Casa delle Donne, il sindaco Sala è “come il marito ricco”

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala tratta le donne “come il marito ricco tratta la moglie casalinga”. A dirlo, in una pubblica assemblea, senza fare il nome del sindaco, è una dei punti di riferimento intellettuale della Casa delle Donne di Milano. “Ho l’impressione che il rapporto tra la Casa delle Donne e il Comune di Milano somigli un po’ troppo al rapporto che un marito ricco intrattiene con la moglie casalinga, di necessità priva di un reddito proprio. Lei lavora tantissimo, cura la casa, la tiene pulita e le dà anche un valore simbolico, tuttavia, essendo ‘senza portafoglio’, deve sottostare alle decisioni del marito e accontentarsi delle sue regalie. Un perfetto quadro patriarcale: ogni giorno lei deve andare dal coniuge con il cappelluccio in mano a elemosinare un obolo, che peraltro servirà a far andare avanti la casa, quindi anche il benessere del capofamiglia. Non può funzionare, non può funzionare soprattutto in un momento della storia mondiale qual è quello attuale. E va detto a voce alta, con tono fermo e in forma il più possibile pubblica”.

La Casa delle Donne di via Marsala rischiava di chiudere per sempre: scaduto il contratto, il Comune aveva proposto di concedere metà spazio in affitto e metà gratuito, secondo i “Patti di collaborazione” previsti dal regolamento comunale. Proposta insostenibile perché comunque ancora troppo pesante dal punto di vista economico. Le donne della Casa hanno fatto presente di averci già speso un sacco di soldi per ristrutturarla e arredarla. E hanno ricordato che nella legge nazionale di Bilancio 2021 ci sono alcuni articoli (1134-40) nei quali si riconosce il valore sociale dei “luoghi delle donne” e si stanzia un fondo nazionale di sostegno alle associazioni con “attività di promozione della libertà femminile”. L’articolo 1137 prevede: “Le amministrazioni competenti concedono l’utilizzo collettivo di beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico, in comodato d’uso gratuito, alle associazioni” di donne “che gestiscono luoghi di incontro, relazione libera e costruzione della cittadinanza fruibili per tutte le donne”.

Dunque è possibile che tutta la Casa delle Donne di via Marsala sia concessa in comodato d’uso gratuito. Ma la formula dei “Patti di collaborazione” sui Beni comuni è stata pensata in funzione degli orti e giardini condivisi, dunque pone dei vincoli che vanno a limitare l’autonomia della Casa delle Donne. Dovrebbero condividere gli spazi di via Marsala con altri: ma chi, e come, e per quali iniziative? Magari con qualche gruppo ProLife? E dovrebbero essere sempre sotto la tutela e il marchio del Comune di Milano.

Ecco allora la metafora del “marito ricco e della casalinga”. L’autorevole socia la completa così: “Perché non mettere un po’ in difficoltà un interlocutore così rigido, poco disponibile, irriconoscente e incapace di vedere al di là del proprio naso? I luoghi delle donne non sono solo spazi simbolici, sono luoghi che contribuiscono a rendere civile e abitabile una società. Ecco perché, quando li mettono in discussione o li intralciano nella loro opera, le istituzioni pubbliche compiono dei veri e propri femminicidi. Non amo affatto questa parola, la uso rarissimamente, ma credo che in questo caso la si possa utilizzare con metaforica ragione. Quando si tratta con un’amministrazione comunale su una questione come questa, non si può mendicare. Meglio affrontare la questione nei suoi giusti termini e dire: guarda, marito ricco, attento a quello che fai, perché la legge non ti consente di ammazzarmi giorno dopo giorno, oppure con un’unica ben assestata martellata. Non sono sola. Non siamo sole”.

 

 

Mediterraneo, la “zona grigia” in cui si muovono Ong e cronisti

Facile cavarsela dicendo che la legge è uguale per tutti e dunque niente privilegi, anche i giornalisti vanno intercettati come gli altri, se capitano nel mezzo di una brutta storia. Perché il punto è proprio questo: i giornalisti devono mettersi di mezzo alle brutte storie, se vogliono rendere un servizio di verità. Tanto più quando tocca loro raccontare una tragedia storica in cui non esiste una linea di demarcazione tra i buoni e i cattivi, e il rispetto delle regole è andato a farsi benedire da un pezzo.

Vacci tu in Libia senza scorta. Imbarcati tu con le Ong nel canale di Sicilia dove le navi militari hanno smesso da sette anni di prestare aiuto ai migranti in pericolo. Omesso soccorso: un crimine che si pretenderebbe di giustificare moralmente con l’argomento che non dovevano partire; e che si sono messi nelle mani di trafficanti criminali. Tu, al posto loro, cosa avresti fatto? Facile cavarsela applicando burocraticamente normative ordinarie a situazioni eccezionali. È il caso dell’inchiesta di Trapani che rinvia a giudizio per favoreggiamento i volontari di Save the Children e Medici senza Frontiere operanti in mare nell’estate 2017, quando dalla Libia partivano in migliaia e i morti si contavano a centinaia. Per tutelarsi nei contatti con gli scafisti, Save the Children commise l’ingenuità d’ingaggiare un’agenzia di security. Sinché, come rivelò Il Fatto, due contractor ebbero l’idea di offrirsi a Salvini per alimentare la sua campagna contro le Ong e il governo, chiedendo di venirne ricompensati. Sempre in quella stessa estate 2017 veniva stipulato il Memorandum che prevedeva il finanziamento della Guardia costiera di Tripoli e l’esclusiva giurisdizione libica sui campi di detenzione per i migranti. Così il governo Gentiloni operò per bloccare il flusso migratorio, illudendosi che fosse l’antidoto al leghismo e al grillismo avanzanti. Stessa impostazione fu mantenuta da tutti i governi successivi, con maggiore o minore “cattiveria”, e l’ha riconfermata martedì scorso Draghi durante la sua visita in Libia. Ambedue gli scopi – mano libera ai libici e argine alla campagna xenofoba dell’opposizione – implicavano una limitazione all’opera di soccorso delle Ong. Accusate perfino di agire nell’interesse di potenze straniere per mettere in ginocchio l’economia italiana.

