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Ambiente, buona idea un servizio civile ad hoc

Ho apprezzato l’ottima idea di istituire il servizio civile ambientale, come segnale di attenzione verso il Next Generation Eu. Proposta dal nuovo gruppo di parlamentari Facciamo Eco – Federazione dei Verdi, per i giovani fino a 35 anni, retribuito, su due ambiti: lotta al dissesto idrogeologico e contrasto ai cambiamenti climatici. L’Italia è un Paese a forte rischio idrogeologico, dove avvengono i due terzi delle frane censite a livello europeo e dove una superficie grande quanto Lazio e Abruzzo insieme è a medio o alto rischio inondazione. Che affronta il rischio, ulteriormente aggravato dalla crisi climatica in atto, come fosse un’emergenza imprevedibile. Anziché continuare a spendere 3,5 miliardi l’anno in media per i danni, bisogna cambiare radicalmente approccio, iniziando a spendere meno e meglio grazie alla prevenzione. Abbiamo bisogno delle nuove generazioni per cambiare il futuro, per preparare un futuro migliore, affinché venga il Regno di giustizia, di pace, di amore e di bellezza del Laudato Si’ di Papa Francesco.

Celso Vassalini

 

Lettera di una docente sul vincolo quinquennale

Sono una docente immessa in ruolo da concorso straordinario 2018 nella Regione Lombardia e sono stata assegnata a una scuola che dista 200 km dal mio comune di residenza e per questo sono stata costretta a prendere una casa in affitto e ad abbandonare i miei cari e in particolare i miei figli provocando in loro un profondo smarrimento e sconforto. Il vincolo quinquennale lede in primis il mio diritto alla famiglia e mi danneggia, non poco, anche dal punto di vista economico. Sono profondamente delusa da questo Stato che, in questo momento di crisi, invece di agire concretamente, ci riempie di false speranze e promesse che non verranno mai mantenute.

Rosaria Luongo

 

È possibile il contagio in corsia dopo il vaccino?

Caro Direttore, hai ascoltato quello che ha detto la prof.ssa Gismondo sull’immunità di gregge ad Accordi & Disaccordi del 7.4.2021? Sei ancora convinto che un sanitario vaccinato non possa infettare un degente in ospedale?

Monica Picchi

 

Cara Monica, sono casi rari. Guarda il crollo di contagi e di morti in Gran Bretagna dopo i vaccini di massa e ti risponderai da sola.

M. Trav.

 

La fantasiosa censura di un edicolante di destra

Mia figlia, in un paese a nota conduzione “maoista”, Ponte S. Pietro (Bergamo), è andata ad acquistare il Fatto. Ecco la risposta dell’edicolante, dopo aver fatto finta di andare nel retrobottega a cercarlo: “Non c’è. E perché compri un giornale comunista? Lo sai che se voti a ‘sinistra’ è in corso l’approvazione di una legge che ti costringerà a tenere un extracomunitario in casa?” (N.B. mia figlia è da 21 anni sposata con un giovane e onesto operaio albanese!).

Antonino

 

DIRITTO DI REPLICA

Contrariamente a quanto scritto da Antonio Nicaso sul Fatto del 9 aprile, nel mio articolo pubblicato dal Foglio del 6 aprile non ho affermato che il libro di Bacco e Giorgianni Strage di Stato contiene frasi antisemite. Ho però notato l’associazione (temo non involontaria) tra il virulento attacco no vax (appunto una “strage” compiuta dai “poteri forti” nelle politiche di contrasto al Covid-19) e le frasi pronunciate da uno degli autori, Pasquale Bacco, durante la trasmissione La zanzara del 30 marzo (“chi comanda nel mondo? Gli ebrei.. hanno tutto in mano loro”). La nebulosa cospirazionista poggia su schemi di pensiero che vedono il popolo innocente ingannato e dominato da un piccolo gruppo di potenti, lobby che complottano per i loro interessi. Non da oggi questa “cupola” è identificata negli ebrei. Come si sa, oggi è difficile difendere apertamente l’antisemitismo, bandito legalmente e socialmente. Tuttavia, l’ostilità riemerge in queste forme occulte, e fa da modello a tutti gli altri complottismi. Se non capiamo queste associazioni, consce e inconsce, ci sentiremo immuni da tutte le forme di “neo-antisemitismo” che riaffiorano nei momenti di crisi. Nessun fango quindi rivolto da parte mia sul lavoro del Procuratore Gratteri contro la criminalità organizzata, ma una preoccupazione per i pregiudizi più o meno mascherati che si cerca di avallare e normalizzare cavalcando il disagio della gente.

