Conti in Svizzera, ecco perché Fontana non collabora coi pm

È passata una settimana dalla richiesta di rogatoria inviata in Svizzera dalla Procura di Milano e dalla notizia che il governatore Attilio Fontana è indagato per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary rispetto alla vicenda dei suoi conti esteri. Eppure il presidente della Regione Lombardia ancora non ha portato ai magistrati i documenti che, a suo dire, dovrebbero chiarire tutto. Nel comunicato del 31 marzo firmato dal procuratore Francesco Greco si leggeva: “La difesa del Fontana si è oggi dichiarata disponibile a fornire ogni chiarimento sia in sede rogatoriale che, se del caso, mediante produzione documentale ovvero presentazione spontanea dell’assistito”. Tutto tace. C’è però un dato chiarissimo che emerge dagli atti dell’inchiesta. Ed è un filo mai interrotto tra i tre conti (alcuni dotati di schermature off-shore) negli anni riferibili a Fontana e a sua madre. Tutti, infatti, sono stati aperti e chiusi presso lo stesso istituto di credito, e cioè la Ubs di Lugano. Il che, è il ragionamento fatto dalla Procura, mette sul tavolo un dato tanto banale quanto dirimente: Fontana presso Ubs è un cliente storico e soprattutto noto, non vi sarebbe quindi alcun problema, in qualità di cliente, a richiedere alla banca tutti i movimenti e gli estratti conto delle sue posizioni, passate e presenti. Anche perché l’ultimo conto con codice finale 417, aperto il 18 settembre 2015 e sul quale sono stati riversati 5,3 milioni di euro dal conto 2005 con codice finale 102, risulta, stando alla ricostruzione dei pm, ancora attivo.

L’Ubs “conserva i documenti anche fino al 1997”

Insomma i dati oggettivi sembrano contrastare con quanto dichiarato da Fontana in questi giorni. A partire dal fatto, come spiegato dai suoi legali, che il governatore sarebbe al momento in possesso solo della documentazione che arriva fino al 2009 e non al 2005. A confermare la soluzione di continuità dal 1997 a oggi è anche il codice iniziale che ricorre sempre identico per tutte e tre le posizioni, e cioè il 247. Non vi è dubbio, quindi, viene spiegato in Procura, che Fontana potrebbe chiedere, e la banca sarebbe obbligata a farlo, tutti i documenti a sua discolpa. Tanto più che attraverso interlocuzioni informali con la Svizzera i pm confermano che la banca ha negli archivi tutti i documenti a partire dal 1997. Sarebbe, dunque, interesse di Fontana chiederli. Anche perché non è per nulla detto che le richieste elencate nell’ultima pagina della rogatoria vengano accolte in toto dalle autorità svizzere. L’obiettivo principale dei pm è duplice: capire chi ha aperto il conto 102 del 2005 e come sono stati portati i primi 2,5 milioni (in contanti o con bonifico) che, secondo l’accusa, non sono riferibili all’eredità e alla presunta evasione della madre, visto che nel 2005 Giovanna Maria Brunella era in pensione da otto anni, percependo circa 21mila euro l’anno. In sostanza ai pm bastano gli estratti conto almeno rispetto alla posizione del 2005.

i contatti Procura-avvocati
in corso già da mesi

Fin dall’inizio la Procura, sul fronte dei conti esteri, non ha mai alzato un muro rispetto a una possibile interlocuzione con il presidente e la sua difesa. Di più: a quanto risulta al Fatto, sono ormai diversi mesi che i vertici della Procura hanno intavolato contatti informali con Fontana anche per evitare di arrivare alla soluzione rogatoriale e alla stessa iscrizione del presidente lombardo. Tentativi al momento caduti nel vuoto. Nel frattempo, ormai mesi fa, la Guardia di finanza ha perquisito gli uffici dell’Unione fiduciaria che gestisce l’ultimo conto. Altro buco nell’acqua. Anche per questo si è deciso di non procedere a una perquisizione al domicilio di Fontana, azione da un lato ritenuta inutile e dall’altra troppo invasiva dal punto di vista mediatico. E nonostante questo, la collaborazione del politico leghista ancora non è arrivata.

