Se in Italia bestemmiare è vietato, ecco tutte le varianti (consentite)

Poiché, per legge, bestemmiare in pubblico è un comportamento illecito, e fino a poco tempo fa addirittura reato penale, mentre oggi potreste beccarvi una multa da 50 fino a 300 euro, l’ingegno italiano ha escogitato bestemmie aggirate con cui sfogare l’eccesso di rabbia senza dover subire pene pecuniarie. In Paesi meno cattolici, invece, bestemmiare è permesso, altrimenti si conculca il diritto alla libertà di espressione. Anche in nome di questa, qualche mese fa vi ho invitato a ricordare le bestemmie aggirate dell’infanzia, tipo “Dio svizzero”. Avete risposto in massa! Scelgo dunque fior da fiore. Michele Martoni: “Anni fa un mio compagno di liceo ci deliziò con un interessante ‘Dio scorretto!’, che detto in dialetto romagnolo assume una musicalità non da poco: ‘Dio scurètt!’”. Remo Paternoster: “In Trentino la bestemmia è un intercalare imprescindibile, pur senza raggiungere gli apici toscani o veneti. Anche da noi però ogni tanto si cerca di aggirarle con i vari ‘zio’ (cane, porco, ladro, boia) e ‘madonega’. Senza tralasciare i ‘sacramenta’, ‘sacranon’, ‘sacramantua’, ‘ostrega’, ‘ostregheta’, ‘ostizia’, ‘os-cia’. Ci sono poi i ‘diaolo can’, ‘diaolo porco e ‘porco Diaz’. Da ragazzo mi faceva ridere un’imprecazione inventata da un amico: ‘zio Bostik’”. Carlo Serra: “Un mio amico di Parma dice sempre ‘Dio veglione!’”. Gianluca Graziani: “Un’imprecazione geniale fu detta durante una partita del derby Antella-Grassina da un tifoso antellese contrariato da una decisione arbitrale: ‘Arbitroo!! Accidenti a te! Madonna deserta ogni due chicchi troia’. Leggendaria”. Alberta Tedioli: “Qui, appennino tosco-romagnolo e dintorni, si usavano ‘ziocanela’, ‘putanasburonaregina’, ‘iolomboia’, e ‘boiadesingoler’”. Annachiara Faieta: “In Abruzzo, in molte case c’è un quadro della Madonna a custodire il talamo nuziale: da qui nasce la minaccia ‘Mo se ne va la Madonna a cape lu lette!’ Tradotto: ‘Adesso se ne va la Madonna sopra il letto’. Io la trovo meravigliosa!”. Paolo Giuntini: “Di recente ho sentito un gentile e puritano ‘Madonna delle madonne!’”. Andrea Castagnini: “Il babbo di un mio amico di San Vincenzo (Livorno) era straordinariamente creativo in fatto di bestemmie. Ne ricordo una: ‘Madonna in su e in giù!’, indirizzata al maestro della banda che trattava male i musicisti. Poi diceva: ‘Se mi fa una parte così a me, piglio il corno, lo sgroviglio e glielo metto intorno al collo!’. Stupendo!”. Alessandro Zemella: “La bestemmia ricorrente di mio nonno, veneto della provincia di Rovigo, era ‘diocagón’. Usava anche ‘dio fàne’, parabestemmia diffusa anche nella vicina Romagna, dove, a volte troncata in diofà, l’ho sentita usare da tutti, bambinetti di sei anni compresi. In Romagna ricordo una grande diffusione di ‘diobò’: da quelle parti il boia dello Stato pontificio non era stato a lungo con le mani in mano. A Milano si usa dare del ‘sacrament’ alle persone, con il significato di tipo originale, balordo; la bestemmia viene spesso evitata con ‘sacranôn’ (lo fa anche Carlo Porta) o con ‘saforment’ (forment = grano). Nei campetti di calcio dell’oratorio ho sentito ‘porco di fiori’, come fosse una carta da gioco, e ‘porcodìghel’ (dighel = diglielo), la tipica parabestemmia milanese. A Milano addirittura capita di sentire ‘codìo, camadòna’, qualcosa a metà tra una bestemmia perfetta ed evitata. Propongo anche un gioco ai lettori: c’è un romanzo in cui ricordo di aver letto per esteso delle bestemmie: Viaggio al termine della notte di Céline. Ce ne sono altri?”. Bella idea! Romanzi con dentro bestemmie: chi ne conosce? Rinnovo inoltre l’appello alle Regioni del sud, che custodiscono tesori blasfemi di cui sarebbe solo egoista mantenere il segreto. Coraggio, diobò! (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

