“V-day” di Moratti: over 80 in coda in carrozzina al gelo

Anziani in coda agli hub e centri vaccinali vuoti per mancanza di vaccinandi. Due facce dell’ennesimo – convulso – V-day della Lombardia. Il primo a cui potevano presentarsi contemporaneamente gli over 80 con un appuntamento, quelli senza sms ma registrati sul portale Aria e quelli mai iscritti. Chi temeva il caos ha avuto ragione. E non sbagliava chi ritiene irrealizzabile l’obiettivo di vaccinare tutti gli over 80 entro l’11 aprile: mancano ancora 177.869 anziani registrati, più 57.890 non registrati. Una marea di gente che in questi giorni sta tentando di raggiungere la sua dose.

Ieri mattina l’ospedale San Gerardo Vecchio di Monza è stato preso d’assalto dagli over 80 senza convocazione, come aveva suggerito la vicepresidente, Letizia Moratti: “Siamo arrivati qui e c’è il mondo – spiega una signora mentre la madre aspetta su una sedia – il distanziamento è impossibile e fa freddissimo”. L’attesa si prolunga anche per chi aveva l’appuntamento. “Abbiamo appuntamento alle 10, ma fanno passare prima quelli che non avevano la prenotazione”, si è lamentata un’altra paziente. Una confusione che a tratti ha scaldato gli animi con le persone che gridavano “vergogna”. Confusione che ha raggiunto l’apice quando alcuni sono stati invitati a spostarsi al punto vaccinale dell’autodromo: “Ma cosa dovrei fare: rimettermi in auto e spostare di nuovo mia madre senza sapere come sarà di là la situazione – si chiedeva una signora – non mi sembra il caso”. Lunghe file anche nell’Hub di Schiranna (Va).

Situazione simile al Pio Albergo Trivulzio di Milano dove le code erano formate sia dai convocati, sia da chi non lo era. Idem all’ospedale Fatebenefratelli, dove una settantina di anziani senza appuntamento erano in fila dall’alba. E per tutta la giornata si sono alternati “regolari” e “irregolari”. All’ospedale di Magenta, invece, una ventina di insegnanti sono stati convocati da Aria per il vaccino all’insaputa dell’ospedale.

Discorso opposto alla Fabbrica del Vapore sempre a Milano, dove erano attesi oltre 1.500 over 80 e disabili registrati e, soprattutto, molti over 80 privi di appuntamento. Ma non si è visto quasi nessuno. La sala d’attesa è rimasta a lungo vuota, tanto che i vaccinatori hanno iniziato a chiamare i medici avvisandoli della disponibilità delle dosi. “Il centro vaccinale è semivuoto, chiedono a over 80, invalidi 100% e legge 104 di presentarsi, anche senza prenotazione. Vaccino Pfizer”, scriveva il consigliere regionale di +Europa, Michele Usuelli. “Gli anziani non sono venuti, perché nessuno li ha avvertiti”, spiega Usuelli. “Le affermazioni di Moratti – dice il pd Samuele Astuti – che aveva aperto le vaccinazioni a tutti gli over 80, indipendentemente dalle prenotazioni, poi smentite timidamente da Bertolaso, hanno generato confusione. Si è creato un cortocircuito in cui né gli operatori sanitari né i cittadini sanno più che fare”.

A testimonianza della confusione, le decine di telefonate, email, whastapp al consigliere regionale M5S Gregorio Mammì: “Sono quasi tutti anziani – spiega – che non si erano mai iscritti con Aria e che le Ats non hanno ricontattato. Mi chiedono di aiutarli col sistema di Poste”. Da ieri, infatti, oltre ai 79/75enni, anche gli over 80 possono accedere a quella piattaforma, novità comunicata solo in mattinata da Moratti (Aria gestirà solo il personale scolastico). Ma molti hanno avuto difficoltà. Del resto Poste non avrebbe dovuto occuparsi di over 80, ma su richiesta della Regione lo farà.