Ora che ci siamo rinfrescati la memoria, risulterà forse più chiaro il contesto in cui agivano Nancy Porsia, la giornalista intercettata per mesi, e gli altri suoi colleghi finiti sotto osservazione mentre svolgevano il loro lavoro. Avevano a che fare con trafficanti camuffati da capi della Guardia costiera; infiltrati più o meno leali ai servizi segreti; politici intenti al doppio gioco. Oltre che con i volontari e i migranti. Ma pure fra questi ultimi disperati mica è facile distinguere: spesso a pilotare i gommoni venivano designati dei pescatori ivoriani o senegalesi che così si pagavano il viaggio. Vogliamo considerare scafisti pure loro?

Ecco perché insisto nel richiamare la nozione di “zona grigia” su cui ci ha illuminato Primo Levi col suo I sommersi e i salvati. Tra vittime e carnefici, tra soccorritori e persecutori, s’instaurano relazioni ambigue e talora, a fin di bene, si scende a compromessi. Peraltro incomparabilmente meno gravi degli accordi fra Stati tuttora vigenti che calpestano i diritti umani e ignorano il dovere del soccorso in mare.

Ci sono finiti in mezzo anche dei giornalisti, di cui si volevano scoprire o “bruciare” le fonti. Mi sarei stupito del contrario. Anch’essi, come le Ong, vengono percepiti come un intralcio dai titolari della realpolitik. E ancora gli è andata bene: negli anni del terrorismo rosso alcuni colleghi finirono in carcere perché si muovevano nella terra di nessuno fra lo Stato e le Br. Qui c’è solo il baratro di un mare trasformato in cimitero.

 

Droga, il proibizionismo non ha mai risolto nulla

Qual è il contrario del verbo proibire? Secondo il vocabolario, permettere, concedere, autorizzare. E se fosse, piuttosto, informare, educare, dissuadere? Forse, uscendo dalla contrapposizione effettivamente grottesca del derby fra proibizionisti e antiproibizionisti, si potrebbe cominciare a capire che la lotta alla droga non è una questione teorica di tifo o di fede, bensì di efficacia e di funzionalità. Cioè, in pratica, di obiettivi e risultati concreti. E allora, anche le pretestuose polemiche sulla delega alle politiche antidroga affidata alla ministra pentastellata Fabiana Dadone – definita “giovane” (tra virgolette) nei titoli di qualche giornale, quasi che avere 37 anni fosse di per sé una colpa o una prova d’incompetenza – rientrerebbero nella sfera della ragione e della logica.

Ora non si tratta di essere più o meno bigotti, oscurantisti o reazionari. Né tantomeno di essere di destra o di sinistra. Si tratta, più semplicemente, di prendere atto di una drammatica realtà e cercare di affrontarla per quello che è, con l’approccio più funzionale possibile: per contenerla, ridurla, controllarla, rinunciando all’illusione di debellarla completamente. Perciò occorre innanzitutto capire, sforzarsi di comprendere il disagio individuale, familiare o esistenziale che sta all’origine di questa piaga e magari rimuoverne i motivi.

Una quarantina d’anni fa, pubblicai sul glorioso settimanale L’Europeo un’inchiesta di copertina, a firma di Massimo Fini, intitolata “L’alcol uccide più della droga” che non suscitò un particolare entusiasmo fra i nostri inserzionisti pubblicitari di superalcolici né ai vertici della Rizzoli. Ecco, già allora era così e purtroppo è ancora così. Altrettanto vale per il fumo che – come si legge sui pacchetti di sigarette con il marchio dei Monopoli di Stato – “nuoce gravemente alla salute”, provoca il cancro ai polmoni e può causare anche la morte.

Qualcuno pensa forse che si potrebbe risolvere il problema proibendo da un giorno all’altro l’alcol o il tabacco i quali creano anch’essi dipendenza? Sarebbe, verosimilmente, peggio di prima: la gente berrebbe e fumerebbe di nascosto, procurandosi sul mercato nero il whisky o la vodka, le sigarette o i sigari, alimentando il traffico clandestino e finanziando la criminalità organizzata, ma soprattutto bevendo e fumando prodotti alterati, contraffatti e perciò ancora più nocivi. Accadrebbe paradossalmente lo stesso se all’improvviso fossero proibiti i lecca-lecca o la liquirizia.

