Dalla “Ruota” a Iv: Renzi è Demolition Man

Un estratto del libro “Demolition Man”, scritto da Andrea Scanzi e pubblicato da Paper First in coedizione con Rizzoli. Il libro è disponibile in edicola.

 

La carriera politica di Matteo Renzi potrebbe riassumersi così. L’accoltellatore di Letta. L’accoltellatore di Marino. L’accoltellatore di Conte. Tre volte Giuda. Son soddisfazioni.

(…) Matteo Renzi è nato l’11 gennaio 1975. Boy-scout. A 19 anni partecipa alla Ruota della fortuna, dove vince poco più di 48 milioni di lire. Presidente della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009. Sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Segretario del Pd dal 15 dicembre 2013 al 12 marzo 2018, eccezion fatta per l’esaltante intermezzo di Orfini, segretario ad interim per quasi tre mesi nel 2017. Presidente del Consiglio dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016. Ministro dei Trasporti ad interim dal 20 marzo al 2 aprile 2015. Ministro dello Sviluppo economico ad interim dal 5 aprile al 10 maggio 2016. Capo di governo più giovane nella storia dello Stato italiano. Figlio di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, rinviati a giudizio nel marzo 2021 con l’accusa di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture false. Tifa Fiorentina. Ex arbitro, la sua carriera non decolla per limiti atletici. Nel 1996 si batte a sostegno di Romano Prodi. Si iscrive poi al Partito Popolare e quindi alla Margherita.

Organizza la prima Leopolda nel 2010. Perde le primarie nel 2012 contro Bersani (terzo Vendola), vince le primarie del 2013 contro Cuperlo (terzo Civati). A febbraio 2014 accoltella politicamente Enrico Letta, che doveva stare sereno ma poi mica tanto. Pochi mesi dopo stravince le elezioni europee. Poi perde tutto quello che c’è da perdere, su tutte il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Aveva detto che avrebbe smesso in caso di sconfitta, ma cambia idea come Mary Helen Woods per gli amici Boschi, da sempre facente parte del suo giglio magico. Si dimette, ma dopo un po’ nel Pd lo rivotano. Straperde pure le elezioni del 2018, ma non smette nemmeno stavolta. Si dimette una seconda volta (al rallentatore), reinventandosi conferenziere in giro per il mondo nonché apprezzatissimo divulgatore di storia dell’arte in tivù. Nei ritagli di tempo fa il “senatore di Scandicci”.

Uccide nella culla l’ipotesi di un governo Pd-M5S, andando da Fabio Fazio e aprendo le porte al governo Salvimaio, varando con ciò quella “politica del popcorn” consistente più o meno nel vedere il proprio Paese che si sfascia per poi chiosare “io l’avevo detto”. Quando Salvini si sbronza di mojito ad agosto 2019 e fa saltare il governo Conte I, dice che ora il governo coi 5Stelle si può fare. Poi, subito dopo averlo fatto nascere, esce dal Pd e fa nascere il partito ossimoro Italia Viva, sorta di bad company della politica italiana accreditata di percentuali elettorali lillipuziane.

Un giorno sì e l’altro pure bombarda il governo Conte II, col risultato di perdere ancora più consensi (ove possibile) e consegnare sempre più il Paese alla destraccia nostrana. Il 2 febbraio 2021, nel bel mezzo di una pandemia straziante, dopo due mesi di avvilente tira e molla, arriva a far cadere il governo, intestandosi poi i “meriti” della crisi politica più impopolare, inutile e imperdonabile nella storia della Repubblica. (…) Il periodo mussoliniano è stato il più tragico. Quello andreottiano il più oscuro. Quello berlusconiano il più squallido. Quello renziano il più ridicolo. Una bella carriera, dai.

 

I soldi o addio Rousseau: l’ultimatum di Casaleggio

Giuseppe Conte rumina tempo. Questo fine settimana, tra domani e domenica, discuterà via Zoom con i parlamentari grillini del suo piano di rifondazione per il Movimento prossimo venturo, che avrà una sede – un appartamento nel centro di Roma, vicino alle Camere – una struttura e nuove regole sulle restituzioni, cioè sui soldi. Ma il Davide Casaleggio che dal M5S vorrebbe 450mila euro di arretrati di tempo non ne ha più, ha i conti in rosso ed è anche arrabbiato, perché proprio Conte nel suo discorso agli eletti 5Stelle della scorsa settimana lo ha trattato rudemente, tanto da non citare neppure la sua piattaforma Rousseau e dal richiamarlo “alla massima trasparenza sulla gestione dei dati”.

