Contagi, la curva è stabile. “Io apro” domani in piazza

“Il contagio ha raggiunto un plateau”, aveva detto venerdì il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro. E alcuni indicatori in discesa continua da alcuni giorni (numero di attualmente positivi e pressione sul sistema sanitario) inducono a un cauto ottimismo, ma in serata ci ha pensato il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, a raffreddare gli entusiasmi di chi, come il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, e il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, evocano “riaperture entro fine aprile” e “un’estate da liberi”: “La situazione è ancora di estrema gravità – ha detto Magrini – per questo siamo molto preoccupati del numero molto elevato di morti tutti i giorni. La sensazione è che ci sia ancora molto da fare e un po’ da resistere e soffrire per i prossimi due mesi. Lo sforzo attuale è di vaccinare il più possibile”.

Il bollettino di sabato 10 aprile parla di 17.567 nuovi contagi a fronte di 320.892 tamponi (molecolari e antigenici) per un tasso di positività sul totale dei test effettuati al 5,5%, percentuale che sale al 17,2% se calcolato in rapporto al numero delle persone sottoposte a tampone. Dati in lieve calo rispetto allo scorso sabato 3 aprile (21.261 nuovi casi e tasso di positività al 5,9%). Per il quinto giorno consecutivo diminuiscono gli attualmente positivi (perlomeno quelli ufficialmente rintracciati) attualmente a quota 533.085. E da quattro giorni è in calo la pressione sugli ospedali: -492 posti letto occupati nei reparti Covid ordinari per un totale di 27.654 ricoverati. Per quanto riguarda l’occupazione dei posti in terapia intensiva, il saldo rispetto alle 24 ore precedenti è in lieve diminuzione (-15) a fronte di 186 ingressi. Il numero complessivo dei malati gravi è a quota 3.588 Ancora alto il numero dei morti, 344 nelle ultime 24 ore. Il totale sale a 113.923 .

A pochi giorni dalla manifestazione davanti alla Camera, intanto, il movimento “Io apro” ha lanciato un nuovo sit-in in piazza Montecitorio a Roma. “L’ultimatum è scaduto – scrivono su Facebook –. Vi abbiamo dato 48 ore per legittimare le riaperture di tutte le attività economiche. Nessuno ci ha risposto. Porteremo 20.000 persone davanti al Parlamento”. Ma la piazza domani sarebbe già occupata da un altro sit-in.

Rifiuti: Zingaretti sta fermo e Roma paga 130 milioni

Leggi inapplicate, sentenze del Tar ignorate, obblighi comunitari non rispettati. La Regione Lazio non rispetta la normativa sui rifiuti e i cittadini romani pagano. Solo nel 2020, la Capitale ha speso 130 milioni di euro per portare l’immondizia negli impianti privati disseminati in tutto il centro Italia. Perché nel Lazio non ce ne sono più. Con le discariche laziali ormai colme e la programmazione al palo, il governatore Nicola Zingaretti il 1° aprile ha firmato un’ordinanza che costringe la sindaca Virginia Raggi ad andare a elemosinare spazio nelle discariche del Paese, pena il “commissariamento” da parte del governatore dei poteri sul tema della prima cittadina, finita pure a litigare con il suo omologo napoletano, Luigi de Magistris, nel tentativo di trovare un accordo per un centinaio di tonnellate al giorno all’ombra del Vesuvio.

Il provvedimento, però, è tecnicamente uno scaricabarile. E lo dimostrano i “buchi” puntualmente elencati all’interno di una missiva che Giuseppe Sacco, sindaco di Roccasecca (Frosinone) – sede della più grande discarica d’Europa, ormai colma – ha inviato al ministero della Transizione ecologica per chiedere di sostituirsi alla Regione Lazio sul tema. Due sentenze del Tar Lazio, la 2902 del 2016 e la 4524 del 2018, spiegano che “è obbligo della Regione provvedere all’individuazione della ‘rete integrata e adeguata’ di impianti, incluse le discariche”, citando il combinato disposto degli articoli 182-bis del decreto legislativo 152 del 2006 e la direttiva Ue 98 del 2008. Mentre la Regione, il 1° aprile, ha ordinato a Roma Capitale e alla Provincia di Latina di “trasmettere entro 30 giorni un piano impiantistico ai fini dell’autosufficienza”. Ma gli impianti non ci sono perché la Regione non ha mai provveduto. L’inadempimento dura dal 2013 – anno dell’approdo di Zingaretti alla Pisana – da quando il Consiglio regionale ha deciso di revocare il cosiddetto “fabbisogno impiantistico” dal piano rifiuti. Perché, se la giurisprudenza dice altro?

