nessuno lo proponeva, nemmeno quando, fra ’400 e ’700, grandi navigatori andavano scoprendo terre lontane. L’idea di tagliare l’Istmo si affacciò all’epoca della spedizione di Napoleone in Egitto e in Siria (1798-1801), ma si concretizzò, dopo vari rinvii, solo fra 1859 e 1869, grazie alla tenacia di Ferdinand de Lesseps, ex-console francese ad Alessandria.

In antico, invece, un canale fra Mediterraneo e Mar Rosso era stato realizzato dal Faraone Nekao II intorno al 600 a. C.; nel III secolo a. C. Tolemeo II creò inoltre sul Mar Rosso la città portuale di Berenice.

Dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio contro Antonio e la stessa Cleopatra nel 31 a. C., l’Egitto è assoggettato: quando nel 27 a. C. Ottaviano diviene Augusto e fonda l’impero romano, la terra bagnata dal Nilo è annessa come proprietà privata dell’imperatore. È il “granaio dell’Urbe”, ma fornisce anche materiali preziosi come alabastro, porfido, granito, marmo di grande qualità. Dopo Augusto si punta, in vari modi e momenti, su una rete di vie di terra e di acqua che collegano il Nilo e l’importantissimo porto di Alessandria con il Mar Rosso. Adriano, dopo la morte del favorito Antinoo (caduto nel Nilo durante un viaggio compiuto nel 130-131 d. C.), fonda in suo onore la città di Antinoupolis, ma traccia anche la Via Hadriana che dal nuovo insediamento e dal grande fiume porta a quel mare, passando per giunta accanto alle cave di porfido del Mons Porphyrites e a quelle di marmo del Mons Claudianus.

Alcune rotte seguivano anche la costa della penisola araba trasportando mirra e incenso da Sud e da Est, mentre, per via di terra, lunghe carovane muovevano dall’Arabia Felix (attuale Yemen) puntando verso Petra (nell’attuale Giordania). Un pullulare di traffici, insomma: ne parla nel I secolo d. C. un testo anonimo, il Periplo del Mare Eritreo. Comprende, oltre al Mar Rosso stesso, il Mare Arabico, il Golfo Persico, l’Oceano Indiano, il Golfo del Bengala. L’autore cita molti porti o emporia: la già ricordata Berenice, e poi Myos Hormos e Adulis, nonché Leuke Kome sulla costa arabica, e infine molti altri al di là del golfo oggi detto di Aden fino a Muziris e Poduke nell’India Sud-orientale. Queste rotte erano divenute più sicure da quando, poco prima del Periplo, era stato scoperto l’alternarsi annuale dei venti Monsoni, e quindi era possibile programmare meglio i calendari della navigazione. Da Myos Hormos partivano ogni anno 120 vascelli.

Dall’India si importavano merci di ogni tipo, spesso rare e molto costose, forse perfino troppo, come lamenta Plinio il Vecchio: perle, avorio, stoffe, pietre trasparenti, gusci di tartaruga, nonché (per gli stomaci forti dei consumatori romani) pepe e funghi prelibati. Da Roma e dall’Italia giungevano in India fra l’altro vino e ceramica, in un ampio quadro di relazioni: si sa che furono ricevute da Augusto numerose ambascerie di principi indiani.

Fra le testimonianze archeologiche ne scegliamo, per concludere, alcune piuttosto sorprendenti. A Pompei è stata rinvenuta una statuina d’avorio raffigurante Lakshmi, dea indiana della bellezza e della prosperità (è ora esposta nella mostra Pompei 79 d. C. in corso al Colosseo): rivela la presenza, nella ricca città vesuviana, di mercanti provenienti da quel lontano sub-continente. Sempre a Pompei si sono trovati graffiti murali “safaitici”: un dialetto sud-arabico, il che evoca quell’import-export di mirra e incenso di cui si è detto. In India, invece, è stato da tempo individuato uno dei porti citati dal Periplo, Poduke. Siamo ad Arikamedu, presso Pondicherry, ex-capitale dell’India francese: gli scavi sono stati condotti negli anni Quaranta del secolo scorso da un grande archeologo britannico, Sir Mortimer Wheeler. Sì, un insediamento romano in India: sono stati rinvenuti muri di cinta, strutture portuali e ampi magazzini, nonché abbondante ceramica aretina e anfore vinarie provenienti dall’Italia; da qui partivano perle e pietre semipreziose, ancora oggi fra le “specialità” del luogo.