Milena Santerini
Coordinatrice per la lotta contro l’antisemitismo

Cristo risorto. La luce di Pasqua è gentile, non un “coup de théâtre”

Da oggi la rubrica del “Vangelo della Domenica” sarà curata da Padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”.

 

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore (Gv. 20, 19-20). Era sera, dunque. Le porte erano chiuse. Il sentimento dei discepoli era paura. Così Giovanni ci presenta i discepoli: chiusi, al buio e timorosi. Quante volte proviamo questi sentimenti di sfiducia? Gesù era morto. Cala il sipario. La fiducia viene meno. Vige il sospetto. Bisogna chiudersi dentro.

Leggendo ancora sappiamo che questo, in realtà, è lo sfondo dark dell’apparizione del Risorto. Ci sono, dunque, tutte le condizioni per una manifestazione gloriosa e dirompente: c’è il buio in sala e le luci possono essere accese in modo da accecare. Ma il racconto evangelico non va in questa direzione. Non c’è alcun coup de théâtre qui. Il timore non è vinto da nessuno sfarfallio di luci, né da contrasti netti tra bianco e nero. Anzi si dice: venne Gesù, stette in mezzo e disse loro, come se fosse passato un amico, un conoscente che viene a fare una visita e si ferma. Le luci di scena restano morbide, soffuse, e dunque accoglienti, umane. Il Figlio di Dio non è deus ex machina che cala dall’alto. La sceneggiatura evangelica non è mai hollywoodiana.

Gesù resta a un livello personale, orizzontale. E che fa? Mostra mani e fianco. Fa vedere le parti ferite del suo corpo, le piaghe, segno inconfondibile del suo dolore, e anzi della sua morte. Mostra l’orrore. Che cos’è, dunque, che buca il timore dei discepoli? Non c’è dubbio: il fatto di vedere che quelle piaghe ben visibili che hanno ridotto i discepoli a esseri timorosi non sono state l’ultima parola sulla vita di Gesù. Il fatto di constatare, insomma, che quel Gesù morto è vivo. Non uno zombie, un morto che cammina, non un ologramma o un’immagine di pixel a bassa risoluzione. Gesù è un vivente che chiede a Tommaso l’incredulo di fare esperienza fisica della sua presenza. Dio è sempre esperienza ad alta risoluzione. Tommaso aveva insistito senza fidarsi della gioia altrui: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo. Gesù accetta il suo dubbio. Appare in sua presenza e dice: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. Vedere il Risorto, dunque, significa vedere la vita, ma proprio dal punto di vista delle ferite. È fare pace con quelle piaghe perché non sono state incapaci di annullare la vita di Gesù. Per questo Gesù può dire “pace a voi” e i discepoli possono superare il timore e gioire, in un balzo di emozioni che mozza il fiato. Cambia la percezione della realtà: dalla minaccia alla fiducia.

Questo è il punto, allora: la gioia vera della fede non è mai luce psichedelica, fantasmagorica, paradossale. La gioia della Pasqua non è una luminosità accecante che annulla le ombre e fa diventare tutto bianco come neon. La fede è luce gentile che offre capacità di visione, luce consolante e terapeutica. Se la luce non lenisce e guarisce, allora è luciferina, fanatizzante, esaltante ma certo non evangelica. Non ha a che fare con la Resurrezione di Cristo che “soffia” lo Spirito Santo, come leggiamo.

Allora la gioia vera della presenza del Risorto scaturisce dal constatare che le ferite della vita non bastano a distruggerla, che le voragini della storia non sono l’ultima parola sulla vita del mondo. Che Cristo ha vinto la morte. Ha ragione Tommaso a voler vedere le piaghe, altrimenti non può davvero godere della gioia. E Gesù comprende e acconsente.