L’arresto di Valter Lozza, imprenditore accusato dalla Procura di Roma di aver messo “al suo completo servizio” il capo dell’area regionale rifiuti, la dirigente dem Flaminia Tosini, ha fatto deflagrare la crisi. La Mad srl di Lozza gestisce la discariche di Roccasecca. Le altre sono tutte piene. Tranne Colleferro (vicino Roma), che avrebbe un altro spazio da 300mila tonnellate – un anno di conferimenti – ma la Regione l’ha chiusa in concomitanza dell’arrivo del mega hub di Amazon. In attesa di capire se il ministero interverrà, Roma Capitale si muove come può. La capitolina Ama Spa, con una lettera firmata dal presidente Stefano Zaghis di cui Il Fatto è in possesso, ha avviato le trattative per l’acquisto dell’impianto tmb di Aprilia (Latina), di proprietà di Fabio Altissimi, rivale storico di Lozza. Scelta che solleverà più di qualche polemica. Resta lo spauracchio a Roma, del “toto-discarica”. A valle di Tivoli e del sito Unesco di Villa Adriana, c’è chi vorrebbe piazzarci le macerie del terremoto di Amatrice del 2016. La Regione ha già detto di no, il proprietario della cava ha fatto ricorso al Tar: deciderà il capo della Protezione civile Borrelli. L’attore e principe Urbano Barberini, da anni impegnato a tutela dell’area, ha promosso una serie di visite gratuite per sensibilizzare il pubblico.

“Dobbiamo aprirci alle alleanze, Conte faccia in fretta i nuovi 5S”

Un bel pezzo di futuro dei giallorosa passa da Torino. Lo dicono dai piani alti di grillini e dem, e lo conferma la sindaca Chiara Appendino: “Il M5S si sta rifondando e deve aprirsi, portando avanti un dialogo fondato sui temi, innanzitutto nelle città. Qui a Torino bisogna proseguire con progetti come il Centro per l’intelligenza artificiale e la Metro 2. Con Fratelli d’Italia in Comune cosa sarà delle trascrizioni dei figli di coppie omogenitoriali? E se arriva la Lega che vuole un nuovo inceneritore?”.

Come sta Torino dopo oltre un anno di pandemia?

La terza ondata ha segnato un’emergenza sanitaria, ma anche economica e sociale. Tante famiglie e tanti cittadini sono in difficoltà. Noi con la nostra rete Torino solidale ne assistiamo 25mila, a cui diamo viveri, buoni spesa e sostegno. Ma la situazione è complessa e molte imprese hanno bisogno di altri ristori. Serve presto un altro scostamento di bilancio.

Il M5S è entrato con grande sofferenza nel governo Draghi. Resta convinta che fosse una buona idea?

Sì, nel 2018 la gente ha votato il M5S perché governasse l’Italia, e quella del nuovo esecutivo era una sfida da raccogliere, anche se ovviamente io con il Conte 2 mi sentivo a casa. Ma dovevamo far parte di questo governo, innanzitutto per difendere i nostri temi. E penso subito al reddito di cittadinanza. Vedendo quanta gente è in difficoltà anche nella mia città, penso che sia una misura da espandere.

A ottobre scadrà il suo mandato. Un bilancio?

È presto, ma possiamo rivendicare tanti risultati, innanzitutto su innovazione e ambiente. La raccolta differenziata di rifiuti ha superato quella indifferenziata, abbiamo il 50 per cento in più di piste ciclabili.

Tanti nel Pd, e non solo, non vogliono l’accordo con il M5S. A Repubblica il leader dei Moderati Portas ha detto: “Ho spiegato a Enrico Letta perché è impossibile allearsi con i 5Stelle”. E anche Sergio Chiamparino lavora contro.

In questi cinque anni l’opposizione mi ha spesso attaccata anche sul piano personale, ma ciò che mi preme è la città, anche perché non mi ricandiderò. Bisogna partire dai temi, su cosa fare, e aprire il più possibile, partendo dall’esperienza del Conte 2, ma continuando con le associazioni e vari mondi. Penso a una coalizione larga.

Anche con Matteo Renzi?

Lui si è messo fuori da solo, facendo cadere il governo Conte. Per una volta è stato coerente.

Le rimproverano ancora il no ai Giochi. E anche nel M5S le resistenze ai dem restano forti.

