L’uomo di Gelli alla Boschi: “1 mln di voti se cacci Conte”

Di sé dice “non sono massone”, ma anche “mi considero un gelliano”, rivendicando il legame con il Venerabile della P2. “Sono stato amico di Gelli anche gli ultimi anni della sua vita. Gli ultimi quattro Capodanni li ho passati a Villa Wanda, assieme a lui”, si vantava Gianmario Ferramonti, leghista della primissima ora e uomo di mille affari in mezzo mondo.

Così parlava a Giorgio Mottola di Report ai primi di gennaio. Il giornalista è tornato da lui a fine mese, stavolta senza fargli vedere microfono e telecamera, precisamente il 27 gennaio e cioè all’indomani delle dimissioni di Giuseppe Conte, bersagliato tra gli altri – specie sui giornali di Antonio Angelucci, senatore forzista e signore delle cliniche – da un personaggio come Luigi Bisignani, che ha sempre negato l’iscrizione alla P2 ma compariva negli elenchi sequestrati a Licio Gelli nel 1981.

A Ferramonti, che anni fa aveva raccontato il suo interessamento per dare una mano a Pier Luigi Boschi nell’avventura di Banca Etruria, Mottola ha chiesto dei suoi rapporti con la figlia renziana, Maria Elena: “Anche per questa crisi vi siete sentiti?”. “Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza”, gli ha risposto compiaciuto l’ex leghista. Report trasmetterà il dialogo domani sera su Rai3, nella prima puntata della nuova stagione. “Ci scriviamo, non ci parliamo”, ha chiarito un attimo dopo Ferramonti. “E la stai consigliando anche su questa fase?”, chiede Mottola. “Be’ – spiega Ferramonti – gli avevo dato una piccola notizia, che se buttavano giù questo cretino di Conte magari gli davamo una mano, vediamo”. “Ma gli davate una mano chi voi?”. “Allora, qui hai un rappresentante di Confimpresa – e Ferramonti indica un uomo, oscurato da Report, seduto alla sua destra davanti alla telecamera nascosta –, qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa – e indica se stesso… – Insieme qualche milione di voti ce l’abbiamo, no? E se decidiamo…”. “Spostarli sulla Boschi?”, chiede il giornalista. “Chi sarà al momento giusto al posto giusto…”, dice lui. E poi continuano a parlare di Cecilia Marogna, la misteriosa ex collaboratrice dell’ex numero due della Segreteria di Stato vaticana, il cardinale dimezzato Angelo Becciu. L’inchiesta di Mottola è infatti dedicata allo “sterco del diavolo” e passa da Immacolata Chaouqui a Ferramonti e a Francesco Pazienza, fino a protagonisti di vicende più recenti dei nostri Servizi segreti, passando per Flavio Carboni e Bisignani.

Boschi ha risposto per iscritto a Report che “nei mesi di gennaio e febbraio” ha “ricevuto diversi messaggi telefonici da un numero che non conoscevo ma che, secondo il mittente, corrispondeva all’utenza di tal Gianmario Ferramonti. Non ho mai risposto ai suddetti messaggi – ha assicurato Boschi, né parlato con il sig. Ferramonti, men che mai della crisi di governo”. Sarà senz’altro vero, ci mancherebbe. Come è vero che un mondo di faccendieri legato alle massonerie si agitava e perseguiva uno scopo sostanzialmente sovrapponibile a quello di Italia Viva, promettendo o millantando sostegno a chi avesse agevolato la fine del governo Conte 2 e della maggioranza giallorosa che lo sosteneva. Il giorno in cui Ferramonti si è fatto registrare da Mottola iniziavano le consultazioni al Quirinale, verrà poi l’inutile incarico esplorativo a Roberto Fico e poi quello vero a Mario Draghi. E il 7 febbraio Bisignani, che qualche rapporto anche con Ferramonti l’ha avuto, passava all’incasso, con una lettera al direttore del Tempo Franco Bechis: “Caro direttore, grazie a Renzi e a un Mattarella risvegliatosi in zona Cesarini, l’Italia avrà un governo finalmente autorevole. A parte gli unici tratti in comune rappresentati dal tifo per la Roma, i capelli curati e il completo blu d’ordinanza, Mario Draghi è proprio l’antipode di Giuseppe Conte, per formazione, preparazione e stile di vita”.

