Draghi in Libia per riallacciare i rapporti. E sui migranti elogia i “salvataggi in mare”

Una visita lampo per recuperare l’influenza in Libia. È stato questo l’obiettivo del primo viaggio all’estero del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Ieri mattina ha incontrato a Tripoli Abdul Hamid Dbeibah, premier ad interim del governo di unità nazionale che traghetterà il Paese al voto: “È un momento unico per ricostruire l’antica amicizia”, ha detto Draghi, a partire dall’accordo di amicizia di B. e Gheddafi. I due premier hanno parlato di “cooperazione in campo energetico e infrastrutturale” (riferimento ai pozzi petroliferi Eni) e anche di immigrazione, con Draghi che, tra le polemiche per le violenze nei lager libici, ha elogiato “i salvataggi in mare” della Libia. Il premier italiano, che poi ha incontrato il presidente del Consiglio presidenziale, Mohammed al Menfi, i due vicepresidenti e il personale italiano all’ambasciata , ha posto una condizione, anche su pressione degli Usa, che hanno chiesto a Italia e Francia di farsi garanti della pace in Libia: “Requisito essenziale per proseguire la collaborazione è che il cessate il fuoco continui”.

Mail Box

 

Covid ed “Ever Given” sono frutto dell’uomo

Un microscopico organismo noto con l’acronimo SARS-CoV-2 e una gigantesca nave di nome “Ever Given” hanno tenuto sotto scacco, per oltre un anno e per una settimana rispettivamente, il mondo intero. La prima causando una colossale pandemia con quasi 130 milioni di casi d’infezione e 3 milioni di morti, la seconda bloccando il passaggio di merci, animali e persone dall’una all’altra estremità del Canale di Suez, con gravissime ripercussioni sul traffico marittimo globale. L’infinitamente piccolo e lo straordinariamente grande sono due facce della nostra era, definita “Antropocene” per via dell’abnorme “impronta ecologica” lasciata dall’uomo su “Madre Terra”. A causa delle attività antropiche si sarebbero infatti registrate, nel 2015-2020, le più alte temperature medie sul nostro pianeta nel corso degli ultimi 140 anni. Il riscaldamento globale e la progressiva desertificazione e deforestazione che ne derivano accrescerebbero poi le occasioni di mutua interazione fra uomo, animali domestici e selvatici, con conseguente incremento nella trasmissione di agenti patogeni e nei relativi “salti di specie” (spillover). Per dirla con le sagge parole di Papa Francesco, “come possiamo pretendere di vivere sani in un mondo malato?”.

Giovanni Di Guardo
Già prof. di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria all’Università di Teramo

 

Proposte per un’efficace riforma della riscossione

Leggo tra le proposte di riforma della riscossione quella avanzata di decadenza automatica delle cartelle esattoriali dopo cinque anni dalla emissione delle stesse. Questo per evitare che si formino come in passato dei magazzini enormi di liste di inesigibilità. Ciò va bene a patto che vengano prese delle contromisure affinché non si verifichi il “cimitero” definitivo della riscossione, ovvero il bilancio in rosso dello Stato. A parte chiaramente un aumento di efficienza del personale Ader (Agenzia delle entrate riscossione), tempi molto più stretti per la notifica degli atti e un testo unico della riscossione, sono necessarie altre misure. Ne suggerisco alcune sulla base della mia esperienza: controllo sulla procedura e operato di Ader (con un ente di controllo ad esempio), unificazione della riscossione nazionale e locale sotto un’unica gestione, banche dati aggiornate (con obblighi a vari livelli), incastro di dati tra uffici, Rafforzare l’uso del fermo amministrativo su beni mobili registrati e il blocco dei conti correnti, velocizzare le uscite degli Ufficiali di riscossione per svolgere le azioni di pignoramento, unione di forze tra Guardia di Finanza, Carabinieri e ufficiali di riscossione per azioni mirate efficaci e rapide.