Noi dobbiamo lavorare per sfruttare al meglio per Torino le risorse del Recovery Fund. Grazie alla collaborazione con Conte in questi anni sono arrivati fondi importanti alla città. Portare avanti i progetti, questa è la priorità. Dopodiché so bene che c’è un forte dibattito anche nel M5S: venerdì ho avuto un’assemblea con gli attivisti. Ma è giusto ascoltare opinioni diverse.

Il suo candidato resta Guido Saracco, il rettore del Politecnico di Torino?

Guido è una persona che stimo, e sta facendo molto bene. Ma ripeto, prima i temi poi i nomi.

Magari è tempo che se ne occupi Conte. Lo ha sentito ultimamente?

In questi giorni ho sentito Vito Crimi. Ma so che presto Conte incontrerà anche i sindaci del Movimento. Ho piena fiducia nell’ex premier e questa fase di rifondazione è fondamentale ma va fatta in fretta, perché è strettamente legata al percorso verso le Amministrative. Il M5S ha bisogno di un perimetro e di una rotta, quanto prima. In questi anni ci siamo un po’ troppo chiusi in noi stessi.

Ha bisogno anche di una struttura e di una segreteria?

Assolutamente sì, ho avvertito l’assenza di una struttura territoriale. Non è bene che un sindaco o un capogruppo facciano anche i segretari politici cittadini di un Movimento.

Il diktat di Grillo sui due mandati ha fatto arrabbiare molti parlamentari.

Penso che la regola dei due mandati in uno stesso ente vada mantenuta. Dopo questo lasso di tempo rischi di aver esaurito la forza propulsiva necessaria. Dopodiché, come hanno detto Conte e Grillo, l’esperienza di chi ha maturato due mandati va valorizzata.

Sondaggio Usa: SuperMario perde il 6%

Il crollo è evidente: una retta in discesa che non accenna a fermarsi. Dopo il primo mese di luna di miele, la fine di marzo e l’inizio di aprile – quelli delle misure anti-Covid, del nuovo piano vaccinale che non decolla e del condono – hanno portato a una brusca caduta del gradimento degli italiani nei confronti del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Basta vedere i risultati dell’ultimo sondaggio di Tecné-Dire realizzato tra l’8 e il 9 aprile: per quanto il premier rimanga il leader politico più amato (una cosa piuttosto normale visto il suo ruolo istituzionale di premier), solo negli ultimi sette giorni ha perso lo 0,7% passando da 56,1% degli italiani che apprezzano il suo operato al 55,4%. A fare impressione, però, è il trend negativo iniziato nella settimana tra il 19 e il 26 marzo. Il 13 febbraio, data del giuramento al Quirinale, il gradimento nei confronti di Draghi era pari al 61%, dato rimasto costante fino al 19 marzo. Da lì in poi, il crollo: già il 26 marzo Draghi aveva perso quasi 3 punti percentuali (da 60,6% a 57,8%), passando per il 56,1% dell’1 aprile (-1,7%) al 55,4% di ieri. In 20 giorni il premier ha lasciato per strada oltre il 5% nell’indice di gradimento.

Un risultato che emerge anche dal sondaggio sul gradimento dei leader politici in Europa e nel mondo svolto dall’istituto americano Morning Consult. Ogni settimana l’istituto svolge una rilevazione in 13 Paesi del mondo con oltre 11mila interviste per capire cosa pensano i cittadini dei propri leader. Secondo Morning Consult, il tasso di gradimento di Draghi nelle ultime due settimane è quello che scende di più rispetto a tutti gli altri leader europei testati. Dal 29 marzo a oggi il premier è passato da un tasso di approvazione del 58% al 52% odierno (-6%) mentre gli insoddisfatti sull’operato del premier sono aumentati dal 35 al 40%. Tra i capi di Stato europei Draghi continua a rimanere il più popolare ma rispetto agli altri – Angela Merkel (Germania), Pedro Sanchez (Spagna), Emmanuel Macron (Francia) e Boris Johnson (Gran Bretagna) – ha assunto l’incarico da solo due mesi e quindi i paragoni in valore assoluto non reggono e vanno fatti relativamente al periodo di tempo in questione: nell’ultimo mese nessuno dei leader europei che ha dovuto gestire la pandemia ha avuto una caduta nel consenso come quella di Draghi. La cancelliera Merkel, che lascerà definitivamente a settembre, da metà marzo è rimasta stabile oscillando tra il 49 e il 50%. Stesso discorso per lo spagnolo Sanchez e il francese Macron che – pur non piacendo alla maggioranza dei propri cittadini – nelle ultime settimane sono rimasti stabili intorno al 33-34%.