Le Grandi Riforme

Le prime Grandi Riforme dei Migliori sono quelle dei dizionari della lingua italiana e dei manuali di aritmetica. Mentre denunciavamo la vergogna del condono fiscale in compagnia dei tupamaros di Bankitalia e Corte dei Conti, abbiamo scoperto dai giornaloni che, siccome Draghi ha definito “condono” il suo condono, allora non è un condono (dal che si deduce che, se fai una rapina e la chiami rapina, non è una rapina). Per il rag. Cerasa del Foglio è una “svolta da seguire di Draghi: usare i condoni per denunciare le inefficienze dello Stato” (come usare le rapine per denunciare le inefficienze della polizia). E per il prof. Cottarelli, editorialista di Rep e consulente del governo per interposto Brunetta, “a ben vedere, nella sostanza, si tratta di un’operazione di semplificazione”. Pure le gaffe, quando le fa Draghi, non si chiamano gaffe. Anche quando dà dei salta-fila senza coscienza agli psicologi che si vaccinano per obbedire al suo decreto del 1° aprile (o era un pesce d’aprile?). E quando dà a Erdogan del “dittatore che ci serve”, causando una prevedibilissima crisi diplomatico-commerciale coi turchi che, come lui stesso dice, ci servono: siedono con noi nella Nato; comandano in Libia e così ci ricattano coi migranti; e per giunta hanno notevoli scambi economici con noi (ieri pare che abbiano sospeso una commessa da 70 milioni per 15 elicotteri di Leonardo firmata pochi giorni fa). Ma non è una gaffe: si chiama – spiega Stefano Folli su Rep – “nuova politica europea di Draghi”, “disegno che sta prendendo forma” per “innalzare la nostra proiezione internazionale” e “rischio calcolato”. Calcolato da chi e su cosa, non è dato sapere, specie se i turchi comprassero quegli elicotteri da un paese più diplomatico, con perdita di soldi e lavoro per la nostra partecipata di Stato.

Ma il “cambio di passo” dei Migliori rivoluziona anche l’aritmetica. A furia di “accelerare” con Figliuolo, la nostra campagna vaccinale resta sotto le 300mila dosi medie al giorno, mentre accelerano oltre le 600mila la Germania e oltre le 500mila la Francia, che col famigerato Arcuri erano sotto o al pari di noi. Ma ecco l’ideona: calcolare le dosi non più al giorno, ma a dècade. Così la frenata diventa un’accelerata. Rep: “Vaccini, tutto in 10 giorni: ‘Serve una terapia d’urto’”, “Anziani al sicuro, il governo accelera: 3 milioni di vaccini in 10 giorni”. E quanto fa 3 milioni diviso 10? Sempre 300mila. Ma sembrano di più, come gli scalcagnati carri armati che Mussolini faceva girare più volte davanti agli alleati tedeschi: erano sempre gli stessi, ma sembravano un’invincibile armata. E Figliuolo e Rep non erano ancora nati, sennò avrebbero gridato all’“accelerazione” e alla “terapia d’urto”.

Ziegler spiega il capitalismo alla nipote e invita alla ribellione

Il punto di vista con cui Jean Ziegler, sociologo di fama, socialista svizzero con diversi incarichi alle Nazioni Unite, parla del capitalismo è chiaro fin dalla dedica iniziale: “Il capitalismo spiegato a mia nipote. Nella speranza che ne vedrà la fine”. Si tratta di una dissertazione semplice e diretta, come può esserlo la conversazione con una giovane nipote, in cui è chiaro che “io non voglio vivere su un pianeta dove ogni cinque secondi un bambino di meno di dieci anni muore di fame o di malattie legate alla denutrizione, considerato che la Terra potrebbe sfamare senza problemi il doppio della popolazione attuale, se solo la distribuzione degli alimenti fosse equa”.