Siamo i watussi

Uno dei rari vantaggi del governo Draghi è che ha fatto sparire l’Innominabile, quello che racconta di aver vinto lui perché è arrivato Draghi. Ormai fa notizia soltanto per le sue imprese extracomunitarie, dall’Arabia Saudita all’Africa nera, da Dubai al Bahrein, dov’è ancora una discreta attrazione circense, mentre in Europa ormai lo conoscono. L’altro giorno però, non sapendo più chi incontrare e avendo 40 minuti liberi (aveva visto perfino Calenda e la Bonino), Letta gli ha concesso udienza in nome della vecchia amicizia. Dev’essere stato un bel momento. Pare che il segretario Pd camminasse rasente muri, per non offrire le spalle all’ospite e stare più sereno. Alla fine si è saputo che i due sono d’accordo su molte cose (i rispettivi nomi e cognomi, la bella giornata primaverile, la temperatura decisamente alta per la stagione), fuorché su un dettaglio: l’alleanza con i 5Stelle di Conte. Sul punto, Letta la pensa come Zingaretti: senza M5S e Conte, il Pd viene doppiato dalle destre. Ma Letta piace alla gente che piace, dunque la sua continuità col predecessore viene applaudita da chi fischiava Zinga e spacciata dai media per “discontinuità”, “cambio di passo”, “svolta”, “rivoluzione”. Non solo: Zinga, come il M5S, voleva il proporzionale, per correre separati e poi governare insieme. Letta vuole il maggioritario, che imporrà a M5S e Pd candidati comuni in ogni collegio: un patto di sangue, un’alleanza strategica.

Ora i giornaloni non si danno pace che, fra Conte e Demolition Man, Letta sembri prediligere il primo (in effetti è bizzarro che, fra il politico più popolare e il più impopolare, non si butti sul secondo). E dall’altro continuano a trattare i 5Stelle come gli esploratori bianchi del ’700-’800 vedevano gli ottentotti, i watussi, i pigmei, gli zulu. Su Rep il nostro adorato Folli si strugge per “l’ostacolo Raggi tra Pd e M5S” e le “insidie di un’intesa con il mondo grillino”, cioè per quella curiosa tribù di selvaggi da adescare con perline colorate, nella speranza prima o poi di civilizzarla. Nell’attesa, l’alleanza funziona così: il Pd mette i candidati e il M5S mette i voti. E, “per dimostrare la sua leadership”, “Conte deve dire alla Raggi che è ora di farsi da parte”. La cosa ovviamente non vale per Milano, dove Sala piace alla gente che piace, quindi può candidarsi contro il M5S, mentre la Raggi è una selvaggia, quindi non può correre contro il Pd: “Un ritorno della Raggi in Campidoglio sarebbe un enorme danno per Letta e di conseguenza per Conte”. Di lasciar decidere gli elettori romani non se ne parla. Dunque chi deve dire alla candidata M5S di levarsi dai piedi? Conte, il leader M5S. Poi, se fa il bravo, qualche perlina colorata la danno anche a lui.

Ogni “31 aprile”, i nipotini del Führer sono sempre pronti ad attaccare

Il romanzo non è una maschera, almeno non lo è per Giuseppe Cesaro che in 31 aprile racconta le follie neo-naziste di un manipolo di esaltati nostalgici del Führer nella Germania contemporanea.

Una storia inventata? Certo, ma molto vicina all’oggi, se pensiamo a tutti i rigurgiti nazionalisti che la politica mondiale sta conoscendo. “Nonostante il nazismo sia una follia che ha strappato l’umanità all’umanità – racconta Cesaro –, ancora oggi molti predicano quella follia. Per due ragioni: il male ci affascina più del bene; e amare è contro natura (altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di un comandamento che ci chiede di farlo), mentre odiare è un sentimento che nasce con noi, una belva che è difficile tenere al guinzaglio”.

Ecco allora che sulle orme di questo fantomatico gruppo “31 aprile” – che deve il suo nome alla data del suicidio di Hitler, avvenuto il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria – indaga la reporter Vera Stark, che sta realizzando un’inchiesta giornalistica per il suo settimanale. Sebbene sconsigliata dal suo compagno, il professor Alex Schneider, Vera entra in contatto con uno dei boss dell’organizzazione e con l’aiuto di un vecchio avvocato e di un maestro elementare in pensione ricostruisce clima e avvenimenti degli anni del Reich per provare a interpretare una serie di efferati omicidi apparentemente scollegati, di cui si è macchiato proprio il gruppo.

Tuttavia, avanzando in quella storia nera, Vera ne è consapevole: non si può sperare di guardare in faccia il male senza che esso ci graffi in qualche modo, parimenti anche lei sa di trovarsi nel mirino dei neo-nazi, dato che ormai ha scoperto troppo e si è fidata delle persone sbagliate che – come spesso capita – sono quelle che ci sono più vicine.

Ma al di là del denouement dell’ordito, per il quale è sempre valida la regola “nulla è come sembra”, ciò in cui riesce Cesaro – scrittore colto e affabulante – è svestire di retorica la narrazione del male, innanzitutto sconfessando uno degli adagi consolatori più mendaci della nostra esistenza, che cioè alla fine trionfi sempre il bene. “Non è vero: nella partita il bene non può vincere. Può solo pareggiare”. È vero, invece, quanto afferma la protagonista: “Il male non muore mai”, dato che molto semplicemente “il male è dentro l’uomo”. Proprio per questo è importante raccontarlo, per difenderci dall’idea che la vita moderna consista in una dieta di orrori dai quali siamo corrotti ma a cui gradualmente ci abituiamo e in cui la Storia (e le sue aberrazioni) subisce un processo di trasfigurazione immaginaria tale da essere declassata a pura figuralità priva di spessore.