Spirlì-show, ha fatto innamorare Salvini

Nino Spirlì, governatore reggente della Calabria, è uno che parla come mangia: “Dirò negro, ricchione e frocio per tutta la vita” è il suo grido di battaglia (lui che è gay dichiarato). Parla come mangia e soprattutto di quello che mangia: spopola sui social con le sue dirette folli sui piatti del giorno; “stoccafisso e insalata”; “carciofi ripieni, pipi e patate”; zuppa di farro e pastine. Passa con naturalezza dalla tavola ai bandi pubblici; dice che il Covid “è peggio del colera e dei dinosauri”; strilla che vuole le scuole chiuse (“i libri non servono a niente dentro le bare”) ma ieri è andato a Roma a chiedere le riaperture. È una versione eccentrica e glam di Salvini. Non sorprende quindi che il Capitano voglia ricandidarlo in Calabria. Avranno un sacco di ricette di cui parlare.

Johnson balla sulle rovine dell’Europa

Ma non è che il governo di Boris Johnson è riuscito a vaccinare più del 50% della popolazione adulta (con i decessi in forte decrescita: 26 a Pasqua) perché il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea?

Un dubbio che comincia a serpeggiare anche tra gli europeisti più convinti messi di fronte alla doppia velocità con cui l’isola e il continente procedono nella guerra alla pandemia. Uno squilibrio che Mario Draghi aveva denunciato lo scorso 24 marzo in Parlamento, alla vigilia del Consiglio europeo, dicendo che il coordinamento europeo va sempre cercato, ma se non funziona in questi momenti dove il tempo è prezioso, “occorre anche trovare le risposte da soli”. Un penultimatum che non ha funzionato, visto che il premier è tornato alla carica in queste ore quando, come riferisce il Corriere, ha telefonato direttamente agli amministratori delegati di Big Pharma chiedendo di darsi una mossa. Primo, perché i ritardi nella consegna delle fiale mettono in seria crisi l’intera campagna vaccinale, da Bolzano a Trapani. Secondo, perché è tutta l’Unione a perderci la faccia. E dunque si fa sapere da Palazzo Chigi che la pressione è “concordata e condivisa” con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e che il presidente parla “a nome dei suoi partner europei”.

Colpisce che dopo la cacciata del reprobo Arcuri e l’arrivo del generale Figliuolo, accolto con la fanfara perepè dell’informazione unica, del tanto favoleggiato “cambio di passo” non vi sia traccia (a meno che non si intendesse un dietrofront). Ma che debba essere addirittura il presidente del Consiglio a prendere il telefono per cercare una soluzione ha del paradossale. Frattanto il suo collega Boris, libero dai lacci e lacciuoli della burocrazia comunitaria, può addirittura fissare al prossimo 21 giugno il ritorno alla normalità post-Covid. Senza con ciò dimenticare l’ecatombe provocata nella prima sciagurata fase di sottovalutazione del disinvolto premier britannico, a un passo dal lasciarci le penne.

Insomma, in assenza di rapide contromisure, le conseguenze dei pessimi contratti a suo tempo sottoscritti da Bruxelles con Pfizer, AstraZeneca, Moderna e gli altri colossi del farmaco si ripercuoteranno a cascata sui cittadini europei. Con una secca perdita di credibilità dell’Unione oggi minacciata dai successi fai da te del biondo sovranista londinese. Mentre i sovranisti da operetta, Salvini e Orbán, ballano il valzer a Budapest.

Pm, Ruby e Mubarak: 10 anni fa Montecitorio umiliato per salvare B.

Di tutti i modi per sfuggire ai propri processi, quello che Silvio Berlusconi mise in scena il 5 e il 6 aprile di dieci anni fa fu senza dubbio il più teatrale. Dovendo umiliare il Paese, decise di farlo in grande, convincendo 314 deputati a votare che sì, il presidente del Consiglio aveva telefonato alla questura di Milano per far liberare una ragazzina di 17 anni, conosciuta come Ruby Rubacuori, perché convinto fosse la nipote di Hosni Mubarak, presidente dell’Egitto.

