Edith, l’amica ritrovata

La voce di Edith è un filo lieve e implacabile che attraversa un tempo, un’epoca, una vita, milioni di vite, la Storia. Ma tutto avviene in una intimità di piccole gioie che portano ancora un bel sorriso giovane, e di là da uno spazio che tiene a bada il dolore, perché resti memoria ma non lamento. E perché non diventi processo, ma precisa testimonianza.

Come è arrivato, e come ha avuto presenza e spazio il Papa, in questo faccia a faccia, vita a vita, storia a storia, mai avvenuto prima? il Papa che passava di lì e si presenta alla porta della casa piccola e piena di luce di primavera di Edith Bruck? “Il Papa ha detto che voleva questo incontro e chiedeva di essere accolto. Sulla porta era grande, rispetto alla casa. Il Papa ha voluto sedersi lì (Edith mi indica una poltrona rigida con braccioli di legno) e non si è mai mosso di lì, nelle due ore in cui ha ascoltato e parlato. Si sporgeva in avanti quando voleva essere sicuro di essere chiaro, ma senza mai alzare la voce, che ha un calore e un suono di famiglia, non di autorità”.

Come mai, Edith, il presentarsi e l’entrare in questa stanza di quell’uomo vestito di bianco, famoso, certo, importante nel mondo, ma non nella tua vita, e nella tua memoria, che da allora è il senso e, come allora, la forza del continuare e vivere, come mai è stato un evento che ti ha commosso? Commosso, sono parole tue. Edith infatti ripete: “È stata una emozione grande. Anche lui era commosso. Non eravamo dentro questa stanza, eravamo in un momento molto più tremendo e molto più grande e più bello, come se fosse possibile restare lontani per sempre da indifferenza, persecuzione, solitudine, condanna senza ragione e senza ritorno”.

La luce di primavera illumina la stanza, come se l’evento fosse destinato a durare, o almeno a trattenere un segno della strana storia. “Sì, è stata una strana storia. Perché è venuto? Perché io ero così emozionata?”. La bambina del piccolo villaggio ungherese che non è segnato sulle mappe – in un tempo e in un mondo feroce, in cui la madre nascondeva un po’ di pane per poter fare festa con i bambini e il padre nel giorno del Pesach (la Pasqua ebraica, ndr) – ha provveduto, col suo racconto, a chiamare il Papa nella casa di Edith Bruck, la scrittrice, grande narratrice di memoria. Il Papa aveva appena letto il libro Il pane perduto, storia di quella bambina abbracciata alla vita che gli uomini di Goebbels e di Eichmann non sono riusciti a sradicare dal suo piccolo spazio di terra arida, e non sono riusciti a impedire che l’alberello che avrebbe dovuto morire subito, diventasse, tanto tempo dopo, per un Papa, il promemoria di un passato mai veramente passato e perciò impossibile da dimenticare.

Qui entra in scena il suo scrivere. La bambina di una povera terra ungherese senza erba e senza alberi gridava alla mamma: “Voglio scrivere!”. E ha continuato ostinata a dire “scriverò” e a scarabocchiare poesie anche nei momenti di una vita già spinta a finire. Come diventa racconto la memoria? Certo quelle pagine del Pane perduto hanno mosso il Papa che ha voluto venire a vedere dove nasce il racconto. “Conosceva il mio libro citando pagine, nomi ed episodi, come quando una guardia mi forza, con durezza e insulti, a staccarmi dalla mano di mia madre, già avviata a morire, e così, col suo gesto brutale, mi salvava la vita mandandomi a spintoni verso la parte dove i non vecchi e i non malati dovevano restare vivi per lavorare… È stato lui a ricordare la storia della gavetta. Un soldato mi ha buttato addosso la sua gavetta sporca e io credevo che quel gesto cattivo fosse l’ordine di lavarla. Ma mi sono accorta che sul fondo della gavetta c’era uno strato di marmellata, un regalo immenso”.

Edith ha gli occhi umidi, come – mi dice – nel momento del confronto fra “la scrittrice” e il Papa. Ma le importa dirti che la memoria, per quanto devastante, è un conforto se puoi farla diventare racconto e chiamare altri esseri umani, che non sanno e non c’erano, ad ascoltarti.