A volte le formule sono un po’ scontate, ma alcuni concetti (accumulazione, sfruttamento, debito) sono spiegati in modo illuminante. Alla nipote Zhora Ziegler descrive lo scarto tra la crescita del prodotto mondiale lordo mentre “il pianeta collassa sotto l’opulenza”. Spiega a chi “sfortunatamente in una scuola svizzera avrà poche occasioni di sentir parlare di Karl Marx ” cosa abbia rappresentato l’autore del Capitale. Racconta ciò che ha visto, da inviato Onu, in Guatemala o in Bangladesh. Che fare davanti a tutto questo? Ziegler ha una formidabile fiducia nella ribellione, nonostante il neoliberismo “distrugga il sistema immunitario delle sue vittime”. Ma comunque “non è proprio possibile riformulare in maniera graduale e pacifica il sistema capitalista. Bisogna farla finita con l’oligarchia”, chiamando in causa anche Papa Francesco, quando dice che “la nostra attuale civiltà permette che più di un miliardo di persone vengano considerate ‘rifiuti’. So con certezza che non voglio più essere parte di questo tipo di società”. “La mia speranza si alimenta della stessa convinzione – conclude – che animava il poeta Pablo Neruda: “Podrán cortar todas las flores, pero jamás detendrán la primavera”. Potranno recidere tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera.

 

Il capitalismo spiegato a mia nipote

Jean Ziegler

Pagine: 124

Prezzo: 12 euro

Editore: Meltemi

 

Arriva in Italia Bosco, la prima giallista argentina (scoperta da Borges)

Una donna viene ritrovata cadavere in ascensore, intorno alle due di notte. Al sesto piano di un palazzo residenziale in calle Santa Fe, la strada più fashion di Buenos Aires. Avvelenata. Cianuro. La donna si chiama Frida Eidinger, poco più che trentenne. Tedesca. Siamo nell’Argentina peronista della metà degli anni Cinquanta, rifugio di tanti aguzzini nazisti. A indagare sono il commissario Santiago Ericourt e il suo assistente giovane Ferruccio Blasi. Il metodo del poliziotto è pura ragione. “Una verità esiste sempre, anche se si nasconde, ma i fatti descrivono fatalmente la loro orbita e a un certo punto finiscono per metterci davanti agli occhi una prova con la stessa chiarezza con cui ieri notte mi si è presentato davanti quel quarto di luna calante. A volte è necessario aspettare, a volte la verità si rivela all’improvviso”.

Deduzione e una pazienza da elefante, per un caso classico del giallo. Ambiente chiuso (il palazzo) e una lista di sospettati: tranne il marito di Frida, tutti gli abitanti dell’edificio di calle Santa Fe. La morte arriva in ascensore (traduzione di Francesca Bianchi, prologo di Ricardo Piglia, postfazione di Francesca Lazzarato) è un chicca riportata alla luce da Rina Edizioni, che peraltro ha ripubblicato la prima graphic novel italiana (1946-1947): Nadia, spy story dell’ editore Giulio Cesare Ventura e disegnata da Lina Buffolente.

Si tratta del primo giallo scritto da una donna argentina: María Angélica Bosco (1909-2006). Apparso nel 1955, arriva adesso in Italia. Bosco esordì come scrittrice a 40 anni, per motivi di necessità (aveva divorziato ed era senza lavoro). Vinse un concorso indetto da Emecé per El Séptimo Circulo, la collana poliziesca inventata nel 1945 dagli immensi Borges & Bioy Casares, cultori del romanzo-rompicapo.