Il giorno dopo, la prima udienza del processo sarebbe durata pochi minuti, quelli necessari a formalizzare il rinvio a maggio inoltrato nell’attesa che la Corte costituzionale decidesse sul conflitto d’attribuzione sollevato dalla Camera. Ma più che della storia di quel processo – dopo la condanna in primo grado, B. fu assolto anche grazie alla modifica del reato di concussione – è l’indelebile e surreale verdetto del Parlamento a meritare l’imperitura meritoria.

La seduta, appunto, è quella del 5 aprile 2011. Il centrodestra è a pezzi da mesi, con Gianfranco Fini uscito dal Pdl e l’Italia che fa la triste conoscenza dello spread. Silvio coopta tutti i suoi ministri, che si presentano come alunni disciplinati sui banchetti del governo a Montecitorio, dove si decide se la Procura di Milano possa indagare il premier o se non sia il caso di spedire tutto alla Consulta, invocando il trasferimento degli atti al Tribunale dei ministri. Dietro il tecnicismo c’è però una domanda semplice semplice: Berlusconi ha telefonato in questura per risolvere i fatti suoi o per scongiurare una crisi diplomatica?

La Camera, 314 voti contro 302, vota per la seconda ipotesi. Decisivi sono proprio i ministri, molti dei quali nei tre anni precedenti non hanno messo piede in aula. Ci sono Umberto Bossi, Angelino Alfano, Giulio Tremonti, Renato Brunetta, Giorgia Meloni, Michela Vittoria Brambilla, Franco Frattini. C’è pure il provato onorevole Lucio Barani: “Sono qui anche se cinque giorni fa mi hanno ricoverato per la tachicardia”.

Il sempre esuberante Antonio Di Pietro prende la parola: “Berlusconi ha scelto Montecitorio per non andare a San Vittore”. Il responsabile Silvano Moffa sbeffeggia l’opposizione: “Non riesce a liberarsi da un antiberlusconismo di maniera, agitando un gretto moralismo”. Il meglio, va detto, lo aveva dato un paonazzo Maurizio Paniz qualche seduta prima: “Berlusconi ha telefonato a un funzionario della questura. Lo ha fatto senza esercitare pressioni di sorta per chiedere un’informazione, nella convinzione, vera o sbagliata che fosse, che Karima el Mahroug fosse parente di un presidente di Stato”.

Al momento del voto, arrivano in soccorso a Silvio due liberaldemocratici, Italo Tanoni e Daniela Melchiorre, centristi d’opposizione. Il primo, intervistato dal Corriere, assicura di aver fatto “una scelta ponderata”: “Ma non ho chiesto soldi a Berlusconi”. La Melchiorre invece diventa subito sottosegretaria allo Sviluppo economico, non ottiene i gradi da viceministra e se ne va dopo il primo Cdm, sconcertata dalle “incredibili dichiarazioni” di Berlusconi contro i magistrati milanesi, definiti “un cancro da estirpare”.

Un po’ per pudore, un po’ per amore della suspense, i due libdem nascondono il proprio voto coprendo i pulsanti con l’altra mano. Pier Luigi Bersani sbotta: “Avete umiliato l’Italia, il Parlamento ormai è un collegio difensivo allargato”. Berlusconi si sente un martire e paragona i pm alle Brigate rosse (“brigatismo giudiziario”, secondo un virgolettato di Repubblica). Il giorno dopo, il Fatto racconta “la bramosia di sottomissione” di centinaia di deputati disposti “a sostenere la più idiota delle menzogne”; Repubblica parla di “degradante disonore” per il Parlamento; l’Unità pubblica i 314 nomi di “quelli che credono che Ruby sia la nipote di Mubarak”. Il Giornale, invece, se la cava con un enigmatico riquadrino a fondo pagina: “La Camera respinge i giudici e vota il conflitto d’attribuzione”. E vista così, sembra quasi una giornata qualunque.

Camera, “impuniti” e FdI fanno gazzarra sul trojan

Niente di certo, almeno fin oltre le 21, in Commissione Giustizia della Camera dove, intorno alle 18.30 si sarebbe dovuto votare il decreto Bonafede, che regola il tariffario per le società che intercettano anche con il trojan per conto delle Procure italiane.