“Però devo confessare che non ho conservato nulla di ciò che, subito dopo il ritorno, ho scritto in ungherese e in Ungheria. Non avevo ancora trovato la giovane persona adulta, uscita viva e intatta dal massacro. L’Italia mi ha scosso e mi ha svegliata, e da allora scrivo e ho continuato a scrivere fino a questo libro nelle mani del Papa seduto su quella poltrona, intento a cercare, fra le pagine, le parti e i personaggi che ricordava e di cui voleva parlarmi o farmi domande. Accanto a me c’era un lettore attento, non il capo di una Chiesa, di uno Stato, di un potere… Il Papa voleva sapere, non insegnare, e questo lo faceva apparire dolce e un po’ timido, benché così grande anche fisicamente. Avremmo potuto pregare insieme. Se io fossi credente”.

Alla fine dell’incontro, il Papa “ha scelto di scrivere la sua dedica sulla prima pagina del mio libro, che aveva sempre tenuto in mano, parlando. Ha scritto, con una calligrafia piccola e ordinata: ‘A Edith con ammirazione e gratitudine per il suo coraggio e la sua testimonianza, fraternamente. Francesco”.

Italia-Afghanistan. Cosa c’è da salvare

Mentre qui da noi si muore di paura, in altri luoghi del mondo ci si batte e, anche, si muore.

In Afghanistan i Talebani combattono l’esercito governativo e l’Isis, l’esercito governativo i Talebani, l’Isis è contro tutti, in particolare i civili, con attacchi kamikaze perché per quei guerriglieri la morte non è il terrore puro come da noi, ma è un’uscita dalla vita per entrare nel paradiso delle Uri (atteggiamento che, Uri a parte, dovrebbe appartenere anche ai cattolici che credono in un “Aldilà” ma hanno paura della morte quanto gli altri e forse più degli altri perché molti di loro, che hanno la coscienza sporca, temono di finire all’inferno – “L’Inferno esiste solo per chi ne ha paura”, il solito De André).

Negli ultimi due mesi c’è stata una serie di attentati contro la polizia a Kabul mentre a Herat un’autobomba si è lanciata contro una sede locale della polizia facendo otto morti e una cinquantina di feriti. Questi attacchi sono molto probabilmente talebani perché gli indipendentisti afghani colpiscono obiettivi militari o politici, mai direttamente i civili. Per la semplice ragione, come ho scritto tante volte, che non hanno nessun interesse a inimicarsi la popolazione sul cui sostegno hanno potuto contare per una resistenza durata vent’anni e risultata alla fine vincente. Del tutto destituite di fondamento sono le recenti notizie che attribuiscono ai Talebani l’uccisione di tre infermiere che stavano praticando iniezioni antipolio. Questa è sicuramente farina del sacco Isis. Come può confermare Gino Strada, che con Emergency ha avuto varie cliniche in Afghanistan, i Talebani non si sono mai accaniti contro ospedali e personale medico di cui durante la guerriglia avevano estremo bisogno. L’equivoco, se in buona fede, nasce da un episodio dell’agosto 2010 che fece scandalo in Occidente. Un gruppo di otto missionari laici, sei americani, una tedesca e un’inglese, si stavano recando in un remoto villaggio dell’Afghanistan fra il Nuristan e il Badakhshan, sotto controllo talebano per un “progetto oculistico”. Il comandante talebano della zona li arrestò e li fece fucilare. Come potevano essere sicuri i guerriglieri che dei civili americani o britannici o tedeschi non passassero informazioni, magari incidentalmente, ai propri connazionali in armi? Per loro ne andava della pelle. In seguito la Cia ha confermato ufficialmente che si serviva di molti missionari perché passassero informazioni all’intelligence americana. Il comportamento talebano era quindi legittimo sia dal punto sostanziale che formale. Sono gli equivoci delle guerre mascherate come “missioni umanitarie” o di “peace keeping”. Nel Secondo conflitto mondiale, quando la guerra era ancora una cosa seria ed esisteva uno ius belli, non sarebbe stato nemmeno immaginabile che un gruppo di missionari tedeschi, animati dalle migliori intenzioni, operasse al di là delle linee inglesi. O viceversa. Sarebbero stati arrestati e fucilati.

Della guerra all’Afghanistan in Occidente si parla pochissimo, forse per il disonore di averla persa, nonostante l’uso a tappeto dei B52 e dei droni che hanno colpito, e sì sì, più volte, degli ospedali, contro un esercito di straccioni armato solo di kalashnikov, granate e senza nemmeno un missile Springer (altro che sostegno dei servizi segreti pachistani) che, fornito dagli americani ai “signori della guerra” afghani durante l’invasione russa fu l’arma decisiva che convinse i sovietici ad abbandonare il campo.

