Gli unionisti bruciano i bus. È un messaggio per BoJo

La cronistoria della nuova ondata di violenza in Irlanda del Nord è altamente simbolica, perché si intreccia con ricorrenze e luoghi storici della guerra civile fra unionisti e repubblicani che ha sconvolto l’Ulster per decenni, dal 1968 agli accordi di pace del 1998. È il venerdi di Pasqua, anniversario di quegli accordi, quando circa 300 unionisti, fra cui molti giovanissimi, attaccano la polizia con pietre, petardi e bombe incendiarie a Sandy Row, Belfast. Bilancio: 15 agenti feriti e 7 arresti. Le violenze unioniste continuano per tutta la settimana, estendendosi ad altre città. La notte di mercoledì, che la polizia ha definito “la più violenta da decenni”, gli unionisti requisiscono e danno alle fiamme un autobus di linea a Belfast. Nei quartieri ovest di Belfast, sulla linea di confine fra aree unioniste e la roccaforte repubblicana che corre fra Shankill Road e Springfield Road, le due comunità tornano a scontrarsi. Restano feriti anche 7 agenti, portando il totale a oltre 50, e un fotografo del Belfast Telegraph.

Interviene il premier britannico Boris Johnson, che si dice molto preoccupato per l’evolversi della situazione, e ieri l’esecutivo nord-irlandese, frutto di un fragile equilibrio di potere fra gli unionisti filo britannici del Dup di Arlene Foster e i repubblicani filo irlandesi del Sinn Fein di Michelle O’Neil, trovano l’accordo per un comunicato congiunto in cui condannano gli scontri e chiedono il ritorno alla calma. Ma questa nuova ondata di scontri non è che la reazione alle scelte dei due partiti principali, in dimensione nazionale e locale. Il primo elemento scatenante è la Brexit, che ha posto il problema di creare un confine fisico fra l’Irlanda del Nord, che in base al protocollo fra Londra e Bruxelles resta, per almeno 4 anni, nell’area di scambio europea, e la Gran Bretagna che è uscita da mercato comune e unione doganale. Per evitare di creare posti di blocco fra le due Irlande, Boris Johnson ha spostato i controlli nel Mare d’Irlanda, separando di fatto l’Ulster dalla madrepatria. Per i gruppi paramilitari unionisti questa soluzione è una vittoria del Sinn Fein, pro europeo: fin dalla firma dell’accordo su Brexit si sono detti pronti a tornare alle armi, tanto da aver annunciato l’uscita dagli accordi di pace. Poi ci sono le tensioni settarie, mai davvero sopite. Lo scorso giugno n piene restrizioni anti-Covid, 24 leader del Sinn Fein hanno partecipato ai funerali di Bobby Storey, ex capo dell’intelligence dell’Ira, la falange armata dell’indipendentismo nord-irlandese. Il 30 marzo l’indagine della polizia ha concluso di non poterli perseguire per mancanza di prove certe di violazioni, e questo ha scatenato la reazione unionista.

Arlene Foster ha chiesto le dimissioni del capo della polizia Simon Byrne: messaggio recepito dalla base unionista come sigillo della loro lettura: ‘la polizia è a favore dei repubblicani e contro di noi’. Benzina sul fuoco in un contesto in cui, va ricordato, la contiguità fra i paramilitari, di una parte e dell’altra, e i rispettivi referenti politici non si è mai completamente interrotta. E in cui il Dup, che ha fatto campagna per una Brexit dura, ora paga in consenso le conseguenze del duro contraccolpo dell’uscita dall’Ue sull’economia dell’Ulster. La causa unionista è uscita bastonata dall’esito di Brexit, tanto che si avvicina la prospettiva di un referendum per l’unificazione delle due Irlande, bandiera del Sinn Fein. Questa recrudescenza di violenza unionista, chiariscono al Fatto analisti nord-irlandesi, serve anche a ‘flettere i muscoli’ dei capi paramilitari, in cambio di concessioni che ne mantengano il potere locale. Con lo scopo di mandare un messaggio a Downing Street.

