Miriam, Siria, Giorgio e tutti gli altri: come muoiono i bambini di Taranto

Lorenzo, Giorgio, Siria, Miriam erano bambini o poco di più. Vivevano tutti a Taranto o nei paesi della provincia. All’ombra delle ciminiere, sotto le polveri velenose. Sono stati uccisi da malattie che hanno nomi ed effetti terribili: neuroblastoma, sarcoma, linfoma linfoblastico. E se nell’ultima puntata della fiction Svegliati amore mio, la piccola Sara torna a nuotare lasciando presagire la sconfitta della malattia causata dell’inquinamento prodotto dalla “Ghisal”, a Taranto negli anni 2000 le cose sono andate diversamente.

Nel 2012 le perizie disposte dal gip Patrizia Todisco svelarono il quadro inquietante della situazione: nell’arco di 14 anni, dal 2002 al 2015, erano nati 600 bambini malformati e la mortalità infantile registrata per tutte le cause è maggiore del 21% rispetto alla media regionale. C’è un eccesso di incidenza di tutti i tumori nella fascia 0-14 anni pari al 54%, mentre nel primo anno di vita l’eccesso di mortalità per tutte le cause è del 20%. Per alcune malattie di origine perinatale, iniziate cioè durante la gravidanza, l’aumento della mortalità è invece del 45%. Il giudice Todisco sequestrò la fabbrica “affinché non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”.

Eppure a collegare direttamente la fabbrica al decesso di un bambino esiste una sola indagine. Per la Procura ionica la morte di Lorenzo Zaratta, 5 anni e un tumore al cervello, è stata causata dalle nubi tossiche dell’Ilva. Per gli altri bambini, invece, non ci sono neppure denunce dei familiari. Nell’immaginario collettivo, però, la causa è sempre la stessa. A febbraio 2008 morì Miriam Santoro, 5 anni. Le fu diagnosticato un neuroblastoma al quarto stadio, la forma più grave. “Non ho bisogno di un’evidenza scientifica che mi dica che la causa di quella tragedia sia stata l’Ilva”, racconta al Fatto la mamma Antonella Massaro. E se oggi la guerra all’inquinamento industriale nel capoluogo pugliese è diffusa, in quegli anni era ancora un tabù. Prima che i periti scrivessero che “l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”, il siderurgico era un “gioiello” che dava lavoro e andava protetto e custodito. “La gente mi diceva che non era il caso di mostrare mia figlia senza capelli. Era come se la malattia fosse uno scandalo. Peggio, una colpa”.

Francesca Summa era la mamma della piccola Siria, anche lei affetta da un neuroblastoma. Le fu diagnosticato quando aveva solo 18 mesi. “Siria è stata concepita, è nata, ha vissuto ed è morta nel quartiere Tamburi. Ufficialmente non c’è alcuna correlazione nero su bianco. Che ne penso io? Penso quello che pensano tutti, ma devo stare attenta a dirlo perché rischio pure una querela. Capito? Oltre il danno anche la beffa”. Non ha paura, invece, Carla Luccarelli, madre di Giorgio Di Ponzio morto a gennaio 2019 per un sarcoma dei tessuti molli: “Certo che è stata l’Ilva a causare la malattia di mio figlio. Non è solo secondo me: lo dice la Fondazione Airc per la ricerca sul cancro che la diossina è una delle cause di questo tumore rarissimo”. Giorgio e la sua famiglia vivevano a Paolo VI, quartiere di Taranto che dista pochi chilometri dalla fabbrica e che, secondo gli esperti, proprio come il quartiere Tamburi, è uno dei più colpiti dai veleni dell’acciaieria. La malattia è stata scoperta a ottobre 2016 e circa due anni dopo Giorgio è morto. Carla, con il marito Angelo Di Ponzio, ha fondato il comitato “Niobe”, che raccoglie alcune famiglie che hanno subito il loro stesso dolore e dato vita alla fondazione “Giorgio Forever”. Continuano a combattere contro le decisioni del governo di tenere aperta la fabbrica: “Vogliono tornare a produrre 8 milioni di tonnellate: praticamente sarebbe il colpo di grazia a Taranto”.