Così dietro l’indagine di Vera – che l’autore conduce in stile pulp esente da cedimenti –, a Cesaro interessa soprattutto investigare l’uomo, cioè l’umano. Questo perché inventare una storia a partire da un trauma collettivo significa spesso raccontare come ci proteggiamo dalla Storia e di come cerchiamo di allontanarla. Tuttavia, se è vero che la letteratura non è il territorio in cui trova spazio la cronaca dei fatti, ma lo smascheramento di quanto poco vogliamo o riusciamo a vedere quegli stessi fatti, “Più che dalla Storia, che non insegna niente a nessuno, altrimenti avremmo smesso di sterminarci da millenni – chiosa lo scrittore – ci proteggiamo dalla coscienza”.

Addio a Hans Küng, il teologo eretico che non credeva nel Papa

Quel punto interrogativo, sulla copertina del libro, fu come una scossa di terremoto per la Chiesa. Era il 1970 e Hans Küng pubblicò Infallibile?, diventato subito uno dei suoi libri più noti e venduti. Il teologo svizzero smontava dall’alto della sua autorevole cattedra accademica di Tubinga, in Germania, il dogma dell’infallibilità del papa, sancito dal Concilio Vaticano I convocato appositamente da Pio IX. Ma il Sessantotto non c’entrava nulla, Küng non aveva fatto altro che portare a una maturazione estrema le sue posizioni e le sue riflessioni avviate da un decennio prima, quando ad appena 32 anni era diventato professore.

Il teologo è morto ieri a Tubinga. Aveva festeggiato i 93 anni da poco, a marzo. Lui e Joseph Ratzinger furono i teologi “esperti” più giovani del Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965. Il pensiero del teologo era chiaro: la Chiesa sta nella verità ma questo non vuol dire che il pontefice non possa commettere errori. Anzi. Küng, per esempio, citò il divieto della contraccezione artificiale contenuto nella Humanae Vitae di Paolo VI. Era la prima volta che all’interno del cattolicesimo si alzava una voce così importante contro l’infallibilità papale. A dire il vero, il professore era già da due anni sotto osservazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Inquisizione, a causa dei suoi volumi sull’esigenza di avere maggiore collegialità e democrazia nella Chiesa.

La rottura con il Vaticano arrivò ufficialmente nel 1979, dopo un solenne richiamo nel 1975. Oltre a processare il potere morale del pontefice, Küng scrisse in quegli anni Essere cristiano, per il quale venne accusato di dubitare della divinità di Gesù, mai chiamato nel libro come “figlio di Dio”. Fu quindi sotto il pontificato di Giovanni Paolo II che al teologo venne ritirata la licenza di insegnamento della Chiesa. Da quel momento Küng fu l’eretico per antonomasia, pur rimanendo prete. Nel 2005 incontrò Benedetto XVI, suo antico collega a Tubinga, e il loro colloquio di ben quattro ore venne interpretato come una sorta di riabilitazione. Tuttavia un lustro dopo Küng vergò una lettera pubblica a papa Ratzinger intrisa di delusione, definendo Benedetto come un papa della restaurazione e persino “anti-conciliare”, contro il dialogo con le altre religioni.

Diverso invece l’esito delle sue richieste con Francesco. Nel 2016, Küng gli chiese “una libera discussione sull’infallibilità” e papa Bergoglio gli rispose con una lettera. Il teologo fu soddisfatto, a cominciare dalla forma, che nella Chiesa è anche sostanza: “Mi ha risposto in maniera fraterna, in lingua spagnola, rivolgendosi a me come Lieber Mitbruder (Caro Fratello, ndr) in tedesco e queste parole personali sono in corsivo”. E poi: “Francesco non vuole più essere l’unico portavoce della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero. Sono pienamente convinto che in questo nuovo spirito aperto a una discussione libera, imparziale del dogma dell’infallibilità, questo problema chiave per il futuro della Chiesa potrà essere discusso al meglio. Sono profondamente grato a Francesco per questa nuova libertà e unisco il mio grazie di cuore all’aspettativa che i vescovi e i teologi sappiano senza riserve adottare questo nuovo spirito”.

Küng è stato il teologo più letto nel mondo e detestava però che la sua opera venisse riassunta solo come “critica del papa”.