La rogatoria poteva operare sul conto del 2015

Eppure un aiuto da parte del governatore, sostiene l’accusa, sarebbe dirimente anche in relazione ai documenti mancanti nel fascicolo della voluntary disclosure. Su tutti quello che dovrebbe indicare in che modo sono stati accumulati i capitali esteri. Relazione che i pm definiscono “muta”. Fontana però spiega che “su quel conto non ha mai operato, prima del 2015”. Eppure, è scritto nella rogatoria, nella dichiarazione dei redditi per il 2014 Fontana “si attribuiva autonomamente la qualifica di delegato al prelievo e alla movimentazione in assenza di qualsivoglia legittimazione formale anche in ragione del fatto che si trattava di una annualità in cui la madre era ancora in vita”. La mancata collaborazione di Fontana rischia di nuocergli forse più del dovuto. La Procura poi ha già dimostrato di non avere alcun pregiudizio, visto che nel marzo 2020 ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del presidente rispetto all’accusa di abuso d’ufficio, per come emersa nell’inchiesta Mensa dei poveri, in relazione alla nomina in un organismo regionale del suo ex collega di studio, l’avvocato Luca Marsico.

Iv e le destre contro la Spazzacorrotti

Se non è un accordo poco ci manca. Perché ieri in commissione Affari costituzionali al Senato è stato siglato un “patto tra gentiluomini” che rischia di cancellare un pezzo della Spazzacorrotti: da un lato i berlusconiani (e la Lega) in pressing per escludere la responsabilità di partiti, movimenti politici e liste civiche in caso omettano di pubblicare il certificato del casellario giudiziale dei loro candidati. Dall’altro il sottosegretario agli Interni, il renziano Ivan Scalfarotto, che ha dato semaforo verde, prendendo l’impegno a nome del governo a “valutare, con le forze politiche, le problematiche applicative della legge 3 del 2019 in merito alla produzione della documentazione”. Documentazione prevista con l’obiettivo di garantire liste pulite o comunque a prova di fedina penale.

Ma tant’è, ora Draghi&C. dovranno sedersi al tavolo per valutare le modifiche pretese prima che in autunno si vada al voto in 1300 comuni tra cui Roma e Milano e pure per le Regionali in Calabria. E così, dopo l’apertura di Scalfarotto, dalle parti di Forza Italia e non solo si canta vittoria: “Si sono create le condizioni per giungere a una decisione comune, da parte di una maggioranza così ampia come quella che oggi governa il Paese, al fine di rivedere la legge 3 del 2019: d’accordo con il governo, abbiamo deciso di affrontarlo in un’altra sede e in un altro momento. Auspico che ciò sia fatto il prima possibile: non dobbiamo complicare, ma semplificare il quadro normativo per la presentazione delle liste” è il commento dell’azzurro Nazario Pagano, relatore del decreto approvato ieri a Palazzo Madama che rinvia le elezioni causa Covid. E autore dell’emendamento che puntava fin da subito a cancellare le odiate sanzioni (da 12 mila a 120 mila euro) che irroga la commissione di vigilanza sui partiti a quelli che se ne infischiano delle regole violando gli obblighi di pubblicazione dei certificati del casellario giudiziale dei candidati. Emendamento ritirato in segno di pace e trasformato in ordine del giorno a cui il sottosegretario ha dato il parere favorevole. Se dalle parti del Movimento 5 Stelle si mastica amaro, il Pd minimizza: “In realtà ieri non è successo nulla: un sì a un ordine del giorno non si nega a nessuno”.

Ma vallo a spiegare a Forza Italia, che invece pensa di andare presto all’incasso. Sentite qui l’altro azzurro Luigi Vitali, che ieri ne ha parlato in aula a Palazzo Madama: “Ci è stato detto dal sottosegretario Scalfarotto che forse la normativa era troppo giovane per essere sottoposta a una rivisitazione in maniera traumatica; ma devo dare atto dell’impegno ad aprire un momento di riflessione, al fine di verificare quanto ha funzionato e quanto no”. Per poi rivolgersi direttamente all’indirizzo del Movimento 5 Stelle che ha fatto della Spazzacorrotti un cavallo di battaglia. “Nessuno vuole sottrarre i partiti alla responsabilità della trasparenza nelle candidature e nella designazione dei loro rappresentanti; ma facciamo una normativa razionale, efficace e che funzioni, invece di sparare nel mucchio”. Un renzianissimo “stai sereno” o quasi.

