I tecnici contro il condono: “Una beffa per gli onesti”

Il condono agli evasori contenuto nel decreto Sostegni arriva in Parlamento con il marchio d’infamia apposto da tre delle massime istituzioni preposte al controllo del bilancio dello Stato. “Un beneficio erogato a un vastissimo numero di soggetti, molti dei quali presumibilmente non colpiti sul piano economico dalla crisi, che genera disorientamento e amarezza per coloro che adempiono e può rappresentare una spinta ulteriore a sottrarsi al pagamento spontaneo per molti altri”. È questo il giudizio senza appello della Corte dei Conti nella memoria depositata alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera. “Questo è il terzo annullamento unilaterale di cartelle adottato nell’ultimo ventennio – si legge – a conferma di una sostanziale impotenza dello Stato a riscuotere i propri crediti”.

Come rilevato dal Fatto nei giorni scorsi, la sanatoria delle cartelle emesse tra il 2000 e il 2010 sotto i 5mila euro (e per chi ha un reddito inferiore ai 30 mila euro) ha un costo secco per l’Erario di 666 milioni. In base al decreto lo Stato dovrebbe rinunciare al pagamento anche di cartelle esattoriali rateizzate e in corso di riscossione. Un risultato politico che va ben oltre quanto ottenuto, tra flat tax e “saldo e stralcio”, con il precedente governo giallo-verde dal principale sponsor del condono, la Lega, che ora nella discussione parlamentare tenta addirittura il raddoppio del tetto a 10mila a cartella. Come spiega l’Ufficio parlamentare di Bilancio nella sua relazione “vi è il rischio che l’introduzione di forme di definizione agevolata, che costituiscono vere e proprie forme di condono, possa comportare in prospettiva anche una riduzione della riscossione ordinaria”.

La cancellazione di debiti a fronte dei quali la percentuale di recupero sarebbe relativamente bassa, consentirebbe di concentrare l’attività sulle cartelle sulle quali sono più alti i tassi di riscossione, riconoscono gli esperti dell’Authority dei conti pubblici. “Va tuttavia rilevato – spiega l’Upb – che un decreto volto a sostenere le imprese, i lavoratori e le famiglie per i disagi economici subiti per effetto del perdurare della pandemia non appare costituire lo strumento più idoneo per introdurre misure per l’annullamento dei debiti residui che, oltre a rappresentare un condono, sono dirette a migliorare l’attività di riscossione”.

La Banca d’Italia allarga il giudizio negativo pure agli altri sconti fiscali del decreto Sostegni. L’eliminazione delle sanzioni per le irregolarità nelle dichiarazioni 2017 e 2018 delle partite Iva e la cancellazione delle vecchie cartelle “si prospettano come condoni, con incentivi negativi per l’affidabilità fiscale degli operatori e disparità di trattamento nei confronti dei contribuenti onesti”.

Trojan & C., così FI e Italia Viva spacciano finte vittorie garantiste

La bufalite. Potremmo chiamarla così la sindrome di cui soffre il centrodestra più Italia Viva. Da alcune settimane distribuiscono comunicati e rilasciano interviste per raccontare le loro “vittorie garantiste” ottenute da quando stanno al governo Draghi. Dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, FI, all’immancabile Enrico Costa, ex forzista ora in Azione, ai renziani, si leggono proclami sul “rispetto dei principi costituzionali”, che finalmente diventa la bussola. Chiariamo subito: a oggi non c’è alcuna vittoria dei cosiddetti garantisti, non è cambiata di una virgola alcuna normativa in materia di intercettazioni e trojan, come vuole far credere l’ala centrodestra della maggioranza. E per quanto riguarda i tabulati telefonici, la normativa cambierà (i pm dovranno chiedere l’autorizzazione al gip per acquisirli) perché c’è stata una sentenza della Corte di Giustizia europea che va recepita e non per l’ordine del giorno di Costa, a cui il governo ha dato parere favorevole alla Camera. Che siamo di fronte a una campagna mediatica viziata da bufalite basta osservare il post voto di mercoledì sera in Commissione Giustizia della Camera sul parere al decreto Bonafede, l’ultimo da Guardasigilli, che riguarda le tariffe per le società che eseguono le intercettazioni. Sisto, giovedì, fa credere che grazie a Forza Italia “al centro del processo da oggi torna il cittadino e non la pubblica accusa”. Ma cosa è successo di così importante? “Il trojan – dice a Il Giornale – può servire solo per i flussi, non può essere usato per estrapolare dal telefono il suo patrimonio statico di immagini… Questo sarà possibile solo con un decreto di perquisizione”. Giusto, bravo, direbbe chi non conosce, per mestiere, la normativa (la maggior parte delle persone). Invece, quanto Sisto, Costa e compagnia spacciano per loro conquista non è altro che un bignamino della legge in vigore. In più, come sanno bene Sisto&c., queste “osservazioni” sui paletti per l’uso del trojan sono inserite in un parere, cioè un atto senza vincoli di legge. È chiaro che sono state imposte da FI, Lega e Iv per sventolare una bandierina ideologica da campagna elettorale.