Così ecco il fatto di reazione, cioè Casaleggio che cala l’ultimatum, con data 22 aprile. “È tempo di decisioni” fa sapere la sua associazione Rousseau tramite un post sul blog delle Stelle. Ossia, “oggi la situazione è giunta al punto di non ritorno, a causa dell’enorme ammontare di debiti siamo costretti a definire una data ultima, il 22 aprile 2021. Qualora i rapporti pendenti non vengano definiti entro questo giorno, saremo costretti a immaginare per Rousseau un percorso diverso, lontano da chi non rispetta gli accordi e vicino, invece, a chi vuole creare un impatto positivo sul mondo”. Tradotto, se non si trova un’intesa economica sarà addio, definitivo. Con Rousseau pronta a lavorare con altri partiti. E magari non solo, perché dal Movimento tornano a sibilare l’accusa: “Casaleggio vuole farsi il suo partito, il partito di Rousseau”. E a sostegno fanno notare la chiosa del post: “Comunque vada per noi il 22 aprile sarà un nuovo inizio, trasparente, deciso e leale e, soprattutto, insieme a chi dimostrerà di essere tale”. E al di là dell’italiano un po’ così pare una chiamata alle armi. Forse rivolta innanzitutto a certi ex del M5S, quelli di peso. Ad oggi l’unica certezza è la guerra all’ultimo stadio tra Casaleggio e tutto il Movimento.

È gelo perfino con Beppe Grillo, l’unico che tifava per la pace. “Casaleggio non risponde più neppure a Beppe” sostiene un 5Stelle di governo. D’altronde da Milano hanno alzato il tiro anche contro Conte, il solo con cui Casaleggio voleva davvero trattare, ritenendo il reggente Vito Crimi un capo politico ormai abusivo (“il suo mandato è scaduto” è la linea di Rousseau). Ma il discorso dell’avvocato agli eletti ha aperto la milionesima ferita, abbastanza dolorosa per spingere la socia di Rousseau Enrica Sabatini a parlare così l’Adnkronos: “Conte non è un iscritto al M5S, quindi non può proporre accordi”. E comunque, “se il M5S diventasse un partito Rousseau non avrebbe più alcuna utilità”. Piuttosto, teorizza la socia di Casaleggio, “l’associazione e il M5S sono due facce inscindibili della stessa medaglia”. Ma la scissione è nei fatti, e potrebbe traboccare nei tribunali. Nell’attesa il Movimento risponde: “Estraniarsi dal contesto reale del Paese, alimentando le polemiche su questioni interne, è un lusso che non possiamo permetterci”. Invece oggi Crimi incontrerà, sempre in via virtuale, i parlamentari, per parlare principalmente della riforma della rendicontazioni, totem e croce del Movimento. In sintesi, gli eletti pagheranno una cifra forfettaria di 2500 euro mensili: mille andranno al M5S, 1500 come restituzioni per altre iniziative.

Nota importante: dovranno mettersi a regime con il nuovo modello entro luglio. “E questo sta suscitando mal di pancia – racconta un big – perché diversi parlamentari dovranno versare in pochi mesi arretrati per decine di migliaia di euro”. Di sicuro il denaro verrà versato su un conto corrente del M5S, aperto nei giorni scorsi, ed è un’altra novità rilevante. Ma il tema dei soldi non si esaurisce qui. Molti nel Movimento spingono per l’utilizzo dei fondi del 2 per mille, anche per sostenere l’ampia struttura – con una segreteria e dipartimenti – immaginata da Conte. Un’indicazione emersa anche dagli Stati generali dello scorso dicembre. Un contiano doc come il ministro all’Agricoltura, Stefano Patuanelli, domenica scorsa al Fatto aveva detto di “non essere sicuro di avere una risposta” sull’opportunità o meno di utilizzare il finanziamento pubblico. Crimi era e resta contrario. Ma il dibattito è in corso. E Rousseau? Crimi oggi ribadirà che il M5S porterà avanti la democrazia diretta, sempre tramite una piattaforma. E dai 5Stelle ripetono che l’alternativa al portale di Casaleggio è di fatto pronta, secondo l’AdnKronos già per la prossima settimana. In attesa del divorzio: da formalizzare.

 

Poltrone. Orlando sistema al Lavoro il fedele Martella

Incasserà 72mila euro all’anno come esperto del ministro del Lavoro, ma nel suo curriculum tutto pane&politica ha zero tituli. Andrea Martella ha appena dovuto sloggiare dalla poltrona di sottosegretario all’Editoria ma non è stato lasciato a piedi. Perché Andrea Orlando (di cui è stato coordinatore della mozione alle primarie del 2017 per la segreteria del Pd) lo ha voluto al suo fianco al ministero di via Veneto riservandogli un incarico per il quale sarebbero richieste “particolari professionalità e specializzazioni”.