Assunti Pd, Zinga s’infuria e ora cerca l’exit strategy

“Mi state rovinando la carriera politica. Adesso basta!”. Nicola Zingaretti lunedì sera era una furia. Il caso delle assunzioni in Regione Lazio di dirigenti e militanti del Pd, scoperchiato dal Fatto Quotidiano, è deflagrato ieri con le dimissioni di Mauro Buschini. Il presidente del Consiglio regionale, sotto attacco da due settimane, non ha retto alla sfuriata del governatore e si è dimesso. “Con me ha chiuso. È finito”, ha urlato ai suoi l’ormai ex segretario nazionale dem, che avrebbe voluto l’esponente del Pd ciociaro addirittura fuori dalla Pisana. Qualcosa Zingaretti ha fatto trapelare anche a microfoni aperti, affermando di aver “solo detto la verità” in risposta a un cronista che gli aveva chiesto conto di essere stato “molto duro” con i suoi consiglieri. Buschini ieri ha motivato il passo indietro, affermando di voler “garantire al mio successore di nominare in piena autonomia i membri della Commissione trasparenza”.

La vicenda è ormai nota. Il 18 dicembre il Consiglio regionale del Lazio ha assunto 16 funzionari a tempo indeterminato, firmando un protocollo di intesa con il Comune di Allumiere, appena 3.800 abitanti in provincia di Roma, il cui sindaco è Antonio Pasquini, vice capo segreteria di Buschini. La normativa consentiva all’Ente di pescare dall’elenco-idonei dell’ultima procedura concorsuale portata a termine. E Allumiere aveva pubblicato la sua graduatoria quattro giorni prima, il 14 dicembre. Ma il caso ha voluto che fra i 16 fortunati, almeno una decina fossero dirigenti e militanti del Pd, molti già impiegati alla Pisana come collaboratori politici dei consiglieri dem e di Buschini stesso. A trovare il posto fisso anche un consigliere di Roma, Marco Palumbo, finito però a Guidonia (vicino Roma). Altri sono risultati in quota M5S e Lega, a stretto contatto con i componenti dell’ufficio di presidenza.

Lo scossone ha destabilizzato una maggioranza già in panne. A Zingaretti non bastano le dimissioni di Buschini, ma vuole l’uscita di tutti i componenti dell’ufficio di presidenza che hanno approvato le assunzioni. Fra loro anche Michela Di Biase, ex consigliera capitolina e moglie del ministro Dario Franceschini. Ma la Lega si oppone, visto che perderebbe una delle due poltrone occupate in favore di Fratelli d’Italia (che infatti chiede l’azzeramento). Proprio i meloniani ieri hanno fatto partire il fuoco di fila per tentare di far “schiodare” gli alleati salviniani.

La vera incognita riguarda l’eventuale ondata giudiziaria. Alla Procura di Civitavecchia, competente per le eventuali irregolarità nel concorso – fin qui non riscontrate –, stanno arrivando gli esposti del consigliere ex M5S, Davide Barillari, e degli esponenti locali di Allumiere. E alla Pisana già si pensa all’extrema ratio. C’è chi ha prospettato a Nicola Zingaretti lo “schema Polverini”, dalla ex governatrice che si dimise sull’onda del caso dei rimborsi ai gruppi politici. Una exit strategy che spingerebbe il governatore verso la candidatura a sindaco di Roma. Attualmente la partita è in salita per il Pd, viste le divisioni sul nome dell’ex ministro Roberto Gualtieri. Proprio ieri, Italia Viva – che alla Pisana appoggia convintamente Zingaretti – ha annunciato che sosterrà Carlo Calenda anche con Gualtieri in campo. Non solo. L’inflessibilità di Virginia Raggi, decisa a non sacrificarsi in nome dell’alleanza giallorossa, rischia di spedire l’ex ministro addirittura fuori dal ballottaggio. L’attuale governatore del Lazio, al contrario, andrebbe a compattare il fronte largo del centrosinistra e si giocherebbe la possibilità di diventare il “sindaco del Giubileo 2025”. Uno scenario su cui anche il neo segretario dem Enrico Letta spinge da tempo. E che, nonostante le smentite ufficiali, ora non è più impossibile.