Rafale Papers: i caccia all’India e lo scandalo che imbarazza l’Eliseo

Un contratto da 7,8 miliardi; fu siglato il 23 settembre 2016 fra Parigi e New Delhi per l’acquisto da parte dello Stato indiano di 36 aerei caccia Rafale fabbricati dal gruppo francese Dassault Aviation. Quella firma, ottenuta dopo lunghe trattative iniziate ben quindici anni prima, nel 2001, era stata un successo diplomatico per il presidente francese dell’epoca, François Hollande, e per il suo ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, l’attuale capo dell’Eliseo. Fu “uno dei più grossi contratti per la vendita di armi mai concluso dallo Stato francese”, scrive il giornale online Mediapart, che rivela in una lunga inchiesta dietro le quinte di quella compravendita redditizia, i “Rafale Papers”. Già nel 2018, prime rivelazioni di stampa avevano messo in evidenza possibili fatti di corruzione e favoritismo, tanto da parte dello Stato francese che di quello indiano, ma il caso venne rapidamente insabbiato. “Ufficialmente era tutto pulito. Il caso dei Rafale indiani era solo un miraggio. In realtà esiste – scrive il giornale –, ma minacciava di infangare il potere ai più alti livelli”. In India, il primo ministro ultranazionalista, Narendra Modi. In Francia, potenzialmente due presidenti, Macron e il suo predecessore Hollande, oltre che l’allora ministro della Difesa, oggi responsabile degli Affari esteri, Jean-Yves Le Drian.

E poi Éric Trappier, potente patron del gruppo Dassault, unico fornitore di aerei da guerra dell’aeronautica militare, “una delle società più influenti in Francia”. Diverse fonti anonime hanno confermato a Mediapart: “Dassault si crede intoccabile”. Stando al giornale, dunque, l’Afa, Agenzia francese anticorruzione, si era messa a indagare Dassault nel 2018 dopo le segnalazioni della Ong Sherpa e aveva scoperto spese sospette, cioè che l’industriale, dopo la firma del contratto, aveva versato un milione di euro a un intermediario indiano, Sushen Gupta, “l’agente di Dassault in India”, personaggio discutibile, già implicato in uno scandalo di corruzione per la vendita all’India di elicotteri del gruppo italo-britannico Agusta-Weestland. A sollevare il sospetto degli inquirenti era stata una spesa eccentrica che figurava nei conti del 2017 di Dassault di ben 508.925 euro per “regali ai clienti”. Gliene era stata chiesta spiegazione. Il gruppo avrebbe fornito per giustificarsi un preventivo di spesa per un totale di 1.017.850 euro per l’acquisto di modelli di Rafale prodotti da Defsys Solutions, una società di cui Gupta è proprietario, ma che fabbrica simulatori di volo, non modelli. Quel denaro, versato sei mesi dopo la firma del contratto tra Parigi e New Delhi, non sarebbe piuttosto una mazzetta per favori che Gupta avrebbe fornito a Dassault nella trattativa per i Rafale? Al termine della sua inchiesta, l’Afa, che dipende dai ministeri del Bilancio e della Giustizia e il cui presidente è nominato dal presidente della Repubblica, ma che si vuole un ente indipendente, non portò il caso davanti ai giudici. “Una decisione incomprensibile”, commenta Mediapart. La Procura nazionale finanziaria chiuse il caso. “Bisogna preservare gli interessi della Francia”, spiegò la magistrata Éliane Houlette che all’epoca era alla testa del tribunale finanziario. La decisione di archiviare il caso, secondo Mediapart, andrebbe collegata al principale partner indiano di Dassault per l’assemblaggio dei Rafale in India, Reliance, una società privata, “in cattive condizioni finanziarie”, gestista da Anil Ambani, un collaboratore del primo ministro indiano Narendra Modi.

L’entrata di Reliance nell’affare dei Rafael, nell’aprile 2015, un anno prima della firma del contratto e senza appalto, al posto del gruppo aerospaziale pubblico indiano Hal, avvenne “in condizioni sospette”. Nel 2018 era anche scoppiato uno scandalo in India, dove la stampa, documenti confidenziali alla mano, aveva denunciato delle “trattative parallele” del primo ministro Modi e di Reliance con il governo francese, ai danni della società pubblica Hal, che avevano poi fatto esplodere il prezzo unitario dei Rafale. Francia e India risposero che Dassault aveva scelto in piena autonomia il suo partner indiano. Ma poi si seppe che Reliance nel 2016 aveva finanziato per 1,6 milioni di euro un film in coproduzione con Julie Gayet, attrice e compagna di François Hollande. Nell’aprile 2019 Le Monde rivelò inoltre che la filiale francese di Reliance, Reliance Flag Atlantic France (Rfaf), aveva ottenuto dopo l’annuncio della compravendita dei Rafale un non indifferente favore: l’azienda, che doveva al fisco 151 milioni di euro, ottenne da parte del ministero dell’Economia uno sgravio di 143 milioni, per cui versò alla fine solo 7,6 milioni. Pare che, raccontò Le Monde, Anil Ambani si vantò di aver risolto “il problema fiscale” durante una riunione al ministero di Bercy, a Parigi, con il suo responsabile, Emmanuel Macron. Un incontro che, per l’Eliseo, non figura nell’agenda ufficiale.