Sono porci questi romani. Verdullo, parente di Marziale

“Stai in ginocchio, culona: mi fracassi i coglioni”. Questo non è un euroleak di turbolente conversazioni diplomatiche del 2011, ma la didascalia di una scena erotica (una focosa penetrazione a tergo) rappresentata su un vaso di Gaio Valerio Verdullo, ceramista attivo nel Nord-Est della Spagna alla fine del I secolo d. C.

Chi abbia letto il recente volume di Sarah Levin-Richardson Il lupanare di Pompei (Carocci 2020), denso di affreschi postribolari, fellationes e parolacce in area vesuviana (si ricorderà fra gli altri l’emistichio “voglio spaccare i fianchi di Venere”, memore di Tibullo), non si stupirà certo della presenza di graffiti “sboccati” e di rappresentazioni esplicite di atti sessuali nella cultura visuale romana. Tuttavia il caso di Verdullo è particolare.

Prolifico ceramista di vasi rossi a parete fina, Verdullo è un mezzo grafomane: non solo firma ostinatamente le sue creazioni, prodotte in larga parte dalla figlina de La Maja, poco lontano dall’odierna Calahorra (le campagne di scavo sono iniziate nel 1987, e i ritrovamenti proseguono fino a oggi un po’ in tutta la valle dell’Ebro, con punte fino a Saragozza e Tarragona), ma soprattutto ama corredare di doviziosi commenti scritti le scene che rappresenta. Quelle erotiche, certo (in un’altra si legge “per quanto m’insegna la vecchiaia, questa maniera è la migliore”: il vaso è rotto, ma sembra che la coppia fosse impegnata nel missionario), ma anche quelle di soggetto più neutro: su oggetti funerari non esita ad apporre un esplicito (e un po’ epicureo) cave fossam! (attenti alla fossa, ndr), mentre quando, su decine di vasi, mette in scena i gladiatori in lotta o in posa da vincitori (mirmilloni, traci, oplomachi, reziarii), consegna all’eternità sia i loro nomi sia la data dei combattimenti sia gli sponsor – un po’ come le sciarpe-souvenir che si portano via dallo stadio dopo una partita di Champions.

Lo stesso vale per le gare del circo: molti vasetti destinati al consumo di vino (anzi, di quel miscuglio di vino e miele noto come mulsum) durante lo svolgimento delle corse recano i ritratti degli aurighi delle varie fazioni, tutti raffigurati di profilo tranne il vincitore, che è di faccia. Tra questi campioni compare anche il famoso Incitatus, che uno sprezzante epigramma di Marziale celebra come esempio classico del “carrettiere vestito di porpora” (l’ignorante calciatore miliardario, diremmo noi), e un altro come tipico oggetto delle scommesse di chi non ha tempo per i libri e la poesia, e preferisce altri piaceri della vita.

Il riferimento a Marziale non è casuale. La Spagna di quest’epoca è infatti un luogo eccezionale: Verdullo è concittadino e contemporaneo di colui che diventerà il più importante retore (e pedagogista) della latinità, ovvero Marco Fabio Quintiliano; ma a cento chilometri da Calahorra sorge Bilbilis (oggi Calatayud), la cittadina dove proprio Marco Valerio Marziale nacque e visse prima e dopo i fasti dei suoi soggiorni romani, durante i quali conobbe ogni anfratto della società della capitale. Ecco allora che quando Verdullo parla di circo e di gladiatori in termini che ricordano il Liber de spectaculis dedicato da Marziale all’erezione del Colosseo (80 d. C.), o quando le scritte oscene dei vasetti mostrano qualche evidente eco dai fortunati epigrammi marzialiani (per esempio nella lapidaria sentenza pseudo-esametrica lascivae ludunt semper voluptate puellae; “le ragazze, lascive, giocano sempre per il loro piacere”), è difficile che si tratti di una coincidenza: Giulia Baratta (Università di Macerata), l’archeologa italiana che ha meglio studiato questi materiali e che insieme a Marc Mayer (Barcellona) ne sta preparando l’edizione, giunge a ipotizzare addirittura una parentela tra Verdullo e Marziale, che erano entrambi della gens dei Valerii. Ed ecco allora che non deve stupire che il sullodato “culona” sia detto con un prezioso aggettivo mai attestato (naticosa), né che quando su un vaso con il mito di Ippolito si legge vestigant canes (“i segugi cercano”), il riferimento testuale preciso sia alla Fedra di Seneca e alla scena molto pulp (e mai rappresentata altrove) in cui i cani rintracciano i brandelli del corpo del defunto Ippolito: forse la memoria di una rappresentazione della tragedia dell’andaluso Seneca in forma di mimo?

Sesso, sport e letteratura, in un crogiolo straordinario – l’Iberia di questo scorcio di I secolo – in cui l’alto e il basso si contaminavano e in cui, secondo un grande imperatore spagnolo, “le scuole risentivano degli svaghi della provincia” (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano).