“L’ossessione per il lavoro, la tomba con Mastroianni e la lite con Ugo Tognazzi”

“Chi era mio padre? Un artista straordinario che ha sofferto molto come uomo: nella sua vita non ha mai trovato la pace e la serenità, ma con la fortuna di avere al suo fianco una donna come mia madre, in grado di mantenerlo in equilibrio. Senza di lei si sarebbe perso anche artisticamente”.

E invece Nino Manfredi è diventato uno dei colossi del cinema mondiale, non solo italiano; con Tognazzi, Gassman, Mastroianni e Sordi è uno dei cinque “mostri”, “fenomeni”, “mattatori”, “colonnelli” a seconda delle latitudini artistiche; e tra i cinque forse era il più riservato, sicuramente l’attore che ha raggiunto la consacrazione e la fama più tardi, “grazie a Canzonissima: prima di quella storica puntata, non lo prendevano in considerazione, veniva utilizzato da doppiatore. Anche di Mastroianni”.

Chi lo ricorda è il figlio, Luca Manfredi, regista cinematografico e televisivo, già dietro la macchina da presa per l’omaggio in tv In arte Nino, con Elio Germano nei panni del padre, e ora autore della biografia Un friccico ner core per festeggiare “Nino” a 100 anni dalla nascita. Una biografia nuda per quanto vera, con i prismi di un carattere complesso, non solo complicato. Le donne, tante. L’amore per la terra. L’infinita ricerca artistica. La solitudine. La depressione. La morte. La malattia. Le cure. Le assenze. Il sorriso.

Il libro è dedicato a sua madre.

Grande pilastro della nostra famiglia; c’è un film simbolico per inquadrare il nostro equilibrio: Il padre di famiglia di Nanni Loy. È la storia di una coppia che si conosce durante gli scontri universitari tra monarchici e repubblicani: si piacciono, si sposano, mettono su famiglia, poi lui si fa l’amante. In quella pellicola il vero “padre di famiglia” non era mio padre, lì protagonista, ma la moglie; (pausa) la stessa cosa è accaduta in casa nostra: mamma ha ricoperto entrambi i ruoli.

Lei è molto lucido nel ricostruire il rapporto con suo padre.

Da ragazzino non ho avuto un padre, perché non c’era mai: per vederlo dovevo chiedere a mamma di portarmi sul set; lì ho scoperto un mondo magico, carico di fascino, in cui amavo studiare le varie fasi di un film e chiedevo a tutti spiegazioni.

Anche a suo padre?

No, preferivo concentrarmi sul direttore della fotografia, i macchinisti, gli elettricisti: ero un vero rompiscatole, ma almeno così stavo con lui.

Solo quello.

Non è mai venuto a prendermi a scuola o a vedermi in una gara sportiva; non ha mai condiviso una parte del suo tempo libero o qualunque altra comune situazione genitoriale.

Le ha mai detto: “Torna presto”?

(Stupito) A me? Mai (cambia tono); tre giorni alla settimana dormivo a casa di Vincenzo, il mio migliore amico, e la mattina, prima di andare a scuola, la madre mi prestava mutande e camicia. In sostanza ero stato adottato.

E sua madre?

Spesso seguiva Nino.

Lo chiamavate sempre Nino?

Dipendeva dai momenti, dal caso; per lui era uguale (ci pensa); papà era un insieme di personalità, mia madre sostiene una tesi illuminante: “Lui era gente, non era solo Nino, ho imparato a conoscerlo attraverso i personaggi dei suoi film”. La sua personalità era complessa, molto tormentata, tutto nasce dall’esperienza terribile in sanatorio.

Tre anni chiuso…

In quei tre anni ha superato due estreme unzioni e ha visto morire tutti gli altri ragazzi malati; ragazzini che la mattina andavano a pregare per essere risparmiati, mentre lui, unico non credente, è sopravvissuto. Da lì sono nati i suoi interrogativi, poi sfociati nel film autobiografico, il più importante, Per grazia ricevuta.

Film molto coraggioso.

All’inizio volevano vietarne la proiezione nelle sale parrocchiali.

Secondo i figli di Tognazzi, il loro padre era di tutti…

Le poche volte che sono uscito con i miei genitori, magari al cinema, emergeva tutta la mia timidezza, per questo non mi sedevo mai accanto a loro ma dieci file più avanti: temevo l’intervallo con la gente accalcata intorno a papà per un autografo o una stretta di mano.