 

Aprile, il più crudele dei mesi: mai così freddo da 30 anni

In Italia – Dal caldo record di fine marzo si è passati a un freddo tra i più intensi da decenni in aprile, con un sorprendente calo termico di oltre 15 °C in pochi giorni. Tra martedì e mercoledì venti dalla Groenlandia hanno innescato rovesci nevosi fino a quote di 300-500 m dal Nord all’Appennino meridionale, ma a Trieste fiocchi fitti sono scesi anche in riva al mare pur senza imbiancare. Temperature così basse in questo mese non si vedevano talora da 20-30 anni o più, battendo in varie località i record dell’8 aprile 2003: -33,6 °C ai 4554 m della Capanna Margherita sul Monte Rosa, -12,3 °C ai 2000 m di Sestriere, -9 °C nell’Aretino, -6 °C a Perugia, -5,2 °C a Verona. Gravi danni a colture agrarie e frutteti, risvegliati precocemente dal caldo esagerato di dieci giorni fa. Sono fenomeni che, pur inconsueti in questa stagione, non sono in contrasto con il riscaldamento globale: ogni tanto accade ancora che localmente faccia molto freddo (a livello mondiale invece la prima parte di aprile è stata 0,4 °C sopra media), ed è possibile che proprio i cambiamenti climatici stiano accentuando l’alternanza tra estremi, ma a prevalere in ogni caso restano gli eccessi di caldo, in rapporto di 10 a 1. Ancora siccità, incendio boschivo in Val Cannobina (Verbania) e portata del Po dimezzata rispetto al normale a Ferrara (785 m3/s), ma da ieri correnti atlantiche stanno finalmente portando le prime piogge rilevanti da due mesi a questa parte. Temperature di marzo 2021 nella media a livello nazionale secondo il Cnr-Isac, ma il primo trimestre dell’anno risulta il decimo più caldo dal 1800 con 0,7 °C oltre norma a causa di un febbraio primaverile.

Nel mondo – Il ritorno d’inverno ha colpito gran parte d’Europa con temperature minime inedite anche in oltre mezzo secolo in aprile: -4,3 °C a Salon-de-Provence, -7,4 °C a St-Etienne, presso Lyon, -7,0 °C a Graz (Austria), inoltre nuovi primati nazionali in Svizzera (-26,3 °C all’osservatorio del Jungfraujoch, a 3580 metri) e Slovenia (-20,6 °C a Nova Vas, 721 m). Solo pochi giorni prima Lubiana aveva registrato un record di temperatura massima più elevata per marzo, 25,3 °C! Neve qua e là in pianura, dal Belgio, alla Baviera, alla Serbia: nevicata d’aprile più copiosa dal 1888 a Belgrado (10 cm). Come nell’aprile 2017 nei vigneti si sono accese migliaia di fiaccole antigelo, ma le perdite sono comunque ingenti. Freddo straordinario anche in Alaska (-42,7 °C), per contro caldo estremo in altre zone degli Stati Uniti (41,7 °C al confine tra Texas e Messico), in Africa subsahariana (43 °C nel Togo), Nuova Zelanda e Tasmania (record nazionale per aprile, 32,3 °C). La Niña, periodico raffreddamento del Pacifico tropicale, ha alimentato un’intensa stagione delle piogge nel Sud-Est asiatico, con alluvioni disastrose per diluvi fino a 560 mm in due giorni in Indonesia e a Timor Est, oltre 150 vittime. Sempre la Niña ha un po’ attenuato le anomalie mondiali di caldo a inizio 2021, ma stando al servizio Eu-Copernicus gli ultimi 12 mesi (aprile 2020 – marzo 2021) a livello globale sono stati pur sempre terzi tra i più caldi dopo le analoghe sequenze terminate nel settembre 2016 e maggio 2020, con 1,2 °C sopra la media preindustriale. Dall’Oceano Artico sempre meno ghiacciato evapora più acqua che – seppure in un contesto più caldo e di innevamento medio in calo – può contribuire a nevicate estreme in Europa quando le temperature lo permettono, come nel febbraio 2018: così indica, su Nature, lo studio Arctic sea-ice loss fuels extreme European snowfall di ricercatori delle università di Oulu, Tromsø e Anchorage. Le dinamiche del clima sono complesse e spesso controintuitive, e per raccontarle occorre una divulgazione che vada oltre gli slogan brevi e ipersemplificati.