“Appalti rapidi, ma resta il codice”

“Reingegnerizzare il processo”: è il nuovo modo per dire “sblocca cantieri” introdotto ieri dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, a Radio 24.

Se mercoledì ha rassicurato sul fatto che il Ponte sullo Stretto, nonostante necessiti che se ne discuta, non possa rientrare nel Pnrr, ieri ha rinfrancato sul fatto che invece per tutto il resto bisognerà accelerare. Lo aveva prennunciato e lo ha confermato: “Stiamo lavorando con una commissione insieme con il ministro Brunetta (ministro della Pa, ndr) con la partecipazione della Corte dei Conti, il Consiglio di Stato e l’Anac per identificare soluzioni che consentano più che semplificare di reingegnerizzare il processo per arrivare alla realizzazione delle opere”. Consesso che si tradurrà quanto prima in indicazioni contenute in un decreto che dovrebbe essere presentato entro fine aprile, in parallelo con la scadenza per il Pnrr. “Secondo uno studio di Banca Italia per opere al di sopra dei 5 milioni di euro ci vogliono dieci anni o più – ha detto il ministro – e molte delle opere del Recovery sono superiori a queste cifre. Noi però dobbiamo farle in cinque anni”. Qualche settimana fa lo aveva ribadito a Porta a Porta: “In alcuni casi si vedranno i cantieri, ma in alcuni casi si metteranno all’opera gli ingegneri perché mancano i progetti, ci sono opere che si sono incagliate per progettazione talvolta per esecuzione”. Si reingegnerizza, insomma, lasciando vivo il codice degli appalti perché ”sospenderlo o eliminarlo potrebbe eliminare tutti i punti di riferimento e l’effetto potrebbe essere quello di bloccare tutto invece di accelerare”. Tra le modifiche circolate finora, il ricorso ad appalti integrati sulla base dei progetti di fattibilità (quindi unica impresa sia per progettazione che realizzazione), “inversione procedimentali” che consentirebbero alle stazioni appaltanti di esaminare le offerte prima della verifica di idoneità degli offerenti e la conferma di alcune norme dello Sblocca cantieri e del semplificazioni come l’affidamento diretto fino a 150mila euro e procedura negoziata per importi superiori.

“Transizione non ecologica: Cingolani sulla solita strada”

“Ci auguriamo che il nuovo ministero per la Transizione ecologica, che finora non ha dato l’impressione di aver scelto una rottura con il paradigma tecnocratico dominante, né con l’apparente neutralità degli interessi economici e produttivi in campo – basti guardare alle acrobazie ‘verdi’ su industria militare, gas e petrolio – voglia cercare quella strada di riconciliazione della nostra comunità umana con la biosfera e il vivente, senza la quale non c’è ‘casa comune’ ma solo, come papa Francesco ha scritto nella Laudato si’, un deposito di risorse da sfruttare”. Per Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano e cofondatore dell’associazione Laudato si’, l’unica strada è rimettere al centro dell’azione politica la connessione tra degrado ambientale e privazione dei diritti fondamentali, così come tra etica e riforme: perché la transizione ecologica non potrà mai essere un mero fatto “tecnico”.

In un articolo su Avvenire, come associazione Laudato si’ avete indirizzato al ministro Cingolani alcuni rilievi critici, tra cui l’investimento anche sull’idrogeno blu e il perseguimento della fusione nucleare.

Per limitare la crescita della temperatura occorre, da qui al 2030, ridurre della metà le emissioni annue di CO2. Nell’audizione del ministro di marzo non c’è traccia di questa urgenza. La presunzione di arrivare alla “fusione nucleare” entro dieci anni e di mantenere rilevanti quote di metano nel mix energetico nazionale fino al 2050 non solo è in contraddizione con le richieste Ue, ma oscura la necessità di passare dagli attuali 30 GW (solare più eolico) a 70 GW rinnovabili da installare entro il 2030. La cessazione di sussidi ai fossili va di pari passo con lo stoccaggio di idrogeno “verde”, l’unico compatibile con la cura del pianeta e la conservazione dell’acqua.

Sempre in quell’articolo, avete stigmatizzato il mancato riferimento agli allevamenti industriali, così come l’assenza del tema della biodiversità.

Diminuire o eliminare il consumo di carne non può essere solo una scelta individuale. Il governo deve togliere i sussidi alla zootecnia che non osserva rigorose misure di riduzione dell’impatto ambientale, a cominciare dal numero di animali allevati, e disincentivare l’importazione di prodotti che causano deforestazione. La tutela della biodiversità implica però anche affrontare la tragedia di aver ridotto la fauna selvatica del pianeta allo 0,01% della biomassa: una cifra prossima all’estinzione. Non può esserci transizione ecologica senza riconciliazione col vivente: una strada che si può imboccare affidandosi alla Strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030.