Cinquantatré anni, laureato in Lettere, di Martella si ricorda la gavetta politica a Portogruaro e Venezia nel Pds e nei Ds. Assunto come funzionario e poi dirigente di partito, nel 2001 fa il suo esordio in Parlamento dove rimarrà ininterrottamente per quattro legislature. Fino alla mancata candidatura nel 2018 da parte dell’allora segretario Matteo Renzi. Malgrado la “rottamazione”, Martella non si era affatto perso d’animo. Intanto aveva ben pensato di metterci una pezza citando in giudizio l’amministrazione di Montecitorio per ottenere anzitempo il vitalizio a titolo di indennizzo per i minori ricavi derivanti dal ritorno “a una vita normale”. Ma la Camera prima e la Cassazione poi, lo avevano spernacchiato insieme all’ex delfino berlusconiano Angelino Alfano che aveva avanzato analoga pretesa. La fortuna però è tornata a girare. Perché con il cambio di inquilino al Nazareno era stato chiamato a svolgere il ruolo di coordinatore della segreteria di Nicola Zingaretti: proprio lui era stato uno degli sherpa delle trattative tra Pd e M5S in vista della nascita del governo giallorosso. Non gli era toccato un ministero, ma quasi: la nomina a sottosegretario all’Editoria, incarico ricoperto da settembre 2019 al 13 febbraio 2021. E con il governo di Mario Draghi? Dovrà accontentarsi di un co.co.co al ministero del Lavoro che lo copre dal 16 marzo 2021 fino alla permanenza in carica di Orlando.

Nello staff dell’ex vicesegretario dem compaiono altri nomi degni di nota. Come quello di Pietro Galeone, scelto in qualità di “esperto economico” del ministro per 65mila euro all’anno. Sul suo profilo Twitter, fra i vari incarichi vantati, per Galeone figura anche quello di responsabile Lavoro dei Giovani democratici di Milano. Che dire poi di Matteo Bianchi? Classe ’86, spezzino come Orlando, è stato nominato capo della segreteria tecnica. I due sono legati da un’antica amicizia, tanto che nel 2017 Orlando è stato suo testimone di nozze (Bianchi ha sposato l’ex deputata dem Liliana Ventricelli). Ha dovuto lasciare via Veneto ma è stata comunque ricollocata pure l’ex sottosegretaria al Lavoro Francesca Puglisi, fedele alla corrente di Dario Franceschini. Chiamata come nuovo capo della segreteria tecnica del ministero dell’Istruzione oggi guidato da Patrizio Bianchi.

Vezzali nomina allo Sport l’uomo ombra di Giorgetti

Quando Valentina Vezzali è stata scelta come sottosegretaria allo Sport, ultima casella del governo Draghi, apparentemente marginale eppure così difficile da riempire, tutti si sono chiesti a chi appartenesse politicamente la campionessa, ex deputata montiana e groupie berlusconiana (celeberrima la sua avance al premier a Porta a Porta), da anni fuori dal giro e dal Parlamento. Un indizio non fa una prova ma non è nemmeno una coincidenza: come suo Capo dipartimento, Vezzali ha scelto Michele Sciscioli, uomo di Giancarlo Giorgetti, che aveva ricoperto lo stesso incarico durante il governo gialloverde, col leghista a Palazzo Chigi.

Dal suo ritorno al governo, Giorgetti non ha detto una parola sullo sport, lasciando tutti nel dubbio se continuerà o no ad occuparsi di quel mondo che ama (e di cui era titolare fino a un paio d’anni fa). L’incertezza alimenta chiacchiericci, così per ogni decisione sullo sport che l’esecutivo si è trovato a prendere veniva sempre tirato in ballo lui.

La scelta del capo dipartimento era il primo, vero, banco di prova della nuova sottosegretaria. E Sciscioli, che pure ha un rapporto personale con lei (si sono conosciuti quando era consigliera della FederScherma), è inequivocabilmente legato a Giorgetti.

Già ai tempi del governo gialloverde la sua nomina era stata accompagnata da un po’ di mistero, per la nulla attinenza con lo sport e le scarse informazioni sul suo curriculum, se non un master in “International affairs” e l’esperienza in Sogin (la società statale che si occupa di nucleare), con trascorsi in Russia. Una coincidenza che non poteva passare inosservata, in un periodo in cui la Lega era nel mirino per i suoi rapporti con Mosca. Ma Sciscioli, che ha lavorato in Russia e ha una moglie russa, c’entra poco con la Russia e meno con la Lega: il suo rapporto più che col partito è proprio con Giorgetti. E lui è soprattutto il tecnico che ha scritto la riforma che avrebbe dovuto togliere soldi e potere al Coni di Malagò in favore della società Sport e Salute, prima di essere (in parte) annacquata dall’ultimo decreto “salva-Coni” favorito da Pd e Italia Viva. A distanza di un anno e mezzo si è già reinsediato da qualche giorno nel suo vecchio posto, che intanto però è cambiato: non è più un semplice “ufficio”, è diventato un vero e proprio “dipartimento”, una sorta di Dicastero voluto dall’ex ministro Spadafora.

