“Oggi sono tutti divi, mentre l’attore deve ‘scomparire’”

L’ego è fuori luogo: “Io un’artista? Ma per favore, preferisco scomparire dietro i miei personaggi”; niente auto celebrazioni: “L’attore deve risultare una persona vuota, una lavagna sulla quale un regista può scrivere”. E non importa se nel curriculum i registi sono Ettore Scola, Pupi Avati, Giuseppe Tornatore e ancora Ettore Scola; non importa se ha recitato nei teatri più importanti d’Italia, se ha un ruolo da protagonista nella soap di Rai1 (Il paradiso delle signore) o se a Propaganda Live stupisce con monologhi comici.

Antonella Attili quasi si stupisce dell’attenzione: “Sembro scontrosa, in realtà non sono capace di prendere i complimenti. Mi imbarazzo”.

Nella sua professione crederci è fondamentale.

Per me l’esempio resta Mastroianni: sul set lo vedevo in disparte, tranquillo, seduto in attesa del suo momento.

Niente divismo.

Sono felicissima quando, dopo avermi riconosciuta, spesso aggiungono: “Ma è anche una bella donna!”. Vuol dire che sul set ero un’altra.

Ha frequentato l’Accademia?

Bocciata in tutte le scuole del regno, quindi sono autodidatta e resta una ferita indelebile della mia vita.

È ancora una ferita?

Sì, ma sono in buona compagnia insieme ad attori come Carmelo Bene e Piera Degli Esposti: forse con qualcuno si sono sbagliati; (ci pensa) Piera quando deve passare davanti all’Accademia, cambia strada.

Oggi tra i giovani c’è più o meno affezione al diventare attori?

Maggiore, perché i reality, e in generale questa società, dà la possibilità di intraprendere questa carriera partendo dal “chi sei”, senza formazione, e sono nate una serie di aspettative e degenerazioni basate su un’illusione; insomma, oggi chiunque più tentare, ma ciò non accade in nessun altro Paese europeo.

Cioè?

All’estero, se non esci da una scuola professionale, neanche puoi accedere ai provini.

Lei insegnerebbe in Accademia?

Me l’hanno chiesto, ma ogni volta mi metto in discussione e non mi sento abbastanza preparata per accettare; nella mia testa sono ancora un’apprendista.

Un’apprendista che ha lavorato con i maestri.

È una sensazione interna: la trovo una gran fortuna; comunque, non avendo frequentato una scuola, mi sento sprovvista di un metodo da trasmettere agli altri.

Qual è il suo metodo?

Totalmente istintivo, come una contadina che ha imparato da sola zappando la terra e non è figlia di una tradizione.

Per Dario Fo rubare è da geni, copiare è da coglioni.

Sono d’accordo.

A chi ha rubato?

A tutti, per fortuna sono una grande osservatrice e ho un buon orecchio; per questo detesto gli attori che improvvisano gli accenti perché non è solo una questione di applicazione, ma di studio: Volonté lo ha dimostrato.

A cosa punta?

La credibilità è la parte più importante di questo mestiere; l’85 per cento dei nostri attori sono personaggi più che interpreti, e lo replicano in film dopo film.

Secondo Lucrezia Lante della Rovere lavorano sempre i soliti otto o nove.

Cambiano i titoli, ma oramai li confondi; poi ci sono le eccezioni come Luca Marinelli ed Elio Germano e guarda caso entrambi hanno una vita ritirata.

Con un copione, cosa fa?

Questione epidermica, istinto; non sono un’intellettuale, mi annoio facilmente, ma se arrivo alla fine della lettura, allora non mi interessa il ruolo, l’importanza del film o se il regista è un novizio: mi butto.

E poi?

Studio da sola, utilizzo l’immaginazione e l’immaginazione non si alimenta con la dispersione, ma con la coltivazione personale del silenzio, delle letture, dei film; magari anche attraverso le riviste di arredamento legate al periodo storico, e poi quasi sempre mi ispiro a qualcuno che ho visto o che conosco.

Le manca il palco?

Tantissimo, è dove sono nata e dove amo tornare per ritrovare un po’ di purezza: è come immergersi nella varechina.

E così è accaduto con Propaganda Live.

Nella sua professione, cos’è sopravvalutato?