Stefano Masino
Ufficiale di riscossione – Asti

 

Scuole, si devono aprire al più presto le superiori

Sicuramente chi gestisce la scuola pubblica oggi ne capisce poco di psicologia dell’età evolutiva e di adolescenza. Si continua a parlare di portare a scuola gli alunni solo fino alla prima media. Ma è alle superiori che deve arrivare la “libertà” subito. È qui che la sofferenza si sta trasformando in patologie, più che altrove. L’adolescenza è una fase delicatissima della crescita, quella in cui si forma il pensiero critico indipendente e in cui si rompe il contratto affettivo dell’infanzia con i genitori e ci si apre, golosamente, agli stimoli provenienti dallo spazio sociale in cui si vive, fatto di amici e adulti “diversi” con cui interagire da “adulti in formazione”. Il problema di chi frequenta le superiori è che l’isolamento (la “dad”) sta continuando quasi ininterrottamente da un anno e mezzo. Agli adolescenti in questa situazione viene a mancare il bisogno primario di questa età, ossia gli altri adolescenti con cui confrontarsi e condividere le trasformazioni in corso, in un momento in cui nel loro spazio privato i genitori non possono più accedere come prima. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più caro. E noi docenti li stiamo osservando, impotenti.

Barbara Cinel

 

Vaccini e Recovery Fund anche merito di Conte

Sento che adesso il nostro premier siede “alla pari” con i Grandi d’Europa, ma qualcuno dimentica che chi c’era prima, con autorevolezza e grande capacità diplomatica, ha portato al nostro Paese 209 miliardi di euro. E sui vaccini, cosa sarebbe successo se anziché un unico contratto europeo (oggi così tanto vituperato), ci fossero stati una trentina di Stati che in ordine sparso si affidavano al libero mercato? Noi, con la nostra economia, quanti saremmo riusciti ad acquistarne? E a che prezzo?

Claudio Bocchi

 

I risultati del “Fatto”: buona notizia per tutti

Il mio giornale mi ha regalato una soddisfazione. Seif torna all’utile e Il Fatto registra +47% di copie. Sembra che i guadagni vengano nelle mie casse, non è così, ma la gioia di trovare un aumento di lettori di un giornale serio e obiettivo è cosa buona. Il Paese ha bisogno di notizie vere che ci aprano gli occhi e quindi il cuore. Grazie al Fatto e ai suoi veri giornalisti!

Claudio Marchetti

Ex Ilva. “Simona, Ricky e Sabrina, aiutateci a denunciare lo scempio”

Cari Simona, Ricky e Sabrina, grazie per aver portato sugli schermi di tutt’Italia una storia che fa pensare alla realtà, scuotendo le coscienze. Il ringraziamento va a tutto il cast di attori e a chi ha collaborato alla realizzazione della fiction Svegliati amore mio.

Genera forte impressione scoprire che vi sia stato qualcuno che, oltre a guardare la fiction, abbia anche controllato i profili Facebook degli operai per vedere se condividevano l’evento e in che termini. Le sanzioni disciplinari a lavoratori che avevano condiviso un post molto duro verso la fabbrica ha suscitato una diffusa reazione, anche a livello sindacale… La capillare sorveglianza globale spiega bene perché ai cancelli della fabbrica gli operai non parlino, come avete raccontato nella fiction.

Chi vi scrive in questi anni ha potuto constatare quanto sia stato sfuggente il mondo della politica di fronte ai problemi che voi avete raccontato… Ho toccato con mano in questi anni ciò che la vostra fiction racconta.

Ma sono qui a scrivervi per raccontarvi un mistero ancora irrisolto all’interno di una storia kafkiana. Vi racconterò di una vicenda che sembra una fiction ma che è realtà. Dovete sapere infatti che nel marzo del 2018 arrivarono a Taranto alcuni esperti per uno studio epidemiologico senza precedenti… Allora venne organizzato un efficiente gruppo su Whatsapp, che lavorò in silenzio, giorno dopo giorno, nella ricerca di volontari che rispondessero alle specifiche del campione statistico richiesto. A ogni volontario vennero prelevate 19 fiale di sangue. La ricerca mirava alla “determinazione metalli in traccia su siero”. Quella ricerca, condotta con tanta riservatezza, non riguardava solo Taranto, ma mirava a mappare il sangue dei cittadini dell’Italia inquinata dai veleni, da Nord a Sud.

I metalli pesanti a cui si dava la caccia con quella ricerca erano i seguenti: Litio, Berillio, Stronzio, Molibdeno, Cadmio, Antimonio, Tallio, Piombo, Manganese, Zinco, Arsenico, Selenio, Ferro, Nichel, Rame, Mercurio… Sarebbero stati incrociati con i dati ambientali e con le fonti di quegli inquinanti.