Fino al pomeriggio sembrava fosse stata trovata finalmente una mediazione, ma mentre scriviamo, la maggioranza sta litigando ancora e non ha trovato la quadra neppure il sottosegretario alla Giustizia Paolo Sisto, FI, che, potenza del governo unificato, ha un ruolo da mediatore, lui che da politico e avvocato di B., certo non è stato finora proprio un diplomatico. A mettersi di traverso, ancora una volta in tema di giustizia, è la parte centrodestra della maggioranza, FI, Lega, Azione, e pure Italia Viva, che finora ha preteso, con l’appoggio di FdI, di inserire in questo parere al decreto regole per le intercettazioni “tradizionali” o con trojan. Ma le regole già ci sono e se si vogliono cambiare, dicono M5S con la relatrice Giulia Sarti, Pd e Leu, non si può certo farlo con questo provvedimento che riguarda esclusivamente tariffe minime e massime per le società appaltatrici. D’accordo con l’ala sinistra della maggioranza anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, piuttosto infastidita, ci dicono, di questa ennesima prova di forza-bandiera dei cosiddetti garantisti. Secondo FI, che ha in commissione Pierantonio Zanettin, ex laico del Csm, e Giusy Bartolozzi, magistrato, questo decreto legittimerebbe delle procedure per intercettare e usare il trojan senza regole precise. Concetto che ha rilanciato Azione di Enrico Costa, e Iv con Lucia Annibali e Catello Vitiello, secondo i quali si legittimano pratiche che violano la Costituzione, come quella del trojan che può captare anche le rubriche o i file dentro un Pc o un cellulare.

La mediazione attorno alla quale a tarda sera ancora discutevano riguarda una “osservazione” da inserire nel parere sul punto riservatezza (articolo 4 del decreto): “Nel tempo necessario e indispensabile nel quale i fornitori che raccolgono il dato lo trasferiscono all’archivio riservato presso la Procura, siano assicurati, sotto ogni profilo tecnico, l’obbligo di riservatezza del processo di gestione e trasmissione dello stesso, tale che nessun soggetto estraneo all’autorità giudiziaria possa in ogni caso accederne al contenuto”. Misura già contenuta nel decreto. Repetita iuvant direbbero i latini. Vedremo se basterà a compattare, questa volta, la maggioranza.

Draghi in calo: Chigi cerca l’esperto social

AAA cercasi social media manager. Magari l’idea non sarà quella di seguire l’impostazione iper-comunicativa di Rocco Casalino o la strategia social di Dario Adamo come avveniva quando a Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte, ma poco ci manca: la strategia del “comunicheremo solo se abbiamo qualcosa da dire” dei primi tempi dell’èra Draghi ora inizia a vacillare. Il presidente del Consiglio, anche alla luce dei sondaggi degli ultimi giorni che danno il suo indice di gradimento in calo, ha capito che non può più fare a meno della comunicazione sui social network per arrivare a più persone possibile: non aprirà, almeno nell’immediato, un profilo social ma l’ordine è quello di far crescere la pagina istituzionale della Presidenza del Consiglio sul modello di quella dell’Eliseo in Francia e della Casa Bianca negli Stati Uniti. Sicché la portavoce del premier Paola Ansuini, una vita nella comunicazione di Banca d’Italia, ha deciso di coinvolgere anche gli altri esperti sul tema di Palazzo Chigi – in primis il capo di Gabinetto Antonio Funiciello e il giornalista Ferdinando Giugliano (che cura i rapporti con i media esteri) –per trovare un profilo che possa dare una svolta social alla comunicazione di Draghi. L’obiettivo sarà quello di mettere in piedi una struttura adeguata, una vera squadra social, ma i lavori sono ancora in corso.

Per il momento non cambierà invece l’approccio comunicativo del premier secondo cui “bisogna parlare solo quando c’è qualcosa da dire” e soprattutto, ci tiene a spiegare chi parla spesso con lui, Draghi “non è un capo di partito e quindi non scenderà mai nell’arena dei talk show o delle polemiche di giornata con i leader”. Eppure i giornalisti che seguono il premier quotidianamente nelle ultime settimane si sono accorti che la comunicazione di Chigi è cambiata rispetto ai primi tempi: adesso gli “spin” – le dritte inviate dai politici per orientare l’informazione – cominciano a fare capolino nelle chat (private e di gruppo) dei cronisti. E lo stesso principio sarà applicato ai social network che finora stanno deludendo. Se infatti a Palazzo Chigi sono molto soddisfatti per come viene rappresentato Draghi su tv e giornali, non si può dire la stessa cosa per i profili Facebook, Twitter e Instagram. Secondo l’ultimo rapporto di Mediamonitor.it, dal 2 marzo all’1 aprile il premier ha battuto tutti i leader politici in quanto a visibilità e citazioni in televisione: nell’ultimo mese a lui sono stati dedicati 2.566 passaggi audiovisivi, molto sopra Enrico Letta con 1.906 citazioni e Matteo Salvini con 1.158.