La stabilità. Un artista deve vivere nel pericolo di perdere qualcosa, altrimenti non crea niente; nei momenti floridi della vita è difficile essere artisti interessanti, meglio nella privazione, nel limite, nell’impossibilità.

La fermano per strada?

Qualche volta da quando ho un ruolo ne Il paradiso delle signore, perché sia la soap che il mio personaggio creano un’istantanea immedesimazione.

E…?

Alcune donne mi rendono partecipe dei loro problemi, arrivano a scrivermi il loro privato, la sofferenza amorosa.

E lei?

Non rispondo per non alimentare queste situazioni.

Chi è lei?

Una donna in ritardo. Tante situazioni le ho capite troppo tardi.

Altro che gli Usa, Kim teme di più la fame nera

Se lo dice lui, Kim, la crisi alimentare e umanitaria che sta per abbattersi sulla Corea del Nord dev’essere spaventosa: una carestia forse paragonabile a quella che, tra il 1994 e il ‘98, fece, secondo alcune stime, 600 mila vittime, su una popolazione allora di 22 milioni di abitanti. Il dittatore chiede ai connazionali di “intraprendere un’altra, più difficile, Ardua marcia, per sollevare il popolo dalle difficoltà”. Rivolgendosi a migliaia di iscritti al Partito dei Lavoratori, Kim Jong-un – giacca bianca in un mare di abiti scuri – ammette che il Paese sta affrontando la “peggiore situazione in assoluto”, senz’altro la peggiore da quando lui salì al potere nel dicembre 2011, dopo la morte del padre Kim Jong-il. La crisi degli Anni Novanta fu innescata dalla perdita del sostegno sovietico dopo la dissoluzione dell’Urss, con il crollo della produzione di cibo e dell’export esacerbata da alluvioni e siccità, mentre la rigida pianificazione economica centralizzata non favorì interventi tempestivi. Questa volta, c’entra la pandemia da Covid-19: la chiusura del Paese per preservarlo dal contagio appesantisce un’economia già devastata da decenni di pessima gestione e dalle sanzioni scaturite dalle risoluzioni dell’Onu in risposta ai programmi nucleari e ai ripetuti lanci di missioni balistici, gli ultimi il 25 marzo. È difficile avere un quadro di quanto davvero accade nella Corea del Nord, che la scorsa settimana aveva rinunciato alle Olimpiadi giapponesi causa pandemia. E spesso Kim esacerba le difficoltà, per rafforzare la presa sul potere. Ma le testimonianze di diplomatici russi – gli ultimi rimasti fra le rappresentanze – di recente usciti dal Paese con mezzi di fortuna, restano agghiaccianti.

Addio al principe che disse: “Sono solo una fottuta ameba”

Il Principe è morto, lunga vita alla Regina. Esce dal palcoscenico mondiale come ci è entrato, Philip: un passo indietro rispetto a Elisabetta, con il Regno Unito che ora piange per lei, per la sua inimmaginabile solitudine, dopo 73 anni con quest’uomo bellissimo, spigoloso, sfavillante e imbarazzante, pessimo padre, forse marito infedele, ma colonna della formidabile costruzione a due che è stato questo faticosissimo regno.

Nasce Principe di Grecia e Danimarca, combinazione artificiosa che non regge all’urto della Prima guerra mondiale: si ritrova bambino senza patria, la madre Alice impazzita, il padre Andrew in giro per l’Europa con l’amante: le 4 sorelle sposate in Germania, simpatizzanti del nazismo. Lui non ha un soldo, ma ha carattere: se lo forma prima a Gordonstoun, scuola privata in Scozia, poi nel corpo della Marina, dove è uno degli ufficiali più brillanti e più temuti.

