I saltafila, il derby noi-altri

Giunto all’ultima domanda di un quiz supermilionario, su quale sia la popolazione della Cina, il formidabile concorrente sciorina una cifra gigantesca aggiornata all’ultimo cinese nato all’ultimo minuto. Esatto, esulta il conduttore, adesso ci dica i nomi. Una vecchia barzelletta che ci è venuta in mente a proposito delle strombazzate indagini a tappeto per individuare i cosiddetti vaccinati “saltafila” il cui numero, mentre scriviamo, è di due milioni duecentotrentaseimilasettecentocinquantadue individui (2.236.752). Sensibili alla sacrosanta indignazione del premier Mario Draghi contro i furbastri (“Con che coscienza si espongono a rischio di morte gli anziani e i fragili?”) le forze speciali del generale Figliuolo, forse coadiuviate da cani addestrati a fiutare gli amici degli amici, controlleranno nome per nome gli elenchi dei vaccinati onde snidare reprobi e profittatori. Così come richiesto dal presidente della Commissione antimafia, Nicola Morra, che dal canto suo sospetta infiltrazioni della criminalità organizzata. Resta da capire, una volta identificati i due milioni e rotti di zozzoni, quali severe pene verranno loro comminate. Gli faranno la multa? Intanto, la relativa “direttiva Figliuolo” è ancora in cottura, chissà in qualche bunker segreto, e sembra non prevedere effetti retroattivi (si esclude che sia promulgata con legge marziale). Va detto che ben 695.235 somministrazioni “extra” sono censite in Sicilia, Campania, Calabria, regioni dove superano le dosi riservate ai nonni con il che si sospetta, appunto, una piovra delle fiale orchestrata da mafia, camorra e ’ndrangheta. In base a questi numeri emerge dunque un’Italia bipolare con due grandi partiti vaccinali contrapposti. La categoria dei Noi (per dirla con Draghi) che attendono disciplinatamente il loro turno. E la categoria degli Altri che, per dirla con Camilleri, se ne catastrafottono. Caro presidente Draghi, lei interpreta bene lo sdegno nei confronti degli Altri (nel frattempo proiettati verso la maggioranza relativa). Ma i Noi rispettosamente le chiedono: non bisognava pensarci prima?

Nel nuovo cda Rai ancora oggi si può nominare chiunque

 

 

“Le carte che riguardano il Servizio pubblico sono davvero tutte in regola se, mentre rivendica il diritto alla propria autonomia gestionale, non resiste poi alla pressione politica sulle nomine?”

(Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza – Atti del 1° Seminario su “Lo stato della tv in Italia e il ruolo della Rai” – Roma, 24 novembre 2009)

 

Se fosse interpretato alla lettera il Testo unico che regola la “Disciplina della Rai-Radiotelevisione italiana S.p.A.”, in particolare per quanto riguarda la nomina dei componenti del cda, non se ne salverebbe neppure uno degli ultimi tre lustri. L’articolo 49 stabilisce, infatti, che “possono essere nominati membri del consiglio di amministrazione i soggetti aventi i requisiti per la nomina a giudice costituzionale ai sensi dell’articolo 135, secondo comma, della Costituzione”. Il quale articolo prevede, a sua volta, che questi “sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni ordinaria e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”. A occhio e croce, non devono essere molti fra gli ex consiglieri della Rai a poter vantare tali requisiti: cioè un rango costituzionale, accademico o giuridico.

Fatto sta che lo stesso articolo 49 del Testo unico contiene ovviamente una deroga estensiva che, in puro politichese, recita così: “O comunque, persone di riconosciuta onorabilità, prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”. Quel “comunque” è, evidentemente, un capolavoro di ipocrisia e di arroganza della partitocrazia che ha concepito la formulazione della norma. Come dire, in pratica, oves et boves, a discrezione e insindacabile giudizio dei signori dei partiti.

Spetta al Parlamento eleggere quattro componenti su sette del CdA, due alla Camera e due al Senato, con voto limitato a uno solo fra coloro che presentano la propria candidatura. Vale a dire che i partiti devono mettersi d’accordo fra di loro per spartirsi le poltrone. Altri due vengono nominati dal Consiglio dei ministri, cioè dal governo, su proposta del ministro dell’Economia che detiene il pacchetto di controllo della Rai: predestinati a diventare uno presidente e l’altro amministratore delegato. E infine, come vittima sacrificale sull’altare aziendale, il settimo consigliere è indicato dall’assemblea dei dipendenti.