Perché c’è questo “terrore” della politica nel parlare di decrescita?

Nessun automatismo lega più la crescita del Pil a un aumento dell’occupazione, dei salari, della salute, della sicurezza; è certo invece il suo rapporto con grandi opere inutili e devastanti, ricostruzioni malfatte su territori dissestati dall’intervento umano, cure mediche rese necessarie dall’avvelenamento del cibo, dell’acqua e dell’aria, oltre che da zoonosi, produzione e vendita di armi. Per questo è incomprensibile che nel Recovery Plan possa esserci la destinazione di una parte dei fondi al comparto militare, “promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica”. Un paradosso inaccettabile.

Per la vostra associazione clima e ambiente sono legati a lavoro dignitoso e uguaglianza di genere.

La connessione tra degrado ambientale e privazione dei più elementari diritti è ben visibile: basta guardare ai milioni di sfollati e migranti ambientali, a contesti industriali come l’Ilva o alle tante “terre dei fuochi”. Questa enorme somma di sofferenze non è stata raccolta dai partiti di ogni schieramento, che continuano trattare l’ecologia come un fastidioso ingombro o un rivestimento superficiale di cui fregiarsi. Nemmeno il sindacato ha saputo finora collocare dalla stessa parte lavoro e ambiente.

In effetti sembra che oggi sia soprattutto il mondo cattolico quello capace di unire ambiente e diritti.

La Laudato Si’ è nata nel contesto di una crisi epocale riassunta dall’espressione “cultura dello scarto”, elaborata dal Papa. Il paradigma tecnocratico e la ricerca del profitto hanno prodotto “avanzi”: persone escluse dalla società, perché non servono. Il Sinodo sull’Amazzonia, poi, è un ulteriore e straordinario riferimento di quella sintesi tra giustizia ambientale e giustizia sociale che ha portato all’attenzione mondiale la distruzione dell’ecosistema e il potere delle multinazionali. Tutto questo sconvolge anche la Chiesa, tanto che il cambiamento dell’enciclica non è stato ancora assimilato da tutto il mondo cattolico.

Quali sono le azioni urgenti che il governo dovrebbe intraprendere?

Ne cito solo una: Italia e Ue riconoscano l’acqua un bene comune e l’ex area Expo diventi sede di un’Agenzia dell’acqua bene comune. Finora le direttive parlano di bene economico, pertanto da vendere e comprare, mettere in bottiglia e quotare in Borsa. Ma dieci anni senza traduzione in legge di un risultato referendario non ha precedenti in nessun Paese democratico. La società civile è molto avanti, sia nelle elaborazioni teoriche sia nelle pratiche sui territori, ma non ha sponde istituzionali. E invece è proprio sui territori, non chiusi in se stessi, che si oggi creano comunità capaci di vera ecologia integrale.

I fondi arruolano Perez per fare la guerra a Cdp su Autostrade

La scelta del governo di “punire” – per così dire – per via finanziaria Atlantia per il disastro del ponte Morandi sta trasformando lo scontro con la holding che controlla Autostrade per l’Italia in una guerra senza esclusione di colpi coi fondi speculativi azionisti (i Benetton, infatti, controllano “solo” il 30% del capitale). Questi ultimi hanno ora arruolato niente di meno che uno degli uomini più ricchi di Spagna, Florentino Perez.

Ieri il cda di Atlantia era chiamato ad analizzare l’ultima offerta della cordata guidata da Cassa depositi e prestiti e dai fondi Macquarie e Blackstone per rilevare l’88% di Aspi in mano alla holding. Il cda ha rinviato la conclusione a una prossima riunione, ma a sparigliare le carte è arrivato Perez, patron del colosso delle costruzioni Acs, che ha spedito una lettera al consiglio spiegando di essere disponibile a valutare l’acquisto di Autostrade a un valore intorno ai 10 miliardi. La cifra è superiore ai 9,1 con cui Cdp e compagnia valutano Aspi al lordo dei contenziosi legali, che nell’ultima offerta sono stati ridotti di 800 milioni per indurre Atlantia a cedere. I Benetton, infatti, hanno deciso di vendere, stanchi della guerra col governo, spalleggiati dall’altro socio Fondazione Crt, ma si scontrano col no dei grandi hedge fund azionisti che vogliono più soldi. All’ultima assemblea, solo la famiglia veneta e l’alleato hanno votato contro l’ipotesi di vendere sul mercato Aspi: se il cda rinviasse all’assemblea la proposta di Cdp – come probabilmente accadrà a maggio – rischierebbero di venire sconfitti.

