Salvini ci prova: vuole intestarsi il liberi tutti e dà la data: 19 aprile

Mentre ieri le morti per Covid-19 in Italia toccavano il terrificante record giornaliero di 718 da inizio anno, Matteo Salvini e le Regioni di centrodestra vogliono riaprire tutto il prima possibile. Il leader della Lega ha già messo nel mirino una data: lunedì 19 aprile. Quel giorno, secondo Salvini, nelle Regioni che avranno dati da zona gialla, si dovrà iniziare a riaprire nonostante il decreto approvato dal governo preveda solo zone arancioni e rosse fino a fine mese. La data del 19 aprile Salvini l’ha indicata giovedì nel suo incontro con il premier Mario Draghi – che però non gli ha dato rassicurazioni – e l’ha ripetuta ieri: “Guardiamo i numeri, se anche il prossimo venerdì i dati saranno in netto miglioramento, dal lunedì successivo si può procedere con le riaperture”. Il governo però non pare dello stesso avviso con il ministro della Salute Roberto Speranza che al convegno “Riapri Italia!” organizzato da Fratelli d’Italia (un segnale nei confronti della Lega), ha ripetuto che ci vuole “prudenza” e che di riaperture si parlerà “nelle prossime settimane”.

Se il dato dei decessi di ieri fa paura (va detto che la Sicilia ne ha notificati 258 delle scorse settimane senza i quali sarebbero 460), fa ben sperare il saldo dei posti letto occupati e degli accessi in terapia intensiva che da qualche giorno ha il segno meno. Anche i morti inizieranno a scendere nelle prossime settimane. Così i governatori del centrodestra – da Donatella Tesei (Umbria) ad Attilio Fontana (Lombardia) fino a Vito Bardi (Basilicata) – chiedono al governo di tornare in zona gialla dal 19 aprile. E l’elezione di ieri dell’aperturista Max Fedriga (Lega) al vertice della Conferenza Stato-Regioni per sostituire Stefano Bonaccini (vice Michele Emiliano) sarà un’arma in più con il governo. Ma l’esecutivo si baserà sul principio secondo cui “chi vaccina di più può riaprire”. E, in base a questo parametro, oggi alcune regioni leghiste sarebbero le ultime a farlo.

“Vaccini a falegnami e portieri Il decreto Draghi è sbagliato”

“Draghi si deve mettere d’accordo con Draghi, altro che psicologi! Il decreto sull’obbligo vaccinale è sbagliato e contraddittorio”, dice Andrea Bottega, segretario nazionale del sindacato degli infermieri Nursind. È la sua risposta al presidente del Consiglio che giovedì, in conferenza stampa, ha detto: “Smettetela di vaccinare chi ha meno di 60 anni, i giovani, i ragazzi, gli psicologi di 35 anni, queste platee di operatori sanitari che si allargano”.

La platea era larga dall’inizio, ma il decreto legge n° 44 del 1° aprile, con l’obbligo vaccinale, l’ha estesa . “Usa – osserva Bottega – una dicitura mai vista: non solo ‘gli esercenti le professioni sanitarie’ ma anche ‘gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali’, anche – chiosa Bottega – se non hanno rapporti con i pazienti. La mia Asl ha comunicato impiegati amministrativi, falegnami, elettricisti. E gli informatori farmaceutici? Le donne delle pulizie non solo degli ospedali ma di cliniche, studi, laboratori privati, farmacie? Non è nemmeno verificabile – dice ancora Bottega –, se il farmacista vuole vaccinare la vicina o la figlia la Asl prende nota. E non c’è tempo per correggere il decreto – spiega il segretario di Nursind – perché è in vigore dal 1° aprile, prevede entro 5 giorni la trasmissione degli elenchi, poi le verifiche delle Regioni entro 10 giorni, altri 5 giorni e le Asl trasmettono gli inviti. Per la conversione in legge ci sono due mesi…”.