 

Italia debole e ostaggio di interessi (stranieri)

Le parole del presidente del Consiglio italiano Draghi sono le seguenti: “Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visione della società e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio”. I lettori sanno che dal primo momento in cui ha ascoltato queste parole, l’intero corpo della classe dirigente italiana (diciamo dai generali ai manager) stanno aspettando le parole concilianti con cui Draghi dimostrerà ancora una volta la sua agilità di manovra. Di certo, nessuno è sembrato impaziente di applaudire Draghi a nome del Paese, tenuto conto che Erdogan ha dato, dai tempi in cui governa con poteri assoluti e da solo, tutte le prove, anche compiaciute, di essere un monarca assoluto che tiene in prigione 135 mila prigionieri politici, che impedisce una sola parola di contraddizione in ciò che fu il Parlamento democratico turco, e vieta e sequestra e condanna televisioni e giornali. Gli resta un enorme tempo libero per usare la sua eccellente aviazione di ultima generazione americana (Turchia è Nato) per colpire ogni villaggio, città e Stati di frontiera che, da solo, dichiara pericolosi e nemici.

Ora ha chiamato il nostro ambasciatore (tipico gesto diplomatico di estrema offesa), e tocca a noi restare col fiato sospeso. Non per la forza di Erdogan, nostro alleato, che governa più o meno con gli stessi ideali e valori della Giunta di Myanmar, ma per la debolezza italiana. Tante brutte prove si accumulano sulle arretrate e impaurite linee di difesa della diplomazia italiana, niente affatto incompetenti ma guidate, di seguito, da governi che vogliono buoni affari, niente grane e perseguono lungo una linea di relazioni internazionali non nobili.

In Africa la triste sequenza comincia con l’assassinio misterioso e impunito di Ilaria Alpi e del suo operatore Rohatin. In Egitto l’Italia si lascia trattare con disprezzo (parlo del delitto Regeni a cura del governo di quel Paese) e ha prontamente accettato di rimandare il nostro ambasciatore al Cairo con l’impegno di lasciar stare le indagini sul giovane torturato e ucciso e a fare da notaio ai buoni affari di reciproca convenienza. Ci lega – Italia ed Egitto – il desiderio di ignorare del tutto il destino di coloro che sono caduti nella ragnatela di Al Sisi.

Ciò che sta accadendo al giovane Patrick Zaki è un altro gesto dedicato all’Italia, visto che Zaki vive e studia in Italia, è giustamente difeso dall’Italia e sta forse per diventare cittadino italiano. Un altro gesto che dice: chi cede su tutto e accetta gli insulti e persino i delitti in cambio di affari non conta niente. È mai stata più debole e disorientata l’Italia?

Ma poi viene la prova Abdul Hamid Dbeibeh, primo ministro libico di cui non conosciamo (se non per le discendenze politiche, burocratiche, militari, finanziarie, cioè le ragioni che hanno indotto le Nazioni Unite a indicarlo come il “pacificatore” e “l’unificatore” della Libia). Viene cioè il momento del rendere riconoscimento e omaggio, come abbiamo fatto con il predecessore al Serraj. Anche di lui non sapevamo nulla, non abbiamo mai appreso nulla e lo abbiamo celebrato in Libia e in Italia, come un vecchio amico e sicuro alleato, aprendo, sotto i bombardamenti di Haftar e le scorribande delle milizie, l’ambasciata italiana a Tripoli, sempre in pericolo e mai in grado di aiutare qualcuno. Che cosa si sono detti Draghi e Dbeibeh in questo primo incontro tra sconosciuti (che certamente sarà seguito da un corteo di vacanze romane altrettanto privo di notizie) non è dato sapere. “Con la sua visita in Libia, la prima missione internazionale del suo mandato, Draghi ha dato insieme un messaggio di saggezza e coraggio. Saggezza perché in Libia si gioca un pezzo grande del nostro interesse nazionale sul terreno energetico, del governo dei flussi migratori, della lotta al terrorismo internazionale. Si fa sempre più chiaro che un pezzo importante del nostro futuro si gioca fuori dai confini dell’Italia” (Marco Minniti, Repubblica, 9.4 ). Le intenzioni della frase sono buone, ma il realismo dell’autore prevale. I “flussi migratori” sono l’eterna ossessione, e l’immagine del barcone stracarico e in procinto di cedere al mare continua a ripetersi. Nel settore energetico siamo sempre stati bravi, però molto attenti a non entrare nelle prigioni libiche. Ma perché ci siano le prigioni libiche occorre che ci sia una finta Guardia costiera libica bene armata (armi italiane) e saldamente in mare (navi italiane) per catturare, respingere, affondare, punire, muovendosi liberamente in acque territoriali arbitrarie o protette dai turchi. Certo che non dicono queste parole i comunicati degli storici incontri. Ma a volte la realtà, che resta terribile, prende il sopravvento. Come quando l’Italia ringrazia la Libia “per i salvataggi”.