“Saremo intransigenti: non si può toccare la legge Spazzacorrotti”

“Noi Cinque Stelle abbiamo votato la fiducia al governo Draghi anche per difendere i nostri provvedimenti sulla giustizia. E io non ho lavorato tre anni su queste misure per lasciare che ora vengano distrutte”. Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario alla Giustizia, è reduce dal dibattito in commissione alla Camera sul decreto intercettazioni. E ha qualche paletto da seminare.

Forza Italia e Lega hanno chiesto di bloccare l’applicazione di alcune norme della legge Spazzacorrotti, e in particolare l’obbligo per i partiti di pubblicare il certificato giudiziale dei propri candidati. Il sottosegretario all’Interno di Iv, Scalfarotto, si è impegnato a “valutare le problematiche applicative”. Che ne pensa?

Premesso che parliamo di un ordine del giorno, ossia di un atto che non pone alcun tipo di vincolo, lo ritengo un segnale imbarazzante, ancora di più in un momento come quello che attraversa il Paese. Dai partiti è necessaria la massima trasparenza, e non certo iniziative che possono far pensare alla voglia di nascondere qualcosa.

Con questi partiti ora governate. Insisteranno?

Per ora non abbiamo avuto altre interlocuzioni sul tema. Ma di certo il M5S sarà intransigente su questo punto.

Intanto però in commissione avete perso sulle intercettazioni.

Niente affatto, la commissione doveva solo votare un parere a un decreto che stabilisce le tariffe per le intercettazioni, puntando a contenere i costi a carico della collettività, e che non ha niente a che fare con le modalità per effettuarle. Dopodiché certi partiti mostravano di temere una tabella di un regolamento, e noi abbiamo precisato ciò che era già chiaro, ossia che video e foto possono essere acquisite solo se oggetto dell’intercettazione. È stata solo una manfrina politica.

Però è il punto: parte della maggioranza sulla giustizia va all’assalto.

Siamo disposti a discutere dei tempi del processo penale e della riforma del processo civile, su cui il precedente governo aveva già ampiamente lavorato. Ma la riforma della prescrizione o la trasparenza delle liste non si possono toccare.

La Corte di Giustizia della Ue ha stabilito in una sentenza che i tabulati telefonici possono essere acquisiti dall’autorità giudiziaria solo in seguito all’autorizzazione di un giudice terzo e imparziale. E ora diversi magistrati temono che ciò possa complicare molto l’acquisizione dei tabulati.

Sicuramente andrebbe ad appesantire il lavoro dei procuratori e degli inquirenti. Ma il nostro è un ordinamento diverso da quello estone, citato nella sentenza. E quindi, se si dovesse porre il tema, ne dovremmo ampiamente discutere.

Come M5S chiedete la legalizzazione della cannabis. Ma sembrate isolati.

Questo è un argomento su cui non possono valere ideologie, e infatti anche diversi parlamentari di centrodestra sono favorevoli. Sull’uso e la produzione della cannabis terapeutica, essenziale per tanti cittadini, serve un cambio di passo. Ma anche la cannabis light, che non è certo uno stupefacente, va normata seriamente. E in generale serve una riflessione sulla regolamentazione della sostanza, con il primo obiettivo di combattere le mafie.