Ex Ilva, licenziato un operaio che invitava a vedere la fiction

È stato licenziato il lavoratore di Arcelor Mittal sospeso nei giorni scorsi per aver condiviso un post nel quale invitava la cittadinanza a guardare la fiction Svegliati amore mio. Ieri mattina l’impiegato ha ricevuto la lettera inviata dalla multinazionale che gestisce gli impianti dell’ex Ilva di Taranto nella quale è stato confermato il suo licenziamento per giusta causa. L’impresa ha ritenuto quelle parole su Facebook “espressioni gravemente lesive dell’immagine e della reputazione aziendale, eccedenti il diritto di critica” che hanno rappresentato “una condotta gravemente lesiva degli obblighi di correttezza e buona fede” e in grado di provocare “un rilevante danno all’immagine della società”.

Il lavoratore, assistito dall’Usb e dall’avvocato Mario Soggia, si era difeso sostenendo che la fiction Svegliati amore mio narrava fatti avvenuti in un luogo non precisato, ma soprattutto avvenuti nei primi anni 2000 quando Arcelor in sostanza non aveva ancora rilevato la gestione dello stabilimento siderurgico ionico e, quindi, non vi era alcun riferimento esplicito alla multinazionale. Argomenti che evidentemente non sono bastati a convincere l’azienda a chiudere tutta la vicenda.

Per Franco Rizzo dell’Usb si tratta di “un gravissimo attacco alla democrazia e, in particolare, alla libertà di espressione e opinione. Questo – ha aggiunto Rizzo – è l’ennesimo schiaffo, come se non bastasse quanto fatto in precedenza, a tutta la comunità ionica che al danno aggiunge la beffa”. In un comunicato il segretario dell’Usb ha anche sostenuto che Lucia Morselli, ad di Arcelor, “continua a tessere la ragnatela del terrore”. Il sindacato ha così annunciato uno sciopero a oltranza a partire dal 14 aprile non solo per il reintegro del lavoratore, ma perché “questa multinazionale, il suo ad e i suoi discepoli – si legge nella nota stampa – vengano immediatamente cacciati da Taranto”.

Al di là della singola vicenda, la sensazione è che Arcelor Mittal stia cercando ancora una volta di innalzare i toni della polemica come avvenuto diverse volte negli ultimi anni. La più clamorosa fu l’istanza di rescissione del contratto col governo per la cancellazione dello scudo penale. Subito dopo il pomo della discordia divenne il dissequestro dell’altoforno 2. Il pagamento delle fatture scadute alle ditte dell’indotto è, invece, uno dei punti eternamente aperti fin dall’arrivo della multinazionale.

Infine, poche settimane fa, Arcelor aveva minacciato di ridurre la produzione e gli investimenti perché Invitalia non aveva ancora versato l’aumento di capitale da 400 milioni euro che, secondo gli ultimi accordi, sarebbe dovuto arrivare entro il 5 febbraio scorso. Un ultimatum scomparso e sostituito nel giro di 24 ore dall’annuncio trionfale della ripartenza di alcuni impianti. Come se nulla fosse.

Ruby3 a Siena. Il leader di FI schiva ancora la sentenza

Niente udienza, niente sentenza. Nuovo rinvio, al processo Ruby 3 di Siena. Per l’ennesima assenza dell’imputato Silvio Berlusconi, a giudizio per corruzione in atti giudiziari con l’accusa di aver comprato la falsa testimonianza di Danilo Mariani, il pianista del bunga-bunga di Arcore, imputato con lui nel troncone senese del Ruby 3 perché a Siena sarebbe stato pagato per rendere falsa testimonianza.

I difensori del fondatore di Forza Italia, Federico Cecconi ed Enrico De Martino, hanno presentato un certificato medico secondo cui le condizioni di salute di Berlusconi non gli permetterebbero di raggiungere Siena, dove vorrebbe invece rendere dichiarazioni spontanee in aula. Hanno quindi avanzato al Tribunale richiesta di legittimo impedimento per il loro assistito, ricoverato il 6 aprile per accertamenti all’ospedale San Raffaele di Milano. La pm, Valentina Magnini, si è opposta, chiedendo la verifica dell’effettivo stato di salute dell’imputato. Ma i giudici hanno accordato il legittimo impedimento e rinviato al 15 aprile. Hanno anche respinto la richiesta della difesa di Mariani di stralciare la posizione del pianista.

Slitta così per la quinta volta l’udienza che dovrebbe portare a sentenza. La pm ci sta provando da 14 mesi. Ha pronunciato la sua requisitoria il 13 febbraio 2020, chiedendo la condanna per Berlusconi a 4 anni e 2 mesi e a 4 anni e 6 mesi per Mariani. Poi i rinvii: il 21 maggio 2020 per l’impossibilità degli avvocati di raggiungere Siena a causa delle restrizioni agli spostamenti tra regioni per il Covid; il 1 ottobre 2020 perché Berlusconi è risultato positivo al coronavirus; il 25 novembre per la richiesta degli avvocati Cecconi e De Martino di far rendere deposizioni spontanee a Berlusconi; il 14 gennaio 2021 per il ricovero dell’imputato all’ospedale di Montecarlo per problemi cardiaci. Ieri, quinto rinvio: al 15 aprile, quando forse i giudici potranno entrare in camera di consiglio. Chissà.