Il ristoratore in barricata adesso rinnega Matteo: “Ci ha presi tutti in giro”

Era fatale che il balletto della pandemia di Matteo Salvini (aprire! chiudere! aprire! chiudere!) gli facesse perdere qualche amicizia per strada. Tra i testimonial della propaganda del Salvini d’opposizione c’era il ristoratore pesarese Umberto Carriera, controverso promotore della campagna “io apro”, che invita a disubbidire a Dpcm e ordinanze per tenere aperti i locali degli imprenditori esausti dalle zone colorate e dai sostegni insufficienti.

A gennaio Salvini l’ha interpellato nelle sue dirette Facebook e l’ha esaltato come simbolo della resistenza, nelle settimane successive l’ha anche ricevuto in Senato per confermargli impegno e vicinanza.

Nel frattempo, però, le cose si sono ribaltate in modo beffardo. Ieri, il Carriera era in barricata, uno dei leader della manifestazione di Montecitorio culminata negli scontri con la polizia: è l’uomo col megafono in mano che arringa la folla proprio mentre iniziano le cariche. Salvini invece era, non solo metaforicamente, all’interno del Palazzo assediato, per di più sui banchi della maggioranza aguzzina. Il ristoratore “amico di Salvini” – così compare in tanti articoli di giornale – non è più amico per niente: “Da Matteo ci sentiamo traditi – dice Carriera al Fatto – va bene il populismo, va bene cavalcare l’onda, ma non si può scherzare con decine di migliaia di famiglie”. Il motivo della rottura è questo: “Era stato lui ad avvicinarmi a gennaio dicendo che voleva supportare le nostre iniziative, ci siamo anche visti in Senato. Poi il 2 marzo, quando è arrivato in aula l’emendamento di Fratelli d’Italia per tenere i ristoranti aperti fino alle 22 in zona gialla, Salvini e i leghisti si sono astenuti”. Una presa in giro: “Gli ho scritto su Whatsapp e mi ha risposto con un messaggio ridicolo su zona gialla e zona arancione. Non ci si comporta così. Va in televisione dalla D’Urso, da Giordano e da Giletti a dire ‘apro apro apro’, poi quando è il momento si nasconde dietro la zona arancione. Fare lo splendido sul destino di migliaia di famiglie mi sembra assurdo”.

Nella sua oscillante propaganda pandemica, il leader della Lega si è scelto diversi amici bizzarri, basti pensare agli assurdi qanoniani no-vax che lo circondavano nel famoso convegno negazionista del Senato, la scorsa estate. Il buon Carriera non fa eccezione, con un vasto curriculum di gaffe e controversie: la finta minaccia di morte che l’imprenditore si era mandato da solo su Instagram attraverso uno degli account dei suoi locali; la citazione fasulla nella lista dei 150 imprenditori under 30 più promettenti di Forbes Italia, smentita dalla stessa rivista; la promettente carriera da arbitro interrotta da una misteriosa radiazione dall’Aia (il Resto del Carlino scrive di “divise sparite e poi restituite”); la curiosa dichiarazione dei redditi che gli ha permesso di pagare appena 9.800 euro di tasse nel 2020.

Nonostante tutto questo, il leghista l’aveva eletto paladino della libertà d’impresa. Solo che nel frattempo il Salvini di lotta è diventato di governo, s’è imborghesito. E adesso Carriera lo tratta come una specie di truffatore: “Scherza sulla pelle di chi perde il lavoro e sostiene un governo che per gli imprenditori sta facendo molto peggio di quello precedente”. Aprire, chiudere, aprire, chiudere: ma non sono mica tutti scemi.