In questo fosco scenario giuridico e politico, è chiaro che il consiglio di amministrazione della Rai non può che essere una proiezione, deformata e distorta, del sistema partitico. E con ogni probabilità, lo sarà ancor più il prossimo che dovrebbe essere insediato a giugno. Con la sua maggioranza XL, neppure il Governo dei Migliori riuscirà a nominare un cda a norma di legge, in grado di garantire un effettivo servizio pubblico: per la semplice ragione che la “notoria indipendenza di comportamenti”, richiesta dall’articolo 49 del Testo Unico, difficilmente potrà essere esibita dai candidati scelti “comunque” dal Parlamento.

È vero – come auspica Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti – che sarebbe meglio parlare dei fini, degli obiettivi, della missione del servizio pubblico, piuttosto che di toto-nomine. Ma, fino a quando non cambierà la governace della Rai, si rischia di fare soltanto un esercizio retorico, per non dire perdere tempo. Al momento, in attesa del nuovo cda extralarge, né la televisione né la radio pubbliche meritano un impegno del genere.

 

Solo il proporzionale puro può salvare la democrazia

Com’è possibile che una democrazia anteponga gli interessi di pochissimi a quello di (quasi) tutti? Domanda ingenua, ma necessaria: capace di guardare alla politica con quell’inesorabile sguardo infantile che costringe ad andare alla sostanza ultima delle cose, denunciando la nudità del re. Ebbene, perché in un’Italia in cui, dopo un anno di pandemia, aumentano contemporaneamente, ed esponenzialmente, sia le file davanti alle mense dei poveri sia gli ordini ai cantieri dei superyacht, non si riesce a varare una legge patrimoniale, una tassazione severa delle grandi proprietà immobiliari, una vera tassa di successione per i grandi ricchi? La risposta è brutale: perché, in verità, siamo un’oligarchia.

Una realtà plasticamente rappresentata dal governo paternalista Draghi-Mattarella, ma vera ormai da tempo. La maggioranza degli italiani non è rappresentata dal sistema istituzionale: sono fantasmi politici non solo quelli che non votano più (avendo comprensibilmente perso ogni speranza di giustizia), ma anche quelli che votano, e vengono traditi da leggi di ispirazione maggioritaria che truccano i numeri del Parlamento in nome di una governabilità comunque mai davvero raggiunta, come ognuno vede. Il risultato finale di questa lunga stagione maggioritaria non è nemmeno il primato degli esecutivi sui Parlamenti (che è comunque un dato di fatto, dai Comuni alle Regioni allo Stato), ma quello dei blocchi di capitale e privilegio sull’interesse generale. Semplicemente, l’interesse collettivo non trova nessuno spazio politico: e se la patrimoniale è l’esempio principe, mille altri si potrebbero citare, dalla progressività fiscale tradita al sistema sanitario, e a quello dell’istruzione, demoliti. È da questa ineludibile constatazione che prende il via il famoso sentimento anti-politico, inteso come un senso di rigetto verso un sistema in cui la Lega e il Pd vogliono lo stesso sistema elettorale. Salvini da una parte, Prodi e Veltroni dall’altra: tutti invocano il maggioritario, il bipolarismo. E le prime parole di Enrico Letta vanno nella stessa direzione: il Pd sembra tornare ai fantasmi letali della “vocazione maggioritaria” (che in realtà si è tradotta in una vocazione al governismo senza mai vincere le elezioni).

Un tradimento grave, dopo i solenni impegni presi da Zingaretti al momento del suo sofferto “sì” al referendum sul taglio dei parlamentari. Proprio questa riforma offre una ulteriore ragione, urgente e drammatica, per tornare subito a un proporzionale vero (cioè senza soglie di sbarramento e con circoscrizione unica nazionale): con il combinato disposto tra riduzione dei parlamentari e Rosatellum (o Mattarellum), una maggioranza parlamentare (ma minoranza nel Paese) può prendersi tutti gli organi di garanzia democratica, e addirittura cambiare la Costituzione senza passare dal referendum (i meccanismi di tutela della Carta funzionano solo col proporzionale). In questo momento, quella maggioranza toccherà alla Destra estrema (scenario da brividi), ma sarebbe inaccettabile anche se i numeri premiassero una (al momento inesistente) Sinistra. Perché il punto è la tenuta dello stesso sistema democratico. E allora, se almeno una parte del M5S e del Pd avvertono il disagio di governare con Salvini nel governo delle banche e delle mimetiche, la via maestra per costruire una via di fuga da questo permanente game over della politica è proprio un accordo per una legge elettorale proporzionale. Calamandrei diceva che nella Costituzione è racchiusa una “rivoluzione promessa”: se vogliamo darci una possibilità di mantenere quella promessa, l’unica strada realistica è riportare i cittadini nella politica. Cioè tornare a votare un Parlamento che rappresenti l’interesse generale: un Parlamento proporzionale.