Cresce invece, seppur di poco, la fiducia dei britannici nei confronti di Johnson, che sta vincendo la sfida delle vaccinazioni, passando dal 45% di inizio marzo al 48% odierno. Nel mondo, invece, chi ha fatto peggio di Draghi è il presidente brasiliano di estrema destra e negazionista, Jair Bolsonaro, che da inizio marzo ha perso 10 punti dal 48 al 38%. Chi può essere paragonato a Draghi vista la quasi coincidenza dell’insediamento è il presidente americano Joe Biden: dal 21 gennaio a oggi il suo indice di gradimento è stabile intorno al 55%.

La vendetta del “dittatore”: bloccati elicotteri per 70 mln

Avrà pure ridato dignità all’Italia, come pensa gran parte del centrodestra, ma la sortita di Mario Draghi contro la Turchia, anzi contro il “dittatore” Erdogan, ha già iniziato ad avere ripercussioni economiche. A quanto risulta al Fatto sarebbe stata bloccata la commessa di elicotteri destinati da Leonardo alla Turchia dal valore di 70 milioni di euro.

La notizia era apparsa in forma dubitativa ieri mattina su La Stampa, ma ora si parla di un blocco sia pur momentaneo. Leonardo, contattata dal Fatto, non ha dato risposte (e ieri il sito della compagnia è andato in down). Diverse imprese che operano in Turchia hanno già espresso le loro preoccupazioni alle autorità per eventuali ripercussioni e tra queste ci sarebbe anche Ansaldo. La Turchia, dopo la convocazione, a caldo, dell’ambasciatore italiano, ha fatto ora sapere che vorrebbe un chiarimento pubblico da parte di Draghi e si parla di una possibile telefonata tra il presidente del Consiglio e il presidente turco.

In tanti si chiedono a cosa sia dovuta la sortita di Draghi. Anche perché, molti studiosi non condividerebbero la definizione di “dittatore” data di Erdogan: “L’opposizione è sotto assedio, ma esiste, è vitale, si batte in Parlamento e nelle piazze”, spiegava ieri Mariano Giustino nella sua settimanale, e molto dettagliata, rassegna stampa turca su Radio Radicale.

E poi se Erdogan è un dittatore cos’è l’egiziano al Sisi? Cosa dire delle vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki? Eppure proprio ieri l’Italia ha fatto salpare verso l’Egitto la seconda fregata multimissione Fremm, che faceva parte dell’accordo di vendita per due navi militari siglato nel 2020. La nave, il cui nome è stato mutato in Bernees e con il numero di immatricolazione egiziano 1003, come afferma la Rete Pace Disarmo, è attesa in Egitto per la cerimonia ufficiale.

Due pesi e due misure che lasciano sorpresi molti osservatori tanto che negli ambienti politici romani si addebita la dichiarazione di Draghi o a un tentativo di visibilità per fronteggiare il calo dei consensi o, addirittura, a una “voce dal sen fuggita”, sintomo di improvvisazione.

Altro problema non da poco e che preoccupa la nostra diplomazia è la ricaduta possibile in Libia, dove la Turchia ha un ruolo ormai inaggirabile. Solo giovedì scorso, poche ore prima delle dichiarazioni di Draghi, l’ambasciatore italiano ad Ankara aveva elogiato il ruolo della Turchia nella soluzione politica in Libia affermando: “Penso che anche il governo turco, che ha lavorato a stretto contatto con l’Italia, abbia dato il suo contributo molto positivo a questa soluzione”. Parlando virtualmente con un gruppo di giornalisti dell’Associazione dei corrispondenti diplomatici della Turchia, Massimo Gaiani ha affrontato diverse questioni relative alle relazioni turco-italiane, nonché questioni regionali e internazionali. “Penso che questo importantissimo passo porterà un trend positivo e che più avanti le questioni della presenza militare verranno risolte. Siamo sulla strada giusta. Continueremo il dialogo molto stretto tra Italia e Turchia su questioni libiche, nello spirito di stabilizzare il Paese”.

Poi le frasi di Draghi e la tensione che inevitabilmente si ripercuoterà anche sul governo di Abdul Hamid Dbeibah che è senz’altro filo-turco ma che, grazie alla forte pressione degli Usa, ha impostato una fase di rapporti positivi con tutti a partire dall’Italia. Desta stupore, quindi, che nonostante il primo viaggio internazionale di Draghi sia stato in Libia subito dopo abbia contribuito a complicare quel dossier con l’attacco a Erdogan.