Durante il recente vertice Nato a Bruxelles i tedeschi, che sono presenti in Afghanistan, si sono detti dubbiosi su un ritiro dal Paese delle forze occupanti nonostante da un anno gli americani si stiano ritirando lasciando sul campo solo 8.000 uomini e solo rinviando, d’accordo con la delegazione talebana con cui stanno trattando a Doha, il ritiro totale a maggio. L’atteggiamento tedesco è curioso. I tedeschi non hanno partecipato né alla guerra alla Serbia, né all’Iraq, né alla Libia perché erano conflitti che non avevano la copertura dell’Onu, anzi ai quali l’Onu si era dichiarata contraria. Sono andati in Afghanistan nel 2001 perché sotto l’emozione suscitata dall’abbattimento delle Torri Gemelle gli americani erano riusciti a ottenere, con la copertura Onu, l’appoggio di una cinquantina di contingenti di vari Paesi. Ma oggi che è stato accertato senza ombra di dubbio che la dirigenza talebana dell’epoca non sapeva nulla di quell’attentato e nulla c’entrava, che, come ha affermato lo stesso Joe Biden quando era vice di Obama, i Talebani non sono dei “terroristi” ma degli indipendentisti, quella missione non ha più alcun senso.

E l’Italia? L’Italia conserva in Afghanistan 800 effettivi. Le perdite italiane, spalmate su vent’anni, sono state davvero poche: 53 in tutto. 31 militari sono morti in conflitto, 10 in incidenti stradali, due per infarto, uno di malattia, uno caricando la sua arma mentre cercava di insegnare agli afghani, che le armi le conoscono dalla nascita, il suo uso. Una fine davvero poco gloriosa.

In Afghanistan c’è stato anche il generale Figliuolo che non si è distinto in modo particolare. Del resto non ce n’era bisogno. Fedeli come cani ma sleali come sempre, avevamo concluso sin dall’inizio degli accordi leonini con vari comandanti talebani: loro non ci avrebbero attaccato e noi avremmo fatto solo finta di controllare il territorio. Inoltre siamo basati principalmente a Herat sotto la protezione di uno dei “signori della guerra”, Ismail Khan. Ma adesso non possiamo stare più tanto tranquilli. Quando gli americani abbandoneranno definitivamente il Paese, basi comprese, i Talebani attaccheranno sicuramente anche le città, Kabul, Mazar-i Sharif, Herat (Kandahar è già in mano loro), cosa che prima non potevano fare perché ogni volta che ci hanno provato interveniva l’aviazione Usa e Ismail Khan, che pur non è un uomo privo di coraggio ma non è disposto a sacrificarsi per il nulla, si rifugerà probabilmente in Iran come fece dopo la conquista talebana. Prima gli italiani se ne vanno meglio è. Ma c’è il problema di una cinquantina di interpreti cui era stato assicurato di poter venire in Italia con le loro famiglie per sottrarsi alle ritorsioni talebane che li considerano dei “collaborazionisti”. I Talebani non se la prenderanno con i soldati dell’esercito governativo perché in una Kabul che è passata da 1.200.000 abitanti dei tempi in cui governava Omar ai 5 milioni di oggi non avevano altra scelta: o arruolarsi coi governativi o con i Talebani. Ma la situazione degli interpreti, oltre, va da sé, degli alti comandi militari, dei dirigenti politici e amministrativi, dei magistrati, tutti corrotti fino al midollo, che hanno appoggiato i governi quisling prima di Karzai, poi del più decente Ashraf Ghani, è diversa. Hanno lavorato per gli occupanti, in questo caso gli italiani. Sono stati sleali verso il loro Paese, ma leali con noi. Abbiamo il dovere morale di tirarli fuori di lì se non vogliamo finire la nostra ingloriosa avventura in Afghanistan nel più ignominioso dei modi.

 

Macché Nuovo Rinascimento: “Quei diritti negati in Arabia”