 

Su Autostrade evitiamo l’ultimo regalo ai privati

La storia della società Autostrade è emblematica della debolezza o insipienza della nostra classe politica. Lo Stato ha fallito prima come proprietario, poi come regolatore e ora rischia nuovi passi falsi.

La società Autostrade dell’IRI era ben gestita (inventò anche il Telepass) e non c’era necessità di privatizzarla: la decisione finale la prese il governo D’Alema, forse per accodarsi alla moda delle privatizzazioni e legittimarsi come sinistra “di governo”. Si procedette senza aver creato un’Autorità né un contesto regolatorio soddisfacente: si sostituì un monopolio pubblico con uno privato mal regolato. Per massimizzare il ricavo lo Stato decise di prorogare la concessione per altri 20 anni, un gran regalo pagato dagli utenti. Alla fine, nel 1999, la società fu venduta per un boccone di pane (rimando al mio libro La svendita di Autostrade, PaperFirst). Basti pensare che in appena 4 anni il valore dell’investimento della Schemaventotto, controllata dalla famiglia Benetton, era aumentato di sei volte. Con l’Opa del 2003, tutta finanziata con debiti accollati alla società (e quindi agli utenti) Schemaventotto salì dal 30 all’84% senza sborsare un euro. Difficile immaginare una peggior vendita.

Ma lo Stato ha fallito anche come regolatore. La convenzione è stata sempre interpretata in modo incredibilmente favorevole alla società, a partire dal IV atto aggiuntivo del 2002, voluto dall’allora ministro Lunardi e fatto approvare per legge da Berlusconi contro il parere del Nars, l’organo tecnico preposto a esprimere giudizi in materia, sistematicamente scavalcato dal “potere politico”. Inutile elencare gli esorbitanti incrementi tariffari, gli investimenti ritardati senza penali, le mancate verifiche sulle manutenzioni e infine la convenzione del 2007, negoziata dall’allora ministro Di Pietro, che senza motivo ha regalato alla società il diritto ad ottenere indennizzi multi miliardari in caso di revoca della concessione, anche per colpa del concessionario. Per sottolineare il fallimento dello Stato come regolatore basta un dato: nel decennio sino al 2018 la redditività di Autostrade sul capitale proprio è stata del 32% l’anno.

Subito dopo la tragedia del ponte Morandi, il governo annunciò l’intenzione di revocare la concessione. Se come regolatore ne aveva il diritto avrebbe dovuto perseguire quella strada. Ma è mancato il coraggio di affrontare le incertezze e i rischi. Quindi si è pensato di imboccare una facile scorciatoia: riprendere il controllo della società tramite la Cassa depositi e prestiti. Si voleva mostrare di “punire” i Benetton costringendoli a vendere a un prezzo “basso” con una trattativa rapida ed esclusiva, agitando lo spauracchio della revoca. Il governo si è così posto in una posizione equivoca ed intenibile.

Ora il nuovo governo dovrebbe decidere se lo Stato debba fare il regolatore o il gestore. Mi pare chiaro che se la Cdp dovesse prendere il controllo quasi alla pari con fondi “speculativi” esteri, dovrebbe cercare di massimizzare i profitti, in contrasto con lo Stato regolatore. Una posizione equivoca per la Cassa: dovrebbe ubbidire al governo a costo di sacrificare i profitti? O sollevare conflitti tra Stato gestore e regolatore?

Se si dimentica il desiderio del precedente governo di passare il controllo alla Cassa per salvare la faccia, qual è l’interesse pubblico di un intervento di Cdp nel capitale di Autostrade? Come cittadini ed utenti delle autostrade a noi interessa soprattutto che queste facciano gli investimenti e le manutenzioni dovute e che si applichino tariffe che limitino il rendimento sul capitale investito. Tutto ciò si potrebbe ottenere con una forte e severa attività di regolazione, qualunque sia l’azionista. Se poi invece si riconoscesse l’incapacità del regolatore pubblico (ministri e funzionari) di resistere alle molte seduzioni offerte dal regolato, allora il controllo pubblico apparirebbe preferibile.

Cdp ha già presentato un’offerta ferma per Autostrade. Se Atlantia non l’accetta meglio evitare un’altra lunga stagione di negoziati e rialzi di prezzo. Non si vede, ad esempio, perchè lo Stato dovrebbe agevolare questa trattativa concedendo, come pare, un “ristoro” di 400 milioni ad Autostrade per il calo di traffico dovuto al Covid. Hanno sempre detto che i loro profitti erano elevati perché dovevano farsi carico del “rischio traffico”: ora deve essere lo Stato a coprirgli il rischio? Le autostrade non sono mai state chiuse per ordine del governo.