La mossa di Perez è un assist ai fondi. Il più agguerrito, l’inglese Tci (secondo azionista col 10%), ha infatti esultato e la lettera del presidente del Real Madrid è stata subito spedita ai giornali. Non è chiaro, però, cosa possa produrre, se non una pressione su Cdp ad alzare il prezzo. Non è infatti un’offerta, tantomeno vincolante, ma una specie di manifestazione di interesse basata non su una approfondita analisi dei conti (due diligence), che richiederebbe mesi, ma su “informazioni pubbliche”. Perez spiega poi di essere disposto a far entrare Cdp in cordata, ma è difficile che si possa ripartire da zero adesso. Lo scenario, peraltro, sarebbe paradossale: Acs è socia di Atlantia nel colosso autostradale spagnolo Abertis (di cui la holding ha il controllo) a cui unirebbe Aspi in caso di acquisto. A quel punto i Benetton resterebbero di fatto ancora azionisti di Autostrade. Un capolavoro.

Tasse ai colossi, la svolta Usa rischia di far felice solo Biden

Con una mossa annunciata, gli Usa hanno proposto alla comunità internazionale un nuovo modello di tassazione delle multinazionali basato su un’aliquota fiscale societaria minima del 21% a livello mondiale. L’Amministrazione Biden intende poi appoggiare uno schema nel quale le maggiori imprese paghino le imposte a ciascun Paese in base ai loro profitti locali, indipendentemente dalla loro effettiva presenza in quel territorio, attraverso una web tax globale. L’apertura diplomatica è essenziale a Washington per finanziare i mastodontici piani di investimento pubblici decisi per rilanciare l’economia dopo la recessione innescata dalla pandemia.

La scorsa settimana la Casa Bianca ha pubblicato un piano per investire più di 2 mila miliardi di dollari sul rinnovo della rete infrastrutturale degli Usa e sulla transizione ecosostenibile. Il presidente Biden intende finanziare la proposta aumentando l’aliquota d’imposta sugli utili societari dal 21 al 28%, cancellando il taglio dal 35 al 21% varato nel 2017 dall’amministrazione Trump. La riforma aumenterebbe il gettito di circa 2.500 miliardi nei prossimi 15 anni. Ma il timore è che s’inneschi una gigantesca fuga di capitali, aumenti l’appeal dei paradisi fiscali e sorgano nuovi meccanismi di elusione. Così, mercoledì, Washington ha inviato un documento ai 137 Paesi che a Parigi, in ambito Ocse, da un decennio negoziano la riforma fiscale internazionale. La proposta di Biden, almeno sulla carta, ribalta le posizioni di Trump.

Negli anni scorsi Francia, Regno Unito, Italia e Spagna hanno introdotto web tax nazionali e hanno cercato di concordarle in sede Ue, in modo che le società pagassero le imposte dove si erano generati i profitti. Ma Washington minacciò sanzioni sull’export europeo. Già l’8 e 9 ottobre scorsi il panel fiscale di Ocse e G20 ha deciso di convergere su un progetto basato su due pilastri. Il primo riguarda la revisione delle regole sulla base imponibile per condividere le imposte tra i Paesi, in modo da garantire che i giganti dell’economia digitale siano tassati dove fanno affari anche senza la loro presenza fisica, come richiesto invece dalle norme attuali. Il secondo pilastro intende introdurre un’imposta societaria minima globale per sventare l’erosione della base imponibile e il trasferimento all’estero dei profitti delle multinazionali. Secondo un’analisi Ocse datata 12 ottobre, un’imposta minima globale aumenterebbe fino al 4% il gettito globale dalle società, pari a 100 miliardi di dollari. Altri 100 potrebbero essere ridistribuiti tra diversi Paesi attraverso una web tax mondiale. Invece lo scenario peggiore di una proliferazione unilaterale di tasse digitali potrebbe innescare una guerra commerciale e ridurre il Pil globale di oltre l’1%.