Salvini, ipotesi Papeete 2 per uscire dalla “gabbia”

Ventidue febbraio, esterno Montecitorio. Dopo aver ricevuto i rappresentanti dei ristoratori “disobbedienti” di #Ioapro, Matteo Salvini scende in piazza con loro, con tanto di maglietta e megafono. Il giorno dopo, il premier Mario Draghi lo convoca a Palazzo Chigi per chiedergli di “abbassare i toni”. Neanche due mesi più tardi, in quella piazza, gli stessi ristoratori, fomentati da frange dell’estrema destra, provano a sfondare la linea dei poliziotti per entrate nel Palazzo. Ma Salvini non c’è.

Stavolta non può esserci perché il governo di cui la Lega fa parte in due mesi ha approvato due decreti che hanno chiuso l’Italia col lucchetto. Salvini non solo non si presenta, ma si trincera dietro un inusuale silenzio. Anche fisicamente è lontano (“è a Milano con la famiglia”) e i suoi si affrettano a specificare che con quella manifestazione “la Lega non c’entra”. Però poi nel primo commento, 24 ore dopo, c’è tutto l’imbarazzo del Salvini di lotta e di governo: “La Lega è dalla parte di chi protesta pacificamente e chiede di riaprire le proprie attività, se i dati sanitari lo consentono. No a chiusure ideologiche”. Non proprio un modo per dissociarsi dagli “sciamani” nostrani alla vigilia dell’incontro di oggi tra Draghi e i governatori che chiederanno di riaprire.

Contraddizioni che si riflettono sullo stato d’animo del leader: “Matteo è un leone in gabbia – è la metafora di chi ci parla quotidianamente – per adesso continua a ruggire ma se inizia a mancare l’aria, poi il leone muore”. E allora, dopo gli ultimi provvedimenti sulle chiusure e con i sondaggi in caduta libera, in Salvini inizia a balenare l’idea di un “Papeete bis”: resistere fino a fine luglio, quando inizierà il semestre bianco e non si potrà più votare in attesa dell’elezione del capo dello Stato, e poi staccare la spina al governo. Un modo per non farsi stritolare a destra da Giorgia Meloni dopo aver inciso su vaccini e Recovery e lasciando alla sinistra tutto il peso di un governo che dovrà fare scelte difficili. Una suggestione rilanciata dai sovranisti Borghi, Bagnai, Siri e mr Papeete, Massimo Casanova (la “corrente del Papeete”) ma anche dell’ala filo-salviniana dentro FI: “Questo governo prima finisce meglio è” si dice da quelle parti. Diversa l’opinione dei “governisti” nella Lega (ribattezzati i “professorini”): Giorgetti, Garavaglia, Centinaio e Zaia pensano che questo debba essere “il governo della Lega”. Ma il segretario è di tutt’altra opinione.

L’armatore della Mare Ionio: “Ho affittato un pattugliatore belga dai mafiosi di Malta”

Un viaggio a Malta “per noleggiare un pattugliatore militare belga da una banda di contrabbandieri maltesi mafiosi”. La confidenza che Giuseppe Caccia fa a un amico, sembra ai limiti della realtà, un po’ come nel film Borotalco di Carlo Verdone. I dialoghi del socio di maggioranza della Idra Social Shipping Srl, società armatrice della Mare Ionio, che in mare operava per conto della Mediterranea Saving Humans, sono finiti agli atti dell’indagine della Procura di Ragusa. Caccia, insieme ad altre sette persone, è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione alle norme del codice di navigazione. È ritenuto dai pm tra i promotori dell’accordo economico con i danesi di Maersk Etienne, che secondo gli inquirenti hanno trasferito i 27 migranti salvati in mare il 5 agosto 2020 alla Mare Ionio, in cambio di un bonifico da 127 mila euro alla Idra.

