“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, predicava il Tancredi del Gattopardo. Avendo assimilato il romanzo di Tomasi di Lampedusa, mirabilmente trasposto da Luchino Visconti nel 1963, il cinema italiano ha visto bene di semplificarlo, di stralciare il trasformismo in favore della tautologia: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto rimanga come è”. Che ci sia riuscito nel ventennio 2001-2021, circoscritto da due eventi capitali quali l’11 settembre e il Covid nemmeno lontanamente preconizzati dalla Settima Arte, ha addirittura del miracoloso: attentati inauditi, pandemie inedite, nondimeno, l’eccezionalità non ha scosso il nostro comparto. “Siccome immobile” ma senza grandeur. Se causa lockdown e altre restrizioni oggi vivere significa per lo più esistere, l’audiovisivo nazionale se la cava egregiamente: ha fatto del giorno della marmotta il proprio onomastico, abrogando rivoluzioni, evoluzioni, soluzioni di continuità per salvaguardare lo status quo. Che sia il precipitato del Paese intero o avanguardia involuzionaria, non è dato sapere, ma lo impariamo da bambini: “Specchio riflesso, chi lo dice sa di esserlo!”.
Nel 2001 Nanni Moretti porta a Cannes La stanza del figlio, regalandosi la prima Palma d’Oro e regalandoci l’ultima a un film italiano. Che la settantaquattresima edizione del festival francese si tenga dal 6 al 17 luglio prossimi, oppure in ottobre-novembre come vorrebbero rumors insistenti, certo è che Moretti non marcherà visita: il suo primo adattamento, del romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, Tre piani verrà presentato in Concorso. Come ha rivelato la co-sceneggiatrice Valia Santella, le analogie con La stanza ci sono: “L’universalità del dolore, guardare le persone in un momento in cui la loro vita sta diventando traumaticamente altro”. Altro destino festivaliero per Paolo Sorrentino, che nel 2001 portava alla Mostra di Venezia il suo lungometraggio d’esordio: L’uomo in più, con Andrea Renzi e quel che sarebbe divenuto il suo attore feticcio, Toni Servillo. Due decenni più tardi, stante la querelle tra la piattaforma streaming e Cannes (che di Sorrentino peraltro non prese Loro nel 2018), dovrebbe tornare al Lido con il suo nono lungometraggio, È stata la mano di Dio, prodotto da Lorenzo Mieli (The Apartment) con Netflix. “Un film intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e doloroso”, con un identikit rassomigliante all’opera prima: riprese a Napoli, ambientazione negli anni Ottanta, ancora Servillo nel cast. Malgrado il titolo sibillino, Diego Armando Maradona vi sarebbe appena contemplato, inquadrato in auto. Mutatis mutandis, dall’estinta sezione Cinema del Presente al Concorso della settantottesima edizione (1 – 11 settembre), il déjà-vu lagunare di Sorrentino annovererà anche il padrone di casa Alberto Barbera, già al timone della Mostra nel 2001. Il critico biellese è stato direttore per tre edizioni dal 1999, ora lo è dal 2012 e per i prossimi tre anni: potrebbe prendere in prestito le parole di un altro film di Paolo, Il Divo, laddove Andreotti chiosava “È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro”. Oltre le simmetrie e le ascendenze, per Ferzan Özpetek il giorno della marmotta è perfetto: vent’anni dopo gira ancora Le fate ignoranti, cambia solo il formato, stavolta seriale. Otto episodi da 50 minuti, un romantic drama targato Star (Disney +) che si rifà immediatamente al film con Margherita Buy e Stefano Accorsi, uno dei maggiori successi del regista turco-italiano: “Sono sicuro che sarà un’occasione di rinnovamento per me e per il mio lavoro”, e chissà se il rinnovamento sarà anche nell’occhio di chi guarda. Ai David di Donatello 2001, Le fate ignoranti valse una candidatura da protagonista alla Buy, miglior film fu decretato La stanza del figlio, miglior regista Gabriele Muccino con il suo titolo più felice, L’ultimo bacio (dieci nomination e cinque statuette). Vent’anni più tardi, anche in ottemperanza alle disposizioni anti-Covid, Gabriele non bacia più: Gli anni più belli ha disdetto le promesse del titolo, centrando solo tre candidature (la protagonista Micaela Ramazzotti, l’omonima canzone di Claudio Baglioni, il David Giovani) agli Oscar nostrani.
Lamentando con qualche ragione l’ostracismo dell’Accademia del Cinema Italiano, che non gli avrebbe mai perdonato i trionfi americani, Muccino ha sbroccato su Twitter: “Mi tiro fuori con amarezza, non certo invidia, per aver adorato il NOSTRO cinema più nobile e vederlo ridotto a una schermaglia tra film minori, ignorati e/o sopravvalutati”.
Un sasso nello stagno cinematografico patrio, l’antidoto (spurio) ai soliti noti, un cahier de doléance contro l’immobilismo, poco importa: ci salverà una rosicata dal ventennio della marmotta?
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