Tabulati, allarme dei pm: “le inchieste a rischio”

Forti preoccupazioni nelle Procure italiane: potrebbe essere limitata e resa più macchinosa l’acquisizione dei tabulati telefonici da usare nelle indagini giudiziarie. I tabulati dicono chi telefona, a chi ha telefonato, quando, quante volte, quanto a lungo. Ma anche dove sono quelli che chiamano e quelli che rispondono, perché individuano le “celle” tra cui si svolgono le chiamate. “Sono un insostituibile strumento quotidiano di lavoro per le nostre inchieste”, spiega Laura Pedio, procuratore aggiunto a Milano. Ora a rischio. Il 2 marzo 2021, infatti, si è pronunciata la Corte di giustizia europea, in risposta a un quesito sollevato a proposito di un processo avvenuto in Estonia. La sentenza della “Grande sezione” della Corte chiede che l’accesso del pubblico ministero ai tabulati sia subordinato all’autorizzazione di un giudice, di una “autorità pubblica indipendente”. Avviene già così per le intercettazioni telefoniche e ambientali, in cui deve essere il giudice per le indagini preliminari (gip) a firmare l’autorizzazione al pm per poter intercettare. Nei casi urgenti, il pm dispone l’intercettazione e poi il gip la convalida (o la sospende).

I tabulati, invece, finora sono acquisiti direttamente dai pm senza bisogno di alcuna autorizzazione. “Possiamo chiedere alle compagnie telefoniche i contatti degli ultimi due anni”, dice Pedio, “e anche più lontani nel tempo, in caso di indagini su reati di mafia e terrorismo”. Ora le Procure italiane s’interrogano su che cosa potrebbe succedere dopo la sentenza della Corte europea. In Parlamento c’è chi si è già mosso per introdurre limitazioni anche in Italia: un ordine del giorno presentato alla Camera da Enrico Costa (ex Forza Italia, oggi Azione) e firmato da Lucia Annibali (Italia Viva) e Riccardo Magi (Più Europa) propone di recepire quella sentenza rendendo obbligatorio, per l’impiego dei tabulati, il consenso del giudice.

Resta però aperta una questione preliminare: la sentenza chiede l’intervento di una “autorità pubblica indipendente” e il pm in Italia, a differenza che in Estonia e in altri Paesi europei, non è soggetto al potere esecutivo, ma fa parte dell’Ordine giudiziario; è dunque “autorità pubblica indipendente”. “Nel nostro ordinamento, il pubblico ministero è già indipendente, dunque quella sentenza potrebbe non valere per noi”, argomenta Pedio. Lo aveva già dichiarato al Fatto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia (ex capo dell’ufficio legislativo al ministero della Giustizia quando ministro era Andrea Orlando): l’Italia non avrebbe alcun bisogno di una nuova norma in proposito, perché da noi “la pubblica accusa, a differenza che in altri Paesi d’Europa, gode della garanzia e autonomia del pm italiano, che è un magistrato dell’Ordine giudiziario”. “Resta però il rischio”, continua Laura Pedio, “che qualche avvocato possa sollevare in aula eccezione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, con il rischio di una pronuncia che sarebbe retroattiva e coinvolgerebbe anche i processi in corso”. Sarebbe un terremoto giudiziario.

Per evitare sorprese, la Procura di Milano ha già provato, per una sua inchiesta, a chiedere al gip l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati. La risposta del giudice è stata, in base alle norme vigenti, un secco “non luogo a provvedere”: non è – per ora – compito nostro, dice l’Ufficio del giudice dell’indagine preliminare. La questione è stata posta anche in un processo davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano: i giudici hanno respinto l’istanza e tenuto nel loro fascicolo i tabulati, perché erano stati comunque acquisiti prima della sentenza europea.

E per il futuro? Restano le incertezze e le preoccupazioni. Tanto che i pm della Procura di Roma si stanno riunendo proprio in questi giorni per discutere la questione. Nella capitale indicano come problema vero quello dei reati per cui sarà possibile chiedere l’autorizzazione al gip ad acquisire i tabulati. Si ragiona dunque sui “ragionevoli sospetti di gravi reati”. Ma quali sono i “ragionevoli sospetti” – si chiedono i magistrati capitolini – e quali i “gravi reati”? Per gravi reati si potrebbe intendere quelli che prevedono la possibilità di intercettare: ma questo escluderebbe reati come il traffico di influenze, per dimostrare il quale i tabulati sono invece essenziali. Ecco dunque la preoccupazione che una serie di indagini possano cominciare a saltare.