Se l’offerta della Cassa non è accettata, lo Stato faccia il regolatore con tutta la severità concessa dalle norme e annunci l’intenzione di riappropriarsi della rete nel 2038, alla scadenza della concessione, come previsto dal contratto e senza controversie. Basterebbe questo annuncio per ridurre sensibilmente l’appetito dei fondi speculativi esteri per il flusso di pedaggi che da tanti anni intascano senza alcun rischio.

 

La risata è contagiosa: a “LOL” come al gran varietà della Santa messa

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana: Prime Video, streaming: LOL – Chi ride è fuori, varietà. L’Isola dei Famosi della risata. Giudicando la comicità, sbaglia chi confonde il piano tecnico con quello del gusto personale. Quell’errore può portare a falsi negativi (un comico non ti piace, e allora lo giudichi negativamente, mentre magari è di serie A) e a falsi positivi (un comico ti sta simpatico, e allora lo giudichi positivamente, mentre magari è di serie C). Anche un programma tv, d’altra parte, va giudicato tenendo distinti quei due piani. Tutto questo genera confusione, ovvero dibattiti-fuffa sui social. Un modo per aiutare i giurati di ogni tipo a giudicare un’arte trasposta in tv è quello del Festival di Sanremo, che è un festival della canzone, non del cantante. Purtroppo, i media confondono volentieri gli ambiti, per poter ravanare nelle polemiche sugli artisti: ogni racconto, per catturare l’attenzione, ha bisogno di un conflitto. È la perversione promossa dai talent: espongono al giudizio la persona, non il prodotto. Il giudizio ponderato, invece, separa i piani e gli ambiti. Proviamoci. LOL è un talent che funziona perché inscena un conflitto. Vince chi riesce a non ridere: la versione di Jimmy Fallon è sfidare un ospite vip a non ridere guardando video buffissimi presi dal web: impossibile resistere, perché quei filmati riguardano stupidità vere, facendo ridere di pancia come nessun comico sarebbe in grado di fare: shorturl.at/wHMPR. La comicità di LOL punta a quel livello elementare con tormentoni, travestimenti buffi e oggettistica bizzarra, ma se la giudichiamo a prescindere dalla simpatia degli artisti in studio va detto che non è diversa da quelli delle edizioni straniere. In questi estratti tedeschi, a 3’48” c’è l’ingresso della Gioconda su cui da noi ha giocato Elio: shorturl.at/eguGW. In Australia, Sam Simmons si è spogliato nudo: shorturl.at/qtzOT. Da noi l’ha già fatto anni fa Fabio Volo con Alessia Marcuzzi, che infatti scoppiò a ridere: shorturl.at/dnuG9. Chi giustifica LOL argomenta con un doppio luogo comune: “Solo la stupidata può far ridere i comici, perché i comici non ridono mai alle battute dei colleghi, e conoscono le tecniche della risata”. Smentiamolo subito: conoscere le tecniche della comicità non impedisce la risata, perché quelle tecniche servono proprio a bypassare in modo immediato la censura cosciente (cfr. Qc #48). Infatti i comici ridono molto alle battute dei colleghi. Alle riunioni del lunedì mattina a MaiDireGol, con la Gialappa’s e tutti i comici presenti, si rideva di gusto godendo della bravura altrui, e si contribuiva con piacere alle loro gag. Un’altra prova è lo stesso LOL, dove i comici eliminati si sganasciano in cabina regia sulle gag dei colleghi. Le loro risate sono importanti per il successo del programma: con quelle di Mara Maionchi e Fedez, aiutano a ridere il pubblico a casa, poiché l’intensità del riso viene esaltata dal riso collettivo (su questo si fondava l’uso teatrale della claque). Il ridere insieme, oltre ad abbassare la soglia della risata, crea un legame sociale fra chi ride della stessa cosa: in tempi di isolamento sociale da lockdown, LOL soddisfa quel bisogno umano che la pandemia ci ha tolto, e così il programma viene subito liofilizzato in tormentoni che diventano gif e meme, cioè simboli di appartenenza a una comunità. Come lo so? A parte che saranno cazzi miei, so’ Lillo. Rai 1, 10.15: La Santa Messa, varietà. Gesù crocifisso è il suo “So’ Pino, c’ho il gel”.

 

Mail box

 

 

 

Da noi il virus ha svelato ben altri problemi

Con l’evento peggiore che ci potesse capitare, sono finalmente affiorati in maniera palese i limiti strutturali che hanno afflitto negli ultimi decenni l’Italia, tipo le Regioni , ormai da considerarsi carrozzoni inadeguati se non per dare un contentino ai trombati politici di turno, o la fragilità di un “sistema” politico che consente a pochi di prevalere sui più, e non è la prima volta che succede. La scuola, già messa male di suo sta subendo un colpo gravissimo. Per non parlare della mancanza di dignità e di vergogna di quegli italiani che “saltano la fila” per farsi vaccinare. Oggi ancora “godiamo” di sacrifici e gesti estremi dei nostri nonni, ma siamo agli sgoccioli, da tempo. Cercheremo insieme di raddrizzare questa baracca tanto amata. Sarà complicato ma non impossibile.