E lui?

Ogni volta, apposta, si alzava in piedi e urlava: “Luchino, che fai laggiù? Vieni qui da papà”; stessa scenetta quando riceveva un premio: dal palco mi salutava e mi invitava a salire accanto a lui. Io scappavo.

Trattava diversamente lei dalle sue sorelle?

No, uguale, cambiava la nostra capacità di reazione; una sorella è fuggita prestissimo di casa e si è fidanzata con Alan Sorrenti, all’epoca sconosciuto musicista di una piccola band composta da Pino Daniele e Tony Esposito.

Una robetta…

Conosciuto al baretto di Scauri, paesino tra Campania e Lazio, dove papà aveva acquistato una casa su suggerimento di Alberto Sordi, solo che poi Alberto se n’è andato a Castiglioncello.

Sorrenti in quegli anni…

(Ride) Un giorno mia sorella decide di presentarlo a papà: all’epoca non era ancora “il Sorrenti” da figlio delle stelle, ma suonava una musica impegnata, con sonorità indiane, e si vestiva come un santone in sandali. Al primo incontro ha offerto uno spinello a Nino, con papà che ci rimase malissimo.

Sostiene la Sandrelli: “Manfredi? Spiritosissimo, ma il suo umorismo conteneva una fatica, una fatica che difendeva dalle critiche altrui”.

Da uomo tormentato ha sempre portato nei suoi personaggi una doppia anima: una più leggera, ironica e una più drammatica e malinconica; lui era un po’ alla Charlie Chaplin, che riteneva fosse il suo maestro; (ci pensa) ai suoi ruoli dava sempre una grande dignità, una grande onestà priva di quel cinismo che invece avevano i personaggi interpretati da Sordi o Gassman.

Dino Risi: “Era un rompiballe: arrivava in camera mia, alle tre di notte, per correggere il copione”.

È vero, era un maniaco, un artigiano della recitazione e della preparazione del personaggio; era quasi uno da scuola statunitense, per questo lo definisco il più americano di quella generazione e tutto parte dagli insegnamenti in Accademia di Orazio Costa.

Quegli insegnamenti sono storia…

Per Costa prima della parola bisognava imparare a esprimersi con il corpo, così costringeva gli attori a personificare il cielo, la pioggia, il vento e, se uno doveva interpretare un personaggio nevrotico, consigliava di guardare la formica.

I suoi personaggi varcavano la porta di casa?

Quando staccava dal set tornava lui; a casa portava lo stacanovismo e gli avanzi del cestino, poi si chiudeva nello studio per lavorare e, nonostante fossimo ragazzini, pretendeva il silenzio. Se scappava qualche rumore, usciva incavolato perché, magari, stava con Age e Scarpelli o Benvenuti e De Bernardi.

Il gotha.

Da casa è passato il mondo di quella stagione fantastica: ho visto da Totò a De Sica, da Elio Petri a Germi e Comencini; ho avuto il privilegio di vivere la genialità dell’epoca: mi piazzavo in un angolo dello studio e assistevo alle sedute.

Com’erano?

Per tre quarti erano basate sul cazzeggio, su racconti, barzellette e insulti, poi si lavorava.

Totò.

Me lo ricordo a Napoli quando giravano Operazione San Gennaro: in quel periodo Nino aveva raccattato per strada un cane randagio che mi aveva attaccato una brutta malattia; il veterinario ci consigliò di portarlo al canile, e siccome Totò ne finanziava uno, l’affidò a lui, che gli diede il nome di “Manfredi”; quando il cane morì, fu proprio Totò a chiamare mio padre: “Ti devo dare una brutta notizia: è morto Manfredi. Ma per fortuna è il cane, perché quello bravo è ancora vivo”.

Doppio senso.

Nel mondo del cinema “l’attore cane” è un classico.

Per molti attori è suo padre il punto di riferimento.

Non a caso per In arte Nino ho scelto Elio Germano: ho sempre visto i suoi film e in lui, nella mimica, ho riconosciuto micro-reazioni legate a papà; durante il nostro primo incontro gli ho chiesto: “Qualche volta ti sei ispirato a lui?”. “Qualche volta? Sempre! È il mio attore di riferimento”.

Rispetto ai suoi colleghi, Manfredi sembrava meno guascone.