È evidente, dunque, che la repressione e la risposta di polizia da sole non bastano per contrastare la diffusione della droga. Se lo Stato non riesce a impedirne la circolazione neppure all’interno delle carceri, dove il cittadino detenuto è sotto controllo 24 ore su 24, come può riuscirci nelle strade, nelle piazze o nei parchi pubblici? E infatti, da molti anni a questa parte, si moltiplicano le voci di magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri contro il proibizionismo e a favore di una legalizzazione delle cosiddette droghe leggere.

Legalizzare, beninteso, non significa liberalizzare: cioè commerciare cocaina o eroina nelle enoteche, nelle tabaccherie o nei supermarket. Significa, innanzitutto, distinguere fra i diversi tipi di droga, rendendo legale – appunto – l’uso di cannabis o marijuana per uso personale, in modica quantità, magari su autorizzazione e sotto il controllo di un presidio medico-sociale. E poi, assistere sul piano psicologico chi ha bisogno di ricorrere a tali sostanze.

Basterebbe prendere esempio anche qui dal “piccolo” Portogallo, dove il consumo di droga è stato depenalizzato, s’è ridotto sensibilmente negli ultimi 15 anni e ora rientra nella media europea. Il cittadino che commette un reato connesso alle droghe non viene arrestato o criminalizzato. Riceve un mandato di comparizione e deve presentarsi davanti a un “comitato di dissuasione”, composto da giuristi, psicologici e assistenti sociali. E in genere, il consumo viene interrotto. Altrimenti, dopo un certo numero di convocazioni, possono essere prescritti trattamenti obbligatori.

Non sarà probabilmente la nostra “giovane” ministra Dadone a vincere la guerra mondiale contro gli stupefacenti. Ma c’è da ritenere che non la vincerebbe con i suoi giornali “fiancheggiatori” neppure la battagliera Giorgia Meloni, secondo la quale in questo caso “è grave e deludente che sia stato scelto un esponente politico (al maschile, nda) firmatario di proposte per legalizzare la cannabis”. Magari un’esponente politica (al femminile) più sensibile e pragmatica potrà promuovere una campagna mediatica per informare, educare, dissuadere, riducendo così il rischio per tanti giovani e meno giovani di passare dalle droghe leggere a quelle più pesanti e letali.

 

Fine vita. Addio Lorenzo, costretto a espatriare per una morte dignitosa

Caro “Fatto”, sono (anzi ero) un tuo lettore e, poi, abbonato della prima ora. Ti dico che “ero” un tuo lettore perché il 31 marzo ho messo fine alle sofferenze fisiche e psicologiche che la Sla mi dava.

Questa terribile malattia mi era stata diagnosticata nella prima metà del 2018. Da allora le difficoltà fisiche sono andate lentamente, ma inesorabilmente, peggiorando. A giugno dell’anno scorso, quando la situazione è cominciata a farsi insostenibile, ho preso contatto con un’associazione svizzera che aiuta gli sfortunati come me a morire con dignità.

Perché ti racconto queste cose, ti starai chiedendo. Semplice, perché vorrei aggiungere la mia voce a quella di tanti altri che, colpiti come me da una grave malattia, sono stati costretti, dalla mancanza di una legge italiana, a sobbarcarsi disagi, fatiche e sofferenze (per non parlare dei costi) solo per poter morire senza dover soffrire oltre l’umanamente sostenibile. Perché noi in Italia non riusciamo ad avere una legge che tuteli un diritto così elementare? Paese dopo Paese (da ultimi Irlanda e Spagna, se non erro), tutti vanno in questa direzione.

Perché devo essere costretto ad andare a morire in terra straniera, in un letto che non è il mio e senza il conforto di tutti quelli che vogliono starmi accanto per l’ultimo saluto? E poi, andare a morire all’estero non è nemmeno così facile come la gente pensa. Ci sono, ed è giusto che sia così, un bel po’ di incombenze e “burocrazia”. Non ci si può presentare di punto in bianco dicendo: “Salve, vorrei morire”. Inoltre, dovendo rivolgersi all’estero, si è costretti per forza di cose a dover “programmare” la propria dipartita, rendendo la cosa ancora più difficile da sopportare perché diventa una scadenza “fissa”. L’idea della data che si avvicina rende la situazione più simile a quella di un condannato che aspetta l’esecuzione che non una scelta veramente “libera”. È vero che si ha la possibilità fino all’ultimo di rinviare tutte le volte che si vuole, ma per chi viene dall’estero non è semplice affrontare il viaggio, il soggiorno, eccetera, per due, tre volte, finché non ci si sente veramente pronti. Un conto è avere la possibilità di scegliere il momento in piena autonomia quando si è pronti (me ne vado stasera, no aspetto ancora due giorni, no voglio provare a resistere ancora un mese), e un conto è “doverlo” fare perché hai preparato tutto da un mese e non puoi permetterti di perdere l’opportunità.

Comunque, nonostante tutto ciò, mi considero fortunato; pur tra mille difficoltà, sono riuscito ad andarmene senza soffrire.

So che tu, caro Fatto, sei sempre stato sensibile a questa questione ed è per questo che te ne ho voluto parlare. Usa pure liberamente quello che ti ho scritto, se ciò dovesse essere utile alla battaglia per la civiltà della morte volontaria assistita.