 

Da Merkel a Michel, scusarsi è un’arte

 

“C’è gente che riesce a scusarsi in maniera tanto convincente e simpatica da conquistarsi l’amicizia e l’affetto dell’offeso… Alla fine ti accorgerai che sapersi scusare è il segreto del saper vivere, dell’amicizia e anche del successo sociale (ma, naturalmente, devi saperti aiutare con molta sincerità)”.

Biagio Vinella, “L’Arte di chiedere scusa”

 

Festeggiamo, ieri, sabato 10 aprile come il Giorno delle Scuse. A cominciare da quelle di Charles Michel, il frastornato presidente del Consiglio europeo che fa mea culpa per non aver ceduto la propria sedia a Ursula von der Leyen durante l’incontro con il “dittatore” Erdogan. Ha confessato al “Sole 24 Ore”: “Mi dispiace per l’accaduto, ho già espresso il mio rincrescimento alla signora Von der Leyen e a tutte le donne, vi assicuro che da allora non dormo bene la notte e che nella testa ho riavvolto il film dell’episodio decine di volte”. Giudizio: abbastanza sincero (la notte insonne) ma per quel sorriso un po’ coglione mentre se ne sta lì impoltronato non ci sono scuse. Poi tocca a Nicola Gratteri, che ha firmato la prefazione del libro negazionista “Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19”. Intervistato da “Repubblica”, ammette: “Ho fatto un doppio errore, di eccesso di affidamento e di generosità mal riposta”. Giudizio: doveva dirlo prima, ma meglio tardi che mai. Sconto di pena per la pratica, diffusissima, di apporre prefazioni a volumi manco sfogliati. Imperdonabile, invece, aver comunque consentito che il libercolo scalasse le classifiche dei più venduti. Assai apprezzate, dall’autore di questa rubrica, le sentite scuse a Paulo Fonseca da parte di Ivan Zazzaroni, direttore del “Corriere dello Sport”. Giornale che aveva scritto di una vera e propria rivolta dello spogliatoio contro l’allenatore della Roma, sabato, dopo il pareggio con il Sassuolo e alla vigilia della partita con l’Ajax: “Il clima domenica non era dei migliori ma l’unico scontro verbale che in effetti è avvenuto riguardava un ‘rumoroso’ disaccordo su una punizione nella partitella di allenamento”. Giudizio: bene la “stima dell’uomo Fonseca” (che ha vivacemente protestato per quelle “bugie”) e il riconoscimento dell’“errore”. Parole che (da collega a collega) vogliamo fortemente credere sarebbero state le stesse pure se la Roma fosse tornata da Amsterdam non sulle ali di un’epica vittoria ma gravata da una sonante sconfitta. Detto che i due Matteo (Renzi&Salvini), affetti dalla sindrome di Fonzie (“Happy Days”), non sarebbero mai capaci di dire: mi dispiace (anzi, davanti a qualunque figura di cacca amano beatamente ribadire che rifarebbero tutto ciò che hanno fatto), torniamo all’uso “convincente e simpatico” delle scuse. Infatti, siamo convinti che alla prima occasione utile, il presidente Mario Draghi saprà trovare le espressioni più acconce per scusarsi con la categoria degli psicologi (di qualunque età). Per averli ingiustamente accusati di vaccinarsi saltando la lista, lasciando esposti i più anziani e fragili quando era stato proprio il suo governo a obbligarli a farlo. Basta che dica due semplici parole, ho sbagliato, per accreditarsi degnamente alla guida dell’Europa al posto di Angela Merkel, che da grande premier qual è, ha chiesto scusa ai tedeschi (“mio errore”) per aver proclamato a Pasqua un lockdown che non era necessario.