Cuba che resiste: contro le varianti la terza dose “Plus”

“Buongiorno, tutto bene? Tosse, febbre, problemi di respirazione?”. A giorni alterni, Angel, studente al terzo anno di Medicina, controlla lo stato di salute degli abitanti della mia strada. Se vi sono sintomi sospetti, lo riferisce al Policlinico di quartiere, che si incarica di fare il primo test molecolare per individuare un possibile contagio da coronavirus.

A Cuba e in particolare nella capitale, L’ Avana, la “terza ondata” di Covid-19 si sta dimostrando molto più pericolosa delle precedenti. L’anno scorso, l’isola caraibica si è mantenuta stabilmente fra i Paesi che meglio hanno controllato la pandemia. Nel marzo 2021, però, la curva del contagio si è alzata e nell’ultima settimana ha raggiunto la quota di mille casi al giorno e una media di una o due vittime quotidiane.

Cifre basse rispetto all’Italia, ma che preoccupano. Nei quattro anni della presidenza Trump, Cuba è stata oggetto di un vero proprio strangolamento economico da parte degli Stati Uniti. Una delle conseguenze di tale politica aggressiva è la scarsezza di medicinali, per la difficoltà sia di acquistarli, sia di ottenere i componenti per fabbricarli. Dato l’incremento di contagi di SarsCov2, i policlinici e gli ospedali incontrano maggiori difficoltà a trattare i malati non di Covid-19.

Le prospettive di abbassare in tempi brevi la curva dei contagi non sono realistiche, nonostante gli sforzi organizzativi del sistema di salute pubblica e l’apporto di migliaia di giovani volontari. Nella Capitale è in vigore un coprifuoco notturno – dalle 21 alle 5 di mattina –, le scuole sono chiuse (in due canali tv vi sono classi quotidiane delle varie materie) e per i minori è proibito intrattenersi nelle strade o nei parchi pubblici. Ma la grave crisi economica sommata a un feroce embargo che il nuovo presidente Joe Biden non ha alcuna fretta di ridurre, costringe i cubani a lunghe e pericolose code quotidiane per procurarsi generi di prima necessità.

Di fronte a questa situazione, le autorità sanitarie hanno deciso di ampliare il numero di persone che partecipano alla terza – e ultima – fase di prove cliniche per certificare la sicurezza e l’efficacia di due candidati al vaccino nazionale, Soberana 02 e Abdala (altri due, Soberana 01 e Mambisa sono ancora alla fase 2). Soberana 02, prodotto dall’Istituto Finlay, ha concluso tre giorni fa la somministrazione della prima dose in 40.010 volontari e ha iniziato ieri la somministrazione della seconda dose. Per rendere più efficace l’immunizzazione, ci spiega la dottoressa Maria Elena Toledo, incaricata di supervisionare la sperimentazione, “abbiamo deciso di aggiungere alle due dosi di Soberana 02 una terza somministrazione di Soberana plus, un vaccino studiato in previsione di nuovi ceppi più aggressivi del coronavirus”. Vicente Verez-Bencomio, direttore generale del Finlay, ha dichiarato alla prestigiosa rivista The Lancet che “l’efficacia di Soberana 02 è dell’80-90%”. Stime ugualmente ottimiste sono fornite riguardo alla terza fase di sperimentazione (su 48.000 volontari ) di Abdala, il vaccino prodotto dal Centro di ingegneria genetica e biotecnologica.

“Data la situazione oggettiva del Paese, si è deciso di estendere l’applicazione di Soberana 02 e Abdala nel quadro di uno studio di intervento sulla popolazione a centinaia di migliaia di persone”, ci dice un responsabile del ministero della Salute. In pratica, il governo ha deciso di procedere a una vaccinazione di massa, già iniziata con la quasi totalità del personale sanitario che affronta il Covid-19, anche se i due sieri non hanno ancora la “patente” dell’organismo cubano di certificazione: il Cecmed. Lunedì l’Agencia Cubana de Noticias ha confermato che alla fine di aprile si inizierà la vaccinazione di 1,6 milioni di abitanti dell’Avana (su 2,2 milioni) di età maggiore di 18 anni. “Entro la fine dell’anno sarà immunizzata l’intera popolazione dell’isola”, afferma il sito ufficiale Cubadebate.