Che è successo dopo tre anni? Di quella ricerca non se ne è saputo più nulla… I certificati di analisi sono stati spediti per email ai singoli donatori delle 19 fiale di sangue. Ma quei donatori non ci hanno capito nulla perché i dati non erano accompagnati dai valori di riferimento. Che strano. Sappiamo però che nelle persone hanno trovato ferro, zinco, nichel, mercurio, cadmio, arsenico e persino stronzio! Non ci hanno capito nulla neppure i medici di famiglia, perché per comprendere quei dati bisogna essere esperti di tossicologia… E, ora che vogliamo conoscere, è calato il silenzio: Simona, Ricky, Sabrina aiutateci. Un caro saluto.

Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink

L’odissea geniale del teatro Patologico

Domenico Iannacone, l’autore più verticale della nostra televisione, specialista in ritratti di uomini non illustri, ha scelto la linea multipla, corale per L’Odissea trasmessa da Rai3 la sera di venerdì santo (ora su RaiPlay), e non poteva essere diversamente. Madre di tutte le Via Crucis, questa Odissea muove di pari passo con la storia del Teatro Patologico di Roma; la vocazione di Dario D’Ambrosi dopo una degenza volontaria in un reparto psichiatrico, la partenza per New York, il passaggio al Cafè La MaMa di Ellen Stewart, il debutto glorioso nell’East Side, il ritorno a Roma e la fondazione di una compagnia, o meglio di un dream team composto da disabili mentali.

Il docufilm, prodotto da Hangar e diretto da Iannacone con Lorenzo Scurati, interroga questi extracomunitari della ragionevolezza provvisti di un’energia che solo la disabilità può dare; segue la loro trasformazione in Ulisse, Penelope, Telemaco, Calipso, Circe, Polifemo; mostra quanto mitologia e patologia siano gemelle diverse.

Ma siccome le odissee non finiscono mai, nel bel mezzo delle prove scoppia la pandemia e il primo, terribile lockdown della primavera 2020. Ma volete che il Teatro Patologico si spaventi per così poco? Basterà aspettare l’estate, e trasferire la prima sulla spiaggia di Ostia.

Un anno dopo, la pandemia non è sconfitta, le platee restano vuote, l’odissea del Teatro Patologico prosegue, la sua stessa sopravvivenza è in forse; ma questo rende ancora più prezioso l’omaggio di Domenico Iannacone.

Dario D’Ambrosi e i suoi ragazzi sono la prova di quanta libertà, quanta cura e quanta salvezza ci siano nel teatro, e che ci sono cose che non si possono insegnare a distanza.

Per esempio, la vita. In un tempo in cui tutto il cinema tende a farsi televisivo, questa Odissea è uno struggente esempio di cinema a misura di televisione; capace di ricordare al servizio pubblico che, come ha scritto Montaigne, i nostri sogni valgono più dei nostri discorsi.

I sette pilastri del Conte 5 Stelle

Nel breve arco di 41 giorni abbiamo ascoltato tre discorsi “storici”: quello di Draghi al Senato, quello di Letta all’assemblea del Pd e quello di Conte all’assemblea dei 5 Stelle.

Conte è figlio della piccola borghesia meridionale, Draghi e Letta sono figli della buona borghesia del Centro Italia. Tutti e tre hanno frequentato scuole cattoliche o azione cattolica; sono laureati in materie sociali (Economia, Scienze politiche, Giurisprudenza); sono professori universitari; vantano esperienze internazionali. Insomma, tre perfetti democristiani nel senso migliore della parola, educati sui testi classici di Weber, Keynes e Santoro-Passarelli più che di Gramsci o di Bobbio e tanto meno di Marx.

Per ironia della sorte, è a questi tre leader squisitamente moderati che risulta oggi affidata la sorte non solo della sinistra italiana, ma soprattutto di quei 15 milioni di disagiati – disoccupati, poveri, proletari, sottoproletari, neet, precari – che nei partiti di sinistra dovrebbero trovare i loro portavoce e riporre le loro speranze. Ma non è detto: anche Lenin era di famiglia borghese e laureato in Giurisprudenza.