Dal decreto di perquisizione firmato dai pm Fabio D’Anna e Santo Fornasier, emerge che Caccia avrebbe la leadership delle operazioni “commerciali” della Idra, condivise con Luca Casarini, l’attivista no global coinvolto nell’inchiesta. “Importante adesso far passare ’sto schema”, dice Casarini in un dialogo intercettato. “Rispecchia anche la governance duale – replica Caccia – perché è molto chiara la distinzione tra nave e progetto politico missione, dopodiché tiene in sicurezza dal punto di vista giudiziario Mediterranea, perché dal punto di vista ciò che è difficoltoso o rischioso è tutto in mano a Idra, non a Mediterranea”. Infatti, l’associazione di promozione sociale Mediterranea non è coinvolta nell’inchiesta. Gli accertamenti delle Fiamme gialle mostrano “una gelosa cura della segretezza di certi dati contabili”, quando il rappresentante di Mediterranea per la raccolta fondi negli Stati Uniti, chiede di visionare i conti di Idra. “Mi hanno detto che non hai capito il mio discorso e che Idra ha dichiarato la sua possibilità a fornire una nave a Mediterranea e su come faccia sono fatti di Idra, come Idra si riesce a procurare i soldi per questa cazzo di nave, sono cazzi di Idra”, replica Caccia. Il rappresentante spiega che la trasparenza sarebbe un beneficio, portando l’esempio di Emergency che pubblica online i suoi bilanci, e in questo modo si possono smontare i dubbi maliziosi di chi pensa che possano fare “i soldi con Idra alle spalle di Mediterranea”. Ma Caccia fa altre valutazioni. “Sono lavori di shipping per compagnie commerciali. Non posso dirli i nomi perché non gradisce, i rapporti commerciali di Idra, il nostro partner commerciale”.

Trento, Sgarbi insulta il consigliere M5S e lo denuncia. Ma viene condannato lui

Vittorio Sgarbi voleva pure i danni e invece dovrà pagarli: è stato condannato a risarcire 15 mila euro al consigliere della Provincia di Trento, Alex Marini. Preso a male parole perché in occasione della nomina del critico d’arte al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea (Mart), aveva osato ricordare l’assenteismo di Sgarbi alla Soprintendenza di Venezia e la sua condanna per truffa ai danni dello Stato. Il Tribunale di Macerata ha stabilito che Marini, difeso dall’avvocato Rosa Rizzi, ha esercitato correttamente il diritto di cronaca: insomma ha detto la verità. Mentre ha condannato Sgarbi, che aveva attaccato Marini definendolo “depensante” e “onanista”. “Da parte dei potenti – dice Marini del M5S – c’è l’abitudine a usare la minaccia dell’azione risarcitoria come strumento di pressione. Proprio quello che Sgarbi ha cercato di fare nei miei confronti dopo avermi scaricato addosso una quantità di insulti gratuiti. Ma anche chi è ricco e famoso non può permettersi di calpestare il prossimo”.

“Mia moglie malata e senza dose: il sistema è allucinante”

Una moglie malata e costretta a letto, ma ancora senza vaccino. E risposte che ci hanno messo giorni ad arrivare. Giancarlo Pagliarini, 78 anni, milanese, leghista della prima ora e oggi fuori dal partito, in polemica col nuovo corso salviniano, si sfoga così: “Possibile che si continuino a vaccinare categorie che non rischiano di morire?”.

Giancarlo Pagliarini, lei e sua moglie siete ancora senza vaccino?

Io lo avrò il 23 aprile. Ma è grave che mia moglie, che vive a letto, non l’abbia ricevuto. A marzo il mio medico ha passato una giornata al telefono senza che nessuno rispondesse, poi ha scoperto che in Lombardia non era prevista alcuna data per gli allettati con meno di 80 anni.

E adesso?

Da quando la prenotazione è passata da Aria a Poste va meglio. Ma il problema c’è ancora, anche se da domani potrò inserire mia moglie nell’elenco per la vaccinazione a domicilio.

Letizia Moratti ha aperto la vaccinazione anche senza appuntamento, ma non è andata bene.

L’idea è giusta, ma se la sai gestire. Così è chiaro che crei delle code e aggiungi solo confusione. Anche perché se poi a gestirla ci sono gli eredi della società Lombardia Informatica siamo a posto.