Discarica-Parigi, la sindaca annaspa

Cestini dell’immondizia che straripano, lattine vuote abbandonate sul lungo Senna, cartoni per pizze gettati per strada, oggetti ingombranti che si ammucchiano sui marciapiedi, cartelli autostradali rotti, muri coperti di graffiti, rifiuti che galleggiano sul Canal Saint Martin. La sporcizia è una tale piaga per Parigi da essere diventata uno dei temi centrali delle ultime municipali, nel 2020. Ora sono i parigini a lamentarsene in prima persona lanciando un hashtag – #SaccageParis – che dal 2 aprile ha raccolto più di 24 mila commenti, foto e film poco lusinghieri per la città. È presa di mira la gestione del problema da parte del comune, ma non è solo una questione di rifiuti. Si criticano anche le scelte urbanistiche della sindaca, la socialista Anne Hidalgo, appena rieletta e che si sta preparando per un’altra campagna, quella per l’Eliseo. Si denunciano allora le “devastazioni” di Parigi, come la scelta dell’anti estetico mobilio urbano, le trasformazioni di alcune piazze della città e le difficoltà per circolare. Insomma, Parigi si imbruttisce e i parigini vogliono farlo sapere. Intorno a questo hashtag è scoppiato un caso. Il comune ha lasciato correre per qualche giorno, ma alla fine ha denunciato “una campagna politica” a tutti gli effetti portata avanti contro il team comunale “fatta con il solo scopo di denigrare”. È stato puntato il dito contro “profili di militanti di estrema destra”. Sono stati rifiutati termini come “discarica” e “saccheggio”. Il vice sindaco Emmanuel Grégoire ha parlato di “attacco politico” per poi promettere più sanzioni per chi sporca (la multa è già di 135 euro per chi getta il mozzicone della sigaretta per terra) e sono stati ammessi i problemi di smaltimento attuali legati al calo del 10% degli effettivi a causa della crisi sanitaria. Chi c’è dietro questo hashtag? A Le Parisien, il suo fondatore (anonimo), anche se vicino al partito di centro UDI, assicura che non ha nessun obiettivo politico e che avrebbe parlato per “rabbia”: “Sono parigino da vent’anni – ha detto – e ho visto il degrado della città da quando Anne Hidalgo è arrivata alla guida del comune”. Le opposizioni hanno colto la palla al balzo. Rachida Dati, già rivale della Hidalgo alle municipali per la destra Les Républicains, e anche lei aspirante all’Eliseo, accusa la sindaca di “negare la realtà”. Il Rassemblement National ha denunciato i “costi esorbitanti della per il verde della città dai gusti estetici dubbiosi”. È intervenuta anche Marine Le Pen, la leader dell’ultradestra, che ha scritto: “Bravi i parigini che si rivoltano. Il degrado della nostra bella capitale è una sofferenza nazionale”.

La “Bancada femminista” spiazza il Brasile omofobo

“Fino a pochissimo tempo fa, le sole donne nere ad entrare in questo palazzo erano quelle delle pulizie”, scherza la militante afro-femminista Carolina Iara: per la prima volta, delle donne di colore sono entrate nel consiglio comunale di San Paolo dopo le amministrative del novembre 2020. Carolina Iara è membro del gabinetto di Silvia Ferraro (che è bianca). In cinque, insieme a Dafne Sena, Paula Nunes e Natália Chaves formano la “Bancada femminista”. Il gruppo femminista ha portato avanti una campagna elettorale collettiva e ora esercita un “mandato collettivo”. Anche se numericamente restano marginali (solo 22 sui 58.208 posti comunali), i “mandati collettivi” sono movimenti politici sperimentali, costituiti da attiviste femministe, militanti di colore, trans, gay e lesbiche. Per la prima volta le porte delle istituzioni si sono aperte a categorie della popolazione che in genere ne restano escluse. La “Bancada femminista” nasce come movimento sovversivo: “In Brasile, tutte le istituzioni hanno struttura centralizzata: sono l’incarnazione stessa del potere patriarcale”, sottolinea Silvia Ferraro. Invece di sostituire dei presidenti con delle presidenti, le cinque consigliere hanno preferito distribuire il potere: “Una donna da sola non può rappresentare la complessità della lotta femminista”, osserva Paula Nunes, avvocato afro-femminista, 29 anni. Anche il “Quilombo periférico” è uscito vittorioso dal voto di novembre a San Paolo. Il movimento rivendica le sue origini nelle periferie: “Il “Quilombo” (il territorio dove si sono stabiliti gli schiavi detti “Maroon” dal XVI secolo in Brasile, ndr) – spiega la co-consigliera Debora Dias, 22 anni – rappresenta la forza del movimento nero, mentre l’aggettivo periférico indica da dove veniamo, cioè da movimenti associativi e politici neri radicati nei quartieri popolari”. Il co-consigliere Alex Barcellos, coordinatore associativo in una favela nel sud-ovest della città, difende una politica di riparazione dei popoli neri e indigeni di San Paolo: “I nostri problemi devono essere messi al centro dell’agenda politica dalla città. La nostra elezione è un’opportunità per esigere delle riparazioni, che cominciano dalla nostra semplice presenza nel Palacio Anchieta, la Camara Municipal, che porta il nome di uno dei fondatori del Brasile coloniale e schiavista”. José Anchieta coordinò nel XVI secolo la politica di “evangelizzazione” del Brasile, che si tradusse in saccheggi e massacri e ridusse a schiavi le popolazioni indigene. “Nella sala riunioni del consiglio comunale – dice Carolina Iara – siamo visti come una minaccia e ci sentiamo minacciati”. Le minacce sono reali. A gennaio le case di Carolina Iara e di Samara Sosthenes, co-consigliera del Quilombo periférico, sono state bersaglio di spari intimidatori. Nere e trans, le due attiviste non sono state prese di mira per caso ma, poiché per legge i co-consiglieri dei mandati collettivi non sono considerati eletti, il comune non ha preso alcuna disposizione per garantire la loro sicurezza. Sul piano giuridico i mandati collettivi mostrano dunque le loro debolezze. Una proposta di modifica della Costituzione per il loro riconoscimento legale dorme dal 2017 in Parlamento. Se oggi questi mandati sono possibili è grazie a uno cavillo del codice elettorale che, se vieta di modificare il numero di seggi, autorizza le candidature collettive. È così che la Bancada femminista e il Quilombo periférico, i due mandati collettivi con più voti in Brasile, 46.267 il primo, 22.742 il secondo, si sono potuti presentare alle municipali del 2020. Rischiando anche la loro vita, le donne nere delle periferie sono ormai al centro di una dinamica politica di rottura in Brasile. Pensando a Marielle Franco, la consigliera comunale e militante per i diritti umani che fu uccisa a Rio nel 2018, Carolina Iara è categorica: “Possono ucciderne una, non potranno ucciderne migliaia”.