La genesi e l’essenza del discorso di Conte hanno del paradossale come quasi tutte le vicende dei 5 Stelle. In questo caso è stato chiesto a Conte – il più acerbo dei politici italiani – nientemeno che progettare nel minor tempo possibile, prima che il suo consenso popolare evapori, un movimento-partito coerente con il prologo decennale dei 5 Stelle e tuttavia completamente nuovo. Conte si è chiuso in casa e si è cimentato in questa impresa che, a rigor di logica, avrebbe richiesto l’impegno congiunto di politologi, filosofi, economisti, sociologi ed esperti di scienze organizzative. Lui, invece, ha fatto tutto da solo, evitando persino le citazioni, con una sola eccezione riservata a Italo Calvino. Il frutto di questo concepimento solitario è un discorso di 3.150 parole, quindi più breve del discorso di Draghi (5.604 parole), molto più breve di quello di Letta (oltre 7.000 parole).

Creare un nuovo soggetto politico richiede tre successive operazioni: elaborare un modello inedito di società; individuare il segmento di popolo che può essere avvantaggiato da questo modello e potenzialmente disposto a lottare per il suo trionfo; progettare una macchina organizzativa funzionale a questo trionfo. Conte prova a esporre il modello, i destinatari e l’organizzazione premettendo che non intende proporre un’operazione di marketing politico o un semplice restyling del Movimento, ma la sua rigenerazione e rifondazione.

Il suo ambizioso obiettivo è fare del neo-Movimento “un laboratorio privilegiato di idee e progetti diretti a elaborare e a realizzare un nuovo modello di sviluppo che punti non più solo a indici di crescita di produttività, ma a una nozione ampia e incisiva di prosperità. Un modello di sviluppo che realizzi condizioni effettive di benessere equo e sostenibile per tutti i membri della comunità, che declini la transizione energetica e digitale già in atto, secondo logiche e strategie mirate a ridurre le tante diseguaglianze, che sacrificano gli interessi dei più vulnerabili e fragili, delle donne, dei giovani, ma anche di tutti coloro che vivono nei vari Sud del Paese”.

Mentre il discorso di Letta guardava la società con un’ottica centrista, questo di Conte propone come obiettivo primario la riduzione delle disuguaglianze e indica le fasce più svantaggiate del Paese come suo popolo di riferimento privilegiato. Dunque colloca il neo-Movimento alla sinistra del Pd, più vicino a Bersani che a Letta. Auspica inoltre che la forza irradiante di questo neo-Movimento coinvolga in tutto il mondo altre forze politiche e altri movimenti culturali facendoli convergere su una “cultura integralmente ecologica e di giustizia sociale”.

Per creare il neo-Movimento occorre definire due punti: la sua identità politica e la sua razionalità organizzativa. Secondo Conte il modello di sviluppo e l’identità politica vanno tradotti in una proposta “solida, matura, coraggiosa, lungimirante” esposta in una Carta dei principi e dei valori. La Carta deve essere basata su sette pilastri: rispetto della persona, ecologia integrale, giustizia sociale; democrazia; legalità; etica pubblica; cittadinanza attiva. Ne discende la necessità di riscrivere i diritti digitali, quelli dei lavoratori, degli imprenditori, delle persone con disabilità, dei consumatori, partecipando al percorso comune europeo con la forza di un Paese fondatore che spinge tutta l’Unione a convergere su una “economia eco-sociale di mercato”. Dunque, opposta al neo-liberismo.

Ciò comporta anche una rivisitazione delle originarie cinque stelle e la sostituzione del linguaggio aggressivo con le “parole giuste”, pensate, calibrate, improntate al rispetto delle posizioni altrui.

Quanto all’organizzazione, per non “ricadere nei limiti della forma-partito tradizionale” Conte propone una temeraria quadratura del cerchio: salvaguardare la “esperienza leggera” del movimento e, nello stesso tempo, adottare per statuto una struttura funzionale, con un’articolazione interna che includa un dipartimento per rapporti con stranieri, un centro di formazione permanente e una rete di organi territoriali con una ripartizione inequivoca dei compiti, senza correnti, cordate e associazioni.

Il neo-Movimento deve essere inclusivo e accogliente ma intransigente sui suoi valori di onestà e di coraggio. Deve favorire forum e “piazze delle idee” per sollecitare pratiche di “attivismo civico”. Deve promuovere e perseguire la democrazia diretta, continuando ad affidare le scelte fondamentali alla piattaforma digitale ma, nello stesso tempo, deve rafforzare e migliorare l’ineliminabile democrazia rappresentativa. Le funzioni istituzionali di responsabilità vanno severamente riservate a persone oneste, competenti e capaci.