In questa situazione d’incertezza, il procuratore di Napoli, Gianni Melillo, non è contrario a una regolazione per legge della questione, anche perché altrimenti perdurerebbe un grave stato di dubbio, con il rischio di poter arrivare a mettere in discussione tutti i processi, anche passati, in cui siano stati usati come fonte di prova i tabulati acquisiti senza l’autorizzazione del gip. Una legge metterebbe al sicuro almeno i procedimenti del passato.

Da Milano, Laura Pedio ritiene che sarebbe comunque “una iattura la necessità di chiedere l’autorizzazione al gip: allungherebbe i tempi e ridurrebbe la possibilità di fare indagini”. Suggeriscono una soluzione sia il presidente dell’Anm Santalucia, sia altri magistrati delle Procure italiane: “Le indagini dovrebbero essere protette da una eventuale norma, simile a quella che vale per le intercettazioni, che renda possibile l’intervento d’urgenza del pm, poi eventualmente sottoposto alla convalida del giudice”.

Gaetano Paci, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, aveva spiegato al Fatto nei giorni scorsi che la sentenza della Corte di giustizia amplia la sfera di riservatezza della persona da garantire con un provvedimento del giudice: non solo i contenuti, ma anche i dati estrinseci (tempo, luogo, circuito…) dovrebbero essere protetti e garantiti dall’intervento di un giudice. Anche per lui, la soluzione potrebbe essere quella già in uso per le intercettazioni: decisione d’urgenza del pm e successiva convalida del gip.

False fatture. L’11 giugno inizia l’appello per i genitori di Renzi

Inizierà l’11 giugno il processo in Corte d’appello a Firenze per Tiziano Renzi e Laura Bovoli. In I grado, nell’ottobre 2019, i genitori dell’ex premier – che hanno sempre respinto le accuse – sono stati condannati a 1 anno e 9 mesi di reclusione. L’accusa è di aver emesso tramite due società (la Eventi 6 e la Party Srl) due fatture per operazioni inesistenti. Imputato nello stesso processo anche Luigi Dagostino, condannato a due anni per le fatture pagate dalla Tramor Srl, di cui in passato era amministratore, alle società ritenute dai pm della famiglia Renzi, e per truffa. Al centro della vicenda ci sono due fatture pagate dalla Tramor: una del 15.6.2015 emessa dalla Party Srl per un valore di 24.400, Iva inclusa, con oggetto “Studio di fattibilità commerciale per collocazione area destinata al ‘food’nel vostro nuovo insediamento nei pressi del The Mall”, studio per l’accusa “mai effettuato”; la seconda fattura, del 30.6.2015, emessa dalla Eventi 6, valore 140 mila (più Iva), per uno studio per i pm “mai effettuato”.

Open, ancora guai per Lotti: ora è indagato per corruzione

L’inchiesta fiorentina sulla fondazione Open (che vede indagati per finanziamento illecito l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, il componente del cda Marco Carrai e il presidente di Open Alberto Bianchi, quest’ultimo accusato anche di traffico d’influenze) lavora da tempo su un’ipotesi di reato più grave, la corruzione, contestata in questi giorni a Lotti, Bianchi, all’imprenditore abruzzese Alfonso Toto e a un altro uomo legato al Giglio magico, Patrizio Donnini, creatore di Dot Media, società di comunicazione che ha lavorato anche per la kermesse renziana, la Leopolda. I quattro hanno saputo di essere indagati con la notifica della proroga delle indagini per altri 6 mesi.

Nel documento è contestato il reato, ma non è descritta la condotta illecita. I difensori di Lotti, Ester Molinaro e Franco Coppi, ieri hanno precisato di “non poter offrire, al momento, alcuna ulteriore informazione poiché l’atto non descrive i fatti sui quali vertono le indagini”. I nomi degli indagati, incrociati con gli atti dell’inchiesta, consentono però di delineare il perimetro investigativo nel quale si sono mossi il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi. Patrizio Donnini e la società Renexia del gruppo Toto emergono in un altro filone d’inchiesta già nel 2019. In quel momento, Donnini è accusato di autoriciclaggio e appropriazione indebita in concorso con l’amministratore delegato di Renexia, Lino Bergonzi. Il motivo: tra il 2016 e il 2017 la Immobil Green Srl (di cui Donnini deteneva il 5%) vende alla Renexia Spa cinque aziende operanti nell’eolico e, piazzandole al quadruplo del prezzo d’acquisto, incassa una plusvalenza di 950 mila euro in totale.