 

La morte arriva in ascensore

María Angélica Bosco

Pagine: 185

Prezzo: 18

Editore: Rina Edizioni

Cotton fioc, cocaina e cuore (a 130 battiti)

Tutto comincia nei primi anni 70 quando un professore di lettere nato a Portland, alcolista e perennemente in bolletta, batte a macchina la storia di un’adolescente introversa che, con poteri di telecinesi, semina terrore e morti. Dapprima la storia non lo convince appieno, tanto da gettare il dattiloscritto nel bidone della spazzatura. La moglie recupera i fogli e lo incoraggia a rimetterci mano. Carrie esce nel 1974, in edizione economica diventa un best-seller e il professore può finalmente dire addio alla cattedra e a una vita di stenti.

“C’era un tempo in cui avevo così tante idee che il cervello sembrava voler scoppiare, non riuscivo a contenerle”. La vena creativa di Stephen King rompe gli argini e la sua parabola di self-made man sfiora la leggenda: un centinaio tra romanzi e raccolte di racconti, 500 milioni di copie vendute, più di cento adattamenti cinematografici, un patrimonio personale calcolato in 450 milioni di dollari.

Gli estimatori più irriducibili lamentano la scarsa considerazione della critica (memorabile l’anatema di Harold Bloom: “Stephen King è il male assoluto”), che si rifiuta di cedere all’autore 73enne un posto a sedere sul bus del canone. Forse bisognerebbe smetterla di surrogare quarti di nobiltà e rivendicare una certa dozzinalità dei romanzi di King, senza la quale non avrebbero la capacità che hanno di incidere sull’immaginario. Come arguiva Raboni, “lo scrittore d’arte si perde nel tentativo di accattivarsi il grande pubblico, lo scrittore di consumo si suicida se vuole simulare una profondità di forma che non gli appartiene”.

Generazioni di lettori – inchiodati agli incubi distillati dal “maestro della prosa post-alfabetizzata” (definizione sprezzante coniata a suo tempo dal settimanale Time) – continuano a chinarsi sulle sue pagine con una fedeltà incrollabile. Scala le classifiche anche il suo nuovo Later, in libreria per Sperling & Kupfer: storia di Jamie, figlio di un’agente letteraria, che ha il dono di comunicare con i morti. Ecco fatalmente due dei temi chiave di tutta l’opera di King: infanzia e soprannaturale. I bambini protagonisti di It o Stand by me sono autentici perché, come ha scritto Nicola Lagioia, “puzzano, sudano, scorreggiano. Dicono parolacce, sputano, fumano sigarette, sanno essere crudeli e si vestono male”. Se la realtà è restituita sulla pagina con un tale timbro di verità, allora dentro la realtà le incursioni del fantastico non sono più distinguibili perché tutto è realtà. Scorgere sotto un tombino il ghigno del pagliaccio Pennywise e restare vittima di un plagio demoniaco come in It o avventurarsi alla ricerca di un cadavere lungo una ferrovia per riscoprirsi con una coscienza adulta come in Stand by me (racconto in Stagioni diverse) sono esperienze che ciascuno riconosce come concretamente sperimentabili.

La provincia americana, con tutto il suo campionario di tipi umani eternamente irrisolti e falliti, diventa lo scenario perfetto affinché la sospensione di incredulità regga a qualsiasi agguato affabulatorio. Tutto è plausibile: i vampiri di Le notti di Salem, il virus batteriologico che annienta l’umanità in L’ombra dello scorpione, le stanze infestate da fantasmi in Shining, il cane che si trasforma in un mostro aggressivo in Cujo, l’automobile dotata di vita propria che semina distruzione in Christine, la macchina infernale, la lettrice psicopatica che sequestra il suo scrittore prediletto in Misery. Con buona pace dello stesso King, che pure non vi ha mai ravvisato un additivo speciale, come non pensare che i suoi titoli più celebri sono stati scritti con il cuore che toccava i 130 battiti al minuto e un paio di cotton fioc infilati nel naso per tamponare l’emorragia di cocaina? Romanzi partoriti sotto l’effetto di alcol, droghe, psicofarmaci e poi revisionati una volta riguadagnati sprazzi di sobrietà.