Diverso il discorso per il profilo social di Palazzo Chigi dove i numeri latitano: per fare solo un esempio, l’ultima conferenza stampa dopo la cabina di regia sulle misure anti-covid di aprile è stata vista su Facebook da 202 mila persone mentre quelle dell’ex premier Giuseppe Conte, sulla stessa pagina istituzionale, hanno sempre superato la soglia delle 300 mila. Inoltre il sostegno al governo Draghi sui social non fa bene nemmeno ai leader dei partiti che lo sostengono: in queste settimane, come rileva FB&Associati, le interazioni sui profili di Salvini, Zingaretti, Conte, Di Maio e Renzi sono crollate rispetto al governo precedente.

Renzi e Letta, nessun sereno. Divisi su 5 Stelle e Comunali

Non c’è la tensione che si taglia a fette, non trapela neanche la rabbia repressa. Ma l’atmosfera più che gelida è raggelata, gli umori controllati, i toni volutamente cordiali, che non vanno mai sopra le righe. L’incontro deve essere politico e professionale. Niente di più. Le cicatrici restano. Enrico Letta e Matteo Renzi non si vedevano dal 2014. Sette anni dopo si ritrovano alle 9.30 nella sede dell’Arel, da soli. Parlano per 40 minuti. “Incontro franco e cordiale”, con “forte divergenza” su Conte e M5S, lo descrivono fonti del Nazareno. Renzi sulla ricostruzione è d’accordo. Tradotto: Letta sta costruendo la coalizione, con alleanza organica con i Cinque Stelle, l’altro non condivide, ognuno va per la sua strada. Il solco tra i due non si è mai colmato negli ultimi 7 anni: l’ultima volta che si incontrarono era il 25 febbraio 2014, giorno della fiducia a Montecitorio del governo Renzi, quando il premier appena defenestrato volle abbracciare l’altro rottamato, Pier Luigi Bersani, tornato alla Camera dopo la malattia. L’ultima immagine pubblica dei due è di tre giorni prima: la cerimonia della Campanella, con Letta che la passa a Renzi senza neanche guardarlo.

Momenti ad alto tasso di emotività che hanno segnato la storia politica degli ultimi anni di questo Paese, oltre a quella personale dei due protagonisti. Allora, Renzi era il vincitore, l’emergente pronto a tutto, accompagnato da un consenso crescente. Mentre Letta era lo sconfitto, il premier tradito dal suo stesso partito. Sette anni dopo, Renzi quel consenso, insieme a tutta la sua credibilità politica, l’ha consumato, è alla guida di un partito che rischia seriamente di non entrare in Parlamento. Letta, richiamato alla segreteria del Pd, come il Salvatore della Patria, si gioca tutta la sua seconda vita politica nei prossimi mesi. Ma le passioni restano fuori. Non a caso il segretario ha lasciato quest’incontro per ultimo: andava fatto, ma non era una priorità.

“I figli crescono”, la butta lì il senatore di Scandicci, tanto per provare a simulare una parvenza di normalità. Insieme a qualche battuta su Firenze e su Pisa. L’altro annuisce, non si concede. Sul tavolo c’è un po’ tutto: il sostegno al governo Draghi, con la pandemia e l’importanza della campagna vaccinale, è l’unica cosa sulla quale i due concordano. Poi, le alleanze presenti e future. E le Amministrative. “Per Bologna c’è Isabella Conti, che ne dici?”, la butta lì Renzi, provando a candidare nella città delle Due Torri la sindaca di San Lazzaro di Italia viva. “Della Conti mi parlano tutti molto bene”, dice il segretario, che però non si sbilancia. La mossa è abile: la Conti è giovane, donna, ha buoni rapporti con i dem e con i M5S locali. Ma il Pd ha quasi chiuso l’accordo con i 5Stelle su Matteo Lepore, assessore alla Cultura di Bologna. A questo punto, si tratterebbe di rimettere tutto in discussione e per di più di scegliere la candidata del leader di Iv. Anche se molti la raccontano in avvicinamento al Pd, non si può fare. Lei però alla corsa ci sta pensando. “Se si vuole candidare, faremo le primarie”, riflettono ai vertici del Pd. Che però leggono nel suggerimento di Renzi una volontà distruttiva, più che costruttiva.

La mossa del fu Rottamatore è abile. Ma la sua è una condizione di totale svantaggio. Con il no a Conte e al M5S si mette fuori da una coalizione, che non lo vuole. Letta non ha intenzione di andargli incontro. Anzi, non aspetta altro che “eliminarlo” nel modo il più soffuso possibile. L’altro ribadisce di non aver intenzione di stare né “con Meloni e Salvini”, né “con i grillini e i populisti”. Sogna ancora un centro, con Forza Italia e Carlo Calenda, che magari possa correre da solo. Nelle intenzioni del leader di Azione, questo centro è possibile, ma con frontman, oltre a lui stesso, Emma Bonino e Carlo Cottarelli. Certo non Renzi. Al quale oggi nessuno ha neanche voglia di offrire una ricandidatura. Ammesso che poi lui la voglia davvero e non si decida a lasciare la politica attiva, come va dicendo sempre più spesso.

-945mila posti in un anno: le Cig a zero ore gonfiano il dato

È bastato smettere di inserire i cassaintegrati a zero ore tra gli occupati per far sì che il crollo dei posti di lavoro dovuto alla pandemia arrivasse a numeri ancora più macroscopici di quelli degli ultimi mesi: -945 mila in un anno, praticamente siamo tornati ai livelli del 2014. I dati diffusi ieri dall’Istat fotografano la situazione italiana a febbraio 2021, esattamente 12 mesi dopo l’arrivo del Covid. E scattano l’istantanea con nuovi parametri di rilevazione. Finora chi era a riposo forzato poiché in cassa integrazione veniva considerato occupato proprio perché la Cig, finché c’è, “tiene in vita”, evitando o posticipando il licenziamento. Da adesso in poi, invece, cambierà tutto: le persone ferme da almeno tre mesi, benché ancora aggrappate all’azienda grazie agli ammortizzatori sociali, finiranno o nel girone dei disoccupati, se cercano un altro lavoro o – più di frequente – tra gli inattivi. Il nuovo metodo recepisce un regolamento Ue del 2019. Ha un pregio: considera occupato solo chi è effettivamente operativo, quindi è più fedele all’andamento economico. Ma pure un difetto: durante crisi in cui si fa largo uso di cassa integrazione, come ora, sovrastima l’inattività, includendo chi in realtà sta solo aspettando (o sperando) di tornare al lavoro nella propria azienda una volta passate le difficoltà.

Su quasi un milione di posti persi, 218 mila si riferiscono a dipendenti stabili (i cassaintegrati sono qua dentro), 372 mila a dipendenti precari, mentre gli altri 355 mila sono autonomi. Ennesima dimostrazione di come l’emergenza sanitaria abbia travolto i meno tutelati, quindi i giovani, mentre il blocco dei licenziamenti ha protetto i permanenti. Anche questi, però, sono diminuiti per effetto della cassa, dei pensionamenti non sostituiti e delle aziende che hanno ignorato il divieto di licenziare.

Proteste di piazza in mezza Italia: è finita la tregua?

A metà pomeriggio, mentre in piazza Montecitorio la polizia sta facendo una carica di alleggerimento per contenere il nuovo tentativo dei manifestanti di sfondare il cordone che li separa dai palazzi del potere, il senatore ex M5S Gianluigi Paragone, tra i sostenitori della manifestazione organizzata a Roma, esulta. Dice che la sua Italexit “viaggia intorno al 4%”. La giornata di tensione per la protesta di ambulanti, commercianti e ristoratori in tutta Italia che hanno bloccato l’autostrada a Caserta, mandato in tilt il traffico a Milano e, soprattutto, causato il ferimento di un agente (diversi i contusi) durante i tafferugli nella Capitale, diventa altro. A spiegare che non si tratta più della contestazione di migliaia di lavoratori alla canna del gas, che dopo un anno di restrizioni anti-Covid chiedono di riaprire, sono fonti investigative che parlano di “infiltrati” di “diversi gruppi di estremisti” che avrebbero avuto l’obiettivo di strumentalizzare il disagio sociale e far salire la tensione”. A Roma, in piazza, si contano centinaia di no mask, militanti di CasaPound e altre organizzazioni di estrema destra. Sfila pure un ristoratore modenese vestito come Jake Angeli, tra i protagonisti dell’assalto a Capitol Hill (e attualmente in carcere). È alla fine di un comizio di Vittorio Sgarbi, che parla di “Stato criminale” e di “un governo che coltiva la malattia, perché le chiusure non hanno ridotto i morti”, che un gruppo di associazioni chiama di nuovo allo sfondamento del cordone di polizia. E subito riprendono il lancio di fumogeni e di altri oggetti verso gli agenti. Ai ristoratori in piazza, quelli pacifici, non resta altro che ricordare tra le lacrime che sono “allo stremo”, che rischiano di “non riaprire più”, che si sentono “abbandonati dallo Stato” e che la nuova tranche di ristori prevista dal dl Sostegni è “ridicola”. Nelle stesse ore anche a Milano più di un centinaio di persone si sono ritrovate davanti alla stazione centrale per chiedere di poter riprendere subito a lavorare. Ci sono soprattutto gli ambulanti che protestano contro l’esiguità dei ristori. Dicono che “il tempo della pazienza è finito”. Nel tardo pomeriggio un corteo si è mosso verso la prefettura dove una delegazione è stata ricevuta tra qualche momento di tensione, senza disordini, ma con pesanti ripercussioni sul traffico. Solo all’ora di cena, dopo quasi dieci ore, è stato invece rimosso il blocco realizzato nel tratto casertano dell’A1 Roma-Napoli da parte degli operatori mercatali che hanno ricevuto rassicurazioni dalla delegazione che si trovava a Roma.