In cella la showgirl dei party con B.: “Io ho dietro i clan”

“Questa è l’ex femmina di Silvio Berlusconi (…) sta sempre in politica”. È il 25 gennaio 2017 e gli indagati Alberto Coppola e Felice D’Agostino, intercettati, parlano di quella che, di lì a pochi giorni, diventerà la loro nuova “fidanzata” (in affari, ndr): Anna Bettozzi, imprenditrice, cantante, regina della vita mondana romana e, da tre anni, ereditiera dell’impero petrolifero appartenuto al marito Sergio Di Cesare. In arte Ana Bettz, 63 anni, è ritenuta dai magistrati di quattro Procure – Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria – il “capo indiscusso” di un’associazione per delinquere al soldo della camorra e, in particolare, del clan Moccia di Napoli, con in testa Antonio Moccia. “Io c’ho la camorra dietro”, confidava Bettozzi alla sorella Piera, in una conversazione del 4 marzo 2019. Ieri la showgirl è finita in carcere, insieme ad altre 74 persone, nell’ambito dell’operazione “Petrolmafie Spa” della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Ros, che ha scoperchiato un vasto giro di affari illeciti, fra cui riciclaggio, corruzione ed evasione fiscale, portando al sequestro totale tra i vari indagati di quasi 1 miliardo di euro.

Bettozzi è molto conosciuta nel jet-set: sulla fine degli anni 90 tentò la strada della musica dance, proponendo brani di discreto successo in Inghilterra e in Russia. Ma sono le cronache politico-mondane a renderla nota al grande pubblico. La sua villa in Costa Smeralda confina con quella di Berlusconi (estraneo all’inchiesta), di cui non è stata “la donna” – come azzardano i suoi presunti sodali – ma di sicuro, fra il 2008 e il 2009, hanno partecipato ad alcune feste insieme. L’ex premier (ripetiamo non indagato) è citato più volte nelle carte. Bettozzi lo nomina per dare l’idea del suo “curriculum”: “Io non sono abituata così (…) io ho soci che si chiamano Tronchetti Provera (estraneo all’inchiesta, ndr)… e Silvio Berlusconi…”. E poi. “Oggi non ho risposto quattro volte a Berlusconi… sono incazzata con lui…”, diceva il 1º marzo 2018. Nel maggio 2018 è stata fermata alla frontiera con la Francia a bordo di una Rolls Royce con 2 milioni di euro in contanti e indagata per riciclaggio.

A curare l’immagine sua e della Made Petrol Italia srl, intestata alla figlia Virginia – anche lei arrestata – è Lele Mora, che anche se non indagato, è citato più volte nelle carte. Il primo episodio riguarda l’attore Gabriel Garko (anche lui non indagato) cui Bettozzi consegna 100mila euro in nero per fare il testimonial della società. C’è poi la trattativa sulle provvigioni di D’Agostino, in contatto, per gli inquirenti, con il clan dei Casalesi: “Vuole un anno anticipato di provvigioni… adesso ci parla Lele (Mora, ndr)… è impossibile quello che dice lui…”. L’ultima comparsata di Ana Bettz sulle cronache rosa risale al luglio 2020, quando ha partecipato a un party in terrazza per il compleanno di una giornalista, festa alla quale si presentarono anche gli ex magistrati Cosimo Ferri e Luca Palamara e poco dopo finirono paparazzati (Ferri e Palamara non hanno nulla a che vedere con l’inchiesta).

Le indagini però non riguardano solo Bettozzi: i magistrati hanno scoperto quello che ritengono il business dei clan nel settore petrolifero, una “joint venture” criminale dotata di un meccanismo collaudato con lo scopo di riciclare i soldi sporchi delle mafie. In Calabria, tra i promotori dell’associazione reggina c’erano Vincenzo e Gianfranco Ruggiero, espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro, e i fratelli Domenico e Giovanni Camastra, due imprenditori ritenuti vicini alla cosca Cataldo di Locri. Coinvolto anche il broker Giuseppe De Lorenzo, ritenuto “contiguo alla cosca Labate”: a casa sua la Finanza ha trovato due valige con dentro oltre due milioni di euro in contanti. Volevano scappare in Brasile gli imprenditori Antonio e Giuseppe D’Amico che la Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri, indica vicini alla cosca Mancuso. Dalle intercettazioni emerge che D’Amico puntava ad avere contatti politici. E non solo. “Per fare determinate cose ci vuole… il supporto suo, il supporto amministrativo… e ce lo dà la politica”. Anche se non andrà in porto, il progetto è ambizioso: “Se lo Stato viene là… poi noi facciamo lo Stato”.