Ama la disciplina, impara l’autocontrollo: dirà più tardi che sono “l’essenza della libertà”. È un uomo di straordinario vigore fisico, innamorato della vita di ufficiale, bello, gentiluomo, il pedigree giusto ma addosso l’inquietudine, il sarcasmo e il disprezzo per le formalità di chi troppo presto ha perso tutto e costruito la versione più estrema di se stesso. Ma incontra Elisabetta, e Lei lo vuole. Va contro il volere della famiglia, che di lui, così ingestibile, così ostinato, così apparentemente incompatibile con le restrizioni di una vita a corte, non vuole saperne. Aspettano la fine della guerra, in cui lui risplende come nel proprio elemento, e si sposano nel 1948. Poco prima, dicono le cronache, avrebbe detto: “Suppongo che non potrò divertirmi mai più”. Non è proprio così, non subito. Vivono un idillio di 4 anni, con Elisabetta che è l’erede al trono ma fa la moglie del giovane ufficiale a Malta, dove lui è di stanza. La libertà finisce nel 1952, quando muore il padre Giorgio VI e lei diventa regina. I cronisti reali raccontano dello stordimento di Philip quando gli comunicano la notizia, durante una visita ufficiale in Africa. “Sembrava totalmente sopraffatto, come se il mondo gli fosse crollato addosso. Capì subito che l’idillio della loro vita insieme era finito” ha raccontato il suo assistente dell’epoca. Philip si prende 5 minuti, poi fa quello che fa sempre: affronta la realtà, va da Elisabetta, la porta in giardino, le comunica la notizia che stravolge le loro vite. E poi si sottomette, maschio alfa che diventa spalla, sempre secondo, mai re, solo principe consorte, e lo sa bene quando, dopo uno scontro furibondo con Elisabetta, è costretto a rinunciare anche a dare ai figli il proprio cognome e commenta: “Sono solo una fottuta ameba”. Get on with it. Vai avanti lo stesso, qualsiasi cosa accada. Prima la Corona, prima la sua Regina. Lo ha fatto tutta la vita, non è riuscito a insegnarlo ai figli. In pubblico resta decorativo ma impresentabile, un inanellatore di battute atroci, spesso in odore di razzismo. In visita ufficiale in Cina, nel 1986, a uno studente britannico: “Se resti ancora a lungo ti verranno gli occhi a mandorla”. A una poliziotta con il giubbotto antiproiettile, nel 2002: “Sembri un attentatore suicida”.

A Malala Yousafzai, quasi ammazzata dai talebani mentre andava a scuola in Afghanistan, nel 2013: “I genitori mandano i figli a scuola perché non li vogliono per casa”. A un infermiere filippino durante una visita a un ospedale: “Le Filippine devono essere vuote, siete tutti nell’Nhs”. Le archiviano come gaffe, e invece sono sfide al protocollo, alle convenzioni, agli obblighi di presentabilità, che in pubblico si diverte a infrangere.

È caustico anche in privato: coerente con una intelligenza affilata e confinata a Palazzo. Ma Elisabetta gli rende l’omaggio più alto, pubblicamente, nel 1997, durante la festa per le nozze d’oro, in piena tempesta per la morte di Diana: “Non gli piacciono i complimenti ma è stato, semplicemente, la mia forza e il mio scudo in tutti questi anni. E io e tutta la mia famiglia, e questo e molti altri paesi, abbiamo verso di lui un debito molto più grande di quanto lui reclamerà mai, è più grande di quanto crediamo”.

Almeno la coreografia dell’uscita di scena l’ha scelta lui: niente clamore mediatico, niente orpelli, niente funerali di Stato. Onori militari, il legame mai reciso con l’amatissima marina: una cerimonia ristretta a St. George, nel castello di Windsor dove è morto; la tomba nei giardini di Frogmore e, complici le restrizioni Covid, nessun corteo, nessun bagno di folla e meno giornalisti del previsto.

Erdogan, il dittatore “necessario”

Da quando 18 anni fa l’ex primo ministro Silvio Berlusconi venne invitato al matrimonio del figlio dell’attuale presidente turco, allora premier, Recep Tayyip Erdogan, in qualità di testimone dello sposo, i rapporti tra il nostro Paese e Ankara sono diventati sempre più stretti. Ora le diplomazie sono al lavoro per smussare la tensione tra Italia e Turchia dopo le parole di Mario Draghi, che ha definito Erdogan “un dittatore”. Il viceministro degli Esteri turco e direttore degli Affari Ue, Faruk Kaymakci, ha chiesto che siano “ritirate le inaccettabili dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano”.

Incidente a parte, i rapporti fra Roma e Ankara non hanno mai subito una battuta d’arresto, nemmeno quando, dieci anni dopo, nel 2013, il Sultano fece schiacciare nel sangue la rivolta popolare che portò nelle piazze quattro milioni di turchi indignati in seguito alla repressione dei giovani di Istanbul accampati nel piccolo parco di Gezi nel tentativo di difendere uno dei pochi spazi verdi sopravvissuti alla cementificazione forzata della megalopoli.