È probabile che anche di questo discuteranno Luigi Di Maio e il Segretario di Stato Anthony Blinken a Washington in quello che è il primo viaggio di un ministro presso l’Amministrazione Usa da quando Joe Biden si è insediato. Un successo diplomatico per il ministro italiano, generalmente sbeffeggiato dalla stampa liberale, e che mira a ribadire le relazioni transatlantiche italiane.

“Fuoco alle polveri!” Il generale spezza le dosi al Covid-19

A giudicare dagli annunci di “cambi di passo”, il piano vaccinale gestito dal Generale Francesco Paolo Figliuolo dovrebbe come minimo aver già garantito al super-militare un nuovo nastrino per l’uniforme. E invece i fatti dicono che siamo troppo indietro, come ammesso da Mario Draghi in conferenza stampa. Non foss’altro che per invitare alla prudenza i nostri governanti, allora, proponiamo un breve resoconto della suddetta annuncite del Generale.

 

All’armi. Si accelera

Il tema dell’accelerata è uno dei preferiti da Figliuolo, soprattutto se condito da un po’ di gergo miliare.

Qualche esempio: “Ci sarà un momento in cui, quando i vaccini arriveranno in massa, si potrà fare fuoco con tutte le polveri” (14 marzo); “È il momento della svolta o perderemo tutto” (14 marzo); “Entro 24 ore è in arrivo 1 milione di dosi Pfizer che daranno impulso alla campagna vaccinale” (22 marzo); “Aumenteremo gli hub per accelerare” (26 marzo); “È imminente l’arrivo di un quantitativo importante di vaccini per un cambio di passo” (27 marzo);

“Siamo di fronte a un cambio di passo” (30 marzo). Insomma, per chi non lo avesse capito: “C’è determinazione a progredire senza soluzione di continuità nel piano vaccinale” (30 marzo) e d’altra parte “2,8 milioni di dosi in arrivo daranno nuovo fiato alle trombe” (1 aprile). “Ora gli italiani si devono stringere” (8 aprile).

 

500 mila dosi. Quanto è lungo aprile?

Altro mantra è quello delle 500 mila vaccinazioni al giorno. Un traguardo che si è già spostato in avanti parecchie volte. Guardare per credere: “A marzo faremo riscaldamento, poi dalla seconda decade di aprile ci saranno 500 mila vaccinazioni al giorno” (15 marzo). Poi la “seconda decade” diventa altro: “L’obiettivo è arrivare a 500 mila vaccinazioni al giorno dalla terza settimana di aprile” (20 marzo). Nuovo rinvio, quasi impercettibile: “Se il sistema regge, abbiamo 500 mila vaccinazioni nell’ultima settimana di aprile”. (3 aprile). Infine: “A fine aprile arriveremo a 500 mila somministrazioni al giorno” (8 aprile). Esiste il 31 aprile?

 

Priorità. Altro che “chiunque passa”

Figliuolo lo abbiamo conosciuto mentre annunciava metodi spicci sui vaccini: “Se ci sono le classi prioritarie che possono utilizzare le dosi bene, sennò chiunque passa va vaccinato” (15 marzo). Il tema, però, è controverso: “Per raggiungere i numeri sono disposto a qualsiasi cosa rientri nella legalità” (29 marzo); “Se non utilizziamo criteri oggettivi, rischiamo il nepotismo” (30 marzo, primo plot twist); “Bisogna vaccinare chiunque si presenti, mettendo da parte prenotazioni, età e categorie” (3 aprile, si torna indietro); “Bisogna vaccinare in priorità i più vulnerabili” (9 aprile, come da ultima ordinanza). A quale Figliuolo dobbiamo credere?

Vaccini, le maglie restano larghe e gli altri paesi corrono il doppio

Una forte accelerazione alle vaccinazioni, procedendo per età, dai più anziani – gli over 80 – alle persone dai 60 anni in su (già nel piano Arcuri). Parallelamente, il completamento del ciclo vaccinale per tutto il personale sanitario e sociosanitario e per “tutti coloro che operano in presenza presso strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private” (anche questo già nel piano Arcuri). Tutto nero su bianco nell’ultima ordinanza del commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo. Poi, però, cosa significhi esattamente quest’ultima dicitura – vale dire chi siano questi addetti che operano in presenza – non è ancora molto chiaro. Le maglie restano larghe. Al netto di medici, infermieri, operatori sociosanitari, sono addetti alle pulizie, alla refezione, manutentori di impianti? “Un target che abbiamo individuato dall’inizio: tutti quelli che, con varie mansioni, operano in una struttura dell’area sanitaria o sociosanitaria”, dice l’assessore alla Salute dell’Emilia-Romagna, Raffaele Donini. Mentre l’Unità di crisi della Campania è già pronta a chiedere chiarimenti, dato che ci sono anche gli specializzandi vaccinatori e i volontari della Protezione civile adibiti ai centri vaccinali.

