Bella Ciao, partigiano Marchigiano. L’inno è nato a Macerata

Bella ciao è la canzone simbolo della Resistenza italiana, sinonimo della lotta di liberazione e riadattata mille volte in mille modi e tante lingue. La si sente intonare ancora, qua e là, nelle manifestazioni generalmente di sinistra (o quel che ne rimane, dai Fridays for future alle rivolte in Turchia) e persino nelle serie tv come la spagnola Casa di carta.

Eppure, a 76 anni dalla Liberazione la canzone dei partigiani è un mistero: non si sa ancora bene quando sia nata, né dove esattamente. C’è addirittura chi, tra gli storici revisionisti che hanno seguito la scia di Giampaolo Pansa, ha sostenuto che i partigiani non l’avrebbero mai cantata.

Cesare Bermani, lo studioso che più si è dedicato al tema, ha detto una volta che “la storia di Bella ciao è un romanzo mai finito”. Ed è un romanzo costellato di scoperte e colpi di scena. La tesi più accreditata oggi la fa risalire al 1944, probabilmente nel centro Italia. Ora arriva sul tavolo una nuova ipotesi: Bella ciao sarebbe originaria delle Marche. Lo afferma, basandosi sul ritrovamento di un documento inedito, lo storico marchigiano Ruggero Giacomini, in un saggio che esce per Castelvecchi, dal titolo assertivo: Bella ciao. La storia definitiva della canzone. Per la precisione Bella ciao sarebbe nata in provincia di Macerata.

Le indagini su Bella ciao sono iniziate relativamente tardi. Solo alla metà degli Anni 60. Fino ad allora i canzonieri resistenziali non la contemplavano neanche, a differenza della cugina più “rossa” Fischia il vento. Si sapeva solo, grazie allo storico Eugenio Cirese, che discendeva da una canzone d’amore: Fior di tomba, scritta dal diplomatico cavouriano Costantino Nigra a fine ‘800, e che nel 1915 era entrata a far parte del repertorio della trincea.

Questo finché un pugno di storici e musicologi, Roberto Leydi, Gianni Bosio, Cesare Bermani e il progetto del Nuovo canzoniere italiano non decidono di partire – zaino in spalla e registratore in mano – tra le valli e le montagne a cercare le origini della canzone tra i protagonisti della Resistenza. Bermani racconta quella stagione in Bella ciao. Storia e fortuna della canzone, uscito per Interlinea l’anno scorso.

Il metodo è quello della “storia orale”: indagare domandando. È un procedimento innovativo, che porta risultati ma anche, inevitabilmente, errori. La pista più promettente, per esempio, si rivela falsa nel giro di qualche anno. Si era creduto che Bella ciao fosse un calco di un canto delle mondine emiliane. Però poi spunta fuori che in realtà quel canto era stato composto nel 1951. Tutto da rifare. Ma Bosio e Bermani non si danno per vinti. Nel 1965 accertano che Bella ciao si cantava nel 1944 a Reggio Emilia, e grazie ad altre testimonianze localizzano la versione più antica della canzone sulla Maiella, in Abruzzo.

La genealogia abruzzese era finora l’ipotesi più accreditata. Ora, però, Giacomini sostiene che quei partigiani della Maiella non avrebbero inventato Bella ciao, ma l’avrebbero ripresa da un motivetto ascoltato nelle Marche, regione snodo di vari cammini partigiani e dove si trovava un grande accampamento partigiano sul Monte San Vicino.

Le prove addotte sono una lettera privata, finora inedita, e un opuscolo di un parroco di Poggio San Vicino, alle pendici dell’omonimo monte, che cita due versi di Bella ciao.

Mentre l’opuscolo era già noto, ma considerato poco dirimente, è la lettera a rappresentare per Giacomini il tassello mancante, la prova schiacciante sull’origine marchigiana di Bella ciao. La carta è datata 24 aprile 1946, la firma è di Lydia Stocks, che scrive dall’Inghilterra all’ex comandante azionista della brigata Garibaldi Marche, Amato Vittorio Tiraboschi. Da poco i carteggi di Tiraboschi sono stati acquisiti dall’Archivio Istituto Storia Marche di Ancona, dove Giacomini li ha trovati. “Ricordo tutto quello che abbiamo provato – scrive Lydia Stocks in un italiano incerto – tutti quelle giovani ragazzi che andavano morire con il canto Bella ciao”. In favore dell’autenticità di questa testimonianza ci sarebbe il fatto che Stocks, trasferita in Inghilterra, non poteva essere viziata dall’influenza dal dibattito italiano sulla canzone.

Come mai nessuno era andato a cercare Bella ciao nelle Marche? “Nella storiografia sui partigiani le Marche non sono quasi mai presenti”, risponde Giacomini al Fatto. “È un errore, perché nella Regione l’esperienza resistenziale è stata di massa e precoce”. E l’accampamento del Monte San Vicino, in particolare, dove la canzone sarebbe nata, era “una realtà particolare, che ospitava anche momenti ludici”, in cui per gioco o per passione qualcuno avrà pensato di adattare un vecchio motivo.

Queste testimonianze, scrive l’autore, “consentono di mettere un punto fermo… Più precisamente, possiamo dire che nella primavera del ’44 sul monte San Vicino, nel cuore delle Marche, i partigiani cantavano Bella ciao”.

Ora resta da capire come reagiranno gli studiosi della canzone. Il “romanzo mai finito” di Bella ciao potrebbe avviarsi a una conclusione. Ma prima sembra ancora avere qualche capitolo da scrivere.