Aver scelto Sciscioli dà una prima impronta al mandato della Vezzali, lascia intuire chi ha suggerito il suo nome a Draghi. E certo non farà piacere al Coni. Anche in quest’occasione, come già per la poltrona di sottosegreteria (allora fu bocciata la “delfina” Diana Bianchedi), Malagò aveva un suo candidato, il consigliere Carlo Presenti, pare attraverso i buoni uffici dell’ex ministro Franco Frattini. Subito stoppato. Evidentemente Giorgetti continua a vigilare sullo sport. Da lontano, in Consiglio dei ministri. E adesso pure da vicino, col suo uomo a Palazzo Chigi.

 

Per riaprire “prima” serve un altro decreto

In origine doveva essere un “contentino” da concedere a Matteo Salvini per non fare le barricate in Consiglio dei ministri. Ma ora quell’inciso inserito nel decreto Aprile rischia di trasformarsi in un boomerang per il governo Draghi. Sia perché molti giuristi attaccano l’esecutivo che in questo modo si garantisce pieni poteri sulle norme anti Covid, sia perché il leader della Lega chiederà di far valere quella “clausola” e iniziare a riaprire il prima possibile. L’oggetto del contendere è il codicillo inserito nel decreto approvato dal governo il 31 marzo che ha chiuso l’Italia ad aprile. All’articolo 1 si legge: “In ragione dell’andamento dell’epidemia, nonché dello stato di attuazione del Piano vaccini (…), con deliberazione del Consiglio dei ministri, sono possibili determinazioni in deroga al primo periodo e possono essere modificate le misure”. Ergo: basterà una semplice delibera del governo per modificare le misure senza dover passare dal Parlamento. Un’ipotesi che potrebbe verificarsi già nei prossimi giorni visto che il centrodestra chiede un “tagliando” dei dati e anche zone gialle e riaperture. Anche se il premier Draghi ieri in conferenza stampa ha fatto un passo indietro ammettendo l’errore: “Se necessario faremo un decreto”.

Il premier si è convinto della falla dopo che anche l’ufficio Studi di Camera e Senato ieri ha fatto a pezzi la norma nel dossier relativo al decreto. Il linguaggio è felpato ma il significato esplosivo: per i tecnici del Parlamento non si potrebbe utilizzare una fonte normativa di rango così inferiore come una delibera del Cdm per modificare un decreto (atto avente forza di legge). “Non pare specificato l’atto formale che assuma la deliberazione – scrivono i tecnici – fermo restando che sarebbe necessaria una norma di analogo rango”. Inoltre il servizio studi ricorda come le delibere del Cdm, dall’inizio della pandemia, siano state usate solo 7 volte e mai per misure che limitano la libertà personale.

I tecnici delle Camere criticano il governo anche sugli effetti abnormi della norma: “Parrebbe suscettibile di approfondimento chiarire – si legge nel dossier – quali siano portata e contenuto delle ‘determinazioni in deroga’”. L’esecutivo, insomma, avrebbe dovuto specificare i limiti entro i quali si può operare in deroga al decreto. Per dire: la delibera potrebbe introdurre nuove zone gialle? Potrebbe anche abolire le restrizioni? Non è dato saperlo. Infine il servizio studi conclude ricordando che il governo non può modificare le misure anti-Covid aggirando il Parlamento: il decreto 19 del marzo 2020 “ha connesso allo strumento del Dpcm l’obbligo informativo preventivo” alle Camere. A questo proposito, in Commissione Affari Costituzionali al Senato il Pd presenterà un emendamento per modificare la misura: “Questo atto dovrebbe essere sottoposto all’obbligo di parlamentarizzazione dei dpcm” spiega il presidente della Commissione Dario Parrini. D’accordo il presidente del Comitato per la Legislazione Stefano Ceccanti (Pd): “Tutto va parlamentarizzato”.

Il Recovery “bis”, tutto deroghe e triple task force

La task force sul Recovery plan si fa in tre. Lo ha spiegato ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi nel corso della riunione con le Regioni. E siccome triplicherà, è “fuori discussione” che triplicherà anche il numero di addetti, funzionari, consulenti che dovranno portare a casa il Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Che ora, ci scommettiamo, sarà circondato da una discussione più razionale rispetto a quella polemica surreale e strumentale che in particolare Italia Viva scagliò contro la task force immaginata dal governo Conte.

