La voce di Edith è un filo lieve e implacabile che attraversa un tempo, un’epoca, una vita, milioni di vite, la Storia. Ma tutto avviene in una intimità di piccole gioie che portano ancora un bel sorriso giovane, e di là da uno spazio che tiene a bada il dolore, perché resti memoria ma non lamento. E perché non diventi processo, ma precisa testimonianza.
Come è arrivato, e come ha avuto presenza e spazio il Papa, in questo faccia a faccia, vita a vita, storia a storia, mai avvenuto prima? il Papa che passava di lì e si presenta alla porta della casa piccola e piena di luce di primavera di Edith Bruck? “Il Papa ha detto che voleva questo incontro e chiedeva di essere accolto. Sulla porta era grande, rispetto alla casa. Il Papa ha voluto sedersi lì (Edith mi indica una poltrona rigida con braccioli di legno) e non si è mai mosso di lì, nelle due ore in cui ha ascoltato e parlato. Si sporgeva in avanti quando voleva essere sicuro di essere chiaro, ma senza mai alzare la voce, che ha un calore e un suono di famiglia, non di autorità”.
Come mai, Edith, il presentarsi e l’entrare in questa stanza di quell’uomo vestito di bianco, famoso, certo, importante nel mondo, ma non nella tua vita, e nella tua memoria, che da allora è il senso e, come allora, la forza del continuare e vivere, come mai è stato un evento che ti ha commosso? Commosso, sono parole tue. Edith infatti ripete: “È stata una emozione grande. Anche lui era commosso. Non eravamo dentro questa stanza, eravamo in un momento molto più tremendo e molto più grande e più bello, come se fosse possibile restare lontani per sempre da indifferenza, persecuzione, solitudine, condanna senza ragione e senza ritorno”.
La luce di primavera illumina la stanza, come se l’evento fosse destinato a durare, o almeno a trattenere un segno della strana storia. “Sì, è stata una strana storia. Perché è venuto? Perché io ero così emozionata?”. La bambina del piccolo villaggio ungherese che non è segnato sulle mappe – in un tempo e in un mondo feroce, in cui la madre nascondeva un po’ di pane per poter fare festa con i bambini e il padre nel giorno del Pesach (la Pasqua ebraica, ndr) – ha provveduto, col suo racconto, a chiamare il Papa nella casa di Edith Bruck, la scrittrice, grande narratrice di memoria. Il Papa aveva appena letto il libro Il pane perduto, storia di quella bambina abbracciata alla vita che gli uomini di Goebbels e di Eichmann non sono riusciti a sradicare dal suo piccolo spazio di terra arida, e non sono riusciti a impedire che l’alberello che avrebbe dovuto morire subito, diventasse, tanto tempo dopo, per un Papa, il promemoria di un passato mai veramente passato e perciò impossibile da dimenticare.
Qui entra in scena il suo scrivere. La bambina di una povera terra ungherese senza erba e senza alberi gridava alla mamma: “Voglio scrivere!”. E ha continuato ostinata a dire “scriverò” e a scarabocchiare poesie anche nei momenti di una vita già spinta a finire. Come diventa racconto la memoria? Certo quelle pagine del Pane perduto hanno mosso il Papa che ha voluto venire a vedere dove nasce il racconto. “Conosceva il mio libro citando pagine, nomi ed episodi, come quando una guardia mi forza, con durezza e insulti, a staccarmi dalla mano di mia madre, già avviata a morire, e così, col suo gesto brutale, mi salvava la vita mandandomi a spintoni verso la parte dove i non vecchi e i non malati dovevano restare vivi per lavorare… È stato lui a ricordare la storia della gavetta. Un soldato mi ha buttato addosso la sua gavetta sporca e io credevo che quel gesto cattivo fosse l’ordine di lavarla. Ma mi sono accorta che sul fondo della gavetta c’era uno strato di marmellata, un regalo immenso”.
Edith ha gli occhi umidi, come – mi dice – nel momento del confronto fra “la scrittrice” e il Papa. Ma le importa dirti che la memoria, per quanto devastante, è un conforto se puoi farla diventare racconto e chiamare altri esseri umani, che non sanno e non c’erano, ad ascoltarti.
“Però devo confessare che non ho conservato nulla di ciò che, subito dopo il ritorno, ho scritto in ungherese e in Ungheria. Non avevo ancora trovato la giovane persona adulta, uscita viva e intatta dal massacro. L’Italia mi ha scosso e mi ha svegliata, e da allora scrivo e ho continuato a scrivere fino a questo libro nelle mani del Papa seduto su quella poltrona, intento a cercare, fra le pagine, le parti e i personaggi che ricordava e di cui voleva parlarmi o farmi domande. Accanto a me c’era un lettore attento, non il capo di una Chiesa, di uno Stato, di un potere… Il Papa voleva sapere, non insegnare, e questo lo faceva apparire dolce e un po’ timido, benché così grande anche fisicamente. Avremmo potuto pregare insieme. Se io fossi credente”.
Alla fine dell’incontro, il Papa “ha scelto di scrivere la sua dedica sulla prima pagina del mio libro, che aveva sempre tenuto in mano, parlando. Ha scritto, con una calligrafia piccola e ordinata: ‘A Edith con ammirazione e gratitudine per il suo coraggio e la sua testimonianza, fraternamente. Francesco”.