La letteratura ha fagocitato tutte le ombre, forse anche per questo al maestro della paura sono rimaste paure innocue: i ragni e il numero 13, per il quale nutre un’autentica fobia: “Ogni volta che arrivo a quella pagina di un libro che sto scrivendo cerco di scriverla velocissimo senza mai fermarmi per passare così in fretta alla pagina 14”.

L’altro Portnoy: troppo sexting ti fa “a pezzi”

“Avevamo vent’anni quando ci conoscemmo, durante il nostro anno di università all’estero, in Israele. Non sapevamo ancora che l’insicurezza aveva le sue gradazioni… ma confidavamo di poterle superare, un giorno. Non sapevamo che non c’erano garanzie di un futuro felice, che non era un nostro diritto”. È racchiuso in queste righe il senso di Fleishman a pezzi, acclamato esordio di Taffy Brodesser-Akner, firma di punta del New York Times, finalista al National Book Award, in traduzione in tutto il mondo.

A parlare è Libby, ex giornalista per una rivista maschile, ora casalinga-moglie disperata nel New Jersey, amica di giovinezza del Fleishman del titolo. Una voce narrante inizialmente neutra che si svela e rivela gradualmente proponendo la sua soggettiva visione degli eventi come a dire “la versione dei fatti non è mai una sola”. Il 41enne epatologo Toby Fleishman, a un passo dal divorzio (uno di quelli per cui si sputa sangue) da Rachel, ambiziosa manager teatrale con guadagni superiori ai suoi, scopre il sesso che corre sul filo delle dating-app nella Grande Mela e stenta a credere a quanto sia improvvisamente semplice fornicare senza limiti né impegno.

Se sulle prime il romanzo pare l’elogio della libertà sessuale riconquistata dopo aver spezzato la gabbia matrimoniale, l’illusoria scoperta del Bengodi si rivela poi espediente per una riflessione tagliente, spietata ma egualmente dolente, attuale e veritiera, sull’infelicità umana, l’incomunicabilità di coppia e le lotte intestine tra generi. Definito insistentemente il “lamento di Portnoy al tempo di Tinder” la verità è che se nel dissacrante romanzo di Roth del 1970 il sesso era strumento di esplorazione, ribellione, ricostruzione dell’identità e rifiuto della propria eredità culturale (nel caso di Roth e Portnoy quella di stampo ebreo-ortodossa, come per Toby e la stessa autrice), qui le abbuffate di sesso-sexting mirano, senza successo, a silenziare un’abissale scontentezza e la consapevolezza di quanto sia dura essere adulti.

Incide poi il peso dei sogni giovanili frustrati, le insicurezze divoranti, l’incapacità di considerare la normalità straordinaria e non deprimente, la corsa per il successo che rende squali o perdenti, la famiglia che da nido si trasforma in rovo, i figli che somigliano a un rebus irrisolvibile, la cecità mentale che fa credere che se un matrimonio va a rotoli è sempre colpa dell’altro.

Nonostante l’esercito di donne, “donne realizzate e indipendenti che sapevano quel che volevano”, che lo desiderano dopo una giovinezza in cui il due di picche era la norma, Toby è comunque in frantumi. Come tanti. “Sono a pezzi, sono nei guai”, va ripetendo. “Ora non aveva più nessuno a cui essere fedele. Rachel non c’era” e quando lei scompare dalla sera alla mattina – è a un seminario di yoga? È con un amante? Non si sa, fatto sta che gli molla i due figli di 11 e 9 anni, non risponde più al telefono e così farà fino alla fine – l’unica cosa da fare è prendere la propria vita, metterla su un vetrino, osservarla, decostruirla, provare a ricomporla azzardando nuovi incastri o accettarla semplicemente per quello che è, un mix di “speranza, tristezza, lutto, trionfo, sesso, tradimento”. Tertium non datur.