Il piano di Biden ha ottenuto il sostegno del premier Mario Draghi, che quest’anno presiede anche il G20, che si è detto “pienamente d’accordo con la richiesta di una tassa societaria minima globale”. Ma la mossa spacca il fronte europeo. L’Irlanda, che ha un’aliquota sulle società al 12,5% ed è tra i maggiori beneficiari dei trasferimenti di utili delle multinazionali Usa, ha rifiutato di commentarlo. D’altronde secondo un rapporto del 9 marzo dell’ong Tax Justice Network sono gli stessi Stati ricchi quelli che incentivano di più l’evasione fiscale delle aziende che costa al mondo gettito per 245 miliardi di dollari l’anno. I Paesi Ocse ne sono responsabili per il 68%, direttamente per il 39% e per il 29% tramite i loro possedimenti d’oltremare. I 10 maggiori paradisi fiscali per le società sono British Virgin Islands, isole Cayman, Bermuda e Jersey, che fanno parte del Regno Unito, Olanda, Svizzera, Lussemburgo in Europa, Hong Kong, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Proprio gli emirati stanno rapidamente scalando la classifica. Ma alcuni osservatori ritengono che se l’accordo si limiterà a unificare l’aliquota della tassazione sulle imprese non basterà a risolvere il problema.

Secondo Alessandro Santoro, docente di Scienza delle finanze all’università di Milano Bicocca, “quella di Biden è una mossa astuta, perché nel gioco diplomatico potrebbe essere un’alternativa e non un complemento a una vera web tax mondiale. Per realizzare una tassa societaria minima globale non basta solo unificare le aliquote: occorre lavorare anche sulla base imponibile e sui meccanismi di coordinamento. Chi verificherà gli utili delle multinazionali, chi riscuoterà le imposte, chi e come le redistribuirà? Quali tasse andranno inserite, anche quelle sul patrimonio e sul capital gain? Come si determinerà il perimetro dei gruppi? Quali principi contabili andranno applicati? Quale sarà l’aliquota effettiva? Il tavolo Ocse ha già affrontato le questioni tecniche, ma va verificata la reale volontà politica. Il rischio è che ci si limiti alla convergenza delle aliquote, magari con un bel comunicato contro il dumping fiscale tra Paesi da varare al prossimo G20 a Venezia di luglio”, conclude Santoro.

Quando si scopre un “Caravaggio”

Forse questa volta la gravidanza della ‘mamma dei Caravaggio’ (che è notoriamente sempre incinta) non è isterica.

È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (un telefono senza fili che deforma nomi, date, circostanze storiche fino a ridurli in marmellata), alla assai concreta corsa alla proprietà (tra fibrillazione del mercato e tentativo di imporsi – speriamo! – della tutela pubblica spagnola).

D’altra parte, le circostanze di fatto sono da manuale: in un quadro che sta per andare all’asta come anonimo secentesco a 1500 euro, viene riconosciuto un Caravaggio. Che potrebbe valere, se accettato da tutti, 150 milioni di euro. Iniziano a fioccare le offerte, l’asta viene sospesa, lo Stato spagnolo si mette di mezzo.

Per quanto sensazionale, non è un copione completamente nuovo: qualcosa di non troppo diverso avvenne per la Giuditta e Oloferne comparsa a Tolosa nel 2014, e avventatamente celebrata come autografo di Caravaggio anche da studiosi accreditati.

Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero.

A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa: unico documento che conta davvero e che, alla fine dei conti, è impossibile falsificare. La cautela che ancora è doveroso osservare si deve al fatto che del quadro (in condizioni di conservazione non perfette: altro dettaglio che invita alla prudenza) i mezzi di comunicazione non hanno ancora diffuso una foto professionale in altissima definizione, tale da poter navigare in ogni dettaglio dell’immagine. Tuttavia, il coro degli specialisti volati a Madrid per vedere la tela con i propri occhi pare unanimemente entusiasta: e la sicurezza di una studiosa seria come Maria Cristina Terzaghi è un ottimo viatico.

Una cosa, per cominciare, è chiara anche dalle fotografie disponibili: l’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca. E vederla è emozionante: come lo è scoprire un aspetto nuovo di qualcosa che conosciamo benissimo (l’immaginario di Caravaggio), una prospettiva inedita di un paesaggio che amiamo. I tre corpi, a mezza figura, si incastellano l’uno nell’altro: alla finestra del pretorio si affaccia Pilato, che con le mani indica alla folla Cristo, flagellato e coronato di spine, e dice: “Ecce homo!”. Dietro, un inquietante soldato-fantasma dalla bocca spalancata tende un grande manto rosso, e lo mette sulle spalle del Signore (o invece glielo toglie, scoprendolo agli sguardi?), fondendo in un’unica immagine quella appunto dell’Ecce homo (il Cristo presentato alla folla, che lo condannerà) e quella, subito antecedente nel racconto evangelico, del Cristo deriso, travestito da re dei Giudei.

La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio. E il pensiero corre alle Salomé della fine della vita del Merisi, quella di Madrid e quella di Londra: nonostante l’evidente rapporto tra il Pilato e il san Pietro Martire della precedente Pala del Rosario di Vienna, sembra di essere di fronte a un quadro del Caravaggio finale, sul 1608-09. Quello che, secondo la descrizione lancinante del suo committente messinese Niccolò Di Giacomo, aveva “il cervello stravolto”.