Ma quanti sono i potenziali “operatori di interesse sanitario” tenuti a vaccinarsi con Pfizer/Biontech o Moderna in “concorrenza” con over 80 e malati ultrafragili che sono, come sappiamo, molto indietro? Al netto di medici (418 mila), infermieri (444 mila) e operatori sociosanitari (circa 300 mila) in buona parte già vaccinati, ci sono assistenti sanitari (quasi 5 mila), fisioterapisti (oltre 66 mila), dietisti (quasi 6.800), farmacisti (più di 140 mila), psicologi (114 mila), biologi (quasi 77 mila) e poi chimici, fisici, igienisti dentali, ottici, podologi, terapisti occupazionali, odontotecnici, educatori, assistenti di oftalmologia fino al massaggiatore capo bagnino degli stabilimenti idroterapici: le 34 professioni sanitarie contano oltre due milioni di persone, per lo più under 60, ma se arriviamo agli impiegati e agli addetti alle pulizie, alle portinerie alle manutenzioni si sale molto di più. Non è stato possibile sapere dall’ufficio del Commissario quanti “sanitari” abbiano già avuto una dose, quanti due e quanti zero.

Il decreto, secondo Bottega, è anche “contraddittorio perché non contempla gli studenti, i tirocinanti delle varie materie sanitarie che in reparto ci vanno”. Per chi non si vaccina è previsto se possibile il trasferimento ad altre mansioni oppure la sospensione da lavoro e stipendio. Anche questo non convince Bottega. “Mi sono vaccinato subito, il 29 dicembre. Ma chi non si vaccina è no vax? Nel personale sanitario c’è un 75% di donne, se incinte non metteranno piede in reparto per mesi. Poi c’è chi ha problemi di salute, chi è appena uscito dal Covid, chi lavora in reparti Covid dove sono tutti positivi”. La norma prevede che si possa documentare l’incompatibilità con la vaccinazione. “Sì, ma intanto l’operatore dev’essere allontanato. Un bravo cardiochirurgo lo mandiamo a fare carte? Tutti in smart working? Per colpire l’1% di no vax si creerà disorganizzazione. Il piccolo punto nascite, se dieci ostetriche non si vaccinano, chiude. Non ci sono operatori, siamo sotto in molte categorie. A me l’obbligo sembra una scorciatoia per non fare una vera campagna vaccinale, un sopruso verso di noi che siamo stati i più contagiati. Focolai ospedalieri provocati da operatori no vax? Non c’è un solo caso certo”.

Il passante del Consiglio

Giovedì sera ci siamo coricati con la certezza che Draghi avesse fatto una bella gaffe a cazziare gli “psicologi di 35 anni senza coscienza” che “saltano la lista” e si vaccinano “lasciando esposto chi ha più di 65 anni o una persona fragile”, quando è stato proprio lui a obbligarli a farlo, all’articolo 4 del decreto Draghi n. 44 del 1° aprile. Pena la perdita dello stipendio e la sospensione dall’esercizio della professione fino al 31 dicembre. Poi ieri abbiamo scoperto dal nostro faro Claudio Tito (Repubblica) che non di gaffe si trattava, ma di “distacco dal Conte-2”: “Il cambio di rotta è tracciato”, “si apre la fase 2 del governo Draghi”, “per la prima volta prende forma la discontinuità più concreta”. In effetti anche noi notiamo una certa discontinuità: quando Conte diceva una cosa giusta tutti lo lapidavano e quando Draghi fa una gaffe tutti lo leccano. Per carità, una gaffe può capitare a chiunque, specie se non è abituato a un fuoco di fila di domande su tutto lo scibile umano (e fortuna che “colleghi” hanno perso la fissa del Mes). Ma una gaffe resta una gaffe. Invece ieri non ce n’era traccia in alcuna prima pagina di alcun quotidiano, tutte impegnatissime sbavare sul meraviglioso “urlo di Draghi” (contro se stesso) sui “furbi” o “furbetti” o “salta-fila”. Come se Draghi avesse la scienza infusa e, di conseguenza, gli psicologi che obbediscono al decreto Draghi fossero dei lestofanti.