Così nulla di nuovo, nemmeno sul piano delle interpretazioni, che restano varie. La Toscana per esempio ha scelto di demandare alle strutture il compito di indicare chi sono le persone che operano in presenza. Cosa che potrebbe aprire la strada ad altri salta-fila. Che non ci siano novità nelle disposizioni del generale Figliuolo lo pensa anche Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. “Unica news – ha twittato –, è l’utilizzo prevalente del vaccino AstraZeneca”. Solo che parliamo del siero di cui mancano scorte sufficienti a causa dei tagli alle forniture: basti ricordare che il 14 aprile era previsto l’arrivo di 340 mila dosi e invece ne saranno consegnate 175 mila (in tutto il secondo trimestre ne sono attese 10 milioni). La sferzata di Figliuolo alle Regioni (è necessario “procedere con la massima celerità a vaccinare coloro che risultano più vulnerabili, qualora infettati dal virus”) si scontra con questa realtà. È vero che ieri risultavano circa due milioni le somministrazioni in più rispetto alla settimana precedente (in totale hanno superato quota di 12,5 milioni), ma è anche vero che l’Italia resta in media molto indietro rispetto ad altri Paesi europei. Venerdì le iniezioni sono state poco più di 291 mila. Contro le oltre 547 mila della Germania, le 510 mila della Francia, le 420 mila della Spagna e le 545 mila del Regno Unito.

Ma in questa situazione, come spiega Donini, “non possiamo correre all’impazzata, non con le scorte che abbiamo: anche se noi siamo pronti a fare 40-45mila vaccinazioni al giorno. Poi ci sono i medici di medicina generale, i farmacisti, le imprese private con i medici del lavoro. Ma è chiaro che servono le dosi: adesso a noi ne sono rimaste in tutto meno di 200 mila, tra Pfizer, Moderna, AstraZeneca. E abbiamo una percentuale di utilizzo dell’84,5%”. Stessa storia nel Lazio. La Regione è pronta a garantire 50 mila vaccinazioni al giorno, oggi ne fa circa 20-25 mila perché dispone della metà delle scorte che sarebbero necessarie e la prossima settimana di dosi AstraZeneca ne saranno consegnate solo 15mila. In base al report settimanale a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, tra gli over 80 ha ricevuto almeno una somministrazione il 68,20%; il ciclo vaccinale, con il richiamo, è stato invece completato dal 38,9%. Per quanto riguarda la fascia d’età compresa tra 70 e i 79 anni, solo il 2,48% ha ricevuto entrambe le dosi, il 19,89% la prima. Quanto al personale sanitario e sociosanitario, ha fatto anche il richiamo il 75,29%, mentre la prima somministrazione ha coperto quasi tutti (91,63%). Più avanti degli over 80 il personale scolastico: il 72,13% dei docenti, dei presidi, del personale Ata ha ricevuto la prima dose. Di fronte alla scarsità di vaccini non deve stupire che la Toscana, nei giorni scorsi, sia stata costretta a sospendere temporaneamente le vaccinazioni. Cosa che avverrà da oggi, per esempio, anche ad Avellino, con una chiusura, “fino a nuova data” disposta perché sono rimaste a disposizione poche dosi di vaccino e quelle che ci sono devono essere garantite per i richiami.

L’ex premier ai senatori M5S: “Su di me il voto degli iscritti”