Questo impianto del documento lascia aperte alcune questioni. Il modello di società cui tende è appena sbozzato e dunque occorre mettere subito mano alla sua definizione. La struttura organizzativa, anch’essa solo abbozzata, parrebbe ispirata al vecchio e rigido paradigma dell’organizzazione funzionale, ormai accantonato dalle scienze organizzative a vantaggio di altre forme più flessibili.

Se una delle originalità sostanziali del neo-Movimento deve risiedere nella capacità di conciliare l’effervescenza emotiva dell’anima movimentista con la solidità razionale di una struttura partitica, allora occorre recuperare Di Battista e i suoi elettori, che assicurerebbero ai 5 Stelle lo smalto di quel dinamismo critico che tutti gli altri partiti hanno ormai perso.

Se l’altro aspetto originale e irrinunziabile del neo-Movimento continua a risiedere nella pratica di una democrazia diretta che solo l’impiego esperto di una piattaforma può assicurare, allora gli converrebbe non farsi scappare tutto il know-how accumulato da Rousseau e sintetizzato nel Manifesto ControVento, che offre belle e pronte le infinite opportunità della platform society, connotata dalla disintermediazione e dall’organizzazione politica distribuita.

Insomma, la galassia 5 Stelle presenta tutti i requisiti di un laboratorio politico postindustriale. Resta da capire se questi requisiti riusciranno a sommarsi tra loro o finiranno per sottrarsi a vicenda.

 

Gattuso e Pirlo: gli eroi mondiali sono allenatori sopravvalutati

Per una di quelle assurde complicazioni generate dalla pandemia, stasera a Torino si giocherà il recupero della terza giornata di andata tra Juventus e Napoli. Si pensi che il ritorno è stato già disputato e hanno vinto gli azzurri. Le due squadre, a dispetto della loro storia più recente, non scenderanno in campo per lo scudetto, bensì per un posto in Champions. Ma soprattutto, stasera, uno di fronte all’altro, incroceranno i loro destini incerti due vecchi amici oggi allenatori: Andrea Pirlo per la Juve, Rino Gattuso per il Napoli. Il primo è a rischio esonero in caso di sconfitta e va in panchina con accanto l’ombra del ritorno di Max Allegri. Il secondo invece ha già rotto con il presidente padre-padrone Aurelio De Laurentiis e a fine stagione andrà via.

Benché coccolati da tv e giornali spesso compiacenti e pronti a fornire alibi per le sconfitte, Pirlo e Gattuso stasera sanciranno il loro flop oggettivo da allenatori già pronti per la lotta scudetto o per un trofeo europeo. Pirlo, per esempio, in questi mesi non è mai stato massacrato come il suo predecessore Maurizio Sarri, cacciato malamente dopo aver vinto il tricolore. Parabola analoga per Gattuso, accolto a Napoli da Masaniello liberatore, come se il suo curriculum fosse all’altezza di quello di Carletto Ancelotti. Ecco quindi il punto. C’è che la generazione degli eroi di Berlino 2006, cioè i calciatori che vinsero il Mondiale con Lippi, si è messa ad allenare senza grandi risultati, ma godendo di un credito troppo ampio. Sopravvalutati, in una parola. In questa Italia del calcio vecchia e lenta che non vince mai in Europa ci si è illusi che il Maestro Pirlo e Ringhio Gattuso fossero eroi anche in panca. Non è stato così.

In missione per conto di Biden (e dell’Eni)

La “grande svolta” italiana in Libia, come piace dire alla stampa mainstream e a gran parte della compagine governativa, è una missione per conto di Biden. Se davvero si vuole leggere con gli occhi della politica internazionale il viaggio di Mario Draghi a Tripoli, il primo da quando è presidente del Consiglio, allora si devono inforcare gli occhiali che si utilizzano a Washington. Dove si respira grande soddisfazione per l’avvio di un governo di unità nazionale, che gli Stati Uniti hanno incubato e coccolato e per la possibilità di avere interlocutori in Europa molto affidabili come l’Italia che guiderà, ad esempio, la missione navale Irini.