Ora, aver stabilito che siamo di fronte ad una composizione di Caravaggio è già un enorme passo avanti. Un passo che, per dire, la Giuditta e Oloferne di Tolosa non ha mai compiuto: perché lì invece tutto è fiacco, allentato, fittizio. Al punto da far credere che non solo non sia un autografo del Merisi, ma nemmeno la copia di un suo originale ignoto.

Invece, questo Ecce homo spagnolo sembra davvero uscire dal cervello stravolto del padre della pittura moderna. Ma – ecco la domanda che tiene tutti col fiato sospeso – è sua anche la stesura pittorica? Caravaggio mise le mani su quel quadro? È dunque l’autografo, l’originale? Una domanda importantissima, ma certo è il suo risvolto economico (se fosse la bella copia coeva di un ‘nuovo’ Caravaggio potrebbe valere, non so, 50.000 euro, se fosse un originale appunto 150 milioni…) ad accendere davvero i riflettori mediatici. La risposta verrà, e verrà solo dall’esame dell’opera: ma se anche dovesse alla fine essere negativa, un importante tassello della nostra conoscenza di Caravaggio sarebbe comunque tornato a posto.

Già, ma quale tassello? Qua si apre un’altra questione, non meno affascinante: questo quadro si può connettere a qualche documento scritto che attesti l’esistenza di un Ecce Homo di Caravaggio? Questo gioco di connessione tra figure e parole, tra opere e carte d’archivio è uno degli esercizi fondamentali della storia dell’arte, ma è spesso frainteso, perché ci si aspetta dai documenti una ‘certezza’ che si stenta a riconoscere all’esame dell’opera. Un abbaglio, perché la connessione tra opere e carte presenta spesso un grado di incertezza che invece il fondato giudizio sulla qualità di un’opera non conosce, essendo molto più oggettivo, e dimostrabile.

In ogni caso, il corpus documentario caravaggesco attesta più di un Ecce homo. Oggi i riflettori si sono accesi su quello rammentato dalla carta più autorevole: un documento autografo in cui Caravaggio si impegna, il 25 gennaio 1605, a dipingere per il signor (non cardinale, né ecclesiastico) Massimo Massimi un Ecce homo delle stesse dimensioni del Cristo incoronato di spine che aveva già realizzato per lo stesso committente. La sopravvivenza di una probabile copia di quest’ultimo, e un’altra serie di evidenze, portano però a supporre che quell’Ecce homo Massimi (che poi fu dipinto davvero, come attestano gli inventari della famiglia) fosse un quadro alto circa 180 cm: molto più grande di questo riapparso a Madrid (111 x 86 cm). E benché fonti antiche e autorevoli dicano che il quadro Massimi finì poi proprio in Spagna, non è il nostro: certo più tardo. Finora molti identificavano la tela Massimi con l’Ecce homo dei Musei di Strada Nuova a Genova, promosso a Caravaggio da Roberto Longhi: che però è anche lui troppo piccolo, e, soprattutto, non ha la forza di un autografo. E che ora potrebbe invece trovar posto come derivazione dall’invenzione testimoniata dalla tela di Madrid.

E allora? Allora quest’ultima potrebbe essere l’“ecçe homo con Pilato que lo muestra al pueblo, y un sayon que le viste de detras laveste porpurea quadro grande original del Caravagio“ che nel 1631 era inventariato tra i dipinti di un funzionario spagnolo a Napoli, Juan de Lezcano. Può darsi che qualcuno riesca a dimostrarlo, o può darsi di no. Di sicuro, però, tutto ciò che è decisivo per un giudizio sul quadro di Madrid è sotto i nostri occhi. Speriamo di poterlo presto studiare: al Prado.

 

Chi se ne frega delle sedie: il problema è il “dittatore”

In tutta Europa va in scena lo scandalo “del sofa” sulla disposizione delle sedie nel corso dell’incontro tra Recep Erdogan e i vertici Ue, Charles Michel e Ursula von der Leyen. Ci sono eurodeputati che hanno chiesto le dimissioni di Michel, il gruppo socialista che propone un dibattito, la Turchia che riversa l’inconveniente sul cerimoniale europeo. Il tutto condito da dichiarazioni sui diritti delle donne e sulla “cultura islamista” da cui proteggerci. Nelle ultime settimane la cronaca ha registrato queste notizie: – la Turchia è stata definita “il più grande carceriere di giornalisti del mondo” dall’ultimo rapporto della International Federation of Journalists che indica in almeno 67 i giornalisti detenuti.