TeleJato, Maniaci assolto: cade l’accusa grave di estorsione (condannato per diffamazione)

“Tutto parte dalle mie accuse a Silvana Saguto, oggi sono distrutto come simbolo antimafia, ma la Procura ha fatto una grande figura di me…”. Ha dovuto attendere sei ore, il giornalista Pino Maniaci, prima che il giudice monocratico Mauro Terranova uscisse dalla camera di consiglio per pronunciare il verdetto: assolto dall’accusa di estorsione. Il fondatore di TeleJato, la televisione di Partinico (Palermo), era stato travolto nel 2016 dall’inchiesta della Dda di Palermo sulla mafia di Borgetto, piccolo comune della provincia, e arrestato insieme ad altri 10 esponenti del clan, accusati di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni.

Al cronista, per anni baluardo dell’informazione antimafia isolana, i pm contestavano anche alcuni episodi di diffamazione, per aver “offeso e denigrato la reputazione” di tre cronisti locali. Il giudice Terranova solo per quanto riguarda la diffamazione lo ha ritenuto colpevole, condannandolo a un anno e 5 mesi. Durante la requisitoria, il pm Amelia Luise aveva chiesto una pena di 11 anni e mezzo di carcere, per i quattro episodi di estorsione ai danni di sindaci e amministratori di Borgetto e Partinico. Secondo il pm, Maniaci li avrebbe minacciati di diffondere “notizie lesive” per la loro “reputazione ed immagine”, ottenendo in cambio somme di denaro, tra le 200 e 300 euro, e l’acquisto di 2 mila magliette con il logo dell’emittente di TeleJato. Era stata molto dura l’arringa difensiva degli avvocati Antonio Ingroia e Barolomeo Parrino, che definivano Maniaci vittima di un “processo kafkiano” in una “vicenda processuale rappresenta della verità rovesciata”, in cui “l’uomo senza colpa è trasformato nel colpevole da giustiziare ingiustamente”. “I guai di Pino Maniaci sono iniziati dal momento in cui ha cominciato a indagare sulle distorsioni della tribunale delle misure di prevenzione di Palermo, quando era presieduto dalla Saguto”, ha detto Ingroia (in passato pm della Trattativa Stato-mafia). La giudice poi sarà condannata in primo grado a Caltanissetta a 8 anni e 6 mesi, e radiata dalla magistratura. “Sono stati anni difficili, essere accusato di estorsione con una richiesta di 11 anni e mezzo come un Marcello Dell’Utri era molto pesante – ha detto Maniaci –. In questi anni sono stato distrutto, volevano distruggere la mia televisione ma non ci sono riusciti. Continuerò a fare il giornalista”.

Salvini assolto per stavolta: “Parlò solo un minuto”

Gli insulti contro la magistratura pronunciati da Matteo Salvini a un comizio a Collegno (Torino) il 14 febbraio 2016 durarono “circa un minuto”, su 14 minuti di intervento complessivi. Anche per questo motivo, considerato “significativo”, il leader del Carroccio è stato assolto dal reato di vilipendio all’ordine giudiziario per la “particolare tenuità del fatto”. Lo scrive, nelle motivazioni della sentenza il giudice Roberto Ruscello. L’ex ministro degli Interni aveva detto, davanti a mille persone, che i magistrati sono “degli stronzi, una schifezza e un cancro da estirpare”. Secondo il giudice, quelle di Salvini sono “espressioni offensive idonee a ledere il prestigio dell’ordine giudiziario”. Ma, nonostante il reato sia stato commesso, non vi sarebbe “responsabilità penale” per la “particolare tenuità del fatto”. Inoltre peserebbe il fatto che Salvini, nel difendere i leghisti indagati, “si rivolgeva criticamente innanzitutto contro i militanti del suo partito per la strumentalizzazione di vicende giudiziarie ai fini della competizione elettorale interna”.