Da allora, il vero volto di Erdogan – che già agli esordi durante una conferenza stampa disse senza infingimenti “la democrazia è come un taxi, quando serve lo si prende, quando non serve più si scende” – è diventato sempre più leggibile, ma pecunia non olet.

Nel tempo l’Italia non solo ha aumentato la vendita di armi e l’import-export di beni primari ma si è opposta, assieme alla Germania, per ben due volte, a cavallo tra il 2020 e il 2021, alla richiesta di imporre sanzioni contro la Turchia avanzata dalla Grecia a Bruxelles. Atene, membro Ue e Nato, da mesi denuncia le manovre delle navi-trivella di Erdogan alla ricerca di idrocarburi nelle proprie acque e in quelle di Cipro ma Roma, e Berlino, non hanno ritenuto importante “avvisare” la Turchia con misure economiche di peso. Perché, come vuole la realpolitik, non si può disturbare chi acquista “generosamente” i nostri manufatti, specialmente quelli bellici. Nell’autunno del 2020, la rete italiana ‘Pace e Disarmo’ aveva chiesto con un comunicato il blocco completo del flusso di armamenti verso il regime turco a causa della deriva dispotica del governo turco, delle gravi violazioni dei diritti umani e delle ingerenze in vari conflitti, innanzitutto quello libico che riguarda da vicino l’Italia. Pur avendo il ministro degli Esteri Di Maio lo scorso 16 ottobre annunciato di aver firmato un atto interno alla Farnesina per bloccare le “vendite future di armi alla Turchia” e per “avviare un’istruttoria sui contratti in essere” nulla a oggi sembra cambiato. Un’analisi realizzata dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) dei dati del registro dell’Istat sul commercio estero evidenzia che da novembre del 2019 a luglio del 2020 sono stati esportati in Turchia più di 85 milioni di euro di “armi e munizioni”, una cifra che costituisce il massimo storico dal 1991. Solo nel primo semestre del 2020 l’export si attesta a quasi 60 milioni di euro. Si tratta in gran parte di munizioni altamente esplosive che vengono usate anche in funzione anti-carro. La Relazione governativa inviata al Parlamento sull’export di armi ha evidenziato inoltre nuove autorizzazioni per oltre 63 milioni di euro e nuove consegne per oltre 338 milioni, cifre che fanno della Turchia il primo acquirente della nostra industria bellica. Le 59 nuove autorizzazioni rilasciate nel 2019 – e mai ufficialmente sospese – riguardano anche armi automatiche, bombe, siluri, razzi e missili, apparecchiature per la direzione del tiro e aeromobili. L’organizzazione non governativa Amnesty International nell’avviare una petizione in proposito ha ricordato che “le forze armate turche dispongono di diversi elicotteri T129, di fatto una licenza di coproduzione degli elicotteri italiani di AW129 Mangusta di Augusta Westland”.

L’interscambio prima della pandemia si attestava a 17,9 miliardi di dollari, con un sostanziale equilibrio della bilancia (+700 milioni a favore di Ankara). Nel 2019, Roma era il quinto partner assoluto di Ankara nonchè il secondo in Europa. E ancora nei primi due mesi di quest’anno, dall’Italia si è registrato un boom di investimenti diretti (970 milioni), più che da ogni altro Paese. In Turchia operano oggi circa 1.400 aziende italiane, con alcuni colossi che vantano presenze decennali e importanti siti industriali, da Barilla a Ferrero, da Fca (attraverso la joint venture Tofas con la holding turca Koc) a Pirelli. Oltre alla tradizionale industria manifatturiera e al settore bancario, oggi ridimensionato, sono cresciuti negli anni i progetti energetici e nella difesa, in cui spiccano gli accordi con Eurosam (joint venture Italia-Francia) per il possibile sviluppo di un sistema missilistico. Difficile pertanto evitare di sedersi al tavolo con il Sultano, non trattandosi di condividere un semplice tè con biscotti.

Grecia, assassinato il cronista Karaivaz. Le sue inchieste su criminalità e potere

Il cronista giudiziario greco, Giorgos Karaivaz, è stato ucciso ieri mentre rientrava a casa nel quartiere di Alimos, a sud di Atene. A esplodere sei colpi di pistola che hanno raggiunto il reporter sono stati due uomini in moto – uno di loro in abiti militari – scappati via velocemente dopo aver ucciso uno dei volti più conosciuti della tv ellenica Star.