La “sua” Lega è in tilt.

A esser sinceri me la prendo anche con Roma, perché la priorità andava data solo ad anziani e malati. Qui era chiaro che Aria fosse un bidone, nato dall’unione di tre società tutte bollite, finite, da chiudere.

Su questo e altri disastri la firma è di Fontana.

Ma lui non ha tutte le colpe: la Lega e la destra gli hanno lasciato un sistema allucinante.

Poste aveva offerto a gennaio ben tre piattaforme gratuite

Una piattaforma pronta e funzionante scartata; un mese perso senza pianificare una decente campagna vaccinale; una scelta “autarchica” dal costo di 22 milioni di euro, che si rivelerà il peggiore autogol. Il tutto condito con una lunga serie di bugie. È la storia contenuta nella relazione che l’amministratore unico della spa regionale Aria, Lorenzo Gubian, ieri ha svelato. È il documento – rimasto a lungo riservato – col quale il 21 marzo scorso, Aria spiegava ai vertici della Regione Lombardia il perché degli innumerevoli “incidenti” nella vaccinazione degli over 80.

Ma prima di entrare nella relazione, è necessaria una premessa. Il 9 gennaio 2021, l’ad di Poste, Matteo del Fante, scrive ad Attilio Fontana proponendo gratuitamente le tre piattaforme che Poste spa ha realizzato per la campagna vaccinale: una logistica; una che sovraintende “l’accettazione e la somministrazione” delle dosi; la terza che gestisce le prenotazioni.

“Le tre piattaforme”, scrive Del Fante, “garantiscono un controllo quasi in tempo reale di tutto il processo dall’approvvigionamento e distribuzione alla prenotazione e somministrazione”. Un pacchetto pronto (già accettato in altre 5 regioni) che per la Lombardia, ancora al palo con la sua campagna vaccinale, dovrebbe suonare come un regalo calato dal cielo. Ma Fontana per 25 giorni tace. Tutto resta sospeso fino al 4 febbraio – e qui siamo nella relazione Gubian –, quando “viene convocata Aria, cui viene richiesto di seguire la campagna vaccinale massiva. Viene deciso dall’Unità di crisi che la modalità di gestione della campagna vaccinale massiva avviene attraverso una fase preliminare di adesione del cittadino e una successiva ricezione di un sms che lo informa dell’avvenuta prenotazione indicandogli data, ora e luogo dove recarsi per la vaccinazione”.

Una decisione presa dall’Unità di crisi nella quale Guido Bertolaso ha un ruolo preminente. Ma nella piattaforma di Poste il cittadino entra, sceglie data/ora/luogo della somministrazione ed è registrato. Invece la Lombardia vuole gestire i flussi dei vaccinandi. Tanto che impone a Poste di cambiare il sistema. Ma deve farlo rapidamente, perché il 15 febbraio la vaccinazione deve partire (prima l’avvio era stato fissato per gli inizi di marzo), visto che la Regione è in ritardo rispetto alle altre regioni. Poste, scrive Gubian, prima dice di poter cambiare il sistema secondo i desiderata nei tempi previsti, poi, il 7 febbraio, con un sms, avvisa che “è difficile garantire le date richieste”.

Sempre il 7 febbraio Gubian dice di aver riferito a Bertolaso della situazione e di aver ricevuto da lui l’ordine di abbandonare Poste e continuare con Aria. Una verità sempre negata dal commissario, che aveva sostenuto di non aver avuto alcun ruolo nell’adozione di Aria. Anzi, era stato il primo ad attaccare una piattaforma costata 22 milioni.

Ma perché il Pirellone vuole un iter diverso dagli altri nelle prenotazioni? Per Gubian perché “la modalità di prenotazione diretta da parte del cittadino non sarebbe stata possibile poiché non erano presenti sufficienti Centri Vaccinali attivi e quindi il cittadino si sarebbe trovato una ridottissima disponibilità di agende con conseguente impossibilità di prenotare la sua vaccinazione”. Una giustificazione che non regge, visto che 18 febbraio, quando le vaccinazioni sono partite, i centri vaccinali erano i medesimi.