Il senso dell’incontro di ieri, oltre a presentare la governance del Pnrr, che vedremo meglio, è stato anche quello di rendere omaggio al nuovo mantra della fase che viene: semplificare, semplificare, semplificare. Lo chiede il governo alle Regioni e queste chiedono di essere messe in grado di agire liberamente fino a pronunciarsi con il presidente campano, Vincenzo De Luca, per l’abolizione dell’abuso di ufficio. L’aria che tira è questa, dunque: vanno realizzate le opere, i tempi sono stretti e quindi occorre capire come derogare alle norme e alle regole, ma senza darlo a vedere. “Abbiamo perso credibilità da tempo, per centinaia di miliardi di investimenti mai fatti. Bisogna chiedersi se il quadro normativo è adatto”, ha infatti sottolineato Draghi.

Quanto alla governance, il presidente del Consiglio ha specificato che per il Pnrr “è prevista una struttura centrale che ha una funzione di coordinamento, riceve il denaro dalla Commissione europea e lo dà agli enti attuatori a seconda dei lavori in corso. Gli enti danno poi riscontro dei pagamenti”. La struttura di coordinamento centrale, quindi, supervisiona l’attuazione del Piano, ma accanto a questa struttura di coordinamento, agiscono una struttura di valutazione e una struttura di controllo. Le tre task force, quindi che sovrintendono a tutta l’operazione, mentre le amministrazioni sono responsabili dei singoli investimenti e delle singole riforme. Inviano i loro rendiconti alla struttura di coordinamento centrale, per garantire le successive richieste di pagamento alla Commissione europea. Ma se tre task force centrali non dovessero bastare, il governo intende inoltre costituirne di locali che aiutino le amministrazioni territoriali a migliorare la loro capacità di investimento e a semplificare le procedure.

La supervisione politica del piano – uno degli elementi centrali del Pnrr – è affidata a un comitato istituito presso la Presidenza del Consiglio a cui partecipano i ministri competenti.

“Molti si chiedono se questo Piano sia in continuità o meno con il precedente: è certamente in continuità in alcune aree dove la discontinuità non aveva nessun motivo di esserci, ed è in forte discontinuità in altre aree”, senza specificare però quali. Più preciso, invece, il Ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta, che in un colloquio sul web, ha dichiarato che il Recovery Plan “sta cambiando molto, soprattutto sulla parte digitale e sulla parte verde: le richieste dei nuovi ministri sono superiori di 30 miliardi rispetto al plafond disponibile, bisognerà fare una scelta di cosa tenere fuori e decidere di finanziare con altro plafond e cosa lasciare nel piano”. È l’ammissione che è in corso un bel braccio di ferro tra i vari ministeri e solo alla fine si vedrà come finirà. Non ci saranno infatti molte altre occasioni per discutere, come ha spiegato la ministra Mariastella Gelmini ai presidenti di Regione: “Abbiamo tempi stretti, non possiamo allungare le nostre discussioni all’infinito”. E in ogni caso, Draghi dovrà riferire alle Camere il 26 e 27 aprile, tre giorni prima della scadenza del 30 aprile, quindi il Parlamento avrà giusto il tempo di una discussione su mozioni generali.

Infine, un grande ritorno è anche l’agenzia sulla cyber-security. La rilancia il sottosegretario ai Servizi, Franco Gabrielli, come riporta la rivista online Formiche: “È arrivato il tempo di creare una struttura, un’agenzia, che tratti in maniera olistica il tema della sicurezza cibernetica”. Questo perché “il Paese vive una primaria esigenza”, quella di “rafforzare la sua resilienza”. Anche questa, ora che c’è Draghi, si può fare.

Draghi in affanno sui vaccini: “La priorità va agli anziani”

Il giorno dopo l’ennesimo caos provocato dalle incertezze su Astrazeneca, Mario Draghi sembra toccare con mano tutte le difficoltà del quadro nel quale si trova calato. Per questo, per dare un messaggio politico, incontra Pier Luigi Bersani prima di Matteo Salvini. Per questo si appella alla “coscienza” e condanna i “salta fila”, finendo solo per evidenziare le fragilità e le problematiche della campagna vaccinale. Per questo, dà del “dittatore” a Erdogan, anche se deve aggiungere che “ne abbiamo bisogno”.

In una conferenza stampa nella quale il premier più volte auspica riaperture ammettendo però di non avere ancora una data, dice parole definitive sul ministro della Salute, Roberto Speranza e sul fatto che il leader della Lega lo ha messo sotto attacco: “Ho detto a Salvini che ho voluto io Speranza e ne ho molta stima”.