 

Le peripezie del Gran Mogol, il diamante maledetto da 265 carati

Dai racconti apocrifi di Pierre Mac Orlan. Arrestato per il furto di un grosso diamante dal Museo del Louvre, Jean Luc Esposito fu condotto in commissariato. All’ingresso, sorrise vedendo un uomo che evitava accuratamente di passare sotto la scala di un imbianchino, ma quando se lo vide di fronte, in veste di commissario di polizia, capì che, giocando bene le sue carte, forse avrebbe potuto salvarsi. Così, quando il commissario Lacour, soppesando sul palmo quella prugna blu da 265 carati, gli domandò se avesse qualcosa da dichiarare prima di essere sbattuto in cella, Esposito si schiarì la voce e disse: “Signor commissario, i diamanti famosi sono malefici e maledetti. Quello che ha in mano è il Gran Mogol. L’indiano che lo trovò in una miniera di Golconda fu ucciso da un altro indiano, che ingoiò il diamante per occultarlo: il padrone della miniera gli fece aprire il ventre da uno sgherro, che poi uccise anche lui e scappò col diamante, lo regalò all’amata, e morì di lebbra il giorno dopo. Per liberarsi della pietra infausta, la donna la donò ai monaci del tempio, che la incastonarono in uno degli occhi della statua del dio Hindu. La rubò un novizio, che prima di morire suicida la vendette a un tagliatore di diamanti di Anversa, il quale ne ricavò un gioiello per il principe del Belgio. Il tagliatore morì di peste e fu gettato nelle acque dell’Escaut. Il principe, innamoratosi di Maria di Borgogna, che non gli si concedeva perché era deturpato da una malattia orrenda, le offerse il gioiello: e l’illibatissima Maria vendette il proprio corpo e la propria anima in cambio di quel diamante; ma il padre di lei, Carlo il Temerario, glielo confiscò per regalarlo a Geltrude, l’amante di Luigi XI, a condizione che inducesse il re a firmare il trattato di Conflans. Luigi XI, sgamato il tradimento, fece cucire Geltrude in un sacco da buttare nella Senna con un cartello che recava la solita formula con cui si archiviavano per sempre le sentenze di quel genere: “Lasciate passare la giustizia del re”. Quando Massimiliano d’Austria sposò Maria di Borgogna, pretese il diamante, che però intanto era passato nella cassaforte di un mercante levantino deciso a venderlo al Gran Turco. Maria di Borgogna, allora, si mise d’accordo con Halway, il pirata inglese, esperto di tutti i mari, che inseguì la nave del mercante e lo uccise con tutto l’equipaggio: invece di consegnare il diamante a Maria, però, lo mise in vendita a Londra. Dopo qualche anno, il capo della Compagnia delle Indie, che finì impiccato, lo cedette a un intermediario, Joan van der Meer, in cambio di dieci navi cariche di oppio. Quando la piantagione fu confiscata dalle autorità, Van der Meer si salvò dalla forca omaggiando del diamante il proprio sovrano, che lo regalò al re di Francia, e fece morire nelle segrete del castello Muiderslot il capo della giustizia, un magistrato inflessibile, colpevole di averlo informato che quel diamante portava lutti. Il diamante che lei, signor commissario, ha in mano da dieci minuti, passò poi di banchiere in banchiere, da baldracca a baldracca, da baldracca a gran dama, da una ballerina a un usuraio, e tutti fecero una brutta fine, in una catena di ricatti, di minacce, di intrighi, di decessi misteriosi, finché giunse nel negozio di un gioielliere, fornitore delle case imperiali d’Europa, che lo aveva avuto a un quarto del suo valore da un tale che era stato pagato con certe cambiali che il giorno dopo scomparvero, con lui, in un incendio. Il gioielliere lo regalò a Louvre, al quale l’ho rubato io, ma non bastò a evitargli l’impiccagione per assassinio. Io, almeno, non mi sono macchiato di sangue”.

Il commissario gli mise in mano il Gran Mogol e lo lasciò andare.

 

Caro Draghi, le spiego perché sugli psicologi sbaglia di grosso

Caro Presidente Draghi, stanotte l’ho sognata. La accompagnavo, come un novello Virgilio, nei centri di salute mentale per mostrarle il ruolo degli psicologi nel sistema sanitario. Forse lei è rimasto al lettino e all’interpretazione dei sogni, ma non ho bisogno di interpretare il mio. Io l’ho sognata perché sono rimasta allibita dalle sue parole: portare come esempio di mancanza di coscienza quello dei giovani psicologi che si vaccinano. Ho avuto la conferma da lei di ciò che molte volte ho vissuto sulla mia pelle: le istituzioni non considerano la salute mentale alla base della sanità della persona. Nel definire gli psicologi personale sanitario di secondo livello c’è una cultura retrograda e non attenta alla complessità della persona, che considera occuparsi della sofferenza psicologica qualcosa di rimandabile. Mi dispiace signor Presidente, non è così che vanno le cose. Quest’anno durissimo ha già portato un +30% della richiesta di assistenza nei servizi per la salute mentale. Nel servizio pubblico per cui lavoro abbiamo il doppio delle richieste rispetto a un anno fa, ma ahimè non il doppio del personale.