Un Paese in cui “si è intensificata la repressione dei diritti alla libertà di espressione, associazione e riunione”, dove “a fine anno tutti i difensori dei diritti umani conosciuti (…) erano stati arrestati”, dove i tribunali infliggono ancora la pena di morte. L’Arabia Saudita nelle pagine dell’ultimo rapporto di Amnesty International sembra essere molto lontana da quel Paese che ieri Matteo Renzi in un’intervista al Corriere della Sera descriveva come “un baluardo contro l’estremismo islamico”. Ma quella che viene fuori dalla relazione dell’associazione che si occupa dei diritti umani non è proprio l’immagine di un “Nuovo Rinascimento”. Come ha detto il leader di Italia Viva il 28 gennaio scorso durante una conferenza organizzata dal Future Investment Initiative (Fii), l’istituto creato con decreto del re. Oggi Renzi è membro del board del Fii pagato 80 mila dollari l’anno. Quel 28 gennaio duettava col principe Mohammad bin Salman, lo stesso uomo che in un rapporto dell’intelligence degli Usa pubblicato a fine febbraio viene definito come il mandante del rapimento o dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi avvenuta in un consolato a Istanbul il 2 ottobre 2018. Quando Renzi partecipa alla conferenza del Fii, il rapporto degli Stati Uniti non è stato ancora reso pubblico, ma lo è quello di Agnès Callamard, “Special rapporteur” del Consiglio Diritti umani dell’Onu, che aveva indagato sul caso Khashoggi. Nel suo rapporto di giugno 2019, la Callamard parla di “prove credibili che richiedono ulteriori indagini, sulle responsabilità individuali di funzionari sauditi di alto livello, compreso il principe ereditario”. Oggi Callamard è la nuova segretaria generale di Amnesty International, nominata il 29 marzo scorso.

In 560 pagine, l’associazione dunque affronta la questione dei diritti umani in tutti gli Stati del mondo nell’anno della pandemia. Sull’Arabia Saudita è scritto: “Le autorità hanno intensificato la repressione dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica”, “hanno molestato, arrestato arbitrariamente e perseguito oppositori del governo, difensori dei diritti umani, familiari di attivisti e molti altri”. Nel report si parla anche del mercato del lavoro, quello che Renzi diceva di invidiare. “Per me è stato impressionante lavorare con tanti giovani uomini e tante giovani donne in alcuni progetti qui in Arabia Saudita. Voi avete una delle popolazioni più giovani del mondo e non voglio parlare del costo del lavoro a Riyad perché come italiano io sono geloso”, diceva a Mohammad bin Salman.

Per Amnesty la situazione dei lavoratori migranti con l’arrivo della pandemia è peggiorata: ce ne sono circa 10 milioni che “hanno continuato a essere gestiti con il sistema kafala (sponsorizzazione), che conferisce ai datori di lavoro poteri sproporzionati e impedisce ai migranti di lasciare il Paese o di cambiare impiego senza il permesso dei datori di lavoro, aumentando la vulnerabilità agli abusi e allo sfruttamento”.

Nel rapporto si parla di tutti gli Stati. Dell’Italia spiegano che con l’impatto del Covid-19, “le decisioni a livello nazionale e locale, insieme alla mancata implementazione di adeguati meccanismi di protezione, hanno aumentato il rischio di esposizione al virus per i residenti”.

E poi c’è l’Egitto. Qui “le autorità hanno continuato a punire qualsiasi forma di dissenso (…) e hanno represso duramente l’esercizio dei diritti alla libertà di riunione pacifica, d’espressione e associazione”. Decine di giornalisti “sono stati arbitrariamente detenuti”: l’informazione deve essere allineata anche quando si parla di Covid. E “la tortura è rimasta dilagante nei luoghi di detenzione ufficiali e informali”. Nel dossier si cita anche Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo. “L’autorità giudiziaria – è scritto – ha regolarmente omesso di aprire indagini a carico di agenti dell’agenzia per la sicurezza nazionale”. Si tratta dei quattro 007 per i quali la Procura di Roma ha chiesto il processo.

 

Invasione nazista, Atene chiede 289 miliardi a Berlino

La Grecia ci riprova: senza molte speranze, ripresenta alla Germania il conto di riparazioni di guerra per 289 miliardi di euro. C’è dentro il rimborso d’un prestito forzoso erogato dalla Grecia occupata dal Terzo Reich. Atene non pretende indietro tutta la somma: si accontenterebbe di avviare negoziati con Berlino sull’entità delle riparazioni e le modalità di pagamento. Il rinnovo della richiesta, di cui danno notizia media greci e tedeschi, coincide con l’anniversario, l’80°, dell’invasione della Grecia da parte delle truppe tedesche: l’Operazione Marita venne lanciata il 6 aprile 1941. All’Italia, in questa vicenda, conviene stare allineata e coperta, perché i tedeschi intervennero in Grecia per sbloccare lo stallo in cui era finita l’invasione italiana, avviata senza adeguata preparazione il 28 ottobre 1940. L’ultima volta che la Grecia aveva battuto cassa in Germania era stata nel 2019, quand’era premier Alexis Tsipras. L’attuale, il conservatore Kyriakos Mitsotakis, aveva sempre detto finora di considerare la questione aperta, ma di non volere mettere pressione sulla cancelliera tedesca Angela Merkel. Ora il ministero degli Esteri di Atene precisa che “la questione resterà aperta fin quando non saremo stati soddisfatti”. La stima dei danni, che ovviamente non ripaga la Grecia delle decine di migliaia di vittime civili durante il conflitto, è stata fatta da una commissione parlamentare. E il desiderio di rivalsa dei greci sui tedeschi è uscito accresciuto dalla risposta europea alla crisi del Paese, tra il 2009 e il 2012, quando si parlava di Grexit, che non fu certo all’insegna della solidarietà e della condivisione. La Germania ritiene la questione delle compensazioni di guerra risolta dagli accordi che nel 1990 resero possibile la riunificazione, le intese non coinvolsero Paesi occupati dai nazisti come Polonia e Grecia.

Nella guerra dei “cafoni”, Michel (Ue) batte Erdogan

Un cafone si aggira per l’Europa, anzi due. La scena del cerimoniale turco in cui il presidente Recep Erdogan ha previsto una sola sedia per accogliere i rappresentanti dell’Unione europea, lasciando in piedi la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha fatto il giro del mondo. Ma a risaltare maggiormente il giorno dopo, in quello che a Bruxelles è stato definito il Sofa-gate, è l’atteggiamento del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, sedutosi accanto a Erdogan e costringendo Von der Leyen, appunto, sul sofa.

Gran parte delle reazioni, provenienti dallo schieramento di centrosinistra, la più importante quella del Partito popolare europeo, ha messo in risalto l’atteggiamento di Erdogan, l’analogia con la recente uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, sui diritti delle donne, e quindi un malcelato maschilismo della presidenza turca. Da destra si critica invece la debolezza della Ue.

Che quella di Erdogan sia stata imperizia o arroganza è difficile stabilire, ma a colpire è la differenza delle reazioni all’accaduto da parte di Michel e Von der Leyen. Il primo ha praticamente fatto finta di niente, ritenendo rispettato il protocollo che lo ha trattato come il diplomatico di più alto rango nella Ue. Così Michel non ha avuto nemmeno la prontezza di rimanere in piedi e chiedere una sistemazione adeguata per la collega. La quale ha espresso la propria sorpresa e fatto filtrare stupore e disappunto per la vicenda oltre alla sottolineatura che il proprio il rango è pari a quello di Michel.

Una frattura più personale che politica, dunque, ma che rispecchia l’attuale inconsistenza europea. La Ue sembra infatti disposta a tollerare tutto, anche l’umiliazione della propria immagine, pur di tenere le relazioni con la Turchia. Il Sofa-gate, del resto, non è nulla al confronto delle dure condanne sentenziate ieri contro gli autori del presunto “golpe” del 2016, con ben 32 ergastoli. Senza contare i recenti arresti dei parlamentari dell’opposizione democratica, le provocazioni su Cipro, la tensione nel Mediterraneo orientale per lo sfruttamento del sottosuolo marino e, soprattutto, la costante e reiterata minaccia di aprire le frontiere ai migranti. La Turchia ne controlla circa 4 milioni, anche in seguito all’accordo con l’Europa che sganciò la bellezza di 6 miliardi per subappaltarle il ruolo di guardiano ferreo delle frontiere.

Già il 25 marzo scorso, del resto, al termine del Consiglio europeo si faceva affidamento sullo sviluppo di relazioni più forti e stabili in tutta l’area dell’est Mediterraneo con relazioni “mutualmente benefiche” con la Turchia, salutando la de-escalation sia rispetto alla Grecia che al “problema Cipro”.

Si puntava a costruire una Conferenza multilaterale a condizione del rispetto da parte turca delle maggiori obbligazioni richieste attualmente: diritti umani, collaborazione in Siria, Libia e Caucaso meridionale, pacificazione nel Mediterraneo orientale, migranti. Tutti punti da far confluire nella nuova dichiarazione del Consiglio a giugno. Con queste dimostrazioni di forza appare chiaro che il prossimo passaggio sarà un ulteriore punto a favore di Erdogan.

Nave iraniana colpita, il NYT: “Sono stati gli israeliani”

Israele agisce “quando serve”. Senza far riferimento alle ‘voci’ che indicano lo Stato Ebraico come responsabile dell’esplosione avvenuta sulla nave iraniana Mv Saviz due giorni fa nel Mar Rosso, il ministro della Difesa Benny Gantz al quotidiano Times of Israel ha detto: “Lo stato d’Israele deve difendersi. Ogni volta che c’è una sfida operativa o una necessità operativa, continueremo ad agire”, Secondo il New York Times, i servizi segreti israeliani avevano avvertito gli Stati Uniti dell’operazione contro la Saviz, che è stata danneggiata da una mina a largo della costa dello Yemen. Un ufficiale americano coperto da anonimato ha affermato al giornale che Israele ha descritto l’operazione come una “rappresaglia per precedenti attacchi iraniani contro navi israeliane”. Per gli 007 dello Stato ebraico il cargo fa parte della dotazione delle Guardie della rivoluzione come centro di comando per le operazioni nella regione dove le milizie Houti sciite sostenute da Teheran combattono contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato da una coalizione a guida saudita. Diversa la versione fornita dal regime degli Ayatollah. Il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh, ha sostenuto che la “nave civile Saviz come annunciato in precedenti dichiarazioni ufficiali e in coordinamento con l’Organizzazione marittima internazionale, stazionava nella regione del Mar Rosso e nel Golfo di Aden per fornire sicurezza lungo le rotte di navigazione e per combattere i pirati”. In verità gli analisti parlano ormai da tempo di una guerra navale segreta fra Israele e Iran, fatta di colpi e ripicche. Prima del botto di due giorni fa, ecco le ultime schermaglie. Il 10 marzo una nave iraniana era stata colpita mentre era in navigazione nel Mediterraneo, il 25 febbraio invece nel Golfo di Oman c’era stata una esplosione a bordo di una nave israeliana. A rivelare il contesto era stato il Wall Street Journal secondo cui dal 2019 Tel Aviv ha colpito almeno 12 mavi iraniane che avevano la missione di portare in Siria petrolio, armi ed altri rifornimenti. Proprio dal commercio di greggio le milizie sciite che agiscono in Siria per conto di Teheran trarrebbero i profitti per continuare a essere una minaccia alle porte dello Stato ebraico.

Yemen, la tragedia di Marib. Si lotta per il gas e la diga

È nell’antica città di Marib, capitale del mitico regno della regina di Saba quattro millenni fa, che si gioca il futuro non solo della guerra civile nello Yemen ma del Medio Oriente in generale schiacciato dalla rivalità tra le due potenze regionali: Arabia Saudita e Iran, sostenute la prima dagli Stati Uniti, la seconda da Russia e Cina, ovvero le superpotenze mondiali.

Dopo sette anni di una guerra tra le più sanguinose della storia recente – 250 mila vittime tra cui migliaia di bambini uccisi oltre che dalle bombe, dalla carestia e dalle malattie – a 170 chilometri a est dalla capitale Sana’a controllata dal 2014 dalle milizie sciite Houthi armate e finanziate da Teheran, la conquista di Marib sembra in grado di segnare il punto di svolta.

Tra le sue antiche rovine e i palazzetti di sabbia decorati si trovano gli unici giacimenti di gas e la diga che prima della guerra garantiva l’elettricità alla metà dei 29 milioni di yemeniti. Grazie all’espugnazione di Marib i contendenti potranno delineare il nuovo scacchiere geopolitico dato che il controllo delle risorse energetiche dello Yemen fornirá una carta fondamentale da giocare al tavolo dei negoziati, permettendo inoltre alla nuova amministrazione statunitense Biden di rivedere i rapporti con gli alleati sauditi e con il regime iraniano, riuscendo forse a spostare addirittura le proprie truppe dislocate nel Golfo e in tutta la regione mediorientale per concentrarsi sul contenimento della Cina. In questi giorni i soldati del governo in esilio nella città costiera di Aden supportati dai jet militari sauditi carichi di bombe acquistate dagli Stati Uniti e i rivali Houthi hanno aumentato gli scontri e si stanno combattendo senza sosta sulle montagne attorno a Marib.

L’Arabia Saudita, che dal 2015 guida una coalizione militare che sostiene l’esecutivo sfrattato da Sana’a sta lanciando attacchi aerei per bloccare l’avanzata degli Houthi che hanno reagito con attacchi via droni e missili ben dentro il territorio dell’Arabia Saudita. Attacchi che hanno pesantemente influenzato i mercati petroliferi globali. Se gli Houthi prenderanno Marib potranno sfruttare questo vantaggio al tavolo delle trattative visto che si aprirá loro una via per scendere più facilmente a sud verso la roccaforte dei nemici. Se invece l’antica capitale di Saba resuscitata grazie alla ricchezza di gas finirà nelle mani del governo riconosciuto a livello internazionale oltre che da Riad, ciò gli permetterà di mantenere, forse, tutta l’area meridionale sotto il proprio controllo.

Questa lotta va dunque ben al di là dei confini yemeniti dato che chiama in causa anche il più potente alleato dei paesi del Golfo. L’America di Biden in questo periodo sta infatti cercando di risolvere la questione di un eventuale rientro nell’accordo internazionale sul nucleare iraniano da cui l’ex presidente Donald Trump decise di uscire. Il risultato della battaglia di Marib può dunque determinare la postura degli Usa nei confronti della teocrazia sciita iraniana che fará di tutto per aiutare gli Houthi a vincere. La perdita di Marib sarebbe “l’ultimo proiettile nella testa del governo riconosciuto a livello internazionale”, ha detto Abdulghani al-Iryani, ricercatore senior presso il Sana’a Center for Strategic Studies. “Di più, preparerà il terreno per lo smembramento dello Stato yemenita. Una divisione dello Yemen contribuirá però a un nuovo periodo di instabilità che dará il via a nuovi conflitti”. La condizione disastrosa che attanaglia la città di Marib è interamente causata dall’uomo. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, oltre 800.000 rifugiati in fuga dalla conquista Houthi di Sana’a nel settembre 2014 e la guerra che ne è seguita hanno aumentato in maniera esponenziale la sua popolazione che oggi non ha quasi più cibo per sfamarsi.

Da decenni i giacimenti di gas e petrolio di Marib hanno attratto le società internazionali, tra cui Exxon Mobil Corp. e la francese Total SA. che a causa della guerra sono state costrette a limitarne lo sfruttamento e quindi a bloccarlo. La moderna diga di Marib inoltre è una fonte di acqua dolce fondamentale per una nazione estremamente arida, sebbene non sia mai stata completamente sviluppata nemmeno in tempo di pace.

A basso valore aggiunto

In fondo al tunnelc’è la luce, si sa, e poi che altro? A leggere il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi dell’Istat, che analizza il 2020, non l’Italia per come l’abbiamo conosciuta finora nel complesso delle sue relazioni sociali ed economiche. Il Covid-19 e le politiche sanitarie per arginarlo hanno agito sul Paese come il virus sui corpi: uccidendo o riducendo in fin di vita i più deboli. Un po’ di numeri dietro cui non è difficile immaginare vite, affetti, passioni. Il 45% delle imprese oltre i tre addetti è oggi “a rischio” o “molto a rischio” con incidenza stellare tra le Pmi: contano poco a livello di Pil (il 6,9% del valore aggiunto), ma rappresentano un posto di lavoro su cinque (20,6%). Seri rischi di chiusura sono altissimi per agenzie di viaggio (73%), assistenza e trasporto aereo (60), ristorazione (55). Anche il manifatturiero vede settori al disastro: l’industria del legno e delle costruzioni specializzate, abbigliamento, tessile, etc. Volendo guardare al livello territoriale, in 11 Regioni oltre “metà delle imprese presenta almeno due di tre criticità che le denotano a rischio alto o medio-alto (riduzione di fatturato, seri rischi operativi e nessuna strategia di reazione alla crisi)”: 7 al Sud, una al Nord (Bolzano) e tre al Centro (Lazio, Umbria e Toscana). O ancora: suddividendo l’Italia in 610 “Sistemi locali del lavoro” territoriali se ne rilevano 245 ad alta fragilità (40%), tre quarti dei quali al Sud. Insomma, se prima del tunnel “Covid” vendevi cose o offrivi servizi nel tuo paesello e nei dintorni sei spacciato: si dice “a basso valore aggiunto”, perché il valore di comunità non conta, e sono le vere vittime economiche del Covid. Le speranze di ripresa, però, paiono affidate solo a un (insufficiente) piano Ue che – qualora parta davvero – punterà soprattutto su grandi investimenti da far realizzare a grandi aziende che aiuteranno in larga parte imprese medio-grandi. Come scrisse il G30 (quello di Draghi) a dicembre: ora si deve “ridurre l’ampio sostegno fornito alle imprese, spostandosi verso misure più mirate, focalizzate su quelle che hanno bisogno di supporto, ma che si prevede siano sostenibili nel mondo post-Covid”. La distruzione creatrice, però, è bella solo se nel mondo di dopo non sei le macerie…

“Bella ciao” e quel “fior” della brigata majella

A proposito delle controverse origini del canto Bella ciao e del pezzo di Antoniucci , vorrei dire che le origini della melodia sono ottocentesche. Secondo il politico e ricercatore, ambasciatore, massone, amico di Cavour, Costantino Nigra (come riporta Cesare Bermani in Bella ciao, storia e fortuna di una canzone, Interlinea, 2020) Bella ciao ha origine da una canzone epico-lirica dell’800 Fior di tomba II diffusa poi in tutta Italia specie come canto della Prima guerra mondiale. Nel 2007 lo studioso Alberto Cirese ne invia a Bermani una versione raccolta nel lontano 1950 nel Reatino dal dirigente della Federmezzadri Antonio Felici da non si sa bene chi. Comunque la si cantava nelle risaie, ma non nel 1944-45 nella forma “politica” fattale assumere più tardi di canto basilare della Resistenza. Una canzone analoga viene cantata dalla Brigata Majella, la sola del Sud creata da Ettore Troilo e poi incorporata nell’VIII Armata fino alla Liberazione di Faenza e Brisighella. Il finale era ancora “Ho visto il mio primo amor”. Però il finale è già politico “Bella ciao, bella ciao, ciao, ciao/questo è il fiore della Majella/del patriota che morì”. Secondo Bermani Bella ciao

in versione partigiana fu cantata nella Repubblica di Montefiorino (Modena) nell’inverno ’44. Ci sono altre curiose testimonianze, sul Senio per i partigiani della 28° Garibaldi di Arrigo Boldrini (Bulow) il finale era ancora “È questo è il fiore della Rosina morta per la libertà”. Delle Marche e di Macerata, Bermani non ha trovato, mi pare, tracce. Riccardo Antoniucci ha ragione quando sottolinea che la Resistenza nelle Marche è stata largamente sottovalutata. Non tanto nelle Marche meridionali quanto in quelle a nord di Ancona. Perché il fronte si fermò e nell’Urbinate poterono agire con crudeltà sia le Ss, sia la “Camilluccia”, in prevalenza universitari romani della Tagliamento, che rastrellarono, torturarono, fucilarono. Fra i giovani partigiani, il futuro scrittore Paolo Volponi e molti pesaresi che ho conosciuto come Evio Tomasucci, commissario politico. Quindi una sottovalutazione profondamente ingiusta.

Promesse mancate, fiducia a picco

Nella nostra cultura, la promessa è il più sublime dei contratti fra due persone, suggellato dalla parola. La delusione che deriva da una promessa non mantenuta è stata analizzata sia da sociologi che da psicologi. Questa esperienza segna una ferita indelebile nel rapporto fra due individui, tale che le successive promesse, anche se credibili, non riusciranno più a stimolare un sentimento di fiducia completo. E vivere senza nutrire fiducia provoca insicurezza e ansia. Con questa premessa cerchiamo di dare un senso a quanto sta accadendo in questi giorni. Lo scorso anno abbiamo assistito a dichiarazioni di assicurazioni circa la campagna vaccinale suggerite dall’intento di rassicurare, ma nocivi a medio termine. La promessa che i vaccini sarebbero arrivati presto a sufficienza per tutti e l’assicurazione di assenza di eventi indesiderati sono stati via via smentiti. Malgrado tutto, si continua su questa strada. È mancato il coraggio di dire la verità. I vaccini, per la prima volta nella storia necessari in miliardi dosi, avrebbero incontrato difficoltà di produzione, eventi normali nella catena produttiva. Annunciare ogni settimana di milioni di dosi e poi smentirlo è un danno immenso. Quando si sperimenta un farmaco, poiché si impiegano sperimentalmente su un numero limitato di soggetti, si evidenziano effetti collaterali (immancabili persino con l’aspirina) di gran lunga inferiori in numero assoluto di quando vengono somministrati in milioni di persone, anche se i dati risultano spesso sovrapponibili. Si chiama farmacovigilanza. Non bisognava eccedere nel rassicurare, ma dire la verità e spiegarla. Gli inevitabili casi indesiderati vanno esaminati come sta facendo Ema per avere aggiustamenti delle indicazioni, come accade quasi sempre. E infine avremmo dovuto giustificare il “costo” (non economico) di tale campagna di vaccinazione globale, quanto statisticamente sia vantaggioso (vedansi Uk e Israele) vaccinarsi rispetto al minimo rischio. La popolazione non vuole essere abbindolata, ma informata con serietà.