Il governo di Abdul Hamid Dbeibah è frutto di un dialogo che viene da lontano, preparato dal lavorìo dell’Onu e dalla conferenza di Berlino di un anno fa e che ha risentito fortemente del cambio di amministrazione al di là dell’Atlantico. Draghi ha potuto così presentarsi non solo con in tasca i progetti preparati dalla Farnesina e dai suoi consiglieri diplomatici, che il filo con la Libia non lo hanno mai spezzato. In Italia piace tanto raffigurare un certo provincialismo dell’ex governo Conte quando proprio questo ha invece tenuto, in condizioni di inferiorità sul campo, contatti e ipotesi di accordo. Ora si può parlare di nuovo dell’autostrada del mare, dell’aeroporto di Tripoli o dell’apertura dei consolati a Bengasi (dove è stato già individuato il palazzo) e nel Fezzan. Con gioia dell’Eni, Saipem e delle imprese italiane del consorzio Aeneas. Sui migranti, Draghi ha confermato la cattiva coscienza italiana che fa fare il lavoro sporco ai libici e poi li ringrazia, prima di essere ringraziato anche lui. Stavolta anche dalla responsabile Esteri del Pd, Lia Quartapelle. Nel segno della discontinuità.

Abuso di futuro. Tassiamo i proclami e puniamo il reato di falsa promessa

Il futuro è sopravvalutato. È un concetto che contiene tutto: prospettive, speranze, desideri di cambiamento, annunci roboanti, promesse. Persino lo slogan appeso a balconi e finestre (un anno fa: oggi suona grottesco) era al futuro: “Andrà tutto bene” (sic). Andrà quando? Dopo, un domani, o un dopodomani, o chissà. Andrà, vedremo. Così emerge un piccolo sospetto, di quelli che rodono e stanno lì in agguato come un retropensiero: che il futuro, il coniugare ogni verbo di speranza al futuro, sia solo un tentativo per spostare l’attenzione al domani, una speranzosa distrazione alla desolazione dell’oggi.

Non passa giorno – si può dire non passa ora – che non si sentano proclami su quel che succederà. Tutti i lombardi vaccinati entro giugno (questo era Bertolaso), no, tutti quelli di Brescia vaccinati entro luglio (ancora Bertolaso, il mago Do Nascimiento era più credibile), no, tutti gli italiani entro l’estate (Speranza), no, vaccineremo mezzo milione di persone al dì (il generale Figliuolo), no, tutti gli anziani entro aprile, no, il 60 per cento della popolazione entro settembre. Si sposta l’asticella in su e in giù, e a ogni proclama sul luminoso futuro segue il contro-proclama a stretto giro: vi ricordate quello che si diceva ieri sul vostro futuro? Be’, non era vero. Doccia scozzese, un po’ bollente, un po’ gelata, ed è passato un altro giorno.

Ora, da qualche settimana, tiene banco la promessa più solenne, quella del generale Figliuolo, che insiste sulla sua previsione (o sarà una speranza?) di 500 mila vaccinazioni al giorno. Se arrivano i vaccini, se la macchina si metterà in moto, se tutti sapranno fare il loro, se… Insomma, si tratta di un futuro, sì, ma con molte incognite, condizioni e varianti, e già in contemporanea (non domani, ma oggi) il futuro annaspa un po’ e i titoli recitano: “Il cambio di passo slitta a maggio”. Voilà, un futuro con l’elastico.

Nel frattempo, viene accolto come un proclama di vittoria il quotidiano arrivo di fiale: oggi scaricato un milione di dosi! Oggi ne arrivano un milione e mezzo! Ma la piccola esultanza dei telegiornali, svapora poi nell’accavallarsi delle cronache, con gli ottantenni ancora in cerca di una puntura, le categorie furbette che tentano il salto della fila, i problemi logistici, le Regioni che barano, i governatori che fanno il gioco delle tre carte, il governo che fa la faccia militaresca dell’efficienza, e noi che aspettiamo ’sto famoso futuro, sottoforma di iniezione.

Ora l’allarme è chiaro: se oltre a confondere il presente si pasticcia anche con il futuro, ogni proclama e previsione diventerà quel che è: parole al vento, rassicurazioni che non rassicurano nessuno, anzi, che finiscono col creare una diffidenza naturale, un’irritazione endemica. E se si può avere un sogno declinato al futuro, oggi, sarebbe quello di cominciare a sentir parlare al passato. Esempio: “Ehi, voi! Ieri abbiamo vaccinato mezzo milione di persone!”; oppure: “Ecco fatto! Tutti i vecchi e i deboli sono al sicuro!”. Urge una moratoria sui verbi declinati al futuro, una tassa sulle previsioni che somigliano più a un afflato della speranza che a un calcolo reale, forse addirittura serve il reato di falsa promessa sulla salute. “È lei che disse ad aprile tutti vaccinati? Ci segua in questura, per favore”. Non succederà, ovvio, e il balletto sul “domani” continuerà, come un enorme esperimento sociale: vediamo quanto futuro ipotetico riusciamo a darvi in cambio di un presente di merda. Domani. Vedremo. Chissà.