L’eolico però non è il business abituale di Donnini. Che non si limita a fare da mediatore. Rischia in proprio: acquista e poi rivende. Da qui il sospetto degli investigatori: era certo che avrebbe rivenduto a Renexia? E perché?

Bianchi è a sua volta indagato per finanziamento illecito e traffico di influenze. Nel 2016 la Toto Costruzioni affida a Bianchi una consulenza legata a un accordo per una transazione con Autostrade Spa da circa 70 milioni di euro. Una consulenza che però, secondo gli investigatori, è in realtà un finanziamento a Open camuffato, poiché in parte entra proprio nelle casse della Fondazione. Oggi si scopre che anche a Bianchi (come a Donnini) viene contestata la corruzione (una “ipotesi vaga e fumosa” commenta l’avvocato di Bianchi, Nino D’Avirro).

Ma andiamo avanti. La stessa Fondazione Open, sempre secondo l’accusa, è a sua volta il camuffamento di qualcos’altro: nei fatti sarebbe l’“articolazione” di un “partito politico”. Nelle informative della Guardia di Finanza c’è un passaggio in cui si legge di un interessamento di Lotti: “Si rileva l’interessamento dell’onorevole, all’epoca sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, con il quale Bianchi, ai primi del mese di gennaio 2016 (presumibilmente il 4 gennaio 2016), avrebbe avuto una riunione e consegnato l’‘appunto Toto 15.7.15’, riferendogli l’esito di una riunione tenutasi il 5 aprile 2016 in merito alle trattative in corso tra Rti e Aspi”. Aspi è Autostrade per l’Italia Spa. In questo quartetto – Lotti, Bianchi, Donnini e Toto – l’unico a vestire il ruolo di pubblico ufficiale, quindi il potenziale corrotto per un dovere contrario ai propri doveri d’ufficio, è proprio Lotti. Che però non ha ruoli nel ministero per le Infrastrutture, quello più sensibile per Toto, che è retto da Graziano Delrio (non indagato, ndr).

In quei mesi appare in Finanziaria un emendamento che sembra cancellare 400 milioni di euro di debiti che Toto deve all’Anas. Delrio ribatte: “La sentenza di un tribunale dice che quei soldi vanno al ministero delle Infrastrutture. L’emendamento mira a un’altra cosa: garantire da subito la partenza dei lavori per la messa in sicurezza dell’autostrada A24-A25 dove il rischio sismico è altissimo. Abbiamo concesso che questi soldi vengano restituiti più avanti”.

Toto Costruzioni ieri ha precisato che Alfonso Toto ha da tempo lasciato le cariche societarie per far valere le sue ragioni e che l’incarico conferito a Bianchi aveva un solo fine: tutelare la società nelle controversie legali.

Vaccini, non c’è stata nessuna accelerazione coi Migliori al governo

La vaccinazione contro il Covid-19 non è una gara tra Stati e non esistono – in linea di massima – governi di soli fuoriclasse ed esecutivi completamente in mano a incapaci. Ognuno – chi più chi meno – cerca di arrangiarsi alla meno peggio in una situazione che non ha precedenti nella storia. E per tutti il problema numero uno è uno solo: le dosi consegnate in quantità inferiore rispetto a quanto previsto all’inizio della campagna vaccinale.

Fatte queste doverose premesse, abbiamo raccolto lo spunto di Pier Luigi Bersani, che il 23 marzo scorso, durante un dibattito su La7 con Alessandro Sallusti, disse: “Il giorno che è andato via Conte eravamo al pari con Francia e Germania sulle vaccinazioni. Non so come siamo messi oggi, se stiamo peggiorando o migliorando”.

Bene, analizzando i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) del 1º marzo – ultimo giorno di gestione della campagna vaccinale dell’ex commissario straordinario Domenico Arcuri (Giuseppe Conte aveva passato la mano una settimana prima) – con quelli del 9 aprile – quaranta giorni dopo l’insediamento del nuovo commissario gen. Francesco Paolo Figliuolo – si osserva una sostanziale continuità: l’Italia – in valore assoluto e al netto dei ritardi nelle forniture – si comportava abbastanza bene prima e continua a comportarsi abbastanza bene adesso.