Stavolta non si è messo la pochette e non ha mai disattivato la videocamera durante il collegamento, per il plauso dei senatori che – a differenza dell’ultima riunione con i gruppi M5S – hanno apprezzato il fatto che abbia “ascoltato ogni intervento e preso appunti per tutto il tempo”. Giuseppe Conte, alle prese con la rifondazione dei 5 Stelle, ha così assolto ieri al primo confronto con i senatori. Oggi vedrà i deputati. E come ieri, dopo una breve introduzione, lascerà a loro lo spazio per fare proposte e suggerire interventi per provare a ricostruire quello che si è rotto. Lo spiega lui stesso: “Bisogna cambiare, il modello tradizionale dei partiti è finito, serve qualcosa di nuovo”. Ha insistito sugli aspetti che ritiene decisivi per la rinascita del Movimento: l’inclusione innanzitutto, ovvero l’apertura alla società civile, ma anche una organizzazione M5S a livello territoriale che “non lasci soli” i sindaci e i consiglieri comunali e regionali (“Prima l’organizzazione era tutta delegata a Rousseau”). Ma pure il centro di formazione per gli attivisti e il “dipartimento estero” che permetta di mantenere vivi i “collegamenti internazionali”, considerati da Conte un obbligo per la nuova forma partito. Si è tenuto alla larga dai temi più ostici – i due mandati, il finanziamento, il rapporto con Casaleggio –, ma di “nostra piattaforma” parla e chiarisce, sollecitato sul punto dal senatore Primo Di Nicola, che la sua “investitura dovrà ovviamente passare da un voto” perché “bisogna evitare operazioni verticistiche, il principio di democrazia interna è fondamentale e lo dobbiamo salvaguardare in tutti i modi”. Il ministro Stefano Patuanelli, l’esponente “contiano” più di rilievo, ha ribadito la necessità di definire il “campo politico” del Movimento. Quando? Resta la domanda che si fanno un po’ tutti: Conte non ha dato scadenze ma ammesso: “Bisogna stringere i tempi”.

Nel Pd tutti zitti su Lotti l’autosospeso (per finta)

Nel Pd tutto tace, nessuno se la sente di parlare. La notizia dell’accusa di corruzione nei confronti del deputato dem, ed ex braccio destro di Matteo Renzi, Luca Lotti, nell’ambito dell’inchiesta dei pm di Firenze sulla fondazione Open, è arrivata nel momento in cui il nuovo segretario del Pd Enrico Letta sta provando a dare un volto nuovo, di rinnovamento, al partito. E il caso rischia di diventare imbarazzante per Letta considerando che Lotti è formalmente autosospeso dal Pd dal 14 giugno 2019, ovvero da quando, nello scandalo del Csm, emersero le intercettazioni sulla cena con Cosimo Ferri e Luca Palamara in cui si parlava dei vertici della Procura di Roma, dove Lotti era indagato per il caso Consip. Ma, nonostante questo, l’ex braccio destro di Renzi oggi è ancora uno dei deputati più influenti del gruppo parlamentare dem alla Camera e capo, insieme al ministro Lorenzo Guerini, della corrente “Base Riformista”.

Eppure, come il segretario precedente Nicola Zingaretti, anche Letta non commenta la nuova, pesante, accusa nei confronti di Lotti, e per il momento non ha intenzione di prendere provvedimenti nei suoi confronti. Fonti del Nazareno si limitano a dire: “Rispettiamo la magistratura, Lotti è autosospeso dal Pd, ma iscritto al gruppo parlamentare”.

Certo, l’imbarazzo rimane, visto che il “caso Lotti” è stato ereditato dalla segreteria precedente e c’è da scommettere che Letta se lo sarebbe evitato volentieri. Sia perché l’inchiesta di Firenze riguarda la fondazione renziana Open, sia perché proprio il segretario Pd nelle prossime settimane ha intenzione di puntare sui valori della legalità e dell’anticorruzione attribuendo le deleghe a un esperto in materia. Con un ulteriore dettaglio economico: in quanto autosospeso Lotti non versa più il contributo mensile di 1.500 euro al partito che, per 19 mesi, fanno 31.500 euro. Il silenzio sul caso però non riguarda solo la segreteria, ma anche il corpaccione delle correnti e dei gruppi parlamentari Pd: nessuno ha voglia di commentare ufficialmente una vicenda così paradossale.

Infatti, ricordano dall’area di Zingaretti e di Andrea Orlando, seppur autosospeso e quindi non partecipando più alle riunioni del gruppo dirigente, Lotti continua ad avere un ruolo di primo piano nel gruppo parlamentare del Pd: il “il lampadina” di Montelupo Fiorentino è stato il vero regista dell’operazione che ha portato Debora Serracchiani a essere eletta nuova capogruppo alla Camera, in cambio della nomina del vice Piero De Luca, esponente di “Base Riformista” e molto vicino allo stesso Lotti. Per questo, nel fronte della maggioranza del partito, un parlamentare Pd di peso spiega: “L’autosospensione di Lotti non conta niente, è solo di facciata, perché poi comanda lo stesso”. Dalla sua corrente BR invece si spiega che Lotti “è una persona perbene” e che “deve continuare a fare il suo lavoro come deputato del Pd”.