Assunzioni Pd in Regione Lazio: adesso indagano i carabinieri. Via agli interrogatori

La Procura di Civitavecchia ha autorizzato i carabinieri ad avviare una fase istruttoria d’indagine per raccogliere materiale e testimonianze sulle assunzioni di dirigenti e militanti Pd in Regione Lazio. In un secondo momento, i magistrati decideranno se aprire un fascicolo per falso, trasferire l’incartamento ai colleghi di Roma o archiviare. A quanto risulta a Il Fatto, ieri gli investigatori hanno ascoltato almeno una delle donne risultate idonee al concorso del Comune di Allumiere (Roma) – i cui risultati sono stati pubblicati il 14 dicembre – ed escluse, a loro dire, dalla selezione dei non vincitori effettuata il 18 dicembre dal Consiglio regionale del Lazio, procedura grazie alla quale sono stati assunti 16 nuovi funzionari regionali, più altri 8 “pescati” dal Comune di Guidonia. Al momento, va specificato, non ci sono indagati né sono state formalizzate ipotesi di reato.

Il caso è deflagrato mercoledì mattina con le dimissioni del presidente d’aula alla Pisana, il dem Mauro Buschini, il cui vice capo segreteria, Antonio Pasquini, è sindaco di Allumiere. In queste ore il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, sta pressando per le dimissioni di tutto l’ufficio di presidenza. “Credo che il gesto di Mauro Buschini, la scelta della commissione trasparenza, sia la risposta giusta e corretta per fugare qualsiasi dubbio”, ha dichiarato ieri il governatore. Sul giallo è in corso una bagarre politica. Fratelli d’Italia ieri ha chiesto ufficialmente al Comune di Allumiere di pubblicare online i risultati della prova pre-selettiva del concorso, unico documento mancante rispetto a una procedura che, fin qui, è risultata comunque impeccabile sul fronte del puro diritto amministrativo.

Intanto, sempre in Regione Lazio, si apre un altro fronte di polemica. Stavolta sul versante del M5S, appena entrato in Giunta. Il capogruppo capitolino Giuliano Pacetti, infatti, è stato assunto a tempo determinato e in via fiduciaria nello staff della neo-assessora al Turismo, Valentina Corrado. Il suo mandato è legato a quello della titolare delle deleghe. Si tratta del terzo consigliere comunale di Roma assunto nella segreteria politica di un consigliere regionale, dopo i dem Svetlana Celli e Marco Palumbo (quest’ultimo tra gli idonei di Allumiere, “pescato” dal Comune di Guidonia). “Un incarico non si nega a nessuno”, ha ironizzato Laura Cartaginese (Lega)

“Le hai poi rubate le mascherine in Rsa, sindaco?”

È il 22 marzo 2020, la Lombardia è in pieno lockdown, il Covid morde, nelle terapie intensive i medici scelgono chi salvare, le mascherine sono introvabili. Il 22 è una domenica. Antonino Nucera, sindaco del Comune di Opera (Milano), giunta di centrodestra a forte trazione leghista, risponde. Lo chiama una dipendente comunale: “Ascolta sindaco, le mascherine quelle azzurre, ne hai rubate un po’ di quelle che dovevano andare alla Rsa?”. In quel momento i Dpi valgono oro. Il sindaco decide “di appropriarsi” di parte di uno stock destinato anche alla residenza per anziani “Anni Azzurri Mirasole” di Noverasco. Due giorni prima Nucera spiegava: “Me ne servono di più se riesci (…) fammi questa cortesia (…) dicci mettici al sindaco da parte una roba”. Mascherine, secondo l’accusa, sottratte alla Rsa anche per darle ai familiari della moglie, che “sbadigliando” dice al marito: “Antonino (…) porti le mascherine ai miei che non ne hanno”. Il tutto vale al sindaco l’accusa di peculato contestata ieri in un’ordinanza del giudice che ne ha disposto gli arresti domiciliari. L’inchiesta, che riguarda anche un traffico di rifiuti contestato ad alcuni imprenditori, è stata coordinata dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Milano. Dieci gli indagati. Scrive il gip: “L’attività tecnica (…) ha permesso di accertare a carico del sindaco un episodio di appropriazione indebita dei dispositivi di protezione individuale, nel periodo compreso tra marzo e aprile 2020, nel pieno della prima fase della pandemia”. Almeno 2.000, secondo i pm, i Dpi sottratti che erano destinati alla Rsa e alle farmacie comunali. Il 9 aprile Nucera parla con il direttore della Rsa. Dice: “Come sei messo a mascherine? Ne hai un po’ per me?”. L’altro risponde: “Com’è, prima me li dai e poi me li togli? (…). Dai tienile per te non ti preoccupare”. Nucera, incassato l’ok, conclude: “Vengo lì che faccio tutta la scena, capito che voglio dire? Facciamo due foto, è giusto che ti do risalto”. E ancora, parlando con la Protezione civile locale di altre mascherine destinate alla Rsa: “500 poi gliel’ho fatte mettere via, gli dice alla farmacista di metterle via al sindaco”, mentre alla Rsa “gliene daremo 50!”. L’altro risponde: “Non fare così che mi fai stare male (…). Rsa sono 500 gli diamo quelle che ci danno non possiamo toglierli là dai”. Prosegue il giudice: “Emerge (…) che le mascherine (…) siano state (…) destinate a uso privato del sindaco (…) e distribuite, a titolo discrezionale, al personale del Comune”. Nucera, sospeso dal Prefetto, è accusato anche di corruzione aggravata per appalti pilotati. Tra questi la fornitura di 4 termoscanner per l’emergenza Covid.