Dell’altra frase improvvida, quella su “Erdogan dittatore”, con prevedibile incidente diplomatico incorporato, non parliamo perché il tizio fa ribrezzo pure a noi, ma non osiamo immaginare che avrebbero detto i laudatores del premier se l’avesse pronunciata Di Maio, noto “bibitaro”. Il guaio è che entrambe le uscite denotano una questione di fondo: il presidente del Consiglio, per quanto autorevolissimo e stimatissimo, tende a parlare come un passante, un opinionista, un ospite di talk show. Senza gli obblighi che impone la diplomazia né la responsabilità di chi i problemi non li deve denunciare: li deve risolvere. Le campagne contro i salta-fila le fanno i giornalisti: chi governa deve cambiare le regole sulle file. Anche perché, salvo casi singoli, i salta-fila non esistono: esistono persone di alcune categorie chiamate dalle Asl a vaccinarsi e si mettono in fila. L’eventuale colpa non è loro, ma di chi le chiama. E del governo che non risolve il problema. Anzi, lo aggrava. Chi ha ordinato alle Regioni, in diretta tv, di “vaccinare chi passa”? Un presidente di Regione? Il leader del Sindacato Salta-fila? No, il Comm. Str. Gen. C.A. F. P. Figliuolo. E le Regioni hanno subito obbedito. Fortuna che quella scemenza non l’ha detta Arcuri, sennò Draghi l’avrebbe già sostituito con un generale.

Il nuovo coupé dal sapore tradizionale

La tenacia nipponica nel perseguire idee e obiettivi, anche quando magari possono rivelarsi sbagliati o semplicemente tutto il resto del mondo va in altre direzioni, è senza dubbio ammirevole. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è la nuova Toyota GR86: una sportiva che si distingue nel piattume generale per il suo splendido anacronismo. Che si traduce nell’intento, semplice se vogliamo, di far divertire chi è al volante rimanendo comunque accessibile, sia come livello di prestazioni che di spese di gestione.

L’auto divide la piattaforma costruttiva con la gemella Subaru BRZ (che differisce nella porzione frontale e, probabilmente, non arriverà in Italia): è la stessa della precedente GT86 ma ulteriormente evoluta e più rigida del 50%, per un netto miglioramento sia della precisione di guida che dell’assetto. La massa complessiva è limitata a 1.270 kg, grazie anche all’utilizzo di alluminio per tetto e parafanghi.

I fondamentali sono gli stessi della precedente GT86, lanciata nel 2012 e venduta in oltre 200 mila esemplari nel mondo: motore anteriore quattro cilindri boxer aspirato, trazione posteriore con differenziale autobloccante (aiuta a migliorare la motricità in curva), baricentro basso e peso contenuto. E va riconosciuto a Toyota il merito di aver ascoltato i clienti, gli stessi che si lamentavano di un motore un po’ fiacco ai bassi e medi regimi: la nuova unità motrice della GR86, infatti, è cresciuta nella cilindrata fino a 2,4 litri. Ne consegue un aumento della potenza di 35 cavalli e ben 45 Newtonmetri di coppia motrice, per un totale ora di 235 Cv e 250 Nm.

Il cambio? Un tradizionale manuale a 6 marce, come gli appassionati chiedono. Ma, in opzione, c’è l’automatico con comandi al volante.

Brillanti, infine, le prestazioni: lo 0-100 km/h è coperto in 6,3 secondi, oltre un secondo in meno rispetto alla precedente GT86.

Lunga 4,26 metri (e alta appena 1,31), la nuova coupé della Toyota sarà commercializzata in Europa nel corso dell’anno, a prezzi ancora da definire.

Il problema resta sempre quello di “svecchiare” il parco-auto

Dunque, ricapitoliamo. Sulla scia del 2020, in cui si è perso il 28% delle immatricolazioni causa Covid, anche i primi tre mesi dell’anno sono stati abbastanza difficili per l’auto: se ne sono vendute quasi il 17% in meno rispetto al primo trimestre 2019. E questo nonostante sia stato ampiamente utilizzato, in Italia come in parecchi altri paesi europei, il puntello degli incentivi statali, senza i quali staremmo con ogni probabilità commmentando ben altri (e catastrofici) numeri.

I sussidi statali, tuttavia, hanno marciato a due velocità: quelli per le motorizzazioni tradizionali e gli ibridi non ricaricabili sempre sulla corsia di sorpasso, al punto da essere terminati un paio di mesi prima di quanto previsto, mentre quelli destinati a vetture 100% elettriche e plug-in hybrid sempre in quella di destra, procedendo più a rilento. Tanto che, con ogni probabilità, i fondi stanziati a fine anno avanzeranno. Un paio di considerazioni, a riguardo sono d’obbligo. Primo, la smania dei costruttori di vendere auto elettriche, sotto la pressione delle poco lungimiranti decisioni Ue riguardo ai limiti sulle emissioni salvo poi non creare le condizioni favorevoli (infrastrutture, reti, etc), non viene corrisposta da chi il mercato lo fa veramente: gli automobilisti. La seconda è che, non rimodulando gli incentivi a favore delle tipologie di auto (nuove) che alimentano veramente la domanda, non si risolve il problema più grande riguardo alla qualità dell’aria: lo svecchiamento di un parco circolante che in Italia ha un’età media di oltre 11 anni.

Il mercato segna -17%. E gli italiani scelgono l’ibrido e non il diesel

L’esaurimento degli ecoincentivi riservati alle auto con emissioni di CO2 comprese fra 61 e 135 grammi al chilometro – il fondo da 250 milioni, pensato per durare fino a giugno si è prosciugato in tre mesi – coincide quasi coi dati trimestrali del mercato italiano dell’automobile. Dati non proprio brillantissimi a dire il vero: le immatricolazioni sono state 447 mila, in calo del 16,9% rispetto al gennaio-marzo 2019 (fare il confronto col primo trimestre 2020, col lockdown, non ha molto senso).

Tuttavia, se gli ecoincentivi a favore delle auto a basso impatto ambientale – quelle con emissioni fino a 135 grammi – sono stati assorbiti a tempo record, i bonus per le auto elettriche e ibride plug-in ristagnano: dei 120 milioni a disposizione, ne è stato utilizzato appena un terzo. Segno che il mercato, nonostante roboanti compagne mediate pro elettrico, è ancora molto tiepido di fronte a questa tecnologia.

Lo conferma anche Michele Crisci, residente di Unrae, l’associazione dei costruttori: “Gli incentivi dati alle fasce di emissione 0-60 gr/km di CO2 (elettriche e plug-in, ndr) non si sono rivelati efficaci per favorire la rottamazione: solo un’auto ogni 7 incentivate è in quella fascia”. Quasi superfluo sottolineare che, a incentivi terminati, la domanda si arena e quella per l’auto elettrica, al momento, è sostenuta prevalentemente dai soldi pubblici. L’analisi del mercato conferma, invece, la forte crescita delle auto ibride non ricaricabili: sono la seconda motorizzazione preferita dagli italiani e, con il 27% di quota di mercato, sorpassano il diesel, in progressivo calo al 24,4% di rappresentatività. Nel cumulato gennaio-marzo le ibride, peraltro, presentano una quota del 26,8% e il diesel del 25,4%. Stabile al primo posto il motore a benzina al 31% a marzo e al 33,1% in gennaio-marzo. Il metano sale al 2,6% di quota (2,3% nel cumulato del primo trimestre), il Gpl si posiziona al 6,1% (5,8% in gennaio-marzo). A marzo le registrazioni di ibride plug-in sono salite al 4,5% di quota e quelle delle elettriche a batteria al 4,3% (rispettivamente al 3,6% e al 3% di rappresentatività nel cumulato gennaio-marzo). “Il rifinanziamento degli incentivi per consentire la rottamazione nella fascia 61-135 g/km CO2 fino a fine giugno è una necessità non ignorabile da parte del Governo”, sostiene Crisci: “Gli incentivi hanno permesso di velocizzare il ritmo di sostituzione delle vetture con oltre 10 anni di vita, facendo risparmiare all’ambiente decine di migliaia di tonnellate di CO2, e nel contempo velocizzando la transizione verso le nuove motorizzazioni a bassissimo impatto che per la prima volta in Italia a febbraio, nel caso delle ibride, hanno superato le vendite di diesel”.

Da Sorrentino a Moretti: il cinema è fermo al 2001

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, predicava il Tancredi del Gattopardo. Avendo assimilato il romanzo di Tomasi di Lampedusa, mirabilmente trasposto da Luchino Visconti nel 1963, il cinema italiano ha visto bene di semplificarlo, di stralciare il trasformismo in favore della tautologia: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto rimanga come è”. Che ci sia riuscito nel ventennio 2001-2021, circoscritto da due eventi capitali quali l’11 settembre e il Covid nemmeno lontanamente preconizzati dalla Settima Arte, ha addirittura del miracoloso: attentati inauditi, pandemie inedite, nondimeno, l’eccezionalità non ha scosso il nostro comparto. “Siccome immobile” ma senza grandeur. Se causa lockdown e altre restrizioni oggi vivere significa per lo più esistere, l’audiovisivo nazionale se la cava egregiamente: ha fatto del giorno della marmotta il proprio onomastico, abrogando rivoluzioni, evoluzioni, soluzioni di continuità per salvaguardare lo status quo. Che sia il precipitato del Paese intero o avanguardia involuzionaria, non è dato sapere, ma lo impariamo da bambini: “Specchio riflesso, chi lo dice sa di esserlo!”.

Nel 2001 Nanni Moretti porta a Cannes La stanza del figlio, regalandosi la prima Palma d’Oro e regalandoci l’ultima a un film italiano. Che la settantaquattresima edizione del festival francese si tenga dal 6 al 17 luglio prossimi, oppure in ottobre-novembre come vorrebbero rumors insistenti, certo è che Moretti non marcherà visita: il suo primo adattamento, del romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, Tre piani verrà presentato in Concorso. Come ha rivelato la co-sceneggiatrice Valia Santella, le analogie con La stanza ci sono: “L’universalità del dolore, guardare le persone in un momento in cui la loro vita sta diventando traumaticamente altro”. Altro destino festivaliero per Paolo Sorrentino, che nel 2001 portava alla Mostra di Venezia il suo lungometraggio d’esordio: L’uomo in più, con Andrea Renzi e quel che sarebbe divenuto il suo attore feticcio, Toni Servillo. Due decenni più tardi, stante la querelle tra la piattaforma streaming e Cannes (che di Sorrentino peraltro non prese Loro nel 2018), dovrebbe tornare al Lido con il suo nono lungometraggio, È stata la mano di Dio, prodotto da Lorenzo Mieli (The Apartment) con Netflix. “Un film intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e doloroso”, con un identikit rassomigliante all’opera prima: riprese a Napoli, ambientazione negli anni Ottanta, ancora Servillo nel cast. Malgrado il titolo sibillino, Diego Armando Maradona vi sarebbe appena contemplato, inquadrato in auto. Mutatis mutandis, dall’estinta sezione Cinema del Presente al Concorso della settantottesima edizione (1 – 11 settembre), il déjà-vu lagunare di Sorrentino annovererà anche il padrone di casa Alberto Barbera, già al timone della Mostra nel 2001. Il critico biellese è stato direttore per tre edizioni dal 1999, ora lo è dal 2012 e per i prossimi tre anni: potrebbe prendere in prestito le parole di un altro film di Paolo, Il Divo, laddove Andreotti chiosava “È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo, sono morti loro”. Oltre le simmetrie e le ascendenze, per Ferzan Özpetek il giorno della marmotta è perfetto: vent’anni dopo gira ancora Le fate ignoranti, cambia solo il formato, stavolta seriale. Otto episodi da 50 minuti, un romantic drama targato Star (Disney +) che si rifà immediatamente al film con Margherita Buy e Stefano Accorsi, uno dei maggiori successi del regista turco-italiano: “Sono sicuro che sarà un’occasione di rinnovamento per me e per il mio lavoro”, e chissà se il rinnovamento sarà anche nell’occhio di chi guarda. Ai David di Donatello 2001, Le fate ignoranti valse una candidatura da protagonista alla Buy, miglior film fu decretato La stanza del figlio, miglior regista Gabriele Muccino con il suo titolo più felice, L’ultimo bacio (dieci nomination e cinque statuette). Vent’anni più tardi, anche in ottemperanza alle disposizioni anti-Covid, Gabriele non bacia più: Gli anni più belli ha disdetto le promesse del titolo, centrando solo tre candidature (la protagonista Micaela Ramazzotti, l’omonima canzone di Claudio Baglioni, il David Giovani) agli Oscar nostrani.

Lamentando con qualche ragione l’ostracismo dell’Accademia del Cinema Italiano, che non gli avrebbe mai perdonato i trionfi americani, Muccino ha sbroccato su Twitter: “Mi tiro fuori con amarezza, non certo invidia, per aver adorato il NOSTRO cinema più nobile e vederlo ridotto a una schermaglia tra film minori, ignorati e/o sopravvalutati”.

Un sasso nello stagno cinematografico patrio, l’antidoto (spurio) ai soliti noti, un cahier de doléance contro l’immobilismo, poco importa: ci salverà una rosicata dal ventennio della marmotta?

1

“Già prescritti 3 ex terroristi, ora basta: estradate gli altri 10 in Italia”

Quando di mezzo ci sono estradizioni di ex terroristi condannati in Italia e rifugiati in Francia grazie alla cosiddetta dottrina Mitterrand, per quanto i nostri ministri della Giustizia che si sono succeduti abbiano a cuore il problema, niente si è mosso e alcuni ex brigatisti l’hanno fatta franca definitivamente grazie alla prescrizione. Ora, però, la Francia si dice consapevole “delle ferite italiane”. Almeno così ha detto il ministro della Giustizia francese Éric Dupond-Moretti alla ministra della Giustizia Marta Cartabia durante un incontro in videoconferenza, fissato per molte altre tematiche ma che è iniziato, per decisione della ministra italiana, dal problema delle mancate estradizioni. La ministra ha parlato di “massima attenzione” e “pressante richiesta delle autorità italiane affinché gli autori degli attentati delle Br possano essere assicurati alla giustizia” e da quello che filtra dal ministero, Dupond-Moretti si è detto consapevole che c’è un problema di tempi, “i più rapidi possibili” perché le prescrizioni incombono. Ha anche puntualizzato, però, che la partita dipende molto dal presidente Macron. La ministra Cartabia, comunque, dice di aver notato “una sensibilità nuova” del ministro francese. Speriamo che non si tratti della solita facciata perché rassicurazioni sulla volontà di collaborare ne ha ricevute tante l’ex ministro Alfonso Bonafede, che si è speso in questi anni per ottenere le estradizioni di una decina di ex brigatisti, senza risultato.

Grazie alla prescrizione scattata ieri, ormai non c’è più niente da fare per l’estradizione di Luigi Bergamin, tra gli ideologi dei Pac, il gruppo armato di Cesare Battisti, condannato per due omicidi, la prescrizione è scattata ieri, invece a marzo 2020 quella per Ermenegildo Marinelli, ex Movimento comunista rivoluzionario; prescrizione pure per l’ex Br Gino Giunti. In questa lista, che Bonafede sottopose ai francesi, ci sono, tra gli altri,

Maurizio Di Marzio, ex br, per lui la prescrizione scatta il prossimo 10 maggio; l’ex Br Enzo Calvitti, prescrizione a settembre 2022; Giovanni Alimonti, leader delle Br-Pcc, prescrizione a maggio 2023; Giorgio Pietrostefani, LC, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, prescrizione il 22 gennaio 2027. Nessuna prescrizione per Sergio Tornaghi, ex della colonna Walter Alasia delle Br, dato che è stato condannato all’ergastolo così come per Marina Petrella e Narciso Manenti.

“Gelli poteva essere catturato Il capo dei Servizi bloccò tutto”

Una lista già in parte nota e indagini già in parte percorse: la Loggia P2 era tutto questo ancora prima di deflagrare mediaticamente nel maggio del 1981, quarant’anni fa, a due mesi dal blitz di Villa Wanda e della ditta Gio.Le, in provincia di Arezzo, luoghi culto ormai per studiosi e giornalisti che in questi giorni hanno ripercorso le tappe di quella scoperta. Ultima pubblicazione sul tema il libro edito da Sandra Bonsanti,Colpevoli(Chiarelettere 2021) scritto con Stefania Limiti. Ma tracce della loggia segreta erano già emerse durante le indagini che l’ex procuratore di Firenze, Pier Luigi Vigna, svolgeva per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio avvenuto il 10 luglio 1976. Nel libro scritto nel 2011 insieme a Giorgio Sturlese, In difesa della giustizia(Bur) Vigna rivela che fu lo stesso Licio Gelli a consegnargli dei nomi (una lista di 400 iscritti dal 1974) dei quali il magistrato non aveva riferito ad alcuno convinto, disse, che fossero già note al ministero dell’Interno (Rognoni). Sarà stato per questo forse che per l’ex venerabile quei nomi dati in pasto alla stampa dopo il blitz non furono fonte di grande preoccupazione. A riferirlo alla Commissione d’inchiesta sulla P2 il 14 dicembre 1983 è stato l’ex 007 del Sid Massimo Pugliese, deceduto, che rivelerà a Tina Anselmi: “Gelli volle far trovare gli elenchi… La visita della tributaria (GdF ndr) era annunciata”. Lo si legge nella preziosa raccolta di appunti pubblicati da Anna Vinci per Chiarelettere sempre nel 2011,La P2 nei Diari segreti di Tina Anselmi. Ancora Pugliese: “Gli elenchi sono in Svizzera al sicuro”.

Oggi però possiamo contare su una viva testimonianza delle omissioni compiute in favore di Gelli da organi dello Stato quando era latitante (1982-1987): l’ex capo sezione del Sisde Stefano Scorza, ora amministratore di società in Brasile, al Fatto Quotidiano racconta la sua storia solo in parte riferita nel 1993 alla stampa. “Nel 1984 Gelli – conferma Scorza –, poteva essere individuato grazie a una mia fonte, riferii l’informazione all’allora direttore del Servizio Vincenzo Parisi. Risultato: la fonte viene fatta arrestare dalla polizia per un mandato di cattura che pendeva sul suo nome, facendo sfumare così la possibilità di arrivare dritti al nascondiglio di Gelli. Parisi mi trattò male e mi disse di occuparmi solo del mio settore”. Il giudice Franco Ionta aprì una inchiesta sulla vicenda che per Parisi, il cui nome compare anche nel processo sulla Trattativa, finirà in archiviazione. Ma c’è di più: Scorza ci mostra un verbale di sequestro avvenuto nella sua abitazione nel 1993 nel cui elenco raffigurano le missive da lui preparate e mai spedite indirizzate a personalità politiche e istituzionali (incluso Craxi) per denunciare quanto accaduto. “In un primo momento non spedii quelle lettere, ma a farmi desistere del tutto è stato proprio Ionta durante un interrogatorio nel quale per la prima volta parlai della vicenda Gelli (1987). Mi chiese: ‘Ma lei queste lettere le vuole mandare?’ Ravvisai una minaccia da questa domanda e non le spedii più, me le sequestrarono definitivamente nel 1993 durante una indagine nei miei confronti priva di elementi e caduta subito dopo la morte di Parisi nel 1994. Fui costretto ad allontanarmi dall’Italia, diciamo su ‘consiglio’”.

Sempre perché in Italia non esistono misteri ma segreti sparsi a spuntare è una lettera indirizzata al “Carissimo Fr. (fratello ndr) Vincenzo Parisi”, datata 13 maggio 1980, con intestazione del G.O.I., nella quale l’avvocato Augusto De Megni ringrazia Parisi per l’invio di una sentenza che a Brescia aveva visto assolto il massone Adelino Ruggeri. Mentre il nome di Parisi è anche indicato in una lista a parte, senza numero di tessera, inserita tra i documenti sequestrati al colonnello del Sid Viezzer. Nel 1988 l’ex capo della Polizia alla Commissione stragi aveva dichiarato: “Gelli è oggetto costante di attenzione ma non sono stati raccolti elementi di rilevanza penale; sta cercando spazi politici ma come possibilità di trovare interlocutori per i suoi affari”. Insomma Parisi sminuì molto il ruolo di Gelli nonostante quell’appunto riservatissimo da lui redatto e dove è racchiusa la minaccia di Gelli allo Stato: “Se la vicenda viene esasperata – aveva fatto dire al suo avvocato Fabio Dean – tirerò fuori gli artigli”.

Stop alle armi, provaci ancora Joe

Joe Biden annuncia una raffica di restrizioni sulle vendite delle armi e definisce la violenza da armi da fuoco negli Usa “un’epidemia” e “una fonte incredibile di imbarazzo per l’Unione nel mondo.” Biden lancia un appello per vietare la vendita ai privati di fucili di assalto di tipo militare, che sono responsabili delle stragi più gravi: 40 mila le vittime. Ma le misure prese sono marginali, mentre due leggi per rafforzare i controlli sulla vendita delle armi restano in stallo al Congresso: al Senato non c’è la maggioranza per approvarle. Mentre le cronache battono i dettagli dell’ultima strage a Rock Hill, South Carolina, mercoledì sera – cinque vittime, fra cui due bambini e i loro nonni, uccisi forse da un vicino di casa -, il presidente dice: “Basta preghiere, è l’ora di agire per fermare una volta per tutte la violenza delle armi”. Altre sparatorie letali c’erano state a marzo ad Atlanta in Georgia e a Boulder in Colorado. I decreti non prevedono strette sui fucili d’assalto di tipo militare, ma sulle ghost gun, pistole ‘fai-da-te’ assemblando le componenti di un kit, e sulle bretelle per fissare i fucili d’assalto con canna corta sul braccio e così stabilizzarli; d’ora in poi queste ‘pistole’saranno, dunque, soggette a controlli più severi. Il pacchetto destina maggiori fondi alle agenzie che si occupano della lotta alla violenza delle armi e ordina un rapporto sul traffico di armi negli Usa dopo il 2000. Biden mette, infine, a capo dell’agenzia federale competente sulle armi (il Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives) David Chipman, attivista del movimento anti – armi facili. Ma le misure del presidente non mettono in discussione il 2° emendamento alla Costituzione, quello che garantisce il diritto di possedere e portare armi. “Nessuno vuole promuovere qualcosa che violi il 2° emendamento della nostra Costituzione… Ma nessun emendamento è eterno”, dice Biden, quasi sfidando la Nra, la potente lobby pro-armi: “Chi parla di violazione del 2° emendamento agita argomenti ipocriti. Possiamo salvare vite umane e risparmiare centinaia di miliardi di dollari se riduciamo questa violenza”. La Nra aveva già bollato le mosse di Biden come “estreme” e s’era detta “pronta a combatterle”: “Potrebbero richiedere a cittadini rispettosi della legge di consegnare le armi di loro proprietà e potrebbero spingere gli Stati a estendere i provvedimenti di confisca delle armi” All’annuncio dei decreti erano presenti sopravvissuti e familiari di vittime delle tante stragi da armi da fuoco nell’Unione. C’era, fra gli altri, Gabby Gifford, l’ex deputata democratica ferita alla testa nel 2011, durante una sparatoria a Tucson in cui rimasero uccise sei persone.