Buona parte della conferenza stampa però verte sui vaccini: “La coscienza riguarda i cittadini, riguarda tutti” , rimarca il premier che punta il dito sulle “responsabilità” dei furbetti del vaccino. Nobile intento che però si infrange proprio sull’esempio che fa. Infatti, stigmatizza le platee di operatori sanitari “che si allargano agli psicologi di 35 anni, a tanta gente che non è in prima linea”. Nel decreto del primo aprile, si dispone l’obbligo proprio per questa categoria di vaccinarsi, con sospensione dello stipendio fino al 31 dicembre per i dipendenti e obbligo di non lavorare fino a quella data per i liberi professionisti. Una falla nella campagna, evidentemente. D’altra parte, ieri vicino a Draghi c’è Franco Locatelli, coordinatore Cts. Un modo per ribadire che la decisione di raccomandare Astrazeneca agli over 60 è scientifica e non politica. Draghi non attribuisce responsabilità precise alle Regioni, ma più volte usa l’espressione “è il momento delle decisioni”. Che significa un cambio nella campagna. Potranno riaprire le Regioni che vaccineranno le categorie più esposte. Oggi il generale Figliuolo emanerà una direttiva per dire che prima devono essere vaccinati gli anziani e i fragili. Lo stesso che qualche tempo fa arrivò a dichiarare di “vaccinare il primo che passa”. La filosofia la illustra lo stesso premier: “Vedremo come inserire con i ministri il parametro delle vaccinazioni delle categorie a rischio tra i parametri che si usano per autorizzare le riaperture. Pensate quant’è importante soprattutto per la riapertura delle scuole, soprattutto per quelle dei più grandi: uno dei criteri per chiudere era che tornavano a casa e contagiavano i vecchi, i nonni”.

Ripete Draghi il sospetto che Astrazeneca si sia venduta le dosi 2 o 3 volte, ribadisce la fragilità dei contratti fatti con le cause farmaceutiche, ribadisce che bloccare l’export è complesso per chi rispetta le consegne (come Pfizer-Biontech), ma poi di nuovo ferma le fughe in avanti sullo Sputnik. Nonostante la notizia che la Germania stringerà accordi bilaterali per il siero russo. “Aspettiamo Ema, ma le capacità produttive della Russia sono limitate”. Ancora: “Non sappiamo se funziona con le varianti”. Nella geopolitica dei vaccini, affidarsi a Putin per l’Italia a ora non è possibile. Sul caso di Ursula Von Der Leyen lasciata sul divano ad Ankara, con Erdogan e Charles Michel seduti su una sedia, è netto: “Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione della presidente della Commissione. Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco”. Però, “deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese”. Per tutta risposta, il ministro degli Esteri turco lo definisce “populista” e “non eletto”. E la Turchia convoca l’Ambasciatore italiano ad Ankara.

Torna anche a parlare di Libia. Durante la sua visita a Tripoli aveva ringraziato il Paese per i “salvataggi in mare”. Frase inquietante, visto come la Libia tratta i migranti. Ieri ha raccontato di aver detto al premier libico di essere per il superamento dei centri di detenzione. Altro dato da verificare nella realtà.

Ma con chi ce l’ha?

Diversamente da Michela Murgia, che ne è spaventata, devo confessare che a me il Comm. Str. Gen. C. Arm. F. P. Figliuolo non fa paura: fa ridere. Più che un generale golpista, mi ricorda un generico cabarettista. Lo so che non c’è niente da ridere, trattandosi dell’Uomo che, a suon di “svolte”, “blitz”, “raid”, “piani”, “task force” e “accelerazioni”, ci salverà dalla pandemia con la mirabolante campagna da 500mila vaccini al giorno. Ma che dico 600mila: 700mila! Ma che dico 600mila: 700mila, e ci mettiamo sopra anche una batteria di padelle antiaderenti! Quindi non lo faccio apposta, anzi mi sforzo allo spasimo per prenderlo sul serio. Ma è più forte di me. Prendete i suoi motti secchi e perentori come raffiche di mitra riassunti l’altra sera da Floris: “Sono abituato a vincere”, “Svolta o perderemo tutto”, “Chiuderemo la partita”, “Daremo fuoco a tutte le polveri”. Più che un colonnello greco o un generale argentino, richiamano il colonnello Rampaldo Buttiglione di Alto Gradimento, poi promosso da Mario Marenco a Generale Damigiani, protagonista di tanti b-movie di Castellano&Pipolo. L’altro giorno, reduce dalle grandi manovre in Lombardia, ha scandito: “Nuovo fiato alle trombe”. E il pensiero è corso commosso a Mike Bongiorno: “Fiato alle trombe, Turchettiiii! Allegriaaaa!”. Ma qui c’è poco da stare allegri: Astrazeneca oggi è vietato ai maggiori e domani ai minori, le case farmaceutiche fanno a gara a tagliarci le dosi per rivendersele a sei diversi committenti e le Regioni continuano a fare come pare a loro anche dopo la “scossa” di Draghi&Figliuolo e la “centralizzazione dei vaccini” (a proposito: in quale legge, decreto, dpcm, ordinanza, delibera è scritto che la campagna vaccinale è stata tolta alle Regioni e affidata al governo? No, perché a noi, malgrado un centinaio di titoli sui giornaloni, non risulta).