I panni sporchi si lavano in casa reale

Pare una faida familiare o, al massimo, un intrigo di corte. E le mene di servizi esteri stranieri sembrano più un luogo comune dovuto, quando si denuncia un attentato alla sicurezza nazionale, che l’origine del trambusto delle ultime 48 ore alla corte hashemita. Dove, a conti fatti, non pare essere accaduto nulla, se la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, conferma la visita di domani in Giordania.

Il re Abdallah II colleziona attestati di stima e d’amicizia, da Israele e dall’Iran, dal mondo arabo e dai palestinesi ai suoi confini (e dentro i suoi confini, visto che quasi la metà della popolazione – dieci milioni di abitanti su un territorio un quarto dell’Italia – è composta da rifugiati palestinesi e loro discendenti). Ci sono pure 750 mila rifugiati siriani: la loro presenza è causa di difficoltà e tensioni nel Paese. La monarchia hashemita è punto di riferimento dell’Occidente in Medio Oriente. Ma questa bega vede protagonisti il re, figlio della seconda moglie di re Hussein, una cittadina britannica, e il suo fratellastro, il principe Hamzah bin Hussein, figlio della quarta e ultima moglie di re Hussein, la regina Noor, una cittadina statunitense, che interviene in difesa del figlio: le accuse mossegli sono “malvage calunnie”. Abdallah, con la bella moglie Rania, è di casa a Washington: lì si può incontrare a fare la spesa da Safeway. Il principe Hamzah era l’erede al trono designato fino al 2004, quando il ruolo passò al primogenito di Abdallah, Husayn, oggi 27 anni. Il complotto, di cui si sa ben poco, avrebbe compromesso la sicurezza nazionale: diversi gli arresti, forse 16, fra cui quelli dei dignitari di corte Basem Awadallah e Sharif Hassan bin Zaid; coinvolta anche la moglie del principe, che, però, non si fa tacitare. In un audio su Twitter, la registrazione d’una telefonata con il suo avvocato, Hamzah nega di volere innescare “una escalation”, ma dice: “Non obbedirò agli ordini del capo di stato maggiore – il generale Youssef Huneiti, ndr – secondo cui non sono autorizzato a uscire, a twittare, a comunicare con le persone e che posso solo vedere la mia famiglia”. Ma re Abdallah ha risposto “di voler affrontare la questione del principe nell’ambito della famiglia hashemita” affidando la vicenda a suo zio, Hassan bin Talal. E Hamzah avrebbe “confermato di aderire all’approccio della famiglia e al percorso” individuato dal sovrano. In precedenza, lo stesso Hamzah aveva detto alla Bbc di “essere stato posto agli arresti domiciliari”, negando di essere “responsabile del crollo della governance, della corruzione e dell’incompetenza nel governo che sta peggiorando”: “Nessuno può parlare o esprimere opinioni senza essere vittima di bullismo, arrestato, molestato e minacciato”.

Kanal Istanbul, se dici ‘No’ al progetto sei un golpista

Ancora una volta il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sfrutta senza remore la cinquantennale frattura tra potere secolare e militare per continuare a forgiare a propria immagine e somiglianza il Paese che controlla in modo ormai dittatoriale da quando divenne sindaco di Istanbul (1994-98), la megalopoli sul Bosforo. Ed è proprio il faraonico quanto folle progetto di costruire ex novo un lungo canale per aggirare il Bosforo al centro del nuovo giro di vite ordinato dal Sultano contro chi osa esprimere qualsiasi forma di dissenso. In questo caso a finire nel mirino della magistratura sono dieci ammiragli in pensione che hanno firmato una lettera aperta, sottoscritta da un centinaio di ufficiali, in cui viene criticato il Kanal Istanbul che, nelle intenzioni del Sultano, dovrà collegare, correndo parallelamente al Bosforo, in modo artificiale il Mar Nero al Mar di Marmara. Secondo la Procura di Ankara, che ha spiccato i mandati di arresto contro gli ex ammiragli già sottoposti a fermo, il documento “evoca un colpo di Stato”.

Altri quattro ufficiali in pensione hanno ricevuto l’ordine di presentarsi alla polizia della capitale nei prossimi tre giorni, ma non verranno arrestati a causa della loro anzianità. Il Canale Istanbul – simile al canale di Panama o a quello di Suez – ha ottenuto il benestare delle autorità nonostante le proteste dell’opposizione (che dal 2019 ha riconquistato la municipalità di Istanbul) e degli ambientalisti. Come il cosiddetto “terzo ponte” e il “terzo aeroporto”, inaugurati negli ultimi cinque anni, la costruzione di questa mega opera ingegneristica andrà a distruggere una ampia area verde protetta per la flora e la fauna che ospita, oltre a danneggiare una delle falde acquifere che permette l’approvvigionamento idrico della regione. La cementificazione, specialmente della “sua” Istanbul, è lo strumento con cui Erdogan ha ottenuto negli anni il voto dei grandi costruttori edili. L’intervento degli alti ufficiali in pensione della Marina tuttavia è dovuto alla preoccupazione che a causa della realizzazione del Canale di Istanbul verrà di fatto messo in discussione il trattato di Montreux. La Convenzione di Montreux del 1936 prevede il libero passaggio delle imbarcazioni civili attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli, sia in tempo di pace che di guerra.

Il trattato regola, inoltre, l’utilizzo dello stretto da parte delle navi militari che non appartengono agli Stati sul Mar Nero. Insomma, il Kanal si trasformerà anche in un’arma di ricatto, avvantaggiando non solo gli interessi turchi ma anche quelli delle nazioni che saranno disposte ad appoggiare l’impresa. Una per tutte la Russia di