Per quanto riguarda il totale delle somministrazioni, il primo marzo l’Italia era il terzo Paese Ue con 4.504.283 mila dosi utilizzate dietro a Germania (6.453.884) e Francia (4.675.857). Quaranta giorni dopo la situazione è immutata: Germania (17.035.698), Francia (13.160.752), Italia (12.154.857). Tutti e tre, a spanne, hanno mantenuto lo stesso ruolino di marcia.

Per quanto riguarda il totale delle doppie dosi somministrate, la situazione al primo marzo era analoga: Germania (2.197.376), Francia (1.639.282) e Italia (1.437.649). Il dato di ieri, invece dice Germania (4,8 mln), Italia (3,7) e Francia (3,3).

Passando dai numeri totali a quelli in rapporto alla popolazione (somministrazioni ogni 1.000 abitanti), le performance dei tre grandi Paesi sono migliorate rispetto alla media europea: il primo marzo la mediana percentuale dell’Ue era pari a 83,20 dosi ogni 1.000 abitanti, 74,80 in Italia, leggermente peggio della Germania (77,00) e un po’ meglio della Francia (71,60). Al 9 aprile la mediana è a 199,30 ogni mille abitanti, la Germania è a 203,30), l’Italia a 201,80 e la Francia a 201,60. Guida questa classifica la piccola Malta (515,50) seguita dall’Ungheria (394,90). In coda emerge il ritardo dei Paesi Bassi (138,80) e della Bulgaria (79,50).

Ultimo parametro a confronto, la percentuale di popolazione che ha già ricevuto la doppia dose: il primo marzo la mediana europea era pari al 2,62%, esattamente la percentuale tedesca, un po’ più alta di quella francese (2,51) e italiana (2,39). Oggi, con una mediana del 5,54% (prima Malta al 14,29%, ultima la Lettonia all’1,38%), l’Italia è al 6,18%, sopra la Germania (5,77) e Francia (5,12).

Insomma, per quel che riguarda la percentuale di popolazione completamente immunizzata, l’Italia ha fatto dei passi in avanti. Ma nulla autorizza a parlare di fallimenti e miracoli a proposito di precedenti e attuali governi (e commissari). La tendenza, per il momento, è all’insegna della continuità.

Guerra (Oms) si smentisce sul report critico sull’Italia

Dice Ranieri Guerra, assistente del direttore generale dell’Oms inviato in Italia nel marzo 2020: “Non avevo l’autorità per ritirare quel rapporto”. Si riferisce al rapporto sull’Italia, An unprecedented challenge: Italy’s first response to COVID-19, che diceva di una reazione “caotica” e “improvvisata” alla prima ondata, pubblicato e rimosso dall’Organizzazione mondiale della sanità nel maggio 2020. L’ha detto il 5 novembre scorso ai pm di Bergamo che indagano sulle prime settimane dell’emergenza, i piani pandemici che non c’erano, i ritardi di governo e Regione Lombardia. Però agli atti ci sono messaggi rivolti a Silvio Brusaferro in cui diceva il contrario: “Sono stato brutale – scriveva il 14 maggio Guerra al presidente dell’Istituto superiore di Sanità – con gli scemi del documento di Venezia”, ovvero i ricercatori guidati da Francesco Zambon, che poi ha lasciato l’Oms e il suo ufficio veneto. “Ho mandato scuse profuse al ministro (Speranza, ndr). Alla fine – scriveva ancora Guerra – sono andato su Tedros (Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Oms, ndr) e fatto ritirare il Documento. La ritengo una cosa schifosa”. E ancora, il 17 maggio, sempre a Brusaferro: “Come sai ho fatto ritirare quel maledetto rapporto”. A noi ieri ha detto: “Sono comunicazioni sbrigative via chat, comunque il rapporto l’ha ritirato Hans Kluge”, il capo dell’ufficio europeo dell’Oms.