Io non ci sarò più, ma spero che tu possa vedere presto approvata la nuova legge.

Lorenzo P.

Mail box

Problemi anche in Puglia con i vaccini agli anziani

Scrivo per esprimere il mio disappunto relativamente ai vaccini anti-Covid in Puglia. Ho due genitori anziani, mio padre di 92 anni e mia madre (affetta da leucemia) di 88. Da quando sono state aperte le prenotazioni a febbraio, ho provato con il numero verde, ma è impossibile: ore e ore di tentativi e attese… nulla, tutto inutile. Ho provato in farmacia e poi sono riuscito a fare una prenotazione domiciliare solo per il 25 marzo… pazienza. Il 25 marzo non si presenta nessuno, nessuno ci comunica nulla e nessuno nei giorni successivi ci avvisa. Il medico di base mi dice che non ha disposizioni e consiglia di fare una prenotazione non domiciliare. Chiedo quindi di fare una prenotazione presso una struttura e… la struttura più vicina è Putignano. Noi viviamo a Bari. Invito questi signori a cambiar mestiere, se non sono in grado di gestire nulla possono darsi alla pesca o al gioco della carambola.

Marino Petruzzellis

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento a quanto pubblicato martedì con il titolo “Scandalo furbi del Quirinale”, si precisa quanto segue. È stato lo stesso Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica nel marzo del 2009 ad accertare illeciti compiuti nella gestione della cassa della Tenuta presidenziale di Castelporziano e a denunciarli tempestivamente al giudice penale. Il quale, con sentenze passate in giudicato, ha sanzionato la responsabilità di alcuni dipendenti coinvolti. La Presidenza della Repubblica, per i medesimi fatti, ha promosso nel 2009 una azione risarcitoria in sede civile, conclusa con la condanna in primo grado (nel 2015) e in secondo grado (nel 2020) di alcuni dipendenti al pagamento in solido tra loro della somma di euro 4.631.691,96, nonché della somma di euro 100.000 a titolo di risarcimento del danno all’immagine. Conseguentemente, l’Amministrazione ha adottato da tempo i necessari provvedimenti nei confronti di quei dipendenti. La Corte dei conti, con una sentenza d’appello del 2016, quindi dopo la sentenza del giudice civile, ha autonomamente inteso affermare la propria giurisdizione in tema di responsabilità dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, determinando in tal modo la sovrapposizione tra decisioni di due diverse autorità giurisdizionali – civile e contabile – aventi il medesimo oggetto e riguardanti la stessa fattispecie. Il conflitto di attribuzione, promosso dalla Presidenza della Repubblica, ha avuto l’obiettivo di far sì che la Corte costituzionale chiarisse l’esatta portata del rapporto tra Presidenza della Repubblica e giurisdizione contabile, giurisdizione che la stessa Corte, con sentenza del 1981, aveva peraltro a suo tempo escluso nei confronti degli organi costituzionali. Il ricorso aveva come ulteriore scopo quello di chiarire quale giurisdizione dovesse avere corso: quella civile o quella contabile. Per quanto riguarda la asserita competenza della Cassazione a decidere sulla titolarità della giurisdizione, si ricorda che Presidenza della Repubblica, venuta a conoscenza del procedimento della Corte dei Conti, ha proposto nel 2012 ricorso alla Corte di Cassazione. Con ordinanza del 20/11/2013 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione non si pronunciavano nel merito della questione, ritenendo che la competenza a risolvere i conflitti tra i poteri dello Stato, quale era configurabile quello in esame, spettasse alla Corte costituzionale.

La sentenza n. 169 del 2018 della Corte Costituzionale ha dichiarato che non spettava alla Corte dei conti esercitare la giurisdizione sulla responsabilità amministrativo-contabile nei confronti di dipendenti della Presidenza della Repubblica.

Nessun sostegno ai furbi, quindi, ma il contrario: anche perché il giudice civile è stato più severo nel disporre risarcimenti civili nei confronti dei responsabili di quanto invece aveva stabilito – senza averne la titolarità – la Corte dei Conti. Infine, va affermato con fermezza che i problemi disciplinari che hanno riguardato l’ex Consigliere della Corte dei conti Stefano Imperiali non hanno nulla a che vedere con la Presidenza della Repubblica.

Ufficio stampa del Quirinale

 

Le sentenze della Corte dei Conti sono arrivate entrambe prima di quelle civili (2012 primo grado e 2016 secondo), affermando ambedue la propria giurisdizione sul tema ben prima del giudice civile. Il pronunciamento del 1981 della Consulta aveva annullato un’ordinanza della Corte dei Conti, indirizzata ai tesorieri di Camera, Senato e Presidenza della Repubblica, che aveva prescritto il termine di 6 mesi per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977. La sentenza del 1981 quindi attiene solamente al ‘giudizio di conto’ dei tesorieri, non al ‘giudizio di responsabilità contabile’, ovvero su eventuale danno erariale, che appare cosa ben diversa.

La Cassazione si è pronunciata nel merito, dichiarando inammissibile il ricorso per regolamento di giurisdizione proposto dalla Presidenza della Repubblica. Pronunciamento riportato anche nelle premesse della sentenza della Consulta del giugno 2018 che però ha comunque annullato i verdetti della Corte dei Conti.