Politico, massone e mitomane: le 7 vite di Gianmario

Gianmario Ferramonti è una di quelle creature mitologiche del potere italiano di cui è difficile capire la natura. Come definirlo: Ferramonti è un politico? Sì, ma ha navigato sotto il pelo della superficie dei partiti, è stato raramente candidato e mai eletto. È un massone? Innegabile, anche se lui sostiene di aver frequentato moltissime massonerie senza mai affiliarsi ad alcuna di esse. È un delinquente? Parola ingiusta, pure se Ferramonti ha conosciuto il carcere nel 1996 per l’inchiesta Phoney Money, una gigantesca truffa finanziaria da 20mila miliardi di lire scoppiata come una bolla di sapone, e in parallelo è stato indagato come promotore di una rete di spionaggio internazionale: tutte le ipotesi sono cadute con un’archiviazione. Per le figure come la sua si usa il termine “faccendiere”, vacuo come ogni tentativo di semplificare realtà complesse. Ferramonti è un affabulatore, un uomo che ama raccontarsi tra ironia e millanterie, che sembra divertirsi a proiettare un’ombra più lunga della sua statura reale. Verità fattuale e abilità narrativa si mescolano di continuo.

Di sicuro c’è la sua impronta in molti passaggi di Prima e Seconda Repubblica. Nella Lega di Bossi e di Gianfranco Miglio era il tesoriere. Si definiva, scherzando, “galoppino” dell’ideologo della Padania, ma era pure il tratto d’unione tra Miglio e il mondo della massoneria. Ferramonti figura (e ci tiene a figurare) tra i registi del primo governo Berlusconi nel 1994 e come garante della nomina di Roberto Maroni al Viminale, primo storico ministro dell’epopea leghista.

Nel centrodestra ha partecipato anche alla nascita di Alleanza Nazionale. È generoso con gli aneddoti: “Il nome è un’invenzione di Vittorio Feltri – disse Ferramonti in un’intervista al Fatto – che lo propose per un’alleanza elettorale tra Lega e Movimento Sociale a Belluno. Per Fini chiamarla An era una cazzata ma Pinuccio Tatarella la registrò lo stesso”.

Tre anni fa Ferramonti ha scritto una lettera aperta a Berlusconi: “Silvio, ricordati che l’idea primigenia di fondare Forza Italia è mia, ho una cassetta registrata in cui il tuo segretario Guido Possa lo dice chiaramente”. Con “Silvietto” era arrabbiato perché si dimentica di tutti gli amici (come lui): “Dell’Utri lasciato a marcire in carcere e poi Bettino Craxi, Ennio Doris, Dario Rivolta, Ezio Cartotto”.

La vicinanza agli ambienti massonici e dei servizi internazionali è postulata nelle inchieste che lo riguardano. La esibisce come una medaglia: “Mi considero un gelliano – disse a gennaio a Report –. Gli ultimi quattro capodanni li ho passati a villa Wanda, assieme a lui”. Nell’intervista al Fatto mette in fila i suoi preferiti, dopo Licio: “Flavio Carboni, Francesco Pazienza, Luigi Bisignani, Alfredo Di Mambro, Renato D’Andria, Filippo Rapisarda, Mario Foligni”.

Il primo nome è rilevante nelle ultime vicende: Carboni, gran protagonista dell’inchiesta sulla P3, ai tempi del governo Renzi riferì di aver incontrato tre volte il papà di Maria Elena Boschi e di avergli fatto il nome di Fabio Arpe per il ruolo di direttore generale per Banca Etruria. Glielo raccomandò Ferramonti in persona: “Con Flavio siamo amici da 30 anni, mi chiese una mano per Etruria e un nome per Pier Luigi Boschi”.

E a proposito di P3: le ultime suggestioni sul Ferramonti massone lo vorrebbero ancora ai vertici di intriganti entità esoteriche. A Natale 2019 sul canale YouTube della Marea Loja Nationala Romana – 1880 (la Grande Loggia Nazionale Romena) compare un video sulla “Nuova Propaganda Massonica 3”. L’autoproclamato capo è il generale romeno Bartolomeu Constantin Savoiu, che annuncia la genesi di un’associazione erede della P2 di Gelli. Alla destra di Savoiu chi c’è? Ovvio: Gianmario Fioramonti. Che aveva da poco fallito l’assalto al Parlamento europeo, tra le file del non brillantissimo partito dell’ex ministro montiano Mario Mauro, “Popolari per l’Italia”. Ferramonti giurò al Fatto: “Prenderemo il 5%”. Invece fu solo 0,3: meglio dedicarsi ai grembiuli.

Il confine è labile: verità o menzogne, potere occulto o mitomania? Una via di mezzo: Gianmario Ferramonti.