Delfino Biscotti

 

La spocchia di Letta sul Movimento di Conte

Letta: “Io per la coalizione scommetto sull’evoluzione del M5S”. Invece di salire in cattedra per dare lezioni urbi et orbi e “scommettere sull’evoluzione del M5S”, Letta farebbe bene a preoccuparsi del suo partito ancora dominato dai renziani.

Maurizio Burattini

 

Enrico Letta ha dichiarato che l’avvento di Conte a capo del nuovo M5S può rendere “potabile” lo stesso M5S per l’alleanza col Pd. C’è qualcosa che a me non quadra, siamo al paradosso che il bue dà del cornuto all’asino? Io se fossi al posto di Conte prenderei queste dichiarazioni come una provocazione tesa a far saltare tutto.

Michele Lenti

 

Renzi, quanta ipocrisia nell’avversione ai 5S

Caro Travaglio, Renzi ha dichiarato con grande enfasi la sua avversione per ogni tipo di “populismo di destra e di sinistra”: dunque M5S e Lega pari sono, questa è la morale! Ma se solo poco più di un anno fa proprio Renzi stringeva un patto con il M5S per fermare l’ascesa del “pericoloso populismo di destra”! Che cosa è accaduto, allora, in questo anno perché Renzi cambiasse idea così radicalmente?

Sergio Morbidelli

 

Caro Sergio, c’è solo uno più populista di Lega e 5 Stelle: quell’individuo lì. Solo che lui, diversamente da Lega e 5 Stelle, non è popolare.

M. Trav.

 

Il film “Oltre il giardino” e l’attuale fase politica

Volevo segnalare a lei e ai lettori la visione di un film del 1979: Oltre il giardino, regia di Hal Ashby, con Peter Sellers e Shirley MacLaine. Vi sono, a mio parere, molte analogie con la situazione politica di oggi.

Carmen Cassero

 

Hai ragione, cara Carmen: Chance giardiniere è vivo e lotta insieme a noi!

M. Trav.

 

Sul “Fatto” resiste la libera informazione

Ho letto nella rubrica “Santo subito” un brano di un articolo de Linkiesta che magnifica l’azione del nuovo governo paragonandola alla “tragica incapacità di chi lo ha preceduto”. Ma come si fa a travisare in questo modo la realtà dei fatti? Forse sono un ingenuo idealista ma non riesco ad accettare tanta falsità. Questi comportamenti rafforzano la mia scelta di essere da anni un lettore del Fatto Quotidiano di cui ho rinnovato di recente l’abbonamento. Ringrazio il direttore e tutta la redazione del giornale per il fattivo impegno a fare informazione libera da condizionamenti.

Massimo Mignani

 

Da Gad: “Il mio sbaglio sul caso Gratteri”

Quando si commette un errore, c’è solo da riconoscerlo. Nella mia recensione al libro di Wu Ming 1 sul cospirazionismo (uscita il 1° aprile scorso) ho preso per buona una citazione antisemita che invece non compare nel libro Strage di Stato. Le verità nascoste della Covid-19. Dopo aver cercato invano di scaricarne il pdf o di procurarmelo in cartaceo, mi sono fidato di persone cui ho telefonato in cerca di verifica. Condivido il pensiero espresso ieri da Antonio Nicaso: Gratteri ha sbagliato a scrivere la prefazione di quel libro, però chi lo attacca sbaglia ancora di più. E ho sbagliato anch’io.

Gad Lerner

 

Diritto di replica

In riferimento alla replica alla lettera di precisazione pubblicata giovedì, va precisato che la corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di giurisdizione presentato dalla presidenza della Repubblica in quanto si è dichiarata priva di competenza al riguardo e ha affermato che la competenza spetta alla Corte costituzionale: questa si è pronunziata, annullando le iniziative della corte dei Conti. Decisione assunta in conformità a quanto già indicato con la sentenza del 1981 sull’assenza della giurisdizione di quest’ultima sugli organi costituzionali. Va anche precisato che i giudizi avanti al giudice civile sono iniziati prima dei procedimenti da parte della corte dei Conti, secondo una procedura la cui correttezza è risultata confermata dalla sentenza della Corte costituzionale.