L.T.

Lo shopping di Madre Teresa e le tesi illogiche dei fanatici cattolici

Il portale pensierorazionale.it ha contestato l’articolo in cui riassumevo per sommi capi un libro sulla Pasqua, il Carnevale e il culto di Iside. Quando critichi la favola del cristianesimo, citando un libro che, per illustrarne le derivazioni da una favola precedente, ne confronta storie, preghiere e iconografia, i siti ultra-ortodossi chiedono a te i documenti storici a suffragio (sono nel libro citato, che dunque non hanno letto). L’argomento corollario è contro la tua persona (per esempio ti danno del plagiario, anche se non sei mai stato condannato per plagio: era l’espediente con cui l’Inquisizione delegittimava gli intellettuali che proponevano narrazioni diverse da quelle canoniche). A sostegno della fiaba cristiana (secondo cui esiste un Dio creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose visibili e invisibili; che generò un figlio, Gesù, nato da Dio prima di tutti i secoli, il quale disceso dal cielo per la nostra salvezza e incarnatosi per opera dello Spirito Santo in una vergine, Maria, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, e il terzo giorno risuscitò), il portale cita il Nuovo Testamento, i padri della Chiesa, gli studiosi cristiani che credono a quella fiaba, le tradizioni religiose degli adepti (“quand’anche il cristianesimo fosse falso, i cristiani resterebbero comunque semplici persone che, pur con tutti i loro difetti, ci credono davvero e ci si giocano la vita intera”), e i fatti storici legati a quelle tradizioni: “Perfino Bultmann, che pure nega la risurrezione, riconosce che i primi discepoli vi credevano”. Il portale bara anche sulla questione della data pasquale: il punto è che ora la data è mobile, legata al plenilunio isiaco (il culto di Iside, e il capodanno babilonese, sono anteriori alla religione ebraica e cristiana), mentre Bergoglio la propone fissa, slegata dal plenilunio isiaco. Ne scrisse il Fq (12 giugno 2015): “Bergoglio pensa a data fissa per la Pasqua ‘per festeggiare tutti lo stesso giorno’. Bergoglio ha affermato che ‘la Chiesa cattolica è disponibile a rinunciare alla data determinata per la domenica di Pasqua dal primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera’”.

Incuriosito dalla loro strafottenza (citano a difesa pure William Craig, un teologo protestante secondo cui la fede cristiana è incompatibile con la pratica dell’omosessualità), ho fatto un giretto nel loro sito. Oh la la, quelle surprise! Il portale ultra-cattolico, che dissimula le sue convinzioni irrazionali fregiandosi del titolo “pensiero razionale”, contiene frasi razionali come queste:

“È evidente che gran parte degli Lgbtqi vuole semplicemente soddisfare le proprie voglie, senza alcun reale interesse ad analizzare razionalmente il proprio comportamento”; “Il povero ignorante medio dell’Uaar, tipicamente pornodipendente, spesso criptofrocio, normalmente del tutto ignaro della raffinatezza e razionalità della visione teistica del mondo”; “Sarei perfettamente legittimato a combattere la proposta dei matrimoni omosessuali, e a richiedere il mio divorzio, cioè l’annullamento del mio matrimonio, nel caso che tale proposta passasse, poiché appunto non esisterebbe più il matrimonio col quale mi sono sposato, ma sarebbe stato trasformato in qualcos’altro a cui, magari, non sono affatto interessato e magari sono anche contrario (per esempio, il matrimonio potrebbe essere diventato un contratto tra due o più persone allo scopo di soddisfare le proprie pulsioni sessuali, con la clausola più o meno implicita quindi che quando tali pulsioni cessassero, potrebbe tranquillamente cessare pure il matrimonio: e io, a un tale istituto, non sarei minimamente interessato)”.

La mia amica Madre Teresa veniva a Milano una volta all’anno per le svendite alla Rinascente.

 

Flop l’attacco al Cashback. Crescono ancora i dati sui consumi

La maggioranza si ricompatta sul Cashback e sfuma l’ennesimo attacco alla misura introdotta dal governo Conte-2 per incentivare i pagamenti elettronici attraverso un sistema di restituzione in denaro di una percentuale di quanto pagato. La mozione presentata in Senato da Fratelli d’Italia, che continua a chiedere di dirottare le risorse alle imprese in crisi (per la misura sono stati stanziati 4,7 miliardi, di cui tre per il 2022 finanziabili con il Recovery fund), ha costretto Lega, Forza Italia e Italia Viva ad astenersi. A sostenere Giorgia Meloni, solo Azione di Carlo Calenda. L’accordo si è, invece, raggiunto su un ordine del giorno di maggioranza che impegna il governo ad “approfondire il monitoraggio del programma Cashback per adottare eventuali provvedimenti correttivi”. In pratica, si dovrà cercare di mettere fine ai casi dei furbetti che collezionano decine di micro-transizioni da 50 centesimi pur di scalare la classifica del super cashback da 1.500 euro a semestre o evitare che i rimborsi siano troppo generosi con i redditi alti. Ma la realtà politica è che il governo Draghi non può permettersi un’altra spaccatura sulla misura ormai valutata positivamente da 7 italiani su 10. E che, secondo uno studio del Forum Ambrosetti, consentirà un potenziale recupero dell’emersione di 1,2 miliardi. “Il cashback si ripaga da solo grazie all’impatto deciso sui consumi che raggiungeranno i 14 miliardi entro fine 2022”, spiegano i deputati M5S in commissione Finanze. Intanto la conferma che lo strumento sta riscuotendo consensi arriva dai nuovi dati aggiornati al primo trimestre 2021. Gli utenti sono passati da 5,9 milioni di dicembre a più di 8 milioni. Oltre un terzo degli utenti attivi ha meno di 40 anni e circa un quinto più di 60 anni. Crescono le transazioni (da 63 milioni a 255), così come è salito l’ammontare transato: da 2,9 miliardi a 9,5. Mentre il 56,6% di tutte le transazioni effettuate ha un importo inferiore ai 25€euro. Una spinta in avanti è arrivata anche per gli strumenti di pagamento (carte, bancomat e app) cresciuti del 20%. Dati che smentiscono anche la narrazione sui furbetti: sono solo lo 0,24% degli utenti attivi. Un nodo che dovrebbe essere risolto a breve grazie alla mozione votata.