Era un soldato del suo lavoro, e per questo una volta litigò con Ugo (Tognazzi, ndr): se la convocazione sul set era alle otto, pretendeva di arrivare alle sette e mezzo, e non solo aveva già studiato la sua parte, ma sapeva a memoria pure quella degli altri.

Quindi…

Una mattina avevano iniziato a provare, solo che Ugo aveva passato una delle sue notti brave ed era arrivato sul set senza sapere neanche in quale film stava; allora mio padre, in maniera provocatoria, ha recitato la sua parte e quella di Tognazzi; finita la prova ha guardato il regista e in maniera fredda ha marcato la sua filosofia: “Adesso vado in camerino, e quando questo signore ha imparato la sua parte, chiamatemi”. Da quel giorno non si sono parlati per anni, fino a quando Ugo lo ha invitato al villaggio.

Villaggio Tognazzi.

Sì, lì ha ritrovato un Ugo diverso, depresso.

La depressione è una costante del mondo attoriale.

È difficile vivere il successo ed è altrettanto difficile vivere il tramonto e accettare l’invecchiamento; mio padre, dopo aver rischiato la vita a 15 anni, in qualche modo ha affrontato il dopo come un qualcosa in più; a 15 anni non sapeva nulla della vita, tantomeno del teatro: in ospedale vide uno spettacolo della compagnia di De Sica ed era convinto che De Sica fosse un ex malato. Non credeva potessero esistere i professionisti della recitazione.

Suo padre accusava Sordi di interpretare sempre e solo se stesso.

Anche io sono d’accordo: Nino era un camaleonte che spariva nel personaggio: diventava il portantino di C’eravamo tanto amati, l’emigrante di Pane e cioccolata o il baraccato di Brutti, sporchi e cattivi; mentre la personalità di Sordi era talmente straripante da venir fuori in tutti i ruoli, quasi li vampirizzava.

Perché?

Alberto era un grandissimo istintivo, uno che non ha mai curato il suo talento, infatti Nino sosteneva di possedere la metà delle sue capacità, ma solo grazie allo studio era riuscito a ottenere buoni risultati; per lui se Sordi avesse coltivato le sue doti, avrebbe raggiunto vette inarrivabili.

Glielo diceva?

Sì, ma Alberto cinicamente rispondeva: “A Ni’, ma che me frega, più de quello che faccio e guadagno…”.

Secondo Marcello Fonte per capire Nino Manfredi basta vedere la sua tomba: “È sobria, mentre Sordi si è costruito una villa”.

(Ride) È vero, poi mia mamma non ha il culto dei morti, ogni tanto vado io con le mie figlie (cambia tono); mio padre e Mastroianni erano molto amici, proprio Marcello propose a papà di acquistare due tombe vicine. E così sono a quindici metri di distanza.

Ha studiato molto Nino Manfredi.

Sono un fan dal punto di vista artistico, meno come figlio.

Con i suoi figli quale errore di suo padre evita?

Ne ho quattro da tre madri differenti, quindi non è semplice, ma cerco di dedicar loro tutto il tempo possibile, cerco di passare i weekend insieme.

La passione per le donne l’ha presa da lui.

(Sorride) Me l’hanno detto, ma non è vero.

E professionalmente?

La serietà sul lavoro: nulla è affidato all’improvvisazione, sul set devo avere tutto in testa.

È religioso?

Ateo come lui; papà ha passato la vita a cercare un Dio che non ha mai trovato; (ci pensa) ribadisco: per fortuna c’è stata mia madre.

A dare equilibrio…

È stata lei a salvarlo dalla depressione, a cercare le cure giuste quando parlava di suicidio. Lei gli ha dato stabilità. E papà lo ha sempre riconosciuto: anche quando erano separati in casa, quando lei non ne poteva più delle infinite storie con altre donne e lui viveva nell’attico e lei al pianoterra, per cena scendeva giù, e dopo mangiato si piazzavano sul divano per guardare insieme la televisione. Mano nella mano. Ed è un’immagine che mi porterò per sempre dentro.

 

La strana morte di Glushkov: delitto mascherato da suicidio

Nikolai Glushkov, uomo d’affari russo e critico di Putin in esilio a Londra, è stato ammazzato, come temeva e aveva previsto. Il 12 marzo 2018 era stato trovato dalla figlia Natalia riverso a faccia in giù, con segni di contusioni sul corpo, all’ingresso della sua residenza nel sobborgo londinese di New Maiden con un laccio intorno al collo. La morte era stata all’inizio classificata come ‘inspiegabile”: venerdì i risultati definitivi di tre anni di inchiesta della polizia metropolitana di Londra hanno però chiarito che si è trattato di un attacco a sorpresa alle spalle concluso con lo strangolamento; poi l’omicida avrebbe tentato di inscenare il suicidio. Il giorno prima testimoni avevano notato un furgone nero nelle vicinanze dell’abitazione, ma Scotland Yard non ha finora individuato l’esecutore materiale né indicato un movente. Gluhskov si era però messo pubblicamente in rotta di collisione con Putin. Sosteneva che il suo amico Boris Berezovsky, oligarca russo e grande avversario del presidente russo, trovato morto nella sua dimora ad Ascot nel marzo 2013 in circostanze mai chiarite, fosse stato strangolato da sicari inviati dal Cremlino. E accusava la cerchia di Putin anche dell’omicidio dell’ex agente del KGB Aleksandr Livtinenko, vittima a Londra di un the al polonio nel 2006. Proprio dopo la morte di Berezovsky, Glushkov aveva rivelato al Guardian di considerarsi il prossimo nella lista del Cremlino. In quell’anno era scampato ad un altro tentativo di eliminarlo: era collassato nella sua stanza al Grand Hotel di Bristol dopo aver bevuto champagne con due persone non identificate in visita da Mosca. Glushkov era riparato nel 2010 nel Regno Unito, dove aveva ottenuto asilo politico. In Russia era stato condannato a 8 anni di carcere con l’accusa di essersi impossessato di 123 milioni di dollari quando era direttore generale della compagnia aerea Aeroflot: soldi che avrebbe girato sui conti della società svizzera Andava, di cui era il socio di maggioranza con Berezovsky. Le autorità britanniche avevano però negato l’estradizione.

Grecia, tanti cronisti uccisi ma i casi restano insoluti

Ad Atene qualcuno vuole morti i cronisti. In Grecia la violenza contro i reporter che indagano corruzione e delitti, legami tra politici e criminalità organizzata, soldi sporchi e appalti pubblici, si aggrava ormai dal 2010. Nella penisola è in gioco la sopravvivenza del giornalismo investigativo. Cronaca di una fine annunciata. Sei colpi, due killer, una moto che è sfrecciata via veloce dopo l’esecuzione: l’ultima vittima della libertà di stampa greca è Giorgios Karaivaz, cronista giudiziario e volto noto della tv Star, ammazzato mentre rientrava a casa da moglie e figlio ad Alimos, nel sud della Capitale. In uno degli ultimi articoli di Karaivaz – che indagava su ricatti e accuse contro “politici, giudici, uomini d’affari”, giochi di potere che forse aveva scoperto e si sono rivelati mortali –, si legge: “Non mi ridurrete al silenzio”.

Il rumore degli spari che lo hanno ucciso è arrivato molto lontano dalla periferia di Atene, fino a Bruxelles: “La libertà di stampa è il diritto più sacro di tutti”. Contro “l’atto codardo” che ha messo fine alla vita del giornalista si è espressa anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. L’ultimo lutto ellenico trova però conferma in un dato: nell’indice della libertà di stampa stilato ogni anno da Reporter senza frontiere, la Grecia si trova al 65esimo posto su 180 nazioni. Tra condoglianze e stupore trasversale, il premier greco Kyriakos Mitsotakis ha chiesto alle autorità una “soluzione rapida” delle indagini, che ora attende non solo la Grecia, ma anche il resto dell’Unione europea. Il passato suggerisce però che non si troveranno presto esecutori o mandanti: per nessuno dei giornalisti greci ammazzati in questi ultimi anni sono stati rintracciati colpevoli, moventi o è stata fatta giustizia. Silenziatori e sicari contro voci critiche: un solco che si allarga in maniera inestricabile da almeno dieci anni. In un agguato simile a quello compiuto contro Karaivaz, è morto Socrates Golias, giornalista investigativo e blogger, colpito a morte a 37 anni, di fronte alla moglie incinta nel 2010 a Heliopolis, periferia di Atene. Autore del blog Troktiko, media indipendente da milioni di lettori, Golias è stato raggiunto dalle pallottole del movimento estremista della “Setta dei rivoluzionari”, i cui membri, travestiti da guardie di sicurezza, non sono mai stati identificati o catturati. Le armi usate nel delitto, proprio come nel caso di Karaivaz, erano state usate in crimini precedenti. Omofobo e antisemita, razzista e propagatore di teorie della cospirazione, anche il giornalista Stefanos Chios è stato vittima di un tentato omicidio nel luglio scorso nella periferia di Atene: mentre parcheggiava nei pressi della sua abitazione, gli hanno sparato prima al collo e poi al ventre, ma il commentatore è miracolosamente sopravvissuto.

Non per il piombo delle pallottole, ma per un misterioso incidente è deceduto nel 2016 l’editore del quotidiano Acropolis, Panagiotis Mavrikos: aveva 42 anni. La sua auto è esplosa improvvisamente mentre si trovava in autostrada e, nonostante le lunghe indagini degli inquirenti, il caso è stato archiviato come incidente dalle forze dell’ordine.

La stampa nazionale non tace l’informazione che accomuna tutte le vittime: tutti i casi di omicidio o tentato omicidio sono rimasti irrisolti. Carriere e inchieste dei reporter sono ora celebrate e ricordate dai colleghi, ma le incognite che avvolgono le loro morti, secondo alcuni, sono talmente fitte che ci vorrebbero altri reporter in gamba per risolvere. In Grecia però, questo mestiere porta al cimitero.

I migranti accerchiano Biden, lui offre camere con vista sul deserto

Camera con vista sul deserto: l’Amministrazione Biden spende 60 milioni di dollari alla settimana per alloggiare i minori non accompagnati che dal Messico entrano negli Stati Uniti. E i costi sono ancora destinati ad aumentare: si calcola che il flusso dei migranti nell’anno fino a settembre 2021 sarà il più alto mai registrato nel Terzo Millennio.

Le soluzioni d’emergenza trovate, fra cui l’affitto di alberghi, consentono di tamponare le esigenze di adolescenti e bambini affidati agli Health and Human Services (Hhs), che hanno già saturato i posti letto disponibili nei loro centri permanenti, le cui capacità sono state ridotte dalle norme anti-Covid. In tutta fretta, l’Amministrazione Biden ha quindi convertito in centri d’accoglienza una decina d’installazioni – hotel e centri per convenzioni, campi per lavoratori dell’industria del petrolio e persino basi militari – gestiti dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice). L’Ice, a sua volta, ha stipulato contratti per 86,9 milioni di dollari con la Endeavors, una Ong basata a San Antonio in Texas ed esperta nell’assistenza a reduci di guerra, vittime di disastri naturali e migranti, che fornisce e gestisce 1200 posti letto in Texas e in Arizona.

La situazione al confine tra Stati Uniti e Messico, caratterizzata a marzo da un flusso di migranti senza precedenti negli ultimi anni, resta critica. Secondo gli ultimi dati ufficiali, gli arrivi di minori non accompagnati sono raddoppiati in un mese, salendo a 19 mila: e gli arresti operati alla frontiera sono aumentati del 71% e sono al livello più alto da 20 anni a questa parte. Qualche cifra più precisa dà le dimensioni d’un fenomeno che sta creando imbarazzi al presidente e al suo staff, impegnati ad affrontare la questione migranti con riforme di lungo periodo, ma sorpresi dall’impennata degli arrivi. Il governatore del Texas, Greg Abbott, un ultra ‘trumpiano’, e senatori e deputati repubblicani mettono l’accento sulle esigenze di sicurezza nei territori di confine. A marzo, le autorità Usa hanno intercettato più di 172.000 persone prive di documenti al confine con il Messico, di cui 18.890 minori, per lo più provenienti dall’America Centrale. Sempre a marzo, la polizia di frontiera ha intercettato 5.,904 famiglie, rispetto alle 19.286 di febbraio: a marzo 2020, erano state solo 3.455, un quindicesimo. Solo una famiglia su tre è stata immediatamente respinta: le norme prevedono che le richieste d’asilo siano fatte prima di entrare nell’Unione. Le famiglie con bambini fino ai sei anni vengono invece autorizzate restare fin quando la loro posizione non sia chiarita. Circa 10 mila famiglie, secondo fonti del Congresso citate dalla Ap, sono state rilasciate senza l’obbligo di presentarsi davanti a un tribunale, ma solo di ripresentarsi dopo 60 giorni a un ufficio Ice. L’insediamento temporaneo di minori migranti in hotel, campi di lavoro e basi militari non avviene solo in Texas, a El Paso e a Cotulla, a sud-ovest di San Antonio, ma anche in New Mexico e Arizona, nell’area di Phoenix – la capitale dello Stato – e di Chandler, un suo sobborgo a poco più di 200 chilometri dalla frontiera. In California, la fiera di Los Angeles ospiterà fino a 2.500 minori non accompagnati. A rendere più critico il momento, le dimissioni di Roberta Jacobson, l’ex ambasciatrice in Messico scelta da Biden come ‘zar del confine’ nel Consiglio di Sicurezza nazionale: Jacobson lascerà l’incarico a fine mese. Biden ha affidato il dossier migranti alla sua vice Kamala Harris, che ha già avuto un lungo colloquio con il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, su come contrastare il traffico delle persone e tutelare i diritti dei minori. Al Congresso, Biden ha chiesto di stanziare fondi per quattro miliardi di dollari circa per sostenere lo sviluppo di El Salvador, Honduras, Guatemala, per scoraggiare le partenze; sono i Paesi da cui arriva il maggior numero di migranti. Si tratta d’investire nelle comunità locali, nella certezza che le persone “non lasciano le loro famiglie per piacere, bensì per necessità”. Usa e Messico hanno deciso di rafforzare i meccanismi di condivisione dell’intelligence, per meglio contrastare le reti transnazionali di trafficanti di esseri umani che si profittano dei migranti. Proprio a questo proposito la storia di Wilton Obregon è di quelle che valgono più di tanti numeri o statistiche: sul web circola il video di un bambino con una giacca a vento troppo grande per lui che cammina solo per una strada del deserto al confine tra Texas e Messico. Quando vede la pattuglia della Border Patrol tra le lacrime chiede, in spagnolo, “Mi potete aiutare?”. Obregon, 10 anni, del Nicaragua, è il caso lampante di come le famiglie di migranti possono ritrovarsi fra l’incudine degli Stati Uniti e il martello delle bande messicane. Wilton e la madre Meylin, secondo la stampa americana, avevano già attraversato il confine con il Texas il mese scorso, per chiedere asilo. Ma sulla base del Title 42, la misura adottata in tempo di pandemia da Donald Trump e confermata da Biden, erano stati rimandati in Messico. Oltre il confine, mamma e figlio sono stati rapiti da criminali che hanno contattato Misael Obregon, fratello di Meylin che vive a Miami, per chiedere un riscatto.

Trivelle, la Lega esulta insieme a Confindustria: “Luce nel buio”

A spendersi per il Carroccio, ieri, è stato il senatore Paolo Arrigoni, responsabile del Dipartimento Energia della Lega. La firma della Valutazione di Impatto Ambientale positiva per 11 nuovi pozzi di idrocarburi da parte del ministero della Transizione ambientale guidato da Roberto Cingolani sarebbe stato un atto buono e giusto. O, per dirla con il giusto taglio istituzionale, “un atto amministrativo, ma che conferma la correttezza nel dare corso a autorizzazioni bloccate illegittimamente per anni e la volontà del nuovo ministro di agire con il giusto pragmatismo e garantendo la certezza del diritto”. Il senatore Arrigoni ha definito le polemiche di questi giorni “pretestuose”, “immotivate” e che “celano molta ipocrisia” e ha però infine sollecitato la redazione del Pitesai, il piano delle aree idonee, che entro il 30 settembre di quest’anno dovrebbe stabilire dove sia possibile o meno trivellare e dopo il quale però non è così certo che la soddisfazione leghista permanga.

A fare eco, Confindustria Romagna, nella regione cui sono riconducibili almeno quattro delle concessioni interessate. “L’autorizzazione della commissione di Valutazione di impatto ambientale del ministero della Transizione ecologica sui giacimenti nazionali di idrocarburi in Adriatico è un segnale importante di apertura, dopo lunghi mesi di buio per il settore”, ha detto l’associazione degli industriali, anche in questo caso riponendo grosse speranze nella “vera svolta” sulla strategia energetica che “potrà avvenire solo nell’ambito della finalizzazione del Pitesai su cui il territorio di Ravenna formulerà le proprie osservazioni a fine mese”. Il piano, infatti, nella sua redazione terrà conto delle diverse componenti e caratteristiche del territorio: sia geofisiche che ambientali, sociali ed economiche. E l’Emilia Romagna, anche per la rilevanza che l’attività di perforazione ha nei bilanci Regionali, è oggi capofila nel coordinamento generale del Tavolo delle associazioni d’impresa.