 

Taranto, la serie tv e l’immagine lesa: ma quale immagine?

Come i nostri lettori sanno (perché questo giornale è stato uno dei pochissimi a occuparsi della vicenda) sabato due operai dell’Ilva di Taranto sono stati sospesi per aver pubblicato su Facebook uno screenshot che invitava a guardare la serie tv Svegliati amore mio, storia di una ragazzina malata di leucemia, del padre operaio in un’acciaieria (Ettore Bassi) e della mamma (Sabrina Ferilli) in lotta contro l’inquinamento. La serie Mediaset, diretta da Simona Izzo e Ricky Tognazzi, è ambientata nel 2000 (quando l’Ilva era ancora della famiglia Riva) e non si riferisce a uno specifico polo siderurgico, ma i due operai hanno messo in relazione la storia con il sito di Taranto, senza però nominare ArcelorMittal. La pagina in cui è stato condiviso il post non è pubblica, è un gruppo chiuso di cui fanno parte circa 400 persone. Questo vuol dire che le attività dei dipendenti vengono controllate e che le opinioni espresse in qualunque luogo possono essere censurate, diventando strumento di repressione e pressione (perfino quando non sono diffamatorie). Il provvedimento contro i due lavoratori viene motivato dall’azienda con una improbabile nota in cui si spiega che ArcelorMittal Italia “riconosce e rispetta la rilevanza artistica e sociale dell’industria del cinema e della televisione, così come di ogni altra forma di espressione artistica e culturale” (ma che davero?) e che “deplora la distribuzione di notizie false e non verificate che a loro volta possano lederne l’immagine ma soprattutto procurare allarme e sconcerto nei lavoratori e nella popolazione”. Per carità di patria non commenteremo lo sproloquio sulla libertà di espressione artistica. Ma l’idea che ci sia un’immagine immacolata da ledere (spiegateci perché state bonificando se non c’è relazione tra fabbrica, inquinamento e salute) è già bizzarra in sé. A questo bisogna aggiungere che, mentre i padroni spiavano gli operai regalando loro per Pasqua un bel provvedimento di sospensione così brillantemente motivato, a Pasquetta è scoppiato un incendio nella colata continua di Acciaieria 2. Francesco Rizzo dell’Usb Taranto ha spiegato che per miracolo non c’è stato nessun ferito tra gli operatori presenti sulla linea e ha chiesto che il governo “allontani subito chi con una gestione sciagurata e superficiale si preoccupa di punire chi condivide la messa in onda della fiction con Sabrina Ferilli Svegliati amore mio, invece di manutenzionare impianti oramai al collasso”. Posizione che è difficile non condividere, anche considerando che l’ultimo incidente denunciato proprio dall’Usb risale solo al 21 marzo.

Ora, i padroni fanno i padroni come hanno sempre fatto. A differenza di qualche decennio fa, invece, il potere contrattuale dei lavoratori è di molto diminuito. Sabrina Ferilli ha detto in una bella intervista al Fatto di essere sgomenta: “Credo che la questione si risolverà, ma se dovesse proseguire noi ci metteremmo a disposizione anche economicamente per aiutarli a sostenere qualunque spesa legale. Con la fiction aiutiamo quelle comunità smuovendo le coscienze di tutti, e per la prima volta lo facciamo in tv, ma se quelle persone dovessero avere bisogno lo faremmo anche in pratica, dato che purtroppo la realtà ha superato di gran lunga la fiction”. La regista Simona Izzo fa giustamente notare l’inaudita violazione delle libertà dei due operai e poi rivolge un appello al ministro del Lavoro, Andrea Orlando: ora bisognerà capire se il dirigente del Pd – sia detto per inciso uno dei partiti che ha maggiormente contribuito allo smantellamento dei diritti dei lavoratori – vorrà dire una parola o fischiettare “bandiera rossa”.