“La Cig agli autonomi è un atto di giustizia. Giù le mani dal dl Dignità”

L’ex ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non ha dubbi: la mancata proroga della commissione sulla riforma degli ammortizzatori sociali, che prelude a un abbandono della riforma stessa, “sarebbe un errore”, tanto più che quella strategia era stata scelta da “un governo di cui faceva parte il Pd di Andrea Orlando”, suo successore al ministero. Così “si rinuncia a una riforma davvero universale, che peraltro finalmente interveniva sugli autonomi (-355 mila nell’ultimo trimestre). Oggi c’è un’enorme frammentazione: serve un ammortizzatore universale ordinario e straordinario; così si riducono da 15 a 3 le gestioni dell’Inps”.

L’accusa è che costa troppo.

Le riforme si possono fare in modo graduale, non farla ci lascia un sistema inefficiente e diseguale. Sono scelte politiche. Un sistema di sostegno al reddito universale, che sia da base per tutti, elimini le frammentazioni e si rivolga a fasce di lavoratori mai considerate finora, è un atto di giustizia.

Le imprese non vogliono sobbarcarsi i costi.

La riforma è assicurativa, ma teniamo conto che lo Stato si sta sobbarcando costi enormi per fronteggiare la recessione da Covid. Una parte può rimanere in fase post-pandemia per accompagnare la riforma e gradualmente ridursi per far spazio alla contribuzione di imprese e lavoratori.

Confindustria e il centrodestra attaccano il decreto Dignità: l’ipotesi è ridurre i costi o addirittura sussidiare i contratti a termine, eliminando le causali.

Sarebbe una scelta grave, in linea con politiche vecchie e fallimentari. Quel decreto ha funzionato, lo dicono i dati. Quelli del rapporto ministero-Bankitalia mostrano che l’impatto del Covid è stato forte nei settori a più alto tasso di precarietà, dal turismo alla ristorazione, allo spettacolo: non è sussidiando la precarietà che creiamo lavoro, semmai investendo in formazione per migliorare i salari.

Anche il Reddito di cittadinanza è sotto attacco, spira un vento di destra sulle scelte del governo?

Mi auguro di no. Contano i fatti: le misure che non funzionano si cambiano, ma queste hanno funzionato. Bisogna investire nelle competenze e sul capitale umano, non tornare indietro.

Ma il Rdc va migliorato?

Sì, specie dal lato delle politiche attive: nel Recovery Plan avevamo inserito una riforma apposita per potenziare la formazione prevedendo la “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” su tutto il territorio. Il Reddito si può migliorare aumentando le risorse per evitare che le famiglie più numerose siano penalizzate, anche il tetto dei 10 anni di residenza che danneggia gli stranieri si può ridurre. Ma sia chiaro, il reddito non può creare lavoro, ha due scopi: sostenere economicamente le famiglie in difficoltà e consentire ai componenti di uscire dalla povertà attraverso la presa in carico di servizi specializzati, far acquisire competenze per trovare lavoro. La parte da rafforzare è la formazione.

Le politiche attive sono al palo. Il presidente Anpal, Mimmo Parisi, ha fatto discutere per i maxi rimborsi spese. Dovrebbe dimettersi?

Anpal deve essere in grado di funzionare, nella fase post Covid sarà vitale. Se non è in grado, è chiaro che servirà trarne le conclusioni.

Il blocco dei licenziamento va prorogato?

Sì, almeno fino a dicembre per chi non ha la Cig ordinaria. Per chi ce l’ha, oltre giugno se si hanno cali di fatturato rilevanti, come nel tessile, il settore più colpito.

Il salario minimo invece è sparito dai radar e già col governo Conte-2.

Il Covid ha bloccato tutto, ma per me resta prioritario, è l’altra grande riforma che manca. L’aggravio per le imprese può essere attenuato detassando gli aumenti, ma gli imprenditori devono capire che avere salari migliori è un beneficio anche per loro. La Germania in piena pandemia ha alzato il salario minimo. La povertà lavorativa è un tema centrale: non ci possiamo permettere lavoratori full time con salari sotto la soglia di povertà o contratti pirata. Serve una soglia minima, che risponda ai principi della Costituzione, e rafforzare la contrattazione collettiva.