La bomba Astrazeneca sul piano Figliuolo

Prima la sospensione poi la riapprovazione. Prima l’indicazione di utilizzarlo solo sugli under 55, perché i trial clinici sugli anziani in fase di sperimentazione non erano sufficienti a valutare possibili effetti collaterali, poi il responso con il quale Ema, l’Agenzia europea del farmaco, ha passato la palla ai Paesi Ue. Prima la ricerca di una linea comune, con una riunione straordinaria dei vari ministri alla Salute, poi lo strappo: si va in ordine sparso.

Il dilemma Vaxzevria La circolare Rezza

Alla fine sul vaccino anglo-svedese AstraZeneca – ora chiamato Vaxzevria – l’Italia ha deciso la scorsa notte con la circolare firmata dal direttore generale del ministero della Salute Giovanni Rezza. Poche righe per dire che “sulla base delle attuali evidenze, tenuto conto del basso rischio di reazioni avverse di tipo tromboembolico a fronte della elevata mortalità da Covid-19 nelle fasce di età più avanzate, si rappresenta che è raccomandato un suo uso preferenziale nelle persone di età superiore ai 60 anni. In virtù dei pochi dati ad oggi disponibili, chi ha ricevuto la prima dose di Vaxzevria, può completare il ciclo vaccinale con il medesimo vaccino”.

E adesso? C’era una volta un piano per 34 milioni

Indicazione supportata dal parere del Cts, il Comitato tecnico-scientifico, secondo il quale il rapporto positivo tra benefici e rischi “appare più favorevole al crescere dell’età”. Una giravolta. E al contempo una brusca frenata a una campagna vaccinale che già in molte regioni procede a rilento e che apre nuovi interrogativi. Per esempio: che accadrà ai 34 milioni di italiani under 30 a cui sarebbe spettato? Il Cts ha messo nero su bianco che “al momento non sono stati identificati analoghi segnali di rischio per i vaccini a mRna”, vale a dire gli americani Pfizer-BioNTech e Moderna, diversi dal più tradizionale siero AstraZeneca, vaccino a vettore virale che utilizza una versione modificata dell’adenovirus dello scimpanzé (non più in grado di replicarsi) per fornire le istruzioni utili a sintetizzare la proteina spike capace di stimolare la risposta immunitaria. E ora la diffidenza quasi dilaga, nonostante le rassicurazioni arrivate anche da Nicola Magrini, direttore di Aifa: “Su 600mila persone trattate con due dosi nessuna ha mostrato eventi trombotici”.

Il fuggi fuggi In puglia 4 su 10 rifiutano

E infatti in Puglia, come ha denunciato il governatore Michele Emiliano, il 40% dei cittadini già rifiuta il vaccino europeo. Uno su tre si defila in Campania, cercando di ottenere Pfizer o Moderna. In Liguria, molti genovesi under 80 hanno disdetto le prenotazioni nelle farmacie o alla Fiera del capoluogo regionale (dove avrebbero dovuto effettuare AstraZeneca) per radunarsi fino alle due del mattino all’hub della Torre Msc di San Benigno, perché qui viene somministrato Moderna. In Lombardia, la paura ha stoppato l’adesione alla campagna vaccinale della fascia tra i 75 e i 79 anni. “E allora abbiamo aperto ai 70enni – dice il direttore generale del Welfare del Pirellone, Giovanni Pavesi –. E se poi un 80enne rifiuta AstraZeneca non sappiamo nemmeno noi come comportarci”. Così via, un po’ in tutta Italia. Fino a Messina, dove tanti cittadini, come spiega il responsabile dell’hub vaccinale Alberto Firenze, “si presentano con fascicoli pieni di documentazione medica da cui emergono diverse patologie”. Questo mentre nel mondo scolastico tanti, tra quelli che hanno già ricevuto la prima dose del vaccino europeo (1,2 milioni di persone, l’80% del personale) non vogliono fare la seconda. “Docenti, presidi, impiegati: sono tutti spaventati – spiega Elvira Serafini, che guida il sindacato Snals –. Le indicazioni su questo vaccino sono troppo contrastanti, è stato detto tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore”.