(Traduzione di Luana De Micco)

Terremoto Barghouti, l’uomo con le manette corre per la “Libertà”

“Libertà” da Israele ma, soprattutto, da Fatah. È questo il significato del nome scelto per la lista che ha spaccato lo storico partito palestinese fondato da Yasser Arafat in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali che si terranno rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio. Dopo ben 15 anni, gli abitanti dei territori palestinesi occupati, ovvero la Cisgiordania, guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) da sempre esponente di punta di Fatah, e la Striscia di Gaza controllata dagli estremisti islamici di Hamas, potranno tornare a esprimere il proprio voto. Alle urne saranno chiamati anche i palestinesi di Gerusalemme est, considerata dal diritto internazionale parte dei Territori palestinesi occupati.

La frattura all’interno del partito che nella guerra lampo del 2007 perse il controllo di Gaza a vantaggio di Hamas è stata prodotta, ironia della storia, proprio dal nipote di Arafat, Nasser Al Kidwa, e dall’ergastolano Marwan Barghouti. Il 64enne leader del braccio armato di Fatah è divenuto negli anni il simbolo della resistenza contro l’occupante per i palestinesi, specialmente i più giovani, e terrorista spietato per gli israeliani che lo hanno accusato di essere uno dei fautori della seconda Intifada nonché mandante di numerosi attacchi suicidi, condannandolo al carcere a vita per cinque volte. In sua vece nella lista per la “Libertà” c’è la moglie Fadwa che viene al secondo posto subito dopo al Kidwa. A sfidare il vecchio e malato Abu Mazen, accusato di corruzione e liberticidio da molti abitanti della Cisgiordania, c’è anche Mohammed Dahlan, ex governatore di Gaza, chiamato il “serpente” dagli stessi esponenti di Fatah che lo ritengono una spia di Israele e responsabile della morte di Arafat. Da rettile, Dahlan si è trasformato, non solo secondo i membri di Fatah che lo hanno esiliato, in “cane da guardia” di Mohammed bin Zayed, il reggente degli Emirati Arabi Uniti, dove vive da anni. Il vecchio e malato Abu Mazen è consapevole di non poter continuare a ricoprire il ruolo che occupa dal 2005, tuttavia ritiene un eventuale rientro di colui che ha contribuito a espellere dalla Palestina come una pericolosa minaccia per la sopravvivenza dell’Autoritá Nazionale Palestinese e la fine del sogno di un vero stato palestinese. Questa volta c’è il rischio che il monopolio di Fatah termini a favore di una fazione che in termini freudiani uccide il padre per potersi emancipare. Del resto al Kidwa, ex inviato palestinese alle Nazioni Unite, aveva rotto da mesi con il partito creato dallo zio premio Nobel per la Pace. “Libertà” è data per favorita alle parlamentari non solo in Cisgiordania. Anche Hamas teme che il nipote di Arafat grazie anche al suo cognome e la fama di Barghouti aumentata esponenzialmente durante la carcerazione la indeboliranno. Se a Gaza le elezioni si svolgessero in modo trasparente sarebbe possibile che anche il movimento estremista islamico esca di scena, ma ciò è piuttosto improbabile visto il pugno di ferro con cui il movimento governa la Striscia. Ci sono però alcuni analisti che ritengono la nuova alleanza elettorale un tradimento contro Fatah e un aiuto, seppur indiretto, ad Hamas.