Ufficio stampa del Quirinale

Pandemia. È presto per valutare seriamente la letalità del Covid-19

 

 

Gentile prof. Gismondo, fra i No-Vax e i covidioti c’è una miriade di persone confuse da una moltitudine di virologi e mass media. Non è possibile passare per negazionista o complottista solo perché non si accetta la narrazione corrente su questa pandemia. Si parla di 2.800.000 decessi in oltre un anno per Covid-19, ma mi risulta che nel 2017 solo per malattie respiratorie nel mondo ne siano morti 3.910.000. Gradirei che il vostro giornale (l’unico che leggo) facesse un po‘ di chiarezza su questi dati. Ho scoperto che gli ipocondriaci sono contagiosi.

Angelo Caria

 

Gentile Angelo, sono d’accordo sul clima ostile nei confronti di chi vorrebbe uscire fuori dal coro, anche solo per un approfondimento. Chi scrive ha subìto più volte pesanti critiche proprio al riguardo. Il metodo scientifico è fondato sulla critica costruttiva, mettendo in discussione ogni dato per migliorarlo: la scienza è “eretica”. Avendo dedicato ormai più di trent’anni alla ricerca, non posso che continuare con tale metodo che non può subire modifiche da questo o quel politico. Se il metodo non è questo, non si abbia la pretesa di fare scienza: è ideologia. Molti numeri di questa pandemia saranno da rivedere. E non lo dico per sminuire la gravità della tragedia. In passato ho più volte sottolineato che i numeri dei “positivi” e dei decessi comunicati giornalmente non rispecchiavano la realtà. I positivi sono almeno il 30 per cento in più rispetto ai casi tracciati. È noto che i tamponi vengono ripetuti alla stessa persona almeno due o tre volte: siamo sicuri che gli uffici regionali li controllino prima di comunicarli? I decessi, poi, non sono tutti dovuti al Covid, che, molto spesso, è una aggravante di una patologia grave già esistente. In molti ospedali se si è ricoverati per qualsiasi patologia e si scopre di essere positivi si è registrati come “paziente Covid”. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo.

Per quanto riguarda i dati che lei riporta e che si riferiscono al 2017, nulla da dire. A oggi, sappiamo che i morti per (solo per?) Covid sono 2.890.000. Per fare una corretta valutazione dovremo accertare se si aggiungono ai decessi altre infezioni respiratorie o, in parte, le sostituiscono nella valutazione epidemiologica. A oggi la letalità si attesta attorno al 2,1 per cento, ma anche questo dato, secondo me, sarà ridimensionato. Molto ancora c’è da chiarire in questo tsunami, senza inibizione ideologica.

Maria Rita Gismondo

“Bisognava aspettare la mappa delle aree”

Davide Crippa, oggi capogruppo del M5S alla Camera, era sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico con delega all’Energia quando, a fine 2018, viene inserito in un decreto l’emendamento ormai battezzato “blocca trivelle” legato alla realizzazione del “Pitesai”, il Piano delle aree idonee alle trivellazioni.

Che segnale è questa autorizzazione a nuovi pozzi?

Innanzitutto mi lasci dire che le trivelle non ripartono. Queste sono code autorizzative di domande antecedenti la nostra moratoria, ora prorogata al prossimo 30 settembre in attesa della definizione proprio del “Pitesai”. Ci saranno altri passaggi dopo la VIA, come la verifica della compatibilità economico-finanziaria dei richiedenti o l’intesa delle Regioni per i progetti sulla terraferma, che sono la maggioranza di quelli approvati. Infine, sarà eventualmente il Pitesai a stabilire se queste autorizzazioni ricadano o meno su aree idonee all’estrazione di idrocarburi. Ma non sfuggo alla sua domanda: per quanto si tratti di “atto dovuto”, ci saremmo aspettati prima la chiusura del procedimento del Pitesai e poi le decisioni sulle procedure Via. È in quel contesto che definiremo quale direzione prendere in tema di attività estrattive.

Sembra però anche un via libera…

Qualcuno ora tenta di strumentalizzare queste autorizzazioni. Non c’è nessun via a nuove trivellazioni e il ministero della Transizione ecologica, della cui istituzione andiamo fieri, sta andando in tutt’altra direzione. Il M5S sul no alle trivelle non arretra: impegneremo il Parlamento e il governo con una nostra mozione sulla transizione ecologica nel settore dell’energia, che porteremo in aula tra poche settimane. Una parte importante sarà dedicata alla necessità di puntare solo sull’energia pulita. Abbiamo anche depositato una proposta di legge per fermare l’estrazione di idrocarburi su tutto il territorio nazionale a prima firma del collega Giovanni Vianello. Poi guardiamo alla sostanza: il M5S in questi anni ha ottenuto il blocco delle nuove trivellazioni e dei famigerati air gun, ha imposto condizioni più svantaggiose e esborsi maggiori a chi opera su autorizzazioni del passato, ha fissato al 2025 la chiusura di ogni impianto a carbone. Stiamo anche per porre un quesito al ministero dell’Economia sull’effettivo pagamento dei canoni concessori aumentati.