Sulla scena del delitto sono stati ritrovati, dopo l’esecuzione, una decina di bossoli e il cadavere dell’uomo riverso nei pressi della sua auto: stava tornando da moglie e figlio al termine di una diretta televisiva intorno alle due del pomeriggio. Secondo i risultati delle analisi balistiche, le armi sono state usate anche in altri crimini, hanno riferito le forze dell’ordine, che non hanno aggiunto però ulteriori dettagli o ipotesi sul motivo del delitto. Karaivaz non aveva riferito di minacce alla sua persona, né aveva richiesto protezione alla polizia, riferiscono gli agenti che hanno lasciato trapelare che l’omicidio è “opera di professionisti” ed è stato “attentamente pianificato”. “Non posso nemmeno elaborare la notizia, lo conosco da 32 anni”, ha detto il suo collega Varios Syrros, spalla televisiva del veterano dell’informazione. Condoglianze delle istituzioni alla famiglia sono arrivate con le parole di Aristotelia Pelonia, portavoce del governo: “Questo omicidio ci ha scioccato tutti, le autorità stanno investigando per assicurare i colpevoli alla giustizia”. Sul sito dove il cronista pubblicava inchieste e articoli adesso si legge: “Il fondatore e proprietario di bloko.gr non è più con noi. Qualcuno ha deciso di silenziarlo, di usare proiettili per impedirgli di continuare a scrivere storie”. Noto per essere coraggioso e imparziale, in passato non aveva avuto paura a riportare di crimini e casi di corruzione di autorità e forze dell’ordine. Ad Atene molti giornalisti sono finiti nel mirino negli ultimi tempi. Solo nel luglio scorso il giornalista Stefanos Chios è sopravvissuto a un agguato simile a quello a Karaivaz. Il suo caso rimane aperto: senza ancora moventi, né colpevoli. Nel 2010 il giornalista investigativo Sokratis Giolias fu colpito a morte dalle pistole degli estremisti della “Setta dei rivoluzionari”, che non furono mai identificati o catturati: il caso di corruzione a cui lavorava il giornalista non è stato risolto, proprio come quello del suo omicidio. Anche lui, come Karaivaz, stava rientrando a casa. “Le indagini chiariscano con urgenza se l’omicidio sia collegato al suo lavoro”, ha dichiarato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli

“Quando ti muore l’amore della vita, è la vita che ti salva”

Il 2 gennaio, alle 6:53 del mattino, l’attrice e scrittrice Alessandra Casella ha pubblicato un tweet: “Un infarto a 54 anni. Era l’amore della mia vita. Il padre di mia figlia. Il mio migliore amico”. Migliaia di messaggi, molti abbracci virtuali, domande rimaste sospese. Poi, di questa morte improvvisa, Alessandra ha scelto di non parlare più. Tre mesi dopo la cerco, con la paura di aggredire il suo silenzio, lei accetta di parlarmi con la paura di sembrare patetica e il coraggio di chi accoglie il dolore. Per un attimo, quando la chiamo, sento la voce di sua figlia Chiara: “Mamma, se non ce la fai non ti preoccupare, va bene?”. È la carezza di una diciannovenne gentile, orfana di suo papà da pochi mesi, attenta al dolore di sua madre.

Alessandra, da dove partiamo?

Dalla notte di Capodanno. Mio marito Alessandro era sul balcone che urlava ‘vaffanculo 2020’. La sera dopo moriva.

Come è accaduto?

Il pomeriggio del 1° gennaio è andato al pronto soccorso. Sei anni prima aveva avuto un infarto preso per tempo, gli sembrava di avere gli stessi sintomi. Ma dopo tutti gli esami, all’1:30 di notte, lo hanno rimandato a casa. In epoca di Covid fanno in fretta a dimetterti.

E invece?

Alle 3 si sente male. Decidiamo di tornare in ospedale, stiamo per arrivare a piedi fino alla macchina sotto una pioggia battente e lui cade a terra. Ho visto i suoi occhi che non vedevano più, l’uomo della mia vita era diventato pesantissimo, tra le mie braccia. Si diventa così pesanti quando si muore.

Poi?