Gli islamisti potrebbero captare il voto di quei palestinesi della Cisgiordania stufi della corruzione di una classe politica logora quanto incapace di una visione e soprattutto di rinunciare al potere. “Questa potrebbe essere una conseguenza possibile quanto drammatica – ha detto Ghaith al-Omari, ex consigliere di Abbas e analista senior presso il Washington Institute for Near East Policy, un gruppo di ricerca a Washington – si tratta della sfida più pericolosa contro la strategia elettorale di Abbas”. I membri dell’alleanza di Kidwa e Barghouti hanno affermato di aver creato la nuova fazione per rivitalizzare la politica palestinese, che è diventata sempre più un one man show incentrato su Abbas, che governa per decreto. “Il sistema politico palestinese non può più essere solo riformato – ha detto Hani al-Masri, un membro della nuova lista – ha bisogno di un cambiamento profondo”. “Anche con il nostro profeta Maometto c’erano voltagabbana”, ha detto Jibril Rajoub, il segretario generale del Comitato centrale di Fatah mostrando il timore di una drammatica sconfitta tanto da arrivare al punto di tirare il Profeta per la giacca tradendo l’essenza laica di Fatah. Il decreto legge firmato da Abu Mazen considera le elezioni politiche come una prima fase per la formazione del futuro Consiglio nazionale palestinese, l’Olp, che rappresenta i palestinesi in patria, all’estero e in diaspora.

Zaki, altri 45 giorni in galera. Amnesty: “L’Italia richieda subito la scarcerazione”

Per Patrik Zaki altri 45 giorni dietro le sbarre: è l’ultimo verdetto della Corte d’Assise del Cairo, che ha rinnovato la detenzione dello studente dell’Università di Bologna. Respinta la richiesta di cambio del collegio giudicante presentata due giorni fa dal team di avvocati del ricercatore: lo ha riferito la legale Hoda Nasrallah, tornata a lanciare l’allarme sul preoccupante stato di salute psicologica del 29enne.

È il risultato dell’ultima udienza di custodia cautelare, – misura punitiva prolungabile fino a due anni secondo la legge egiziana –, tenutasi due giorni fa al Cairo, ma il cui esito si è conosciuto solo ieri. Nello stesso giorno, prima visita all’estero per Mario Draghi accompagnato dal ministro degli Esteri Di Maio in Libia dove cruciale resta l’influenza dell’Egitto.

In Italia in tanti sono tornati a chiedere l’immediato rilascio dello studente che seguiva presso l’Ateneo bolognese il master europeo Gemma, dedicato agli studi di genere: attivisti, associazioni per i diritti umani, politici. Alcuni, tra cui la deputata Lia Quartapelle, responsabile Esteri Pd, hanno chiesto a Draghi “di valutare tutte le iniziative per la liberazione di Patrick, a partire dal conferimento della cittadinanza italiana”. Zaki è stato però già rispedito nel crudele carcere di Tora, periferia della Capitale, e rischia, in totale, una condanna a 25 anni di carcere per propaganda sovversiva e istigazione al terrorismo: capi d’accusa basati, tra l’altro, su alcuni messaggi pubblicati su Facebook da un account che, hanno più volte affermato i suoi legali, non appartiene allo studente. Da quando è stato arrestato il 7 febbraio 2020, blande pressioni politiche internazionali e assenza di diritti umani hanno contribuito al prolungamento del “calvario di Zaki”. I 14 mesi di detenzione arbitraria senza possibilità di difesa legale diverranno 15 e mezzo: “Siamo di fronte alla passione di Patrik” e bisogna mettervi subito fine. “Aveva ragione l’avvocata a chiedere la ricusazione dei giudici sostenendo l’accanimento giudiziario.

Adesso Amnesty International chiede al governo italiano di fare presto e fare sul serio, a partire dalla convocazione dell’ambasciatore egiziano a Roma per comunicare profonda contrarierà e preoccupazione, per chiedere l’immediata scarcerazione dello studente e ribadire che quella di Patrik è anche una storia italiana” dice al telefono Riccardo Noury, portavoce dell’ong. “L’Italia – aggiunge Noury – dovrebbe unire le sue forze con l’Austria: nella stessa condizione di Zaki si trova Ahmed Samir, studente dell’Università centrale di Vienna”.