Il generale non molla ”Non cambia nulla”

Nonostante ciò il commissario all’emergenza, il generale Francesco Paolo Figliuolo, non arretra e conferma che il piano messo a punto non cambia. “A fine mese dobbiamo arrivare a 500 mila dosi giornaliere – ripete –. Da oggi l’inoculazione del vaccino AstraZeneca è aperta alla platea dei 60-79 anni mentre gli under 60 che hanno già ricevuto la prima dose riceveranno anche la seconda”. Il commissario attende ora le consegne. Tra questo trimestre e il prossimo dovrebbero infatti arrivare (sempre che non vengano annunciati altri tagli alle forniture) 30 milioni di dosi del siero finito nella bufera. Dosi destinate a questo punto, dopo le nuove indicazioni, a quella popolazione compresa tra i 60 e i 79 anni che è costituita da oltre 13 milioni di persone, di cui circa 2,3 hanno già ricevuto la prima dose. L’ottimismo di Figliuolo non è condiviso dalla Fondazione Gimbe, che parla di un miraggio. “Sul fronte vaccini, il ritmo della campagna è ancora lontano dagli obiettivi fissati dal piano, il caso AstraZeneca rischia di determinare ulteriori rallentamenti, la copertura degli anziani è ancora insufficiente e quella dei soggetti fragili non nota”, dice il presidente della Fondazione Nino Cartabellotta.

La campagna di massa Uno stop alle farmacie

C’è poi un altro aspetto. Il ministero della Salute ha solo suggerito di non somministrare AstraZeneca a chi ha meno di 60 anni: non è previsto un obbligo. “Deve essere sempre il medico a fare la valutazione sulla base di una anamnesi del paziente – spiega Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, la federazione nazionale degli ordini dei medici –. E meglio ancora se questa valutazione viene fatta dal medico di famiglia, che conosce la storia clinica del suo assistito. L’anamnesi non la può fare, invece, un farmacista. E noi abbiamo bisogno di accelerare i tempi”. Già, i farmacisti: ora contrapposti ai medici dopo l’accordo nazionale con il quale sono stati reclutati. Loro non avranno nè Pfizer e nè Moderna, che richiedono entrambi sistemi di conservazione in congelatori. Nemmeno AstraZeneca, però, fa sapere Federfarma. “Nelle farmacie – spiega l’associazione di categoria – potremo somministrare il vaccino Johnson&Johnson, che è monodose e si mantiene nei normali frigoriferi. Ha già aderito il 60% delle quasi 20 mila farmacie del Paese. E chi si è fatto avanti segue il corso di formazione dell’Iss”.

Johnson&Johnson Il rischio della replica

Il vaccino J&J, già approvato da Ema e da Aifa (e di cui sono attese in questo secondo trimestre 7,5 milioni di dosi) usa però la stessa tecnologia utilizzata da AstraZeneca: è a vettore virale, anche se con un virus differente. E tra i medici c’è chi scommette: anche in questo caso si genererà un’ondata di diffidenza.

Chiampa frega Appendino e vuole un “nano” anti-5S

Potrebbe essere Sergio Chiamparino il demolition man della Mole. L’ex sindaco ed ex presidente della Regione che, ora definendosi un semplice spettatore ora tessendo trame e contatti, rischia con il suo antico prestigio di compromettere le scelte del centrosinistra per le Comunali di autunno. Con il probabile risultato di spalancare l’ex “fortino di Asterix” del Pd nel Nord-Ovest al candidato civico del centrodestra: l’imprenditore cuneese delle acque minerali e del vino Paolo Damilano (oppure alla deputata di Forza Italia Claudia Porchietto, ancora più in grado di catturare l’establishment subalpino).

La situazione, come avrebbe detto il leader del Pci subalpino Giancarlo Pajetta quando voleva rimarcare la propria perplessità, “è quella che è”. Il Pd non ha ancora un candidato, diviso tra le autopromozioni dei “sette nani”, come vengono chiamati i troppi peones di quel partito battuto 5 anni fa dalla vittoria di Chiara Appendino contro Piero Fassino. Un lutto mai elaborato (e mai affrontato), ancora sedimentato in un incubo anti-M5S.

In campo oggi c’è soprattutto uno dei “sette nani”: il docente del Politecnico e capogruppo del Pd in Sala Rossa Stefano Lorusso, ex assessore di Fassino. È lui l’uomo che denunciò l’Appendino, poi condannata a 6 mesi per falso pubblico nel bilancio comunale. Dunque, un ostacolo insormontabile per quell’alleanza elettorale Pd-M5S che secondo molti, come l’ex senatore democratico Stefano Esposito (“Tutti conoscono la mia avversione per i grillini, ma solo una coalizione può fermare le destre”), è l’unica via d’uscita per non ripetere la sconfitta del 2016.

Qualcosa che da giorni pesa ancora di più, dopo che proprio l’Appendino, referente locale di Giuseppe Conte, ha esplicitato più volte la proposta di un’intesa. Un’indicazione che suscita mal di pancia tra gli stessi 5stelle, ma che sta dilaniando in particolare il Pd. La sindaca però non demorde, convinta che la sua apertura possa sfondare soprattutto grazie al dialogo tra Conte ed Enrico Letta.

Tra i suoi alleati, Appendino contava di trovare proprio quel Chiamparino che, quand’era presidente del Piemonte, aveva mantenuto con il primo cittadino una concertazione istituzionale ribattezzata dai più critici come “la politica del Chiappendino”. L’ex sindaco delle Olimpiadi del 2006, però, prima di Pasqua l’ha raggelata, definendo quella proposta un’ipotesi “politicista”.

Ma non è la prima volta che Chiamparino scompagina le carte di questa arruffata partita torinese. Un anno fa, era stato lo sponsor del rettore del Politecnico, Guido Saracco, poi ritiratosi per motivi di famiglia. Subito dopo, continuando a lasciar circolare voci addirittura su una sua possibile ricandidatura, l’ex sindaco aveva lanciato il nome del “mago dei trapianti di fegato”, Mauro Salizzoni, vicepresidente del consiglio comunale: un indipendente gradito alla sinistra del Pd e a quella di Fratoianni e Bersani. Poco dopo, però, lo aveva silurato, chiedendogli di diventare il “numero due” di Lo Russo e costringendolo, di fatto, ad abbandonare. Sempre Chiamparino aveva continuato ad agitare, ma invano, il nome del deputato Andrea Giorgis, il costituzionalista erede di Gustavo Zagrebelsky ed ex sottosegretario alla Giustizia nel Conte bis.

La lista dei candidati, aspiranti o cooptati, si è così poi allungata in maniera un po’ velleitaria: il consigliere comunale Enzo Lavolta, l’ex assessore regionale Gianna Pentenero, l’ex Ct della Nazionale di pallavolo Mauro Berruto (new entry nella segreteria Letta e anche lui non certo un fan dei 5stelle) e Mario Calderini, un altro della scuderia del Politecnico, ex collaboratore del ministro Francesco Profumo nel governo Monti, avversario di Fassino e non sgradito agli ambienti grillini.

La situazione, per tornare a Pajetta, è appunto questa: prima ancora della scelta del candidato, si deve decidere se rispondere sì oppure no alla mossa di Appendino. Ora i giochi sono affidati alla moral suasion di Conte, a una visita di Francesco Boccia, incaricato da Letta di seguire la vicenda, e a un possibile sondaggio voluto dal Pd nazionale, come anticipato da LoSpiffero.it. Tra i nomi da testare, ci sarebbe anche quello di Saracco: con la speranza di farlo tornare sui suoi passi, togliere di torno i “sette nani” e sbloccare l’impasse sull’alleanza. Con una novità dell’altroieri: un appello nel quale, tra l’altro, si chiede ad Appendino di continuare nel suo impegno unitario e al Pd di superare “la voglia di rivincita sui Cinquestelle” , con le firme anche di alcuni esponenti storici del Pd, come Gian Giacomo Migone, Pietro Marcenaro (ex segretario regionale del partito) e l’ex assessore Roberto Tricarico.

A quel punto, il parere di Chiamparino tornerebbe decisivo: sempre che, questa volta, decida di giocare l’ennesimo atto della sua partita personale sulla questione di Palazzo di Città da “vecchio saggio” invece che come un “interdittore finale”.