 

 

Fleishman a pezzi

Taffy Brodesser-Akner

Pagine: 488

Prezzo: 19,50

Editore: Einaudi

Con “The Nevers” le supereroine si vestono con abiti tardo-vittoriani

“Donne, sono solo donne!” esclamava lo stolto incapace di spiegarsi gli stravaganti superpoteri espressi da impavide signorine all’ombra del Big Ben. Se mai aveste sognato delle Avengers in abiti tardo-vittoriani potete ritenervi soddisfatti: The Nevers è la vostra serie. Con un’anteprima in contemporanea americana nella notte dell’11/12 aprile in v.o. sottotitolata replicata in prima serata lunedì 12, Sky Atlantic e Now avvieranno la programmazione di questo nuovo prodotto HBO conteso fino all’ultimo da Netflix, a testimoniare l’attesa che lo circondava. Perché l’Inghilterra Vittoriana – in questo caso limitrofa al secolo breve, essendo la storia ambientata nel 1899 – va forte, con tanto de Gli Irregolari di Baker Street a disposizione sulla citata piattaforma a far da contraltare. E, ambientazione londinese a parte, non pochi sono i punti comuni tra le due serie in costume, a partire dall’elemento fantascientifico e dalla leadership femminile tra i personaggi che, come da rigorosa dickensiana tradizione, sono tutti orfani. Al centro di The Nevers è una “comune” di persone metaumane (indicate come “Touched”) dotate di misteriosi poteri soprannaturali che si oppongono al Male solo in apparenza proveniente da antagonisti loro simili: in realtà, dietro le quinte, si agitano le trame di interessi politico-imperialisti molto umani e soprattutto maschili. Curata nell’ambientazione assai seducente che mescola ricchi aristocratici a miserabili freaks tra sontuosi palazzi e multietniche “corti dei miracoli”, la serie è in linea con l’inevitabile approccio post-femminista, che muove le gesta di queste Wonder Women ante-litteram su visioni di mondo all’epoca estranee. E così non si può che parteggiare per Amalia, Penance & co, capaci di “prevedere il futuro” o di “sentire l’elettricità” come delle Tesla in gonnella: tutto al loro fianco diventa plausibile, avventuroso, immaginifico.

Barry, il killer-marine che vuole fare l’attore

Alla già affollata galleria di assassini seriali si aggiunge una nuova figurina: il killer depresso venuto dal Midwest. Si chiama Barry ed è il protagonista dell’omonima serie Hbo che dopo aver fatto incetta di premi arriva anche in Italia. La prima stagione di Barry andrà in onda a partire dal 12 aprile su Sky Atlantic e in streaming su Now.

Barry Berkman è un ex marine. Tornato dall’Afghanistan è caduto in depressione e ci è rimasto finché Monroe Fuches, un amico del padre, non l’ha convinto che le competenze acquisite sul campo di battaglia potevano rivelarsi utili anche nella vita di tutti i giorni. La vita di Barry ha ritrovato uno scopo: uccidere persone. Ma attenzione. Qui non ci troviamo di fronte a Dexter Morgan, il tecnico della polizia scientifica di Miami che nel tempo libero ammazza e impacchetta i cattivi dopo aver attentamente vagliato il loro livello di malvagità (la serie s’intitola Dexter). Barry, che pure con Dexter ha una marcata somiglianza, fa solo quello che gli dice Fuches: “È un lavoro. Si fanno bei soldi” spiega. Più o meno come vendere aspirapolveri, no?

L’ultimo incarico consiste nell’uccidere un certo Ryan Madison, personal trainer con il pallino della recitazione che ha una relazione con la moglie del boss della mafia cecena. Da Cleveland Barry vola a Los Angeles, segue Ryan in un teatro, recita una scena con lui e finisce per trascorrere la serata con i suoi amici aspiranti attori. La possibilità di un’altra vita, una vita diversa e più piena, si affaccia nella sua mente.

Il surreale dialogo con Fuches descrive bene il mood della serie. Barry: “Sai che tu e io parliamo continuamente del mio scopo?”. Fuches: “Recitare potrebbe essere il tuo scopo?”. Barry: “Non lo so… È che mi sento motivato adesso. Mi ha fatto stare bene”. Fuches: “Che mi dici di quello che facciamo noi due?”. Barry: “Solo una piccola parte di attori riesce a guadagnarsi da vivere recitando. Molti di loro hanno altri lavori. Pensavo che potrei svolgere i miei incarichi di notte”. Fuches: “Hey, hey! Recitare è un tipo di lavoro in cui bisogna usare la faccia. E questo è in netto conflitto con l’essere qualcuno che uccide le persone anonimamente. (…) Non vorrai provare a far fuori uno e sentirgli dire: è il tizio della pubblicità del pollo!”.

Uscita negli Stati Uniti nel 2018 e premiata con tre Emmy Awards, Barry arriva in Italia con tre anni di ritardo (la prima stagione, in lingua originale sottotitolata, era disponibile solo sulla piattaforma Chili). Non si tratta di un caso isolato: fra le serie nominate per gli ultimi Golden Globe ce ne sono due, Schitt’s Creek e Small Axe, che da noi non sono ancora state trasmesse.

Bill Hader, protagonista e co-creatore di Barry insieme ad Alec Berg, è famoso oltreoceano per essere stato dal 2005 al 2013 un ospite fisso del popolarissimo Saturday Night Live. Le sue imitazioni di Tom Cruise, Arnold Schwarzenegger, Al Pacino e altri sono diventate dei deep fake virali da decine di milioni di clic su YouTube. L’idea di Barry è nata da uno spunto autobiografico. Come il protagonista della serie, Hader si è accorto a un certo punto di essere infelice: aveva un grande talento per un lavoro, quello di comico, che era arrivato ormai a odiare.

Nel cast di Barry, accanto a Bill Hader e Sarah Goldberg nei panni dell’aspirante attrice Sally, c’è anche un volto notissimo soprattutto ai meno giovani: Henry Winkler, il mitico Fonzie della sit-com Happy Days. Winkler ha vinto un Emmy come Miglior attore non protagonista per la sua interpretazione di Gene Cousineau, l’insegnante di recitazione con modi da guru che per il “nuovo” Barry diventerà un punto di riferimento.

Dopo la prima stagione, a maggio arriverà su Sky Atlantic e Now la seconda in cui il protagonista si troverà coinvolto in un’assurda faida fra la mafia boliviana e quella birmana (con ogni probabilità i Paesi sono stati scelti puntando il dito a caso sul mappamondo). Le riprese di Barry 3, rimandate a causa della pandemia, sono iniziate da poco, mentre la quarta stagione è già stata scritta.

Sophia Loren torna sul set per un film di Skolimowski

Sophia Loren tornerà presto sul set per recitare in Balthazar, una rivisitazione a opera del polacco Jerzy Skolimowski del celebre film di Robert Bresson Au hasard Balthazar realizzata grazie a una coproduzione polacco-italiana tra Skopia Film e Alien Films. Nella nuova versione il racconto partirà da un circo polacco e si concluderà in un macello italiano raccontando come nell’originale una straziante allegoria dell’ingratitudine umana attraverso la storia di un asino che passa da un padrone all’altro subendo continue angherie.

A 20 anni dall’uscita del suo Le fate ignoranti, Ferzan Ozpetek inizierà a dirigere tra qualche giorno, coadiuvato da Gianluca Mazzella, una serie tv omonima in 8 episodi da 50’ sullo stesso argomento da lui sceneggiata con Gianni Romoli, Carlotta Corradi e Massimo Bacchini per R & C Produzioni e destinata a Star, la nuova sezione di Disney+, e a Sky Q. Ambientata a Roma e per qualche giorno a Istanbul, vedrà in scena vari interpreti cari a Ozpetek come Luca Argentero, Serra Yilmaz, Ambra Angiolini, Carla Signoris, Paola Minaccioni, Filippo Scicchitano ed Edoardo Purgatori e new entries come il noto attore turco Burak Deniz, Cristiana Capotondi ed Eduardo Scarpetta.

Giovanni Veronesi sta sceneggiando il suo nuovo film incentrato su un killer e uno scienziato che con una macchina del tempo vogliono tornare al giorno del 1938 in cui Hitler a cavallo con Mussolini sembrò più vulnerabile per poter ucciderlo. Il regista scrive anche con Pilar Fogliati il film che segnerà il debutto nella regia della 28enne attrice brillante romana e la vedrà interpretare quattro giovani donne: un’aristocratica del centro storico di Roma, un’aggressiva ragazza di Ponte Milvio, una siciliana aspirante artista e una verace commessa di Guidonia.

Giuda e Gesù tra le Pantere Nere dell’odioso Illinois

“Io li odio i nazisti dell’Illinois!”, confessò John Belushi. Qui non ci sono i nazisti, bensì le Pantere Nere dell’Illinois, ma l’odio rimane, ed è federale: il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover (Martin Sheen, liftatissimo) vuole stroncarle, e il fine giustifica ogni mezzo. Il grimaldello per scassare il partito delle Black Panther, guidato con crescente carisma da Fred Hampton (Daniel Kaluuya), è un ladro d’auto, William O’Neal (LaKeith Stanfield), che per i suoi colpi anziché servirsi della pistola preferisce esibire un tesserino, ovviamente contraffatto, del Federal Bureau of Investigation: la finzione diventerà realtà, il furfante informatore. Fred finisce in prigione, William fa il doppio, anzi, triplo gioco, manipolando sia i compagni che l’Agente speciale Roy Mitchell (Jesse Plemons): qual è il dirimine, quale il discrimine?

Tornato libero, Hampton, che aspetta un figlio da Deborah Johnson (Dominique Fishback), affina la rivoluzione di popolo, ma l’Agenzia non sta a guardare: nemmeno il paventato rientro in carcere può soddisfare la paranoia di Hoover, Fred potrebbe beneficiare della detenzione per rafforzare simbolicamente e strutturalmente la propria leadership, ed è un rischio che gli Stati Uniti, millanta J. Edgar, non possono correre. La talpa accetterà di sporcarsi di sangue?

Judas and the Black Messiah è diretto da Shaka King, candidato a sei premi Oscar ed è disponibile on demand su una teoria di piattaforme, da Apple Tv a Amazon Prime Video, da Rakuten a Sky Primafila. Il racconto è abbastanza ordinario, ovvero curato, sapido e appassionato, ma non così inventivo né raffinato dietro la macchina da presa, eppure l’eccezionalità non difetta al film, che peraltro vanta un titolo bellissimo: straordinaria è la storia, affidata dall’epilogo diegetico e ancor più dai finali cartelli documentali alla custodia dell’incredibile (e riprovevole), straordinaria è la prova dei co-protagonisti Daniel Kaluuya e LaKeith Stanfield. Dovremmo meglio dire co-non protagonisti, la categoria nella quale concorrono ai 93esimi Academy Awards (verdetto il 25 aprile), e per la quale Kaluuya è già stato premiato ai Golden Globes. Stanfield è davvero sneaky, subdolo, tanto furtivo quanto ritroso, tanto elusivo quanto impietoso, con una prova passiva-aggressiva, tutta in levare, e in levarsi.

A rubare la scena è Kaluuya, londinese, classe 1989, un ruolino di marcia seriale invidiabile (Skins, Psychoville, Black Mirror), qualche buon film (Johnny English – La rinascita, Sicario, Black Panther) e un ruolo, il protagonista di Scappa – Get Out di Jordan Peele (2017), che lo impone sul proscenio internazionale. Qui strappa altri applausi, è un bisontino, tosto, quasi gibboso, indomito, travolgente sul palco, comunque possente laddove silente: è la sua una presenza totalizzante, un one man show di qualità più che quantità, una promessa di verità. Gustatelo, lui e il film, in lingua originale.