Un altro tema di cui non si parla più è l’intervento sulle pensioni.

Anche su questo un’apposita commissione aveva valutato diversi interventi. In linea generale serve ridurre l’enorme scalone che si produrrà con la fine di Quota 100 o sarà traumatico.

Ammortizzatori sociali: rischio “riformina”

Il 14 febbraio scorso, poco dopo l’insediamento, il ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva volato alto: entro fine marzo – assicurò ai sindacati convocati in via Veneto – avrebbe portato l’attesa proposta di riforma degli ammortizzatori sociali per accompagnare il superamento del blocco dei licenziamenti. Marzo è scaduto, il blocco è stato prorogato solo fino a giugno (i sindacati chiedono di estenderlo a ottobre per tutti), ma della riforma non c’è traccia. Al ministero assicurano che ci stanno lavorando, e che sarà “universale”. Eppure un testo già esiste, ed è quello elaborato dalla commissione tecnica nominata nel luglio 2020 dall’allora ministra Nunzia Catalfo, che il 22 febbraio ha consegnato il testo finale al ministero. Nessuna reazione da segnalare, la commissione non è stata prorogata ed è decaduta a fine marzo. Dagli uffici di Orlando fanno sapere però che verrà convocata.

Il segnale non è dei migliori. I grandi propositi di riforma sembrano archiviati, mentre ci si avvicina alla fine del blocco – a rischio ci sono oltre un milione di posti di lavoro (900mila e rotti quelli persi nell’anno pandemico) – e nel governo filtrano ipotesi assai ardite in tema lavoro. Il centrodestra di governo e la Confindustria di Carlo Bonomi, per dire, premono per smantellare il decreto Dignità, che aveva posto un argine al ricorso ai contratti precari, chiedendo invece di sussidiare il lavoro a termine ed eliminando le causali.

L’aspetto più critico, come detto, riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali. Gli esperti nominati da Catalfo hanno lavorato per quasi un anno per uniformare il sistema iper-frammentato lasciato dal Jobs act. La marea di interventi messi in piedi per tamponare gli effetti del Covid ha mostrato che una larga fascia di popolazione era esclusa da qualsiasi strumento o forma di protezione, specie gli autonomi e i precari. Oggi esiste la Cassa integrazione per i settori autorizzati, chi non ce l’ha usa i fondi bilaterali (all’ingrosso controllati dalle parti sociali), chi non ha nemmeno quelli usa il Fondo di integrazione salariale (Fis). Per le micro imprese non c’è quasi nulla. Quanto alla disoccupazione: c’è la Naspi per i dipendenti e la Discoll per i collaboratori, la gran parte degli autonomi è tagliata fuori.

Il testo consegnato dalla commissione – 51 pagine, visionate dal Fatto – disegna una riforma ardita, con un sistema più universale e, per diversi aspetti, anche più generoso. La cassa integrazione (ordinaria e straordinaria) viene estesa a tutte le imprese a prescindere dalle dimensioni e dal settore in cui operano, uniformando le prestazioni. Oggi gli importi coprono fino all’80% dell’assegno, ma l’ipotesi è che i massimali siano alzati. Verrebbero introdotti anche dei livelli minimi, visto che oggi, specie per chi è part time, la Cig si traduce in assegni più bassi, addirittura inferiori all’assegno sociale (460 euro, che potrebbe diventare la soglia minima). La durata resterebbe a 24 mesi, estendibili a 30.

Sul fronte disoccupazione, la Naspi verrebbe accorpata alla Discoll e i paletti assai ridotti. Oggi la prima richiede 13 settimane lavorative e dura la metà del periodo lavorativo (la discoll, invece, 6 mesi): con la riforma la misura coprirebbe l’intero periodo lavorativo, con un minimo di sei mesi, e gli esperti della commissione propongono anche di eliminare il meccanismo che riduce gradualmente l’assegno col passare del tempo.

La novità più rilevante vale però per gli autonomi. Alle partite Iva che hanno perso un terzo del fatturato rispetto alla media dei tre anni precedenti verrebbe garantita una sorta di Cassa integrazione. Per i redditi inferiori ai 35 mila euro l’indennità sarà parametrata rispetto alla percentuale di perdita di guadagni (l’ipotesi è al 50%). Se si perde del tutto il lavoro, si otterrebbe un sussidio di disoccupazione dall’Inps (sempre parametrato al fatturato). Il testo tocca poi i contratti di solidarietà e quelli di espansione. Riassumendo, la riforma istituirebbe dunque un sistema universale correggendo molti difetti del jobs act, ma ha un costo.

Il ministero finora non ha dato nessun riscontro al lavoro della commissione, ma al Fatto assicura che ora – dopo l’interlocuzione avuta con le parti sociali – gli esperti saranno convocati. L’obiettivo, a parole, è sempre quello di creare uno strumento “universale” ma – è la linea – serve fare i conti con le risorse a disposizione, perché la riforma come proposta sarebbe assai costosa e, a quanto pare, priva di consenso unanime.