Non so se è a conoscenza del fatto che dopo gli incidenti stradali, i suicidi sono la seconda causa di morte tra i giovani e i disturbi alimentari la terza. E che entrambe sono in aumento proprio a causa della pandemia.

È con questa coscienza che i miei colleghi psicologi, gli psichiatri, tutti gli operatori coinvolti nella cura della malattia mentale ed io, ci vacciniamo, perché incontriamo quotidianamente decine di persone. Spesso si tratta di persone fragili, come ragazzine che soffrono di anoressia o di obesità o malati oncologici, solo per citare i casi più frequenti. Ci vacciniamo sapendo che assentandoci dal lavoro, lasceremmo decine di persone a lungo periodo senza assistenza.

Non le chiedo di fare ammenda, siamo abituati a non essere considerati essenziali. Le chiedo però di riflettere, perché possa seriamente investire in futuro sulla salute psicologica dei cittadini italiani perché, ne sono sicura, salverebbe delle vite.

Maria, psicologa

Se indagano il lampadina la stampa s’abbiocca

Ieri con un filo di commozione abbiamo ricordato i vecchi tempi, quando le prime notizie sull’allora ministro Luca Lotti e l’inchiesta Consip uscivano sul Fatto in beata solitudine, ignorate dal resto della stampa e dei media italiani, oppure imboscate nelle pagine periferiche dei giornali. Stavolta non parliamo di Consip, ma di Lotti sì: è indagato (anche) per corruzione (oltre che per finanziamento illecito) nell’inchiesta sulla Fondazione Open, l’ex “cassaforte” del renzismo negli anni d’oro del Giglio Magico. La posizione di Lotti si aggrava insieme a quella dell’ex presidente di Open, l’avvocato Alberto Bianchi (con loro due sono indagati anche il costruttore Alfonso Toto e l’imprenditore Patrizio Donnini). Ma proprio come ai vecchi tempi, questa notizia sui giornali italiani non la troverete, è praticamente scomparsa. Con la notevole eccezione di Repubblica – che la mette addirittura in prima pagina – l’ennesima tegola giudiziaria sul “Lampadina”, che per tanti anni ha illuminato il percorso di Matteo Renzi, è ignorata da tutti tranne che dal Fatto. Vecchie abitudini difficili da abbandonare.

Cosa ce ne frega degli anziani, noi vogliamo le isole “Covid free”

Nella corsa all’annuncio più roboante sul tema delle isole “Covid free” per rilanciare il turismo, e frenare le emorragie di prenotazioni dei mercati stranieri verso le isole della Grecia e della Spagna che stanno galoppando con settimane di vantaggio, ieri è andato in fuga il sindaco di Capri, Marino Lembo: “Entro due settimane i nostri cittadini saranno tutti vaccinati”. Lo diceva durante la protesta in piazzetta dei lavoratori stagionali, mentre la somministrazione dei vaccini si fermava per tutto il weekend, riprenderà domani, in questi giorni l’arrivo dei sieri salvavita è stato rallentato dal mare agitato. Rappresentazione plastica della distanza tra i sogni e la realtà.

La partita delle isole da immunizzare si disputa sul campo di gioco delle incoerenze e delle ipocrisie del popolo italico. Prendete il governatore della Campania Vincenzo De Luca, il Cristiano Ronaldo delle giravolte, l’imperatore della regione di alcune delle piccole isole più famose del mondo, Capri, Ischia, Procida che nel 2022 sarà Capitale della cultura, che per primo ha tirato il pallone in porta costringendo il ministro Garavaglia a rincorrerlo. Dal suo consueto soliloquio senza contraddittorio del venerdì, De Luca ha bollato come “osservazioni idiote e ideologicamente segnate, stupide” chi non ha festeggiato la sua idea di una corsia preferenziale dei vaccini per le isole del turismo, che “avrebbe una ricaduta economica straordinaria per tutta la Regione e forse per tutta Italia”.

Non applaude, però, chi si chiede perché il turismo della terraferma di Sorrento, Positano, Castellabate, Paestum, Acciaroli, dei Campi Flegrei, debba restare al palo. E se queste uscite di De Luca – e di chi la pensa come lui – non configurino palesi violazioni dell’uguaglianza dei cittadini e delle norme sulla libera concorrenza.

De Luca, sì. Il presidente di una Campania da quasi sei milioni di abitanti in cima alle classifiche del listino “altro” nei numeri dei vaccinati. Numeri che registrano ritardi nella vaccinazione degli anziani: solo 124.140 degli over 80 hanno ricevuto la seconda dose (altri 64 mila hanno ricevuto la prima) e sono immuni, il numero scende a soli 583 (su quasi 103 mila prime dosi) per il range 70-79 anni.

De Luca che attaccò la lombarda Letizia Moratti quando chiese una distribuzione dei sieri proporzionata al Pil delle regioni – “siamo a un passo dalla barbarie” – e poi promuove le isole Covid free in nome dell’economia. De Luca che nega favoritismi nelle vaccinazioni ma si è fatto inoculare il Pfizer nel V-day dei medici.

Il governatore campano è in ottima compagnia. Il governo Draghi ha sposato la causa delle isole Covid free e ha messo a punto un piano che dovrebbe decollare a partire dalla fine di aprile e che interessa anche Ponza, le Lipari, Pantelleria, l’Elba. L’andazzo è tale che pure Sardegna e Sicilia hanno rivendicato il loro status di isole e invocano vaccinazioni anticipate. Andrà a finire che un quisque de populo senza santi in paradiso per farsi immunizzare dovrà fare come l’ingegnere Giorgio Rosa che nel 1968 si costruì da solo un’isola al largo di Rimini e ne fece una meta turistica. Stavolta invece di rivendicare l’indipendenza gli basterà annettersi all’Italia. E poi reclamare i sieri per sé e i suoi avventori.

Lombardia. I “vecchi” disabili prima del 2010 dimenticati in Regione

Sono cardiopatico congenito, ma quando inserisco i miei dati, (il portale, ndr) mi dice che non sono corretti. Perché?”. È solo uno delle centinaia di messaggi postati sulla pagina Facebook di Regione Lombardia, dedicata alla campagna vaccinale degli invalidi, circa 450.000 persone che dal 9 aprile possono prenotarsi sul portale di Poste. Ma la maggior parte dei titolari di Legge 104 l’appuntamento non riesce ad averlo, il sistema non li riconosce. Motivo? Fino al 2010, la gestione dei titolari di Legge 104 era di Regione; poi è passata a Inps. Quando il Pirellone chiede a Inps i dati dei disabili da inserire nel portale di Poste (a metà marzo) Inps notifica solo quelli presi in carico dal 2010 in poi. Gli altri dovrebbero già essere in mano a Regione. Ma si tratta di materiale cartaceo mai digitalizzato e quindi mai inserito in una banca dati. Morale: i disabili “pre-104” per il sistema non esistono. Per ovviare all’ennesima falla, le associazioni dei disabili si sono messe a raccogliere i dati per inviarli alla Regione. La prima ad accorgersi del “buco” è stata l’Associazione italiana ciechi. Il problema, però, rimane per tutti quei disabili non iscritti a un’associazione o che un’associazione di riferimento non ce l’hanno proprio.

Intanto Attilio Fontana resta impermeabile alle critiche: “Il gap con le altre Regioni? Lo dite voi giornalisti, non c’è alcun tipo di gap nei confronti di altre regioni. Stiamo seguendo un programma che è rispettoso delle quantità di vaccini che riceviamo e degli impegni che il governo ci ha dato di alcune categorie particolari. Adesso abbiamo aperto alla categoria tra 75 e 79, poi 70-75 e l’operazione prosegue in maniera assolutamente perfetta”. Non solo, il presidente ha anche annunciato che “entro domani (oggi, ndr) sicuramente gli 80enni avranno ricevuto almeno una dose”. Ma i numeri lo smentiscono: su 725.923 over 80, 124.152 ieri risultavano ancora senza.