Ieri poi il generalissimo è tornato alla vecchia gag dei “500mila vaccini al giorno”, perché “il piano non cambia” (tanto ci può scrivere quello che vuole ed è già sicuro che non si avvera) e “dobbiamo arrivarci a fine mese” (fino all’altroieri era a metà mese, ora a fine mese, ma lui furbo non dice mai di quale mese, quindi vale pure per novembre, per dire). E mi sono domandato: ma a chi si rivolge, esattamente? Non ce l’avrà mica con me? Perché personalmente non ho nulla in contrario, anzi ne sarei felice, così prima o poi tocca pure ai 56enni. Ma, per quanti sforzi faccia, temo di non poter fare nulla di utile. A volte sospetto di essere stato nominato io, commissario straordinario anti-pandemia, a mia insaputa. Nel dubbio, prima di finire punito in fureria, conviene rispondere: “Signorsì, signore! Come ha detto? 500mila al giorno? Mo’ me lo segno”.

Che Forte Iaia nei panni di Tony, l’esilarante cantante di Sorrentino

Se nel teatro shakespeariano gli attori maschi interpretavano finanche i personaggi femminili, in Hanno tutti ragione avviene l’esatto opposto. Ma il monologo di Tony Pagoda è più “un negativo maschile allucinato e rauco dell’urlo d’amore della Molly Bloom di Joyce”.

È un’irriconoscibile Iaia Forte la protagonista del nuovo appuntamento con Tutta scena – Il teatro in camera. E nel suo fortunato adattamento del testo di Paolo Sorrentino (regia teatrale di Pierfrancesco Pisani, musiche eseguite da Fabrizio Romano), da oggi in streaming su TvLoft, il travestimento è stupefacente: occhiali anni 70, capelli impomatati, il passo pesante e le movenze del maschio alfa. Eppure l’attrice è perfettamente a proprio agio nel ruolo. “Questo cantante cocainomane, disperato e vitale, è una creatura così oltre i generi che può essere incarnato anche da una donna”, dice Forte. “Mi piace immaginare che il ghigno gradasso di Pagoda nasconda un’anima femminile. E poi il teatro è un luogo in cui il naturalismo può essere bandito, e i limiti della realtà espandersi”.

E a espandersi e prendere vita in Hanno tutti ragione è in prima battuta l’omonimo romanzo di Sorrentino, finalista allo Strega nel 2010 e a sua volta ispirato al debutto del regista napoletano, L’uomo in più del 2001: il cantante neomelodico Tony Pagoda è il calco del Tony Pisapia di allora, interpretato da Toni Servillo. Una triangolazione che ritorna, nella carriera dell’attrice, che con Servillo debuttò in teatro e che ancora nel 2013 ha recitato sul set del premio Oscar La grande bellezza. Segno della comune appartenenza partenopea, e di una sostanziale unità di vedute: “L’idea di mettere in scena il protagonista del romanzo di Sorrentino mi è venuta per innamoramento. Avevo letto in pubblico due capitoli del libro a Fiesole, e il piacere di incarnare Tony Pagoda è stato tale che mi ha fatto desiderare di farne uno spettacolo”.

Così il sogno americano di Tony è diventato un successo di pubblico sui palchi nostrani. Al centro della scena, l’anelato incontro con Sinatra, le prostitute e le amanti occasionali, le amicizie coi camorristi, il grande amore della gioventù. E soprattutto le massime “filosofiche” dello sgangherato cantante napoletano, che Sorrentino immaginava come “il prototipo di tutti gli eccessi degli anni 70 e 80” e che trattava con indulgenza e tenerezza. Ostenta sicurezza Pagoda, ma nasconde fragilità. Un’ambivalenza che Iaia Forte interpreta alla grande, tra una canzone e una sigaretta. “La vita è una favolosa rottura di coglioni. Ma su cosa dobbiamo concentrarci? Sulla rottura di coglioni o sul favoloso?” Agli spettatori di TvLoft le risposte, in attesa del prossimo appuntamento, con Tullio Solenghi, il 15 aprile.

