La cronistoria della nuova ondata di violenza in Irlanda del Nord è altamente simbolica, perché si intreccia con ricorrenze e luoghi storici della guerra civile fra unionisti e repubblicani che ha sconvolto l’Ulster per decenni, dal 1968 agli accordi di pace del 1998. È il venerdi di Pasqua, anniversario di quegli accordi, quando circa 300 unionisti, fra cui molti giovanissimi, attaccano la polizia con pietre, petardi e bombe incendiarie a Sandy Row, Belfast. Bilancio: 15 agenti feriti e 7 arresti. Le violenze unioniste continuano per tutta la settimana, estendendosi ad altre città. La notte di mercoledì, che la polizia ha definito “la più violenta da decenni”, gli unionisti requisiscono e danno alle fiamme un autobus di linea a Belfast. Nei quartieri ovest di Belfast, sulla linea di confine fra aree unioniste e la roccaforte repubblicana che corre fra Shankill Road e Springfield Road, le due comunità tornano a scontrarsi. Restano feriti anche 7 agenti, portando il totale a oltre 50, e un fotografo del Belfast Telegraph.
Interviene il premier britannico Boris Johnson, che si dice molto preoccupato per l’evolversi della situazione, e ieri l’esecutivo nord-irlandese, frutto di un fragile equilibrio di potere fra gli unionisti filo britannici del Dup di Arlene Foster e i repubblicani filo irlandesi del Sinn Fein di Michelle O’Neil, trovano l’accordo per un comunicato congiunto in cui condannano gli scontri e chiedono il ritorno alla calma. Ma questa nuova ondata di scontri non è che la reazione alle scelte dei due partiti principali, in dimensione nazionale e locale. Il primo elemento scatenante è la Brexit, che ha posto il problema di creare un confine fisico fra l’Irlanda del Nord, che in base al protocollo fra Londra e Bruxelles resta, per almeno 4 anni, nell’area di scambio europea, e la Gran Bretagna che è uscita da mercato comune e unione doganale. Per evitare di creare posti di blocco fra le due Irlande, Boris Johnson ha spostato i controlli nel Mare d’Irlanda, separando di fatto l’Ulster dalla madrepatria. Per i gruppi paramilitari unionisti questa soluzione è una vittoria del Sinn Fein, pro europeo: fin dalla firma dell’accordo su Brexit si sono detti pronti a tornare alle armi, tanto da aver annunciato l’uscita dagli accordi di pace. Poi ci sono le tensioni settarie, mai davvero sopite. Lo scorso giugno n piene restrizioni anti-Covid, 24 leader del Sinn Fein hanno partecipato ai funerali di Bobby Storey, ex capo dell’intelligence dell’Ira, la falange armata dell’indipendentismo nord-irlandese. Il 30 marzo l’indagine della polizia ha concluso di non poterli perseguire per mancanza di prove certe di violazioni, e questo ha scatenato la reazione unionista.
Arlene Foster ha chiesto le dimissioni del capo della polizia Simon Byrne: messaggio recepito dalla base unionista come sigillo della loro lettura: ‘la polizia è a favore dei repubblicani e contro di noi’. Benzina sul fuoco in un contesto in cui, va ricordato, la contiguità fra i paramilitari, di una parte e dell’altra, e i rispettivi referenti politici non si è mai completamente interrotta. E in cui il Dup, che ha fatto campagna per una Brexit dura, ora paga in consenso le conseguenze del duro contraccolpo dell’uscita dall’Ue sull’economia dell’Ulster. La causa unionista è uscita bastonata dall’esito di Brexit, tanto che si avvicina la prospettiva di un referendum per l’unificazione delle due Irlande, bandiera del Sinn Fein. Questa recrudescenza di violenza unionista, chiariscono al Fatto analisti nord-irlandesi, serve anche a ‘flettere i muscoli’ dei capi paramilitari, in cambio di concessioni che ne mantengano il potere locale. Con lo scopo di mandare un messaggio a Downing Street.