Ieri intanto l’organizzazione “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” ha pubblicato i dati di un sondaggio che su un campione di 1800 lavoratori del mondo della cultura e del turismo prova a fare un bilancio dell’ultimo anno. Meno della metà (787 persone) ha ancora un lavoro, tra cassa integrazione e perdite, mentre 283 lo hanno perso (26%), di cui metà non percepisce alcun sussidio. Crollano i lavori nel turismo (20%), le prestazioni occasionali (16%) e gli impieghi dello spettacolo (16,5%). Più della metà di chi occupa ruoli di responsabilità nei beni culturali ritiene che non si potrà ricominciare come prima, riduzione di personale e di compensi. Il 38% non è per nulla soddisfatto degli aiuti ricevuti durante la pandemia, stessa percentuale di chi vede buone prospettive per il settore a patto che si preveda una riforma strutturale. “La pandemia ha falciato ogni attività museale – dice uno degli intervistati – Lo stop a marzo 2020 è stato improvviso e inaspettato. Alcune ditte con cui collaboro hanno additato la situazione pandemica come causa del rallentamento dei pagamenti delle fatture. Leggere che nessuno è stato lasciato a casa aggiunge la beffa al danno. Non solo la categoria è stata pesantemente danneggiata, ma risulta invisibile. Quello slancio che, nonostante tutto, mi spingeva a lavorare, si sta ora incrinando”.

Covid, Comuni rovinati: ora tagli e beni in (s)vendita

L’economia delle grandi città metropolitane, oscurate e desertificate dalla cappa nera della pandemia, sono allo stremo e navigano a vista. Imposte e tributi ridotti al lumicino, “ristori” e “sostegni” statali insufficienti e in ritardo costringono le amministrazioni comunali a tagliare i livelli dei servizi primari tradizionalmente erogati sul territorio: asili e scuole materne e primarie, mense , assistenza sociale, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree interne.

Le risorse dell’ultimo decreto Sostegni sono arrivate in extremis per tappare in parte la frana dei bilanci di previsione per i primi mesi del 2021. I conti si chiuderanno in pareggio, come impone la legge, con tagli alle spese e vendita del patrimonio immobiliare anche nei territori più ricchi. Ma i sindaci attendono e sperano che il successo della campagna vaccinale porti il disgelo con l’estate, quando i turisti dovrebbero tornare a ripopolare i vicoli delle città d’arte, le spiagge delle capitali dell’industria delle vacanze e le strade dello shopping made in Italy.

“Quest’anno partiamo da meno 300 milioni”, ha annunciato alle commissioni consiliari l’assessore al Bilancio del Comune di Milano, Roberto Tasca. Secondo i calcoli dell’amministrazione, a Milano dovrebbero andare 200 milioni del complessivo “ristoro” governativo da ripartire tra tutti gli 8mila Comuni italiani. Per rimanere in linea con le spese e le risorse a disposizione degli anni precedenti ne servono altri 100 e allora si tira la cinghia: “La metà li ritagliamo dalla riduzione delle spese a margine degli assessorati, mentre altri 50 dalle dismissioni immobiliari”, elenca Tasca. All’appello delle esauste casse dei consigli comunali mancano le tasse sull’occupazione del suolo pubblico, Imu e rifiuti e anche multe e pedaggi nelle strisce blu. Poi le entrate delle imposte di soggiorno.

A Milano le tasse sul turista sono crollate dai 60 milioni del 2019 ai 15 del 2020, a Firenze si sono prosciugate di 50 milioni su un bilancio che ne prevede 260 da impegnare sui servizi alla persona. “Anche il 2021 si conferma un anno di grave difficoltà economica – relaziona l’assessore Federico Gianassi – ci siamo impegnati con un grandissimo sforzo a mettere in sicurezza il welfare cittadino e a garantire gli stessi servizi degli anni scorsi su scuola, sociale, cultura, casa, sport e trasporti”.

Andazzo ben diverso per le sorelle povere del Sud. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, scuote la testa: “Chiudere il bilancio quest’anno sarà molto complicato, il crollo del turismo è stata una mazzata, tassa di soggiorno e di occupazione del suolo pubblico si sono drasticamente ridotte; non potremo fare investimenti come sarebbe invece fondamentale per far ripartire l’economia, garantiamo a fatica i servizi essenziali quando la domanda invece è aumentata in maniera esponenziale”. “Siamo stati lasciati senza attenzione e senza viveri, più gli enti locali non venivano considerati più si andava in affanno – attacca De Magistris – non vi è stato un intervento economico tempestivo e adeguato, non sono state compensate le mancate entrate. Abbiamo visto i primi ristori in ottobre ma qui non funzionano. Napoli vive di economia circolare, non viene tracciata dai ristori, l’industria non c’è , la cassa integrazione, il blocco dei licenziamenti sono quasi ininfluenti, gli enti in dissesto e pre-dissesto che stanno soprattutto a sud, sono ancora più in affanno”.

“La capacità fiscale dei comuni si è ridotta di un altro miliardo e mezzo compensato per ora dallo Stato, ma non basterà se non si riparte questa estate” avverte il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, Antonio Decaro. “Quest’anno si ridurrà anche quanto ci arriva dall’Irpef, aggiorniamo le perdite di mese in mese”. Se Milano – e il resto delle città metropolitane – piange, Roma, abbacinata dai riflettori della prossima campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale, non ride. Lo smart working ha ridisegnato la geografia dei flussi di beni, persone e servizi sul territorio. Roma – come gli altri grandi nuclei urbani della penisola – soffre dell’insufficienza funzionale di due grandi polmoni della sua economia: la presenza turistica e gli spostamenti dei “colletti bianchi”, più di un milione costretti ogni mattina a una migrazione coatta dai quartieri residenziali ai poli lavorativi dentro e fuori il Grande raccordo anulare.

Le reti commerciali cresciute sulla domanda di beni e servizi degli abitanti degli uffici e lungo le vecchie direttive di passaggio, sono rimaste travolte dal lockdown e dallo smart working a Roma, come a Napoli, Milano, Torino. Colazioni, coffee break e pranzi fuori casa che avevano caratterizzato le abitudini degli italiani nell’era dell’orario di lavoro “unico” sono un ricordo, insieme ai piani di allocazione del personale in immobili-alveare di banche, assicurazioni, ministeri. Rinasce l’economia di quartiere e con essa quei piccoli esercizi di prossimità che erano stati le prime vittime della nuova urbanizzazione, ma secondo logiche commerciali tutte da sperimentare.

Nel frattempo si affronta un periodo di transizione e di crisi molto doloroso per commercianti e artigiani dell’indotto con le vetrine affacciate sul nulla, mentre il futuro apparentemente radioso dello smart working comincia a mostrare crepe vistose. Al punto che dopo la marcia indietro sul mito del lavoro “agile” di grandi multinazionali, perfino il pubblico impiego dà segni di ripensamento.

Appena il 33% delle amministrazioni statali ha approvato il Piano operativo del lavoro agile, compresi i ministeri. Per i Comuni è un oggetto misterioso guardato con fastidio. “Attualmente siamo in media con il 65% dei dipendenti che lavora da casa, con tante difficoltà ed eccezioni – spiega Decaro – gli assistenti sociali, i servizi anagrafici, la polizia urbana, i trasporti, la nettezza urbana sono già in gran parte esclusi”. Insomma, “alla fine rimarrà a casa un 15-20%”.