 

I cronisti intercettati? Legge uguale per tutti

In questi giorni ci sono state ulteriori polemiche sulle intercettazioni. Per poterne discutere è opportuno avere chiari alcuni termini del problema.

Secondo la Costituzione della Repubblica Italiana (art. 15) la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione si applica “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”. Questo primo dato spazza via i confronti numerici fra le intercettazioni fatte in Italia e quelle fatte all’estero. Mentre in altri Stati l’esecutivo può disporre intercettazioni, in Italia tutte le intercettazioni devono essere disposte o autorizzate dall’autorità giudiziaria: persino quelle effettuate dai servizi di sicurezza per ragioni diverse da quelle collegate a processi penali devono essere autorizzate da un magistrato (nella specie il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma). Quando si afferma che negli Stati Uniti d’America si fanno meno intercettazioni che in Italia si dice una cosa non vera. Certo che negli Usa ci sono meno autorizzazioni giudiziarie, ma, per esempio, la National Security Agency effettua centinaia di milioni di intercettazioni (fra l’altro intercettò anche i vertici politici europei) senza alcun bisogno di autorizzazioni giudiziarie. Quanto alle garanzie previste dalla legge, in ambito processuale, le intercettazioni devono essere autorizzate dal giudice. In casi di urgenza il pubblico ministero può disporle direttamente, ma immediatamente e comunque entro 24 ore deve chiedere la convalida al giudice e se questa non interviene nelle successive 24 ore, le intercettazioni non possono proseguire e i risultati non sono utilizzabili.

Le intercettazioni possono essere disposte solo per determinati reati (quelli puniti con pena superiore nel massimo a cinque anni di reclusione e altri specificati) e l’autorizzazione può essere data solo se è assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Ottenuta l’autorizzazione, il pubblico ministero può disporre le operazioni per non oltre 15 giorni, salvo proroghe del giudice per periodi di pari durata massima (i termini sono maggiori per la criminalità organizzata). Per disporre le intercettazioni è necessario che sussistano gravi indizi di reato (sufficienti anziché gravi per la criminalità organizzata): attenzione non gravi indizi colpevolezza a carico di qualcuno, ma che un reato sia stato commesso.

Questo significa che non deve essere intercettato solo chi è raggiunto da gravi indizi di colpevolezza, ma può esserlo chi è estraneo al reato o ne è vittima. Ad esempio nei sequestri di persona a scopo di estorsione vengono intercettati parenti e amici del sequestrato nella speranza di individuare i sequestratori che chiamano per chiedere il riscatto. Quindi non ha senso lamentare che una persona è stata intercettata anche se estranea al reato.

Ci sono alcuni limiti, ma essendo eccezioni non sono estensibili: così non possono essere intercettate le conversazioni fra imputato (o persona sottoposta a indagini) e il suo difensore. Tale divieto non esiste rispetto ad altri detentori di segreti professionali (un commercialista o un medico). I giornalisti possono opporre il segreto sulla identità delle loro fonti, ma non esiste un divieto di scoprire tali fonti.

Rimane il fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che i giornalisti, in un sistema democratico, svolgono una funzione essenziale: quella di informare l’opinione pubblica, sicché indagini troppo invasive su di loro non sono lecite se possono compromettere questa funzione, ma solo per la funzione non per la persona.

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, secondo le agenzie di stampa, ha dichiarato: “La giornalista Nancy Porsia è stata intercettata per alcuni mesi nella seconda metà del 2017, perché alcuni soggetti indagati facevano riferimento a lei che si trovava a bordo di una delle navi oggetto di investigazioni. Nessun altro giornalista è stato oggetto di intercettazioni. In ogni caso, voglio sottolineare subito che nella informativa riepilogativa dell’intera indagine depositata nello scorso mese di giugno, non c’è alcuna traccia delle trascrizioni delle intercettazioni della giornalista”.

Non sembra che in questo caso ricorrano situazioni fra quelle che possono incidere sul diritto-dovere di informare.

Purtroppo le leggi ad personam hanno fatto venire a tanti in Italia la voglia di avere uno status speciale, cioè di non essere chiamati a rispondere in determinate ipotesi o per particolari reati, o di non poter essere destinatari di atti di indagine.

Bisognerebbe, però, ogni tanto ricordare che l’art. 3 della Costituzione dice che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge.