Taranto a mezzo servizio: così Mittal decide i prezzi in Europa

“La situazione sta diventando insostenibile per il settore metalmeccanico. La carenza di acciaio è tale da aver prodotto un rincaro dei prezzi del 100% dalla scorsa estate. L’aspetto paradossale è che però più chiedi materiale e meno te ne arriva: la disponibilità è drasticamente bassa”. Luca è il direttore acquisti di una delle principali imprese manifatturiere italiane e, come la stragrande maggioranza dei colleghi, trascorre le giornate a litigare con acciaierie e centri servizio per ottenere qualche quota in più di materiale rispetto a quella stanziata a fine 2020. “Noi, come altri, viviamo una situazione paradossale: il portafoglio ordini registra un aumento del 30% sul 2020, ma non riusciamo a metterlo totalmente in produzione per la carenza di acciaio. Ho la sensazione che siamo finiti vittime di un processo speculativo”.

Quando si parla di speculazione il primo pensiero va generalmente alla finanza, ma nel caso della siderurgia il suo ruolo è pressoché inesistente: sono pochissimi (e quei pochi che ci sono poco liquidi) i contratti derivati legati agli acciai. A quale speculazione fa dunque riferimento il manager? Il pensiero va a monte, ossia ai produttori di acciaio, i cui margini industriali sui laminati piani in queste settimane veleggiano intorno agli 800 euro la tonnellata rispetto al minimo dei 200 della scorsa estate. È un’accusa, però, che lascia il tempo che trova, nel senso che è piuttosto fisiologico che, in fasi di mercato rialzista, chi si trova nella fascia alta della catena alimentare cerchi di ottimizzare quanto più possibile, soprattutto se si considera che il mercato viene da un decennio (2011-2020) di trend inverso. Il problema di fondo, che crea terreno facile alla speculazione “industriale” è un altro: quello che era una volta il principale fornitore del mercato nazionale, oggi è un nano industriale. Stiamo parlando dell’ex Ilva, lo stabilimento siderurgico di Taranto, la cui produzione è passata in pochi anni da 6 a 3,5 milioni di tonnellate annue. Un letto ma inesorabile processo di ridimensionamento, quello che ha colpito l’impianto, che ha cambiato radicalmente la struttura del mercato italiano dell’acciaio, facendolo finire in deficit strutturale, se si considera che la produzione italiana nel 2020 è ammontata a circa 21 milioni di tonnellate a fronte di consumi di oltre 27 milioni di tonnellate.

Enormi sono naturalmente le responsabilità politiche di un tale disastro e che vanno ricondotte alla gestione del dossier che dalla nazionalizzazione degli asset di proprietà della famiglia Riva ha portato alla sconsiderata vendita al colosso siderurgico ArcelorMittal (capacità stimata in 90 milioni di tonnellate) per poi concludersi alla fine dello scorso anno con il nuovo coinvolgimento dello Stato. Si penserà che l’accordo tra ArcelorMittal e governo italiano sia saltato a causa della pandemia: in realtà già nel 2019, dopo appena due anni dalla vittoria della gara, si era capito che qualcosa non andava per il verso giusto.

I sogni di rilancio vengono infranti esattamente nel maggio 2019 quando l’azienda comunica ai sindacati che la crisi del mercato impone un drastico calo della produzione rispetto ai 6 milioni di tonnellate previsti. Arriva poi la pandemia e dai 6 milioni si passa ai 3,5 milioni di tonnellate, costringendo così lo Stato a entrare nel capitale con l’accordo di dicembre 2020: sulla carta vi si prevede il ritorno alla capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate e l’entrata nel capitale fino al 60% per un esborso pari complessivamente a 1,1 miliardi. Quattro anni, insomma, buttati al vento e che viene da pensare abbiano anche fatto il gioco di ArcelorMittal, che potrebbe non aver avuto tutto l’interesse ad aumentare la produzione siderurgica di Taranto al fine di acuire la tensione sul mercato siderurgico.

Va detto che il ridimensionamento produttivo dell’impianto è in linea con la riduzione della capacità produttiva che ArcelorMittal ha implementato nel 2020 su tutto il mercato europeo a causa della diffusione del virus. Tuttavia, già all’inizio del terzo trimestre, gli stabilimenti in Francia, Spagna e Belgio erano tornati a produrre vicini ai livelli standard. Il sospetto, insomma, è che l’ex Ilva sia stata sacrificata per contribuire a mantenere teso il mercato europeo. Bisogna ricordare infatti che l’impianto di Taranto, durante l’epoca dei Riva, era il player in grado di offrire i coils ai prezzi più bassi in Europa: vendere quello stabilimento ad Arcelor è stato come darle le chiavi del mercato italiano.

Ora, mentre il governo Draghi è alle prese con l’implementazione dell’accordo con la multinazionale, l’attenzione degli operatori è rivolta alla decisione che a maggio dovrà prendere la Commissione Ue sulle quote all’import di acciaio che hanno aggravato le già enormi tensioni sul mercato. La lobby dei produttori, molto potente a Bruxelles, farà di tutto per estendere le quote, ma i timori sulla carenza di acciaio oggi sono tali che anche l’industria che usa quei materiali probabilmente troverà il modo per far sentire la sua voce.

I sindacati:“Così danni inestimabili”

Addio al vecchio marchio Alitalia: se la nuova Ita lo vorrà dovrà comprarlo in un’asta. Sarebbe questa una delle condizioni accettate dal governo italiano – secondo Repubblica e Il Messaggero – per avere il via libera Ue alla partenza della mini-compagnia aerea che dovrebbe nascere sulle ceneri di quella di bandiera. La complessa trattativa ripartirà sull’ultima proposta inviata da Roma alla Dg Competition di Bruxelles: gli aerei dovrebbero scendere a 43-45, i dipendenti di Alitalia liquidazione a circa 2.850 (il 26% degli attuali) da riassumere però attraverso una selezione e con un nuovo contratto (per gli altri proroga della Cig per 5 anni e, se possibile, scivolo per la pensione). Tutti gli asset Alitalia non compresi nella parte volo saranno messi all’asta. Proposto anche il taglio di 54 slot a Linate e Fiumicino (la Ue ne vorrebbe di più). Quanto ai soldi, Ita dovrebbe avere a disposizione 1,7 miliardi in 2 tranche.

“Se la notizie saranno confermate il Paese subirà danni inestimabili – scrivono in una nota Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti –. Il lavoro dei precedenti governi sarebbe cancellato con un colpo di spugna: avremo una compagnia aerea anonima, di dimensioni regionali, con un piano industriale con modesti obiettivi imposto da Bruxelles” che “riporterebbe l’Italia indietro di 75 anni e cioè a non avere, entro due anni, una compagnia aerea nazionale”.

Il diktat Ue sta trasformando Ita nell’addio ad Alitalia in 2 tempi

Il nostro Paese ha il diritto di avere un suo vettore di tipo tradizionale, centrato sulle esigenze del mercato nazionale e in grado di coprire in condizioni di concorrenza la domanda di trasporto aereo? La risposta dovrebbe essere ovvia e positiva ma a Bruxelles è, invece, ovvia e negativa. Il commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager dovrebbe essere regolatore e arbitro imparziale del mercato unico del trasporto aereo, impedendo che la concorrenza sia falsata da aiuti pubblici tanto agli operatori più deboli quanto, a maggior ragione, a quelli più forti. Quando questi aiuti pubblici divengono indispensabili a causa di eventi esogeni, come nel caso del Covid, dovrebbero essere approvati in base a un criterio unico, definito ex ante e valido per tutti gli operatori. Così però non è stato e i criteri adottati sono stati due, restrittivo per gli operatori deboli e tollerante per gli operatori forti. In questo modo Alitalia, che era in crisi già prima del Covid, si è vista centellinare le risorse pubbliche autorizzate e ha avuto per l’anno trascorso solo 297 milioni di ristori, corrispondenti al 9,5% del suo fatturato annuo ante Covid. Invece il gruppo Lufthansa è stato autorizzato ad aiuti pubblici ai suoi differenti vettori per 11 miliardi complessivi, i quali corrispondono a più del 40% del suo fatturato aeronautico annuo ante Covid. Se il criterio fosse stato unico e identico a quello applicato all’Italia gli aiuti sarebbero stati pari solo a 2,6 miliardi. Il criterio double face, grazie al quale la Commissione europea da arbitro della concorrenza è divenuta la sua principale distorsione, non sta tuttavia scritto nei trattati europei, ma nasce solo da una loro, molto libera, interpretazione e qualcuno dovrebbe porre alla Corte di Giustizia dell’Unione il quesito della compatibilità del criterio col Trattato.

Le conseguenze per l’Italia del regolatore europeo asimmetrico vanno ben oltre le differenze negli aiuti di Stato perché ci obbligheranno, in assenza di opposizioni doverose, a scegliere tra liquidare Alitalia e rinunciare per sempre a un vettore nazionale oppure far decollare la nuova compagnia Ita ma con caratteristiche tali da renderla completamente inidonea a competere sul mercato e dunque destinata a un sicuro quanto rapido insuccesso. Se tra pochi anni qualche studioso vorrà scrivere un libro, peraltro molto piccolo, su questa prossima disastrosa esperienza avrà già pronto un bel titolo, preso in prestito da Aldo Busi: Vita standard di un venditore provvisorio… di biglietti aerei. Entrambe le soluzioni possibili sono molto costose per il contribuente: per chiudere definitivamente Alitalia servono altri due miliardi di protezione sociale per i futuri ex lavoratori in aggiunta ai due già spesi per i quattro anni trascorsi di amministrazione straordinaria. Il costo totale è dunque di 4 miliardi. Ma l’ipotesi del nostro venditore provvisorio di biglietti aerei è assai più costosa, dovendosi aggiungere ai 4 miliardi appena indicati gli altri tre miliardi stanziati per Ita e destinati a volare via con i voli del vettore. Infatti Ita non è un nuovo vettore ma solo la chiusura in due tappe di Alitalia al posto della chiusura una tantum.

Per spiegare in breve questa fosca previsione occorre fare un passo indietro di 13 anni. Nell’estate del 2008 ebbi la possibilità di formulare, del tutto inascoltato dai decisori pubblici di allora, la facilissima previsione che il salvataggio di Alitalia a cura dei capitani coraggiosi si sarebbe rivelato un fallimento. Le ragioni erano le dimensioni scelte per il nuovo vettore, la tipologia di flotta e la strategia di posizionamento sui differenti segmenti del mercato. Prima della nuova Alitalia Cai privata le due aziende incorporate, l’Alitalia pubblica e AirOne avevano complessivamente una flotta di più di 240 aerei e circa il 35% del mercato nazionale, dunque oltre un terzo. I capitani però scelsero troppo coraggiosamente di partire con una flotta di soli 150 aerei e di abbandonare spontaneamente ai concorrenti un terzo del mercato, regalando quindi passeggeri ai vettori low cost e accettando una crescita dimensionale notevole della pressione concorrenziale che questi avevano esercitato.

Ritorniamo ora all’anno 2019 ante-Covid, glorioso per il trasporto aereo nazionale in quanto si sono superati per la prima volta i 160 milioni di passeggeri, trasportati da 4 mila voli aerei in media al giorno. Quanto era grande la flotta aerea totale necessaria per questa mole di voli? E quanto di essa era di Alitalia, di altri vettori italiani e di vettori low cost esteri? Ipotizzando quattro voli in media al giorno per aereo la flotta totale quotidianamente in volo sui nostri cieli era di mille aerei, che ora sono scomparsi ma torneranno tutti non appena un numero adeguato di italiani e di turisti esteri sarà vaccinato. Di questi mille aerei solo 115 erano di Alitalia e 25 delle due compagnie private italiane Neos e Blu Panorama, per un totale di 140. I restanti 860 aerei eran tutti di vettori esteri e di essi quasi 600 di compagnie low cost. Quando tutti i mille aerei saranno tornati sui cieli italiani ITA ne avrà solo 40 o 50, non più del 5% del totale, per gentile concessione della signora Vestager.

E noi pensiamo davvero di partire per la guerra area commerciale con 50 aerei e sognare di vincerla avendone 950 contro?

“Il Covid ha smascherato tutta la fuffa alla milanese”

“Ho avuto il Covid. Ora sono negativo, sono arrabbiato e sono tornato”. J-Ax è risbucato così, su Instagram, dopo uno strano silenzio durato un mese in cui apparivano solo sue foto d’infanzia o di ricordi lontani. E ha voglia di parlare dell’incontro – traumatico – con la malattia, della città che ama, Milano, maltrattata dalla politica sciatta e arrogante. Dei vaccini che non arrivano, dei no-vax e anche di quando “tornerà la musica”.

“Sai, avevo deciso di essere tollerante con i no-vax, avevo letto uno studio americano secondo il quale i negazionisti non vanno mai ridicolizzati, ma vanno affrontati con calma, dati alla mano. Ora che ho avuto il Covid mi verrebbe da tirare dei cazzotti”.

Hai capito come te lo sei preso?

Da mio figlio di 4 anni che andava all’asilo, uno di quegli asili in cui si rispettano tutte le norme possibili, ma è scoppiato comunque un focolaio.

Non eri uno di quelli che si ostinava ad andare in giro, mi sembra.

Mai fatto il cazzone in giro. Con mia moglie e mio figlio siamo stati a Milano anche ad agosto, a settembre abbiamo fatto una settimana in una villa a Stresa e basta.

Quando hai avuto i primi sintomi?

I primi di marzo. Ero in studio di registrazione, ho iniziato a tremare. Mi sono detto “avrò preso freddo”. Sono tornato a casa, ho fatto un bagno caldo. Il giorno dopo mi sentivo ancora strano. Mia moglie stava bene. Tre giorni dopo stava male anche lei.

Tuo figlio?

È stato sempre bene. A quel punto ho iniziato a fare i pungidito, erano sempre negativi. Siamo andati a fare i test in farmacia, tutti, anche la mia collaboratrice domestica. Finalmente, dopo sei test negativi, viene fuori che suo marito è positivo. Quindi siamo passati ai molecolari, ce l’eravamo preso tutti.

Siete stati molto male?

Mal di testa terribile, mal di ossa, un mal di pancia da non riuscire neanche ad arrivare in bagno… nulla che somigliasse a qualcosa che avevo già avuto. Per me anche parlare di Covid in “forma lieve” non ha senso, di lieve non c’è un emerito cazzo in ’sta roba.

Come ti sei curato?

Zitromax e cortisone, più di questo non c’è nulla, non è che perché sono J-Ax mi abbiano dato i monoclonali.

Ora come state?

Mia moglie ha ancora dei mal di testa fortissimi, io mi sveglio la mattina che sto bene e arrivo alle otto di sera che ho 80 anni.

Perché non hai raccontato che avevi il Covid?

Non volevo la pietà di nessuno e avevo altro da fare. Ho dato al mio social media manager un archivio di foto e gli ho detto “Pubblica queste finché non avrò la forza di ricordarmi che esiste Instagram”. Dovevo solo fare in modo di tirar fuori la mia famiglia da quella situazione.

Molti famosi però hanno usato il Covid per fare show.

Lo so, ma quello che funziona di più sui social a me non va di condividerlo. Sai qual è il paradosso? Faccio il cantante, ma se metto una mia foto in studio mentre faccio musica ho pochi like, se posto una mia foto in una jacuzzi faccio una scorpacciata di like.

Hai fatto qualche pensiero brutto?

Ho cercato di minimizzare, però in un momento volevo scrivere in un foglio le istruzioni per mia moglie nel caso fossi morto, come si usa il condizionatore, le password…

Nel tuo video ti sei detto arrabbiato.

Guarda cosa hanno fatto in Lombardia col vaccino anti-influenzale, figurati se poteva andare meglio con quello per il Covid. Fontana e Gallera sono la parte del problema che abbiamo visto, poi c’è il resto, dai problemi dell’eccessiva privatizzazione al fatto che il Covid ha smontato tutta la narrazione patinata su Milano e la Lombardia.

Cioè?

Le scene sui Navigli, il non accettare le regole raccontano una città piena di bambini viziati. A Milano c’è questo modo forzato di essere gaudenti, la socialità obbligata per cui per tante persone è un modo di esistere. Poi però scoppia il Covid e la gente scappa sul primo treno, perché non ama davvero questa città, la sfrutta. Quelle immagini, da milanese, non me le dimentico.

Dici che il sud alla fine ne esce meglio?

Posso sfatare un altro mito? Si dice sempre che al sud è pieno di gente che non fa un cazzo. Be’, a Milano è pieno di gente che non fa un cazzo, dal popolo della notte alla vecchia borghesia che ha casa a “Santa” a quelle famiglie cui c’è uno che ha lavorato e i figli che hanno ereditato tutto. È anche la città in cui si scopa di meno, secondo un sondaggio, quindi manco è vero che ci si diverte così tanto. (ride)

Il Covid ha smascherato questa città?

È venuta fuori per come è gestita e per come votiamo noi cittadini. Milano è tanta fuffa, accanto a tanti elementi d’eccellenza.

E il sindaco?

Metto anche lui assieme a Gallera e a Fontana e sai perché? Perché continua a fare quello cool. Solo che fa l’influencer col calzino colorato parlando di città green e si dimentica che questa è una delle città più inquinate al mondo. Cerca il consenso, quando dovrebbe fare con i milanesi come si fa con i bambini. Io mio figlio l’ho costretto a fare il tampone, lui ai milanesi dovrebbe dare la pillolina amara, chiudere la città alle macchine, sul modello Londra.

Tua madre vive accanto a te, si è vaccinata?

Non ancora ed è anche diabetica. Io mi vaccinerei col sorriso, anche con Astrazeneca, perché mi fido della scienza, e sono convinto che si debba passare ai passaporti vaccinali per tornate a vivere. Ma dovevamo muoverci meglio e prima, fregandocene di quello che diceva l’Europa. In questi momenti ho paura della Meloni che è in me, ma poi passa.

Per fortuna. Ti mancano i live?

Penso sempre a una cosa bella: quando si potranno rifare i concerti, saranno i live più belli della storia dell’umanità. Spesso il cantante di mestiere si abitua agli show dal vivo, questa volta sarà come la prima volta. Piangeremo tutti. Magari è la volta che riusciranno a scopare anche i milanesi e i giornalisti di Vice.

Ma è finito l’amore per Milano? Te ne vai?

Potrei vivere ovunque nel mondo, ma Milano non la lascio. Te lo dico da rapper: io sono il re di Milano, non posso abbandonare il mio regno.

Scherzi?

Scherzo. Un po’.

E l’anti-comedy anni 70? Ci pensa il mago imbranato

Domenica scorsa abbiamo visto due tattiche per fare comicità con i frame (schemi narrativi): “inversione” e “cosa accadrebbe se?”. Pensare alla gag come alla parodia di un frame conosciuto semplifica il lavoro creativo, e infatti è il modo con cui vengono ideate professionalmente battute, sketch tv, e scene di film comici. Se però date a un frame conosciuto il primo finale buffo che vi viene in mente, è quasi inevitabile che ci abbia già pensato qualcun altro. Per esempio, applicando la tattica dell’inversione al frame “incubo con mostro”, Smilby (1962), Coker & Jaffee (1969) e Quino (1970) hanno prodotto la stessa gag. Il frame delle tre gag è identico (“X sogna mostro, ma a sognare è il mostro”): in questi casi, non è solo isomorfismo (cfr.Qc#50), è isologia.

Altre due gag isologhe (Rickard & Jacobs, 1970; Quino, 1972) giocano col frame “inaugurazione di un ponte”.

Anche lo stile di un autore, poiché ha tratti di regolarità che possono essere descritti e previsti, è un frame: infatti è possibile farne una parodia, come si vede in due vignette apocrife pubblicate da Mad: una imita lo stile di Charles Addams, superando addirittura il maestro (“Charles Madman”, 1969); l’altra fa una doppia parodia: di Superman e di Dennis The Menace (Wally Wood, 1965).

 

La cosiddetta anti-comedy degli anni 70

Negli anni 70, due comici svecchiarono la comicità Usa parodiando il frame della “routine comica tradizionale”. Steve Martin cominciò prendendo spunto dal comico francese Mac Ronay, che faceva il verso agli illusionisti col suo personaggio del mago imbranato (shorturl.at/gwKR8, con gag di inversione a 4’48”). Ecco la versione di Martin, al suo esordio (shorturl.at/yBMW1). In un altro numero, diceva: “Vorrei iniziare con un pezzo buffo, che è stato davvero importante per me. È quello che mi ha portato dove sono oggi. Sono sicuro che molti di voi riconosceranno il titolo quando lo menzionerò. È la routine ‘Naso sul microfono’ (pausa per applausi, che non arrivano). Ed è sempre divertente, non importa quante volte la vedi. (si china e mette il naso sul microfono per alcuni, lunghi secondi; poi termina, e fa diversi inchini) Grazie mille.” Martin (2007) commenta: “‘È finito?’ pensarono. Sì, era finito. La risata arrivò dopo, quando capirono che ero già passato al pezzo successivo.” Qui (shorturl.at/ejnS2) fa la parodia del tipico entertainer di Las Vegas, e viene complimentato da Sammy Davis Jr., che ne era un prototipo.

La cosiddetta anti-comedy degli anni 70, dall’apparenza innovativa, in realtà era classica comicità di carattere (cfr.Qc#22, #28, #29, #43): senza la comicità di carattere, infatti, le parodie di frame che riguardano una performance non funzionano, cioè sono subito noiose. Il personaggio di Mac Ronay è uno sfigato rassegnato, le cui ambizioni di gloria sono frustrate dai continui fallimenti; anche quello di Martin, che gli si ispira, è uno sfigato, però cerca di far passare per successi i propri errori, sempre convinto di essere favoloso: “Quei francesi! Hanno una parola diversa per ogni cosa!”.

L’altro comico che, negli stessi anni, faceva comicità di carattere parodiando il frame della “routine comica tradizionale” era Andy Kaufman: “Non sono un comico. Non ho mai detto una battuta. So manipolare le reazioni del pubblico”. Come, lo vedremo nella prossima puntata.

(51. Continua)

Matteo rischia più a Palermo che a Catania. Ecco perché

La Procura di Catania ha chiesto il non luogo a procedere per l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per aver assegnato tardivamente il porto di sbarco ai migranti a bordo della Nave Gregoretti: secondo il pm Andrea Bonomo l’attesa di cinque giorni non può considerarsi una illegittima privazione della libertà in assenza di un obbligo allo sbarco immediato. Inoltre il governo avrebbe condiviso la linea di Salvini sulla ricollocazione dei migranti in via prioritaria e a bordo della nave della Marina italiana vennero comunque garantiti assistenza medica, viveri e beni di prima necessità e assicurato lo sbarco immediato di malati e minorenni. Per questo, a detta della Procura l’ex ministro non avrebbe violato le convenzioni internazionali né è stata illegittima la sua scelta di assegnare tardivamente il porto di sbarco.

A Palermo la Procura ha chiesto invece il processo per l’ex ministro imputato per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio per il caso della nave dell’ong spagnola Open Arms. Per i pm la concessione o meno del Pos era presa da Salvini in autonomia, senza mettere al corrente gli altri membri del governo, a conferma di un’azione non politica ma amministrativa. A sostegno della richiesta di rinvio a giudizio le testimonianze dell’ex presidente del consiglio e dei ministri Di Maio e Lamorgese acquisite della Procura da cui è emerso che la responsabilità dell’atto amministrativo di concessione del Pos risalisse alla competenza esclusiva del ministro dell’Interno. Nel caso della Open Arms i minori vennero fatti sbarcare solo dopo alcuni giorni nonostante le insistenze di Conte e del Tribunale dei minori. Tutti gli altri migranti vennero sbarcati solo dopo l’intervento del pm di Agrigento Patronaggio che sequestrò l’imbarcazione.

Caso Gregoretti, il pm “assolve” Salvini: “Non processatelo, non fu un sequestro”

La Procura non vuole processare Salvini. Le parti civili sì. Le sorti di Matteo Salvini sono appese alla decisione del gup Nunzio Sarpietro del Tribunale di Catania. Il prossimo 14 maggio si saprà se il leader della Lega dovrà essere processato per sequestro di persona. L’ex ministro dell’Interno ha impedito per sei giorni lo sbarco dei 131 migranti a bordo della nave Gregoretti. Accusa sostenuta dagli avvocati di parte civile, che credono ci siano tutti gli elementi per andare a dibattimento. Oppure potrebbe decidere di non procedere, avallando la richiesta perpetrata per l’ennesima volta dal pm Andrea Bonomo e dell’avvocata difensore Giulia Bongiorno.

La lunga giornata di ieri all’aula bunker di Bicocca, è iniziata con la requisitoria del pm Bonomo che ha voluto limitare la sua esposizione dando “una valutazione dei fatti e giuridica”, escludendo “valutazioni etico, politiche e morali”, che secondo il pm dovrebbero “restare fuori dal giudizio”. Per il magistrato etneo, Salvini non avrebbe nessuna colpa nel mancato sbarco, perché secondo le diverse convenzioni internazionale in tema di accoglienza di migranti, anche la nave Gregoretti poteva considerarsi un Place of safety (Pos), porto sicuro. Ci sarebbe un “insussistenza del delitto di sequestro di persona”, spiega Bonomo, aggiungendo che i vari centri di accoglienza o espulsione in cui i migranti attendono le autorizzazioni, in virtù del loro ingresso illegale nel territorio, “limitano la libertà, ma non contrastano le normative”.

Unanime il coro delle parti civili, che hanno ribadito che si trattava di una nave italiana, che aveva operato un recupero in acque italiane e che rimase ormeggiata in territorio italiano per giorni. Inoltre andrebbe approfondito, secondo gli avvocati, anche “l’ordine di sbarco” che fu concesso “dopo il veto del ministero dell’Interno”. Con tono di sfida, la Bongiorno ha tentato di smontare gli interventi precedenti dei colleghi di parti civili, spiegando che la Gregoretti poteva “operare in zona Sar”, ha prestato “piena assistenza ai naufraghi”, e l’attesa per l’assegnazione del pos è stata detta dalle procedure di ridistribuzione portate avanti dalla politica di governo di Giuseppe Conte. Per la Bongiorno non ci sarebbero differenze tra i casi Diciotti e Gregoretti, per questo ha bacchettato i vecchi compagni di governo, a partire dall’ex premier, finendo con Luigi Di Maio e Danilo Toninelli.

Pranzi a scrocco in ospedale: c’era pure il prete

Sembra di vederlo il Johnny Stecchino di Benigni entrare nella mensa dell’ospedale “Vittorio Emanuele” e ripetere l’adagio dell’uomo della strada: “Qui è tutto un magna magna”. Ma la realtà supera la fantasia nelle indagini condotte dai Carabinieri di Gela: “Magna magna” è l’operazione che ha svelato il saccheggio del nosocomio cittadino da parte dei dipendenti della ditta di sanificazione e supporto della cucina (che è risultata estranea ai fatti), con la complicità di parte del personale ospedaliero e dei cuochi. Sono 36 gli indagati per aver sottratto sistematicamente dalla struttura carne, pane, pasta, latte, più un televisore, alcol, bende e merendine di diversi distributori automatici. Due di loro sono stati arrestati in flagranza. Le telecamere nascoste degli inquirenti hanno registrato 500 furti in meno di 3 mesi, per un danno stimato in 24mila euro. Filmati anche tra gli 80 e i 90 banchetti improvvisati, cui avrebbe partecipato persino il cappellano dell’ospedale. Come se non bastasse, alcuni degli indagati avrebbero anche orinato tra le griglie di raccolta dell’acqua del frigorifero della frutta e della verdura. Alla faccia della sanificazione.

Confiscato il tesoro di Angelini

Beni per 32 milioni di euro. È quanto i carabinieri del nucleo tutela del patrimonio hanno provveduto a sequestrare a Vincenzo Angelini, dopo che la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per truffa ai danni della Regione Abruzzo. Si tratta dell’imprenditore che, rivelando ai magistrati le tangenti milionarie pagate, aveva determinato lo scoppio della Sanitopoli abruzzese nel 2008, provocando l’arresto e la caduta della giunta dell’allora presidente Ottaviano Del Turco. L’ex titolare della clinica privata “Villa Pini” di Chieti è stato ora condannato in via definitiva per aver svolto “attività sanitaria non coperta da autorizzazione o accreditamento provvisorio” tra il 2005 e il 2007, effettuando “prestazioni a carico del sistema sanitario nazionale per discipline non accreditate”. I carabinieri hanno messo i sigilli a diverse abitazioni, portando via interi camion di beni, tra cui anche oro e pietre preziose. Angelini stava già scontando una pena di 8 anni ai domiciliari per il crac della clinica. L’intervento della Guardia di Finanza in questi anni gli aveva impedito di far sparire quello che era considerato un vero e proprio “tesoro”.

Per salvare l’assegno di Del Turco malato il Senato vuole dare il vitalizio a Formigoni

Non sanno più a che santo affidarsi e così hanno ben pensato di invocare il Celeste, nel senso di Roberto Formigoni. Perché togliere il vitalizio a Ottaviano Del Turco, condannato per aver ricevuto laute mazzette nell’ambito dell’inchiesta sulla Sanitopoli abruzzese per le quali ancora deve risarcire il danno all’immagine arrecato alla sua regione, ha mandato in tilt Palazzo Madama che traccheggia da quattro mesi senza decidere. Che fare ora che Del Turco è ammalato? Sin qui grandi discussioni di principio tra chi chiede anche per lui l’applicazione delle regole e chi invece invoca la deroga per ragioni umanitarie. Ma in settimana potrebbe esserci una svolta: la Commissione contenziosa del Senato presieduta da Giacomo Caliendo deciderà il ricorso contro la revoca dell’assegno presentato dall’ex presidente della regione Lombardia, che ha perso il privilegio per via dei suoi guai con la giustizia, ma che lo rivuole a tutti i costi: in molti sperano che Caliendo di Forza Italia che ha già bocciato il taglio degli importi degli assegni anche per gli ex senatori con la fedina penale pulita, possa metterci ancora una volta una pezza. Impallinando la delibera nella parte che congela tout court il vitalizio ai condannati senza prevedere eccezione alcuna: che sia indigenza vera o presunta o malattia.

Il tira&molla sul vitalizio da 3.500 euro che continua a essere erogato a Del Turco nonostante la sua condanna sia divenuta definitiva già nel 2018, va avanti a Palazzo Madama da dicembre scorso. Ma adesso se Caliendo darà ragione all’altro ex presidente di regione Formigoni (riconosciuto colpevole di aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele dietro lauto compenso), la partita potrebbe sbloccarsi pure per lui. Formigoni del resto fa il diavolo a quattro dal 2019: dice di aver subito dal Senato una grande ingiustizia a causa della quale non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena dopo essere caduto in disgrazia. In prima battuta ha ottenuto da Palazzo Madama un sostentamento di 700 euro al mese: un vitalizio di cittadinanza che comunque non gli basta. Rivuole tutti i 7.000 mila euro al mese che il Senato gli erogava fino a due anni e mezzo fa e pure gli arretrati. Lui ci crede e sotto sotto pure a Palazzo si spera: Giacomino, pensaci tu!