Le chat sono nella richiesta di assistenza giudiziaria inviata dai pm di Bergamo alla centrale dell’Oms di Ginevra. I magistrati fanno una serie di domande sul rapporto ritirato e sul piano pandemico italiano mai aggiornato dal 2006. Guerra, dal 2013 al 2017 direttore della Prevenzione al ministero della Salute, è indagato per false informazioni al pm per aver negato la necessità di aggiornamenti, che invece è acclarata. È indagato anche per aver dichiarato che il rapporto Zambon non era stato approvato dall’Oms mentre a quanto risulta lo era stato. Un bell’incidente diplomatico, pessima figura per l’Oms e per Tedros, che non rispose mai a Zambon che riteneva il rapporto utile per i Paesi che non avevano ancora affrontato il Covid-19. Intervenne il governo italiano per il ritiro del rapporto? “Quando è stato pubblicato – ha detto Guerra ai pm – il ministro Speranza mi ha contattato, dolendosi del fatto che nessuno della Sanità italiana era stato contattato. Rappresentai le doglianze a Kluge, responsabile regionale Oms, condividendole”. Speranza ai pm ha detto: “Il report è del tutto indifferente per lo Stato italiano”. Il suo ritiro precipitoso ha fatto più rumore.

“Ma è il premier che ha obbligato noi psicologi a vaccinarci tutti”

“Nessuno di noi psicologi ha saltato la fila”, ribadisce David Lazzari, presidente del consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi. “Nessuno psicologo si è imbucato per farsi vaccinare. Forse è il caso che il governo informi se stesso”.

Il riferimento è al presidente del Consiglio Mario Draghi che nella sua conferenza stampa di giovedì scorso ha parlato di giovani psicologi che si sarebbero fatti vaccinare scavalcando le persone anziane?

Sì. Ma nessuno di noi ha chiesto di avere privilegi o corsie preferenziali. È stato il governo a decidere le priorità vaccinali. Molti mesi fa, ha deciso che fossero vaccinati gli operatori sanitari, prima i più esposti e poi via via tutti gli altri, compresi noi psicologi. Poi il 1° aprile è stato proprio il governo Draghi a rendere, per decreto, il vaccino ai sanitari – tutti, compresi gli psicologi – non più un’opzione, ma addirittura un obbligo, esteso a tutti gli iscritti ai diversi Ordini sanitari. Le priorità le ha dunque dettate tutte il governo, noi non abbiamo chiesto alcun privilegio.

Quell’esempio in conferenza stampa è stato un errore del presidente Draghi?

Io stimo Draghi, sono convinto che sia un ottimo tecnico, ma questa volta è stato evidentemente mal consigliato con un esempio inappropriato. Ricordiamo che la vaccinazione ai sanitari, dunque anche agli psicologi, è realizzata non per proteggere i sanitari, ma gli utenti, le persone, bambini e adulti, da loro seguiti. E non ci sono solo gli psicologi del Servizio sanitario nazionale, ma anche migliaia di psicologhe e psicologi che lavorano nella scuola per sostenere il disagio determinato da un anno di scuole chiuse; migliaia di psicologhe e psicologi che lavorano con soggetti fragili, bambini diversamente abili, con problemi di sviluppo e con le loro famiglie; migliaia di psicologhe e psicologi che lavorano con gli anziani, nelle Rsa, con i malati oncologici, con persone che soffrono di patologie croniche, nel fine vita. Sono decine di migliaia di professionisti della salute psicologica che, vaccinati, proteggono non se stessi ma i bambini, i giovani, le donne, gli uomini, gli anziani che stanno aiutando e che non sono vaccinati o non possono esserlo.

In questa situazione, vi sentite considerati sanitari di serie B?

Io spero proprio che nel 2021 sia considerato inaccettabile valutare l’assistenza psicologica una cura minore, secondaria, quasi un capriccio. Tanto più in un momento come quello che stiamo vivendo, in cui, dopo un anno di circolazione del coronavirus, la pandemia si è trasformata in una psico-pandemia. Alla quale non è stata data finora alcuna risposta pubblica nel sistema sanitario, tranne un po’ di psicologhe e psicologi inseriti nelle scuole. Dovremmo cogliere invece l’occasione del superamento della pandemia per affermare un uso sociale della psicologia, non solo privato o di ultimo appello, nei casi più gravi: per promuovere le risorse delle persone e il capitale umano, con il contributo dello psicologo in tutti i servizi di welfare.

Sardegna, “bianco” sciupato con oltre 40 mila ingressi

Già il passaggio in zona arancione, dopo appena due settimane in un “bianco” che dal primo marzo aveva fatto invidia a tutti, era stato traumatico: addio pranzi e cene al ristorante, annullate colazioni e aperitivi, pur distanziati, con gli amici. Ma il ritorno al rosso, nel pieno di una primavera che in Sardegna già faceva pensare alle vacanze, è stato un fendente in piena regola. L’indice Rt, nelle ultime ore, è schizzato a 1.54: più alto d’Italia in questo momento.

Come è potuto accadere? Probabilmente hanno inciso i comportamenti “sportivi” del weekend pasquale, la guardia abbassata troppo presto col “bianco” rispetto a mascherine e distanziamenti, ma un peso lo hanno avuto anche gli arrivi dei non residenti e qualche falla nei controlli in un’isola niente affatto blindata come avrebbe dovuto essere. Controlli che, in porti e aeroporti sardi, sono affidati al Corpo forestale e di vigilanza ambientale dal 22 marzo scorso, giorno del ritorno in arancione. Ma conoscere quanto, realmente, gli arrivi possano avere influito sull’impennata dei casi è impresa alquanto ardua: non esistono, almeno ufficialmente, i dati specifici sui casi di positivi riscontrati tra passeggeri residenti e non. Ma si sa, invece, che dal 22 marzo fino all’8 aprile, gli agenti della Forestale (corpo che dipende dall’assessorato regionale alla Difesa dell’ambiente) hanno effettuato 39 mila 540 controlli in porti e aeroporti, rilevando solo 47 casi irregolari: le contestazioni hanno riguardato persone che si erano messe in viaggio senza giustificato motivo o per non essersi registrate nella app “Sardegna sicura”. Ma è chiaro che, se in “arancione” sono arrivate quasi 40 mila persone da fuori, sommate agli arrivi precedenti in zona bianca, la circolazione del virus ha trovato terreno fertile anche per questo motivo.

Per Carla Cuccu, consigliera regionale del Movimento 5 Stelle, “è nelle cose che gli arrivi abbiano fatto aumentare il numero di positivi, ma con questo non sto affatto colpevolizzando i turisti o i proprietari di seconde case che vengono da noi: più persone abbiamo in circolazione e maggiore è la possibilità di contagio, ma siccome sappiamo che dobbiamo convivere con questo virus, è indispensabile vengano attuate politiche serie di prevenzione che non possono certo essere la clausura a oltranza o il blocco dei viaggiatori”. Il totale dei contagi in Sardegna dall’inizio dell’emergenza sanitaria, secondo quanto risulta dall’ultimo bollettino della Regione, sono 48 mila 315: ieri ne sono stati censiti 380 e 4 decessi. Il totale dei morti, dall’inizio della pandemia, è di 1.259. Quanto alla pressione sugli ospedali, si registrano 321 ricoveri nei reparti non intensivi, con un saldo di più 19 presenze in un giorno, e 50 ricoveri in quelli intensivi con un saldo di un paziente in più.

Alcuni Comuni erano da giorni già in rosso: Bono, Bultei, Uri, Siurgus Donigala, Soleminis, Burcei, Villa San Pietro, Donori, Pula, Samugheo, Sindia, Gavoi, Golfo Aranci, Bono, Pozzomaggiore, Sennariolo.

Intanto, proprio la Sardegna registra pesanti ripercussioni sull’occupazione. Non a caso oggi i lavoratori agricoli, nell’ambito della mobilitazione promossa da Cgil, Cisl e Uil scenderanno in piazza, a Cagliari, per protestare contro la mancata erogazione dei ristori. L’ufficio studi di Confartigianato imprese stima che le perdite per le 3.384 aziende del settore (2.886 artigiane) con oltre 5.100 addetti, siano pari ad almeno 20 milioni di euro. Una cifra enorme, “una perdita pesantissima per il comparto dei servizi che – secondo Confartigianato – già faticava a riprendersi dal lockdown di un anno fa”.

Da lunedì Calabria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte e Toscana si andranno ad aggiungere ad Abruzzo, Basilicata, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Sicilia, Umbria, Veneto, province di Bolzano e di Trento in zona arancione. Saranno invece in zona rossa 11,4 milioni di italiani: quelli che vivono in Campania, Puglia, Valle d’Aosta e, appunto, Sardegna.