Questi via libera, dunque, sono poco compatibili con la transizione voluta dal M5S.

Non possono essere compatibili: siamo nel 2021 e autorizzare nuove estrazioni di idrocarburi per 20 anni significa andare controcorrente rispetto agli obiettivi di riduzione delle emissioni e decarbonizzazione che ci siamo dati nello stesso arco temporale. Piuttosto va capito come incentivare la riconversione di questa industria: chi produce e installa trivelle dovrà iniziare a installare impianti rinnovabili off-shore o impianti geotermici, cosa che produrrebbe anche molti più posti di lavori rispetto a ora. Sull’altro versante abbiamo dato vita a misure fondamentali come il Superbonus 110%, le comunità energetiche rinnovabili, il cosiddetto vehicle to greed, il forte investimento sulla mobilità elettrica che nella crisi generale sta dando un po’ di respiro al mercato italiano. E lavoriamo per velocizzare le autorizzazioni agli impianti rinnovabili. Ora il Pnrr dovrà accelerare lungo questa strada e creare i presupposti per abbandonare energie fossili, sussidi ambientalmente dannosi e tecnologie più impattanti.

Da Cingolani sì alle trivelle: sette permessi per 11 pozzi

Ribattezzato in un attimo “ministro della finzione ecologica”, quelle di ieri non sono state ore tranquille per il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e anche le prossime potrebbero non esserle. In poche settimane, infatti, è stato dato il via libera ad almeno sette autorizzazioni per la realizzazione di pozzi estrattivi di gas e petrolio nel mediterraneo e in tutta la Penisola. Si tratta, per essere precisi, di tre concessioni di Eni, due di Po Valley e due di Siam srl, nello specifico delle concessioni minerarie ‘Barigazzo’ e ‘Vetta’, entrambe in Emilia-Romagna, dei progetti di messa in produzione del pozzo a gas naturale ‘Podere Maiar 1dir’ (nella concessione di coltivazione ‘Selva Malvezzi’, sempre in Emilia-Romagna) e del giacimento per la coltivazione di idrocarburi ‘Teodorico’, fra Emilia-Romagna e Veneto. Poi ci sono i progetti di perforazione di tre pozzi: il pozzo ‘Calipso 5 Dir’ nelle Marche, il pozzo ‘Donata 4 Dir’, fra Marche e Abruzzo e infine un pozzo esplorativo, “Lince1”, in Sicilia.

Arrivano in un momento molto delicato in tema idrocarburi: negli ultimi mesi, nonostante i tentativi prima di bloccare per sempre ogni autorizzazione su gas e petrolio e poi di ottenere un prolungamento della moratoria che da due anni tiene ferme tutte le procedure di richiesta di ricerca, prospezione e coltivazione, l’unico risultato portato a casa da 5 Stelle e ambientalisti era stato una proroga fino al 30 settembre di quest’anno del Pitesai, il “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee” che negli ultimi due anni non è stato realizzato e che allo scadere della moratoria sulle trivelle (prevista, dopo qualche proroga, sempre al 30 settembre) avrebbe dovuto dire in quali zone si potesse perforare e in quali no.

I provvedimenti firmati da Cingolani, va detto, non rientrano in questa casistica. Si tratta infatti di autorizzazioni su procedimenti che avevano già ricevuto la Valutazione di impatto ambientale e che ricadono in concessioni e titoli minerari che erano già stati rilasciati prima dello stop e che comunque non rientrano nei termini della moratoria stessa. A dare l’accelerazione è stato il via libera del ministero dei beni culturali Dario Franceschini dopo le svariate verifiche tecniche che si sono susseguite negli anni. Finora si era di fatto provato a rallentare l’iter e a portarlo avanti fino alla redazione del Pitesai (che magari avrebbe stabilito che in quelle zone le trivelle non potevano starci), ma il sì di Franceschini ha fatto cadere ogni possibilità di procrastinare i tempi. La linea di Cingolani, comunque, è che per poter preservare e approdare alla transizione sia fondamentale avere il Pitesai (la proroga al 30 settembre era arrivata anche sotto la sua spinta) e il ministro starebbe compulsando la struttura competente affinché facciano presto.