I “Bauli in piazza” tornano a fare “Rumore” nel silenzio

Da zero a più di mille. Sì, ma quanti saranno gli spettatori ammessi ai concerti nella stagione estiva? Franceschini e Speranza stanno incalzando il Cts per un nuovo protocollo che permetta alla filiera musicale di ripartire, anche se con un passo fatalmente incerto.

Comunque vada, anche in questo 2021 dovremo dimenticarci i maxieventi rock e pop negli stadi. Perché impresari e artisti non troverebbero praticabile una soluzione “calcistica”, come quella che l’Uefa ha autorizzato per i Campionati europei in giugno. All’Olimpico entreranno circa 15 mila tifosi, il 25 per cento della capienza dell’impianto. Un numero del tutto insufficiente per permettere un bilancio di pareggio nei tour di Vasco, Ultimo, Ferro, Nannini, che da tempo hanno registrato prevendite da sold out. Per non parlare del Campovolo di Ligabue (attese più di centomila persone) e, sempre nell’aeroporto reggiano, della serata antiviolenza con le stelle in rosa. Se ne riparlerà nel 2022, incrociando le dita.

A guardarlo adesso, il calendario dell’anno prossimo appare lusinghiero, anche grazie all’arrivo di superbig dall’estero: Pearl Jam a Imola il 25 giugno, Guns N’ Roses annunciati a San Siro il 10 luglio, dove magari sbarcherà pure Springsteen. Sempre nel 2022 attesi anche Yes e Kraftwerk, più l’ostinato Ozzy Osbourne, già due volte costretto a rimandare la tappa live a Bologna, dove dovrebbe far capolino l’8 febbraio.

Quanto ai nostri, si attendono annunci ufficiali di rinvio: c’è una corposa stringa di show con Baglioni in questo giugno 2021 a Caracalla, mentre quasi tutti gli altri si sono rassegnati ad attendere tempi più sicuri. I Maneskin scommettono sulla consacrazione a fine anno, in un autunno-inverno dove palazzetti e teatri potrebbero tornare praticabili. Tra i fiduciosi in una soluzione a breve, Emma (6 giugno prossimo) e Francesco Gabbani (4 luglio) in cartellone all’Arena di Verona, dove verranno applicate particolari procedure di sicurezza. Esperimenti, tentativi già visti all’estero.

Il problema, però, è che una ripresa slow del settore rischia di tagliare via tutti i lavoratori intermedi che assicurano lo svolgimento dei concerti: fonici, tecnici di palco, operatori delle luci e così via. Professionisti ingaggiati a chiamata, che mai potrebbero permettersi altri mesi di inattività. E anche se il governo ha già varato misure di sostegno dedicate (altri 50 milioni stanziati un mese fa) la situazione è ben oltre la soglia di emergenza. Per farsi sentire, quelli dell’associazione Bauli in Piazza, protagonisti nell’ottobre scorso di un happening in piazza Duomo a Milano, hanno intrapreso un simbolico tour #IlRumoreDelSilenzio in quattro date: ieri all’Unipol Arena di Bologna, oggi al Mediolanum Forum, domani al Pala Alpitour di Torino, sabato al Palasport di Roma. Quattro brevi esibizioni di altrettanti artisti, in diretta internet alle 10 del mattino, ciascuno di loro alle prese con l’emblematico, classico The Sound of Silence (a Bologna è intervenuto Fede Poggipollini, a Milano stamani c’è Saturnino Celani) eseguito negli impianti tristemente vuoti. E il 17 aprile Bauli in Piazza ha organizzato un rally capitolino in Piazza del Popolo.

“I sostegni previsti sono solo una leggera boccata d’aria dopo un lungo periodo di mancanza d’ossigeno”, ci ha detto il presidente Tiziano Rossi: “La crisi del nostro settore durerà ancora molto e non possiamo basarci sugli aiuti una tantum. Abbiamo bisogno di sostegni individuali almeno fino a dicembre 2021, aiuti alle aziende della filiera basati sul fatturato annuo generato da eventi, modelli chiari di ripartenza per dare una visione prospettica e agibilità imprenditoriale, un’azione chiara per riformare il settore dello spettacolo che tenga conto delle proposte delle realtà che in questi mesi hanno lavorato per immaginare un nuovo futuro possibile”, conclude. Anche perché il presente è ingestibile.

Stando ad Assomusica, da marzo a settembre 2020 sono saltati 4 mila concerti, e 250 mila famiglie di lavoratori del comparto sono rimaste senza occupazione. Il calo di fatturato ha sfiorato il 100 per cento, con una perdita di 700 milioni di euro, oltre a un 1,5 miliardo in meno relativo all’indotto. E sono numeri di sei mesi fa. Ora va decisamente peggio.