Il tema dei costi è sicuramente rilevante. Il testo presenta stime per ogni ipotesi elaborata dall’Inps sulla base però di scenari non particolarmente rosei che risentono dell’effetto Covid. Senza entrare troppo nei dettagli, a grandi linee l’intervento più costoso è quello sulla Naspi (può arrivare a regime intorno ai 10 miliardi l’anno, mentre sulla Cig i costi sono contenuti, nell’ordine delle decine di milioni). Il testo disegna un sistema di tipo “assicurativo”: i costi sono a carico di imprese e lavoratori con aliquote differenziate in base all’uso e alle dimensioni dell’impresa. L’ipotesi, avallata nelle bozze, è che almeno in parte e per un periodo transitorio una quota rilevante sia a carico della fiscalità generale.

È chiaro che un sistema del genere può non piacere alle imprese e la trattativa sarebbe stata difficile. Finora, però, non è nemmeno mai partita. Dagli incontri coi sindacati il quadro emerso finora è piuttosto quello di una manutenzione dell’esistente, estendendo il Fis alle imprese sotto i 5 dipendenti e allargando la Naspi (ma dipenderà dalle risorse disponibili). Gli autonomi non sono pervenuti e di certo i sindacati non hanno premuto sul punto visto che non rientrano tra i loro iscritti. A diverse sigle, poi, non faranno certo piacere i paletti imposti ai fondi bilaterali, vero regno delle parti sociali, che con la riforma continuerebbero a erogare le prestazioni senza però poter decidere sull’ammontare, perdendo potere.

A breve i sindacati saranno riconvocati, ma l’assenza di reazioni al testo e i dubbi nel ministero sui costi lasciano presagire che la riforma pensata ai tempi di Catalfo non ci sarà. Confindustria non si strapperebbe le vesti, tanto più che da settimane ha messo nel mirino il decreto Dignità, proponendo – tramite il giornale di casa, Il Sole 24 Ore – di eliminare le addizionali sulle aliquote e le causali e perfino sussidiare i contratti con la decontribuzione. Dal ministero smentiscono di star lavorando a ipotesi del genere. Ieri Cgil, Cisl e Uil sono invece tornate a chiedere al governo di prorogare fino a ottobre il blocco dei licenziamenti – oggi previsto fino al 30 giugno (per le imprese senza Cig si va all’autunno) – annunciando una catastrofe occupazionale se verrà lasciato scadere.

 

C’è udienza, B. di nuovo ricoverato

Ormai è un format fisso: udienza in Tribunale, ricovero al San Raffaele. Oggi Silvio Berlusconi dovrebbe essere presente in aula a Siena, per un’udienza del filone senese del processo Ruby 3. È invece ricoverato nell’ospedale milanese, per accertamenti. Aveva trascorso la Pasqua nella casa della figlia Marina in Provenza ed era tornato a Milano martedì, in elicottero. Il tempo di una visita di controllo e poi la decisione di ricoverarlo al San Raffaele per sottoporlo ad alcuni esami clinici.

È dunque probabile che oggi salti l’appuntamento giudiziario a Siena. Nel processo Ruby 3 è imputato di corruzione in atti giudiziari con l’accusa di aver pagato una trentina di testimoni affinché non raccontassero ai giudici le feste di Arcore, nella ormai lontana estate del 2010. A Milano, nella grande aula approntata in Fiera come misura di sicurezza anti Covid, si sta celebrando, a rilento e con molte assenze, il filone principale, dove è giudicato insieme a 28 persone, coimputate di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza.

A Siena è processato in compagnia di Danilo Mariani, il silenzioso pianista delle serate del bunga-bunga, che ha ricevuto generosi bonifici per circa 170 mila euro. Questo filone, più rapido perché con due soli imputati, oggi sarebbe arrivato a sentenza. Ma la macchina giudiziaria sarà invece bloccata, se permarrà il ricovero in ospedale e l’imputato chiederà la sospensione del processo per motivi di salute, facendo scattare il legittimo impedimento. Sarebbe il quinto slittamento della sentenza: il primo avvenne il 21 maggio dello scorso anno, motivato con l’impossibilità per gli avvocati difensori di raggiungere Siena a causa delle restrizioni agli spostamenti tra regioni per il Covid; il secondo fu il 1 ottobre 2020, perché Berlusconi risultò positivo al coronavirus; il terzo il 25 novembre, perché gli avvocati Federico Cecconi ed Enrico De Martino avevano annunciato la richiesta dell’imputato di rendere una deposizione spontanea in aula; il quarto è stato il 14 gennaio 2021, perché l’ex presidente del Consiglio era ricoverato all’ospedale di Montecarlo per problemi cardiaci. Oggi vedremo che cosa accadrà. Il pubblico ministero, Valentina Magnini, ha chiesto per Berlusconi una condanna a 4 anni e 2 mesi di reclusione, ritenendo provato che abbia pagato Mariani per indurlo a rendere falsa testimonianza ai pm e ai giudici milanesi sul caso Ruby. La richiesta di pena era stata formulata più di un anno fa, il 13 febbraio 2020, ma poi il momento per i giudici di ritirarsi in camera di consiglio era sempre stato procrastinato.

È la terza volta in un anno che Berlusconi torna al San Raffaele: prima per Covid, poi il 22 marzo (alla vigilia dell’udienza del 24 marzo a Milano) per accertamenti, e ora (alla vigilia dell’udienza di Siena) per nuovi controlli.