– A poche ore dalla pubblicazione di una lettera di critica al mega progetto governativo del Canale di Istanbul, dieci ex ammiragli turchi sono stati arrestati per averla firmata.

– Leyla Guven, storica esponente della sinistra curda in Turchia, è stata condannata a 22 anni di prigione per terrorismo.

– Il procuratore capo della Corte Suprema d’appello ha chiesto la chiusura del partito di sinistra filo-curdo Hdp perché “colluso” con il gruppo terroristico Pkk.

– Il Parlamento turco ha revocato il seggio del deputato dell’Hdp Faruk Gergerlioglu, condannato lo scorso 19 febbraio a due anni e sei mesi di carcere perché accusato di aver “fatto propaganda” in favore del Pkk.

– Dopo la mobilitazione degli studenti dell’Università Bogazici di Istanbul, contro la nomina del rettore Melih Bulu si sono avute decine di arresti e oltre mille fermi a Istanbul e Ankara.

– La Turchia non aderisce più alla Convenzione sulle donne entrata in vigore nel maggio 2011 e firmata proprio a Istanbul.

Senza contare Siria, Libia, migranti e altre amenità ce ne sarebbe abbastanza per evitare proprio di sedersi accanto a Erdogan. Bene che Mario Draghi allora lo abbia definito “dittatore”, ma “di quelli che ci servono”. Il problema è tutto qui.

Speravo de vederlo prima: tottissimo

Più Rai Fiction con i suoi commissari si tiene alla larga dall’attualità, più Sky se ne avvicina, sfiorando addirittura la cronaca dell’altroieri. Deve essere nata così la sfida di Speravo de morì prima, il lungo addio alle armi di Francesco Totti culminato il 28 maggio 2017 all’Olimpico; il congedo del Capitano dal pallone e non solo, se nonostante tutto il calcio resta l’ultimo rifugio dell’epica. Cronaca e metafora si scambiano le parti e alla fine passano il turno tutte e due nella migliore serie italiana di stagione, da promuovere a pieni voti.

Lingua. In Speravo de morì prima si parla il romanesco, ma, a differenza di Gomorra, i sottotitoli risultano superflui. Non solo il romanesco è più comprensibile di suo del napoletano, ma oramai gli spettatori sono assuefatti, il romanesco è ormai di fatto la lingua ufficiale della nostra tv (voto 6).

Regia. A servire il soggetto di serie capitanato da Stefano Bises (voto 8) c’è una regia, e per una serie tv questa è già una notizia. Luca Ribuoli gira in modo non convenzionale, spacchettando gli inevitabili flashback in chiave multipla e onirica. Si sente la lezione di Sorrentino, ma senza i compiacimenti di Sorrentino (voto7).

Genere. Nessuna distopia, nessun inferno in terra, nessun day after come impongono le serie Usa che se la tirano; piuttosto, un ripescaggio della commedia all’italiana versione cacio e pepe, con spolverate di spaghetti western nello scontro Totti-Spalletti. Ce vo’ coraggio (voto 8).

Interpreti. La forza attuale del cinema italiano sta negli attori e questa serie lo sa. Pietro Castellitto, Greta Scarano, Gian Marco Tognazzi prendono la strada dell’iperrealismo, più veri del vero, ma si fermano a un passo dall’effetto Crozza, che pure è in agguato (voto 8).

Totti. Nell’ultima puntata si sostituisce a Castellitto e con un cucchiaio dei suoi interpreta se stesso. È lui o non è lui? Certo che è lui. Quando si nasce numero dieci, si resta numero dieci (voto 10).

Cosa nostra ha fatto il pieno

Settimanadi giubilo a Criminopoli: dal primo aprile gli indagati per mafia, per concorso alla mafia, per aver favorito la mafia, sono talmente tanti che per contarli c’è voluta una calcolatrice: 222. In gran parte (205) trafficavano con diesel e benzina, quindi petrolio, che, dice qualcuno nelle intercettazioni, rende più della droga. Bella scoperta. Ma come si dice: meglio tardi che mai. Totale dei nuovi indagati per mafia nel 2021: 850, in media 6,8 al giorno. Corruzione? 13 nuovi indagati e il totale sale a 238 (2,4 al giorno). Il premio per il “miglior peculato dell’anno” va al sindaco di Opera, Antonino Nucera: per l’accusa, appena scoppiata la pandemia, s’è imboscato – per darle a parenti e amici – centinaia di mascherine destinate agli anziani delle Rsa. Complimenti! Il premio è simbolico e sarà revocato se Nucera sarà archiviato o assolto. Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.172 giorni.