La relazione spiega anche il black-out del primo giorno di prenotazione, il 15 febbraio: allora Regione diede la colpa a Tim, “rea” di non mandare gli sms con gli appuntamenti. Ma la realtà, almeno per Gubian è diversa: “i nuovi server (…) per la gestione del portale delle adesioni non sono stati configurati correttamente sui firewall”. Cioè colpa di Aria.

AZ “raccomandato” solo agli over 60. A rischio i richiami

E adesso chi lo dice a chi deve ancora ricevere la seconda dose di AstraZeneca? È questo l’interrogativo che circola a Palazzo Chigi e dintorni. Nessuno, a quanto pare, ha la risposta. E data la cronaca di ieri non è difficile immaginarlo. Prima è arrivato (di nuovo) il via libera dell’Agenzia europa del farmaco: i casi di trombosi dopo la vaccinazione con AstraZeneca sono molto rari, ma il nesso c’è e “dovrebbe essere elencati come effetti collaterali”. Il rapporto tra rischi e benefici resta però positivo, non c’è un pericolo generalizzato e dunque non è necessario raccomandare misure specifiche. Così Ema ha passato la palla ai Paesi Ue per eventuali limitazioni. Un responso che ha portato prima alla convocazione di una riunione straordinaria dei ministri della Salute europei, poi alla convocazione da parte del governo italiano di un incontro tra la ministra per gli Affari regionali Mariastella Gelmini, i presidenti di Regione, il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo e il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. Al momento l’Italia sembra orientata a sconsigliare il vaccino anglosvedese ai minori di 60 anni: “L’idea anche per l’Italia – ha dichiarato il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli – è di raccomandare l’uso preferenziale oltre i 60 anni”.

Il provvedimento, un’ordinanza o una circolare del ministero della Salute, sarà consegnato in queste ore alle Regioni, con buona pace del fatto che, tempo fa, l’indicazione fosse esattamente contraria, ossia raccomandato per i più giovani; e con buona pace degli under 60 (decine di migliaia) in attesa della seconda dose AstraZeneca. A tranquillizzare tutti ci pensa il commissario all’emergenza, il generale Figliuolo: “Non ci sono casi di trombosi dopo la seconda dose” ha sentenziato (e pazienza che poco prima Locatelli avesse detto che nello specifico “i dati sono ancora troppo bassi”) aggiungendo poi che da oggi AstraZeneca sarà somministrato anche alla categoria 60-79 anni, “una platea di circa 13 milioni di persone, due dei quali hanno già ricevuto la prima dose”.

Facile prevedere che, con le ultime notizie, il fenomeno “AstraZeneca no grazie”, già diffuso, aumenterà. Con grave danno per la campagna vaccinale. In Campania già adesso una persona su tre rifiuta di essere vaccinata con AstraZeneca. “Tutti si presentano all’appuntamento per la somministrazione ma poi pretendono Pfizer – spiegano dallo staff del presidente Vincenzo De Luca –. E dal momento che non è possibile rinunciano”.

Non va meglio in Piemonte. Qui le defezioni sono iniziate soprattutto tra il personale scolastico. Si oscilla tra il 15 e il 20% di disdette, cosa che obbliga il personale sanitario ad attingere alle liste di riserva per evitare di gettare dosi. Anche in Trentino molti puntano i piedi: dal 10 al 15%, a seconda del punto vaccinale, declinano, preferiscono attendere l’arrivo di altri vaccini. In Calabria la quota dei diffidenti ha raggiunto in alcune aziende sanitarie il 30%: sono insegnanti ma anche agenti delle forze dell’ordine. In altre regioni, invece, le somministrazioni con AstraZeneca procedono senza troppi rallentamenti. Così in Emilia-Romagna, come nel Lazio, dove il problema è semmai la carenza di vaccini AstraZeneca. Molti vorrebbero attendere l’arrivo del siero sviluppato da Johnson&Johnson. Ne sono state somministrate finora 4,5 milioni di dosi. Con la segnalazione, però, di tre casi di trombosi simili a quelle notate con AstraZeneca.