Di fatto, l’idea di un sistema totalmente sostenibile – soprattutto se basato su idrogeno e sistemi di estrema avanguardia – è più lontano di quanto si possa credere e ogni innovazione tecnologica (si pensi alla già citata fusione nucleare di Cingolani) sposta la palla in là di molti anni, rendendo indispensabili ancora per un tempo indefinito gli idrocarburi. Nelle prossime settimane, inoltre, dovrebbero arrivare altre autorizzazioni simili che attualmente sono in fase istruttoria.

“Queste nuove autorizzazioni non vanno proprio bene seppur riferite a procedimenti in corso da anni – hanno dichiarato ieri Greenpeace, Legambiente e Wwf –. Ora più che mai ci attendiamo misure e atti concreti per una emancipazione definitiva dalle fonti fossili, dotandoci da subito di una exit strategy dalle trivellazioni, investimenti per una svolta davvero verde e non lo svincolo di permessi per le fossili”. Critici anche i comitati del forum H2O che sottolineano che le sette autorizzazioni si traducono in undici pozzi: “Auspichiamo che questi interventi siano fermati nel prosieguo dell’iter di approvazione. La moratoria avrebbe dovuto identificare anche le concessioni già esistenti da non rinnovare. Così si vanifica in partenza parte della programmazione, mettendo tutti davanti al fatto compiuto”.

Allarme Bce sul ritardo Recovery. E le Regioni chiedono più fondi

Un Piano nazionale di resistenza e resilienza scritto nel chiuso dei ministeri, uno scontro sordo sulle risorse da destinare e ora anche l’allarme sul ritardo, quello vero, che sta maturando a livello europeo. L’allarme lo lanciano le Banche centrali dell’Eurozona che invitano a “non perdere tempo” e ad “avviare subito il Recovery Plan per uscire fuori dal tunnel dell’emergenza pandemica ed economica”.

Ancora più esplicita la tedesca Isabel Schnabel, del board della Bce, che riferendosi alla attesa decisione della Corte costituzionale tedesca, dice: “Sarebbe un disastro economico per l’Europa se l’erogazione dei fondi fosse ritardata a tempo indeterminato”. La Corte di Karlsruhe costituisce al momento la principale spada di Damocle sulla testa del Next Generation Eu. Del quadro complessivo Draghi ha discusso con Paolo Gentiloni, commissario Ue e portatore di aggiornamenti sul fronte complessivo.

Non va sottovalutato però anche il ritardo delle ratifiche nazionali dell’accordo sul bilancio europeo. Sono infatti 17 i Paesi che hanno ratificato la decisione sulle risorse proprie: Croazia, Cipro, Slovenia, Portogallo, Francia, Bulgaria, Malta, Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Lussemburgo, Lettonia, Ceca, Danimarca, Svezia, Slovacchia. Ne mancano dieci tra cui, come si vede dall’elenco, proprio la Germania.

In Italia, intanto, la partita si gioca sulla distribuzione delle risorse. Secondo quanto dichiarato dal Ragioniere generale, Biagio Mazzotta, ci sono almeno 30 miliardi di richieste aggiuntive che, a quanto risulta al Fatto, provengono soprattutto da Regioni e Parlamento. A riprova del problema ieri il ministro Enrico Giovannini, che regge le Infrastrutture, altro snodo cruciale del Piano, ha assicurato: “Il Pnrr non è l’ultima scialuppa su cui saltare. Ci sono tante altre risorse disponibili e altri fondi e risorse”. La folla che si accalca attorno al Pnrr è molto ampia e il dibattito avviene tutto senza pubblicità. È del resto la ratio del governo Draghi e gli effetti si vedono.

Ma il confronto-scontro con le Regioni spiega, ad esempio, perché l’Anci sia rimasta ancora poco rassicurata sui reali poteri di spesa che spetterebbero ai sindaci. E la prova che la discussione avvenga in forma concitata è data anche dalle modalità con cui è stato convocato l’incontro con le Regioni. Il 3 aprile è stato infatti inviato l’invito alle segreterie dei tre organi senza accennare alla forma istituzionale della Conferenza unificata. Solo il 7 aprile, il giorno prima dell’evento, la ministra Gelmini ha inviato regolare convocazione ufficiale. Gelmini assicura un nuovo incontro con le Regioni il 14 aprile, ma non è chiaro se sarà in modalità Conferenza.

Il nodo delle risorse riguarda anche i sindacati che hanno lamentato l’assenza di un confronto e Maurizio Landini, segretario Cgil, ha ipotizzato un incontro a stretto giro con il governo.

Che ci siano problemi in tal senso, del resto, si percepisce anche dall’esito dell’incontro avuto ieri dal presidente del Consiglio Mario Draghi con il segretario del Pd Enrico Letta. Il quale avrebbe presentato al capo del governo le priorità del Pd. Ovviamente de visu, non certo in pubblico. Ma ora l’opacità del processo decisionale non appassiona più.