Urlavo aiuto sotto la pioggia, non respirava, gli facevo il massaggio cardiaco. Sono usciti i vicini di casa che hanno continuato con il massaggio. Arrivano i soccorsi, ricordo mia figlia con la mano sopra l’ambulanza che urlava ‘papà non andare via!’, ma io marito non c’era già più.

Chi era Alessandro?

Un uomo gentile. Un marito e un papà meraviglioso. Ogni tanto guardavo Chiara e le dicevo ‘sono contenta di averti dato lui per padre, te lo meriti’.

Quando vi eravate conosciuti?

Trentatré anni fa, al mare, in Sardegna. Lui era più giovane di me, era amico dei miei fratelli minori. Mi piaceva da matti, ma mi sembrava piccolino. E invece nel 1998 ci siamo sposati e nel 2001 è nata Chiara.

Cosa è accaduto in questi tre mesi di lutto?

Oltre al dolore, tanti problemi pratici. Lui si sobbarcava tutte le faccende che io odiavo fare, tipo i conti, le cose pratiche… mancando così all’improvviso, per me è stato il delirio, perché non avevo neppure un file con le password per accedere al computer, ai conti… Del resto, la mattina lui era con mia figlia che guardava Modern family, scofanandosi gli avanzi del cenone, come potevamo pensare alla morte… Ora so che devo ricominciare a lavorare, perché avevamo investito tutti i risparmi nella sua attività.

Da cosa vorresti ricominciare?

Dico una cosa stupida: da me. Ritrovare quella che spaccava le montagne, perché adesso mi sento un topolino schiacciato dalle frane.

Cosa ti manca di più?

Ogni cosa. I nostri progetti, la regione del Périgord in Francia dove volevamo andare, ma soprattutto l’idea del ritorno. In tutti i passi che ho fatto nella mia vita, giusti o sbagliati che fossero, ho avuto sempre lui come ritorno. So ancora dove dirigermi, ma non ho più un luogo in cui tornare.

A parte tua figlia.

Certo, ma lei non dovrà mai portare il peso della mia solitudine.

Che amore era il vostro?

Era un amore profondo, lui voleva proteggermi, non mi ha raccontato di alcuni debiti che avevamo, li ho scoperti ora, ma non ho rimpianti, perché gli ho sempre detto quanto lo amavo. Porco d’un cane, diciamocelo sempre quanto ci amiamo, è uno spreco non dirselo. Sai qual è stato il suo ultimo messaggio? La mattina lui era in cucina, io ancora in camera, mi ha scritto su whatsapp: ‘Amore mio grande ti porto il caffè’. Era un uomo prezioso.

Si sente tanta voglia di sopravvivere a questo dolore.

Sono devastata, ma anche se la vita me l’ha tolto, sono stata fortunata, il bilancio è in pareggio, anzi sopravanza. Ringrazierò sempre l’universo perché ho avuto Alessandro. Sulla sedia dello studio è rimasta la sua giacca di pelle, quella che la sera dell’infarto si è rotta sulla manica quando è caduto. Ogni tanto vado lì e me la abbraccio. Sembra il corvo di Poe: ‘Mai più, mai più’. Noto che c’è un telefilm che vedevamo insieme e mi viene da dire ‘oh Ale!’, una volta ho preso il telefono per chiamarlo. Quella dell’irreversibilità è ancora un’idea inaccettabile.

Tua figlia ti accudisce?

Ci proteggiamo a vicenda, piangiamo quando una non vede l’altra. Io non dormo, la mattina mi sveglio con nausee fortissime. Ieri è uscita, l’ho chiamata per chiederle se mi comprava dei capperi, mi ha risposto spaventata: ‘Mamma stai bene?’. Durante il lockdown siamo stati tanto insieme noi tre, guardandomi indietro, nella tragedia della pandemia, quest’anno insieme è stato un regalo.

A causa del Covid tante persone hanno perso il marito o la moglie. Molti sono anziani, è dura sopravvivere. Hai voglia di dire qualcosa a queste persone?

Che abbiamo il dovere di essere grati alla vita e di fare qualcosa di buono del tempo che ci resta. Quando guardo due anziani che passeggiano insieme mi si spezza il cuore, io non invecchierò con Alessandro. Però se siamo stati così fortunati nel trovare una persona per cui la nostra vita era importante, la nostra vita deve rimanere importante. Per noi, prima di tutto. E per i figli. Chiara è una creatura meravigliosa, merita il miglior futuro possibile e io tifo per lei.

Posso chiederti quali sono le ultime parole che hai detto a tuo marito?

Amore, respira.

Ilva, Usb: sciopero dal 14. Orlando: Arcelor spieghi

Ci sono voluti un paio di giorni e la sollecitazione della Fiom-Cgil prima che il ministro del Lavoro Andrea Orlando si occupasse del licenziamento di Riccardo Cristallo: 45enne, padre di due figli, 21 anni in Ilva a Taranto, cacciato per aver condiviso su Facebook un post che invitava a vedere la fiction Mediaset Svegliati amore mio, che racconta di un impianto siderurgico inquinante e di una bambina malata, vicenda dietro cui non è difficile cogliere riferimenti alla situazione di Taranto. ArcelorMittal, attuale proprietaria di Ilva, ha ritenuto lesivo della sua immagine l’accostamento (anche se la storia risale ad anni prima del suo arrivo in Italia) e prima sospeso due dipendenti che avevano rilanciato il post, licenziandone uno “per giusta causa” giovedì (l’interessato ha già fatto sapere che impugnerà il provvedimento). È notizia di ieri che il secondo operaio sospeso per lo stesso motivo è stato invece reintegrato: ha incontrato l’azienda e chiesto scusa, anche sui social. Sempre ieri, Orlando ha chiesto spiegazioni sulla vicenda ai vertici di ArcelorMittal, che sostengono di avergliele date, smentiti però dallo stesso ministero: finora l’azienda ha solo inviato il provvedimento di licenziamento, ma non ha spiegato nulla.

La vicenda comunque, ministro o no, è ben lungi dall’essere finita. Il sindacato di base Usb ha annunciato una “mobilitazione durissima”: sciopero a oltranza a partire dalle 7 di mercoledì. La Fiom-Cgil ha parlato di “motivazioni inaccettabili e surreali” alla base del licenziamento e chiesto un incontro con Orlando. Pochi meritori interventi in un contesto di generale disinteresse per una storia preoccupante. Tra le eccezioni va almeno citato – insieme a Bonelli dei Verdi, De Petris di LeU e pochi altri – Carlo Calenda, cioè il ministro che decise e gestì l’arrivo dei Mittal nell’ex Ilva: “Una cosa sbagliata e inaccettabile. ArcelorMittal ci ripensi. Subito”, ha scritto su Twitter. Silente il suo successore Giancarlo Giorgetti.

Giorgetti schiaffeggia il M5S; deleghe su tlc e tv ad Ascani (Pd), industria a Pichetto (FI)

Nei due governi Conte il ministero dello Sviluppo economico è stato feudo grillino, oggi è invece appannaggio del leghista “presentabile” Giancarlo Giorgetti. La notizia di ieri è che i grillini al Mise non toccheranno proprio più palla a partire da un tema fondamentale: le deleghe su telecomunicazioni, banda larga e digitale non vanno alla sottosegretaria 5 Stelle Antonella Todde, come s’era detto fin dalla formazione del governo Draghi, ma alla dem Anna Ascani. Insomma, non solo ha problemi con la piattaforma Rousseau, il Movimento è fuori dalla partita delle rete unica e del riassetto del sistema radiotv: è appena il caso di ricordare che prima guidava anche il ministero dell’Innovazione, oggi passato a Vittorio Colao. Alla Todde vanno invece le competenze sulle crisi aziendali e le cosiddette “città intelligenti”, non proprio la prima scelta al Mise. Ben altra messe quella del viceministro berlusconiano Gilberto Pichetto Fratin: politiche industriali e delle Pmi, Made in Italy, commercio, concorrenza, consumatori e lotta alla contraffazione.

Sarà lunga l’onda del Covid-Tsunami

A ormai più di un anno di pandemia, l’osservazione dei numeri che vi girano intorno, più che le innumerevoli opinioni, ci delinea, non solo il quadro attuale, ma ci permette anche di immaginare quello futuro. L’immagine di un vero e proprio tsunami, che qualcuno ha usato per descrivere questo evento epocale, appare sempre più calzante. Un’onda enorme che ci ha investiti, senza preavviso utile a scamparla, e che ha travolto tutto e i cui effetti continueranno per anni, anche quando le acque si saranno ritirate. Non sono solo le nostre abitudini a mutare, ma si sta attuando un macro-mutamento a livello geopolitico. Stanno emergendo le debolezze delle istituzioni internazionali, che non hanno più la forza di svolgere il loro compito, imbrigliate in intrecci di interessi e normative. L’Europa arranca, annegando in quella voragine scavata dal non essere abbastanza unita, né abbastanza sovranazionale. Mentre la civiltà occidentale mostra tutta la sua senescenza, l’altra parte del mondo vive la sua primavera. Il continente asiatico e, in particolare, la Cina non ha più bisogno di copiare i nostri prodotti e può vantare centri di ricerca e investimenti che la mettono in primo piano nell’innovazione. Hanno mostrato la loro superiorità anche nella gestione della pandemia, dalla quale, pur avendo pagato un prezzo molto alto, ne sono usciti per primi. Qualche studioso attribuisce questo successo all’esperienza maturata durante la SarS1 che lì creò un disastro economico, altri piuttosto alle caratteristiche della popolazione con età media molto più bassa (31 anni) di quella occidentale (42 anni). Si aggiunga che sono popolazioni affacciate da poco al progresso e vivono una grande spinta emotiva che, in Europa, pare ormai spenta. Ma alla base di tutto, un elemento fondante è il crescente investimento in sviluppo e ricerca: l’Italia, fanalino di coda d’Europa, già nel 2019 dedicava solo poco più del 6% del Pil alla salute e l’1,53% alla ricerca, cifre che si sono assottigliate in valore assoluto già nel 2020, essendo il Pil diminuito dell’8,8%, mentre in Cina nello scorso trimestre è cresciuto del 6,5%. Vogliamo davvero arrenderci al declino?

 

E nel frattempo Stellantis (fu Fiat)…

Una voltaGianni Agnelli disse: “Se mi avessero detto, quand’ero ragazzo, che sarei diventato socio della General Motors, non ci avrei mai creduto”. Va detto che poi GM pagò per non diventare socia dell’Avvocato, ma è difficile che questa sensazione di piacevole incredulità tocchi mai John Elkann: difficile da bambino sognasse di vendere a Peugeot, ma per essere sicuro che è vero gli basterà controllare il cospicuo dividendo incamerato nell’Accomandita di famiglia. Mentre ci arrabattiamo col Covid, ogni tanto ci capita di leggere notizie su Stellantis, sigla che solo con fatica connettiamo alla fu Fiat. Ieri per dire da Repubblica Torino abbiamo appreso che la produzione della 500 elettrica a Mirafiori passerà da due turni a uno: insomma calerà, facendo salire la Cassa integrazione come annunciato pure a Melfi. “Nei primi tre mesi del 2021 si riscontrano flessioni nei volumi con richiesta di Cig in tutti gli stabilimenti tranne Sevel”, spiega il segretario della Fim Ferdinando Uliano citato dal manifesto. Su MF, infine, c’è una cosa piccola ma densa di futuro: su 700 offerte di lavoro pubblicate da Stellantis nell’ultimo mese, 500 sono per il centro Psa vicino Parigi, circa 80 per gli Usa, altre decine tra Germania e India (dove è previsto un nuovo polo tecnologico), solo 4 in Italia e tutte per Maserati. E chi cerca Stellantis? Fuori dall’Italia “persone con diverso grado di esperienza in settori cruciali per il futuro dell’auto: batterie, connettività, software, app e cyber-sicurezza” , ma anche “manager e ingegneri” per il progetto “guida autonoma”. Insomma, “figure in grado di rafforzare ricerca e sviluppo”. Sono primi segnali, ma coerenti con quel che accade quasi sempre quando vendi a un gruppo straniero (anche se la chiami “fusione”): prima emigra la testa, poi le produzioni più moderne e appetibili (“ad alto valore aggiunto”, dicono gli esperti), infine per chi resta (in Italia nel nostro caso) si apre l’entusiasmante prospettiva di una guerra sui costi (e i salari) con l’Est Europa, l’Asia e il Sudamerica. Se a un dipendente di Agnelli, quand’era ragazzo, avessero detto che avrebbe lottato per un tozzo di pane con un suo omologo brasiliano non ci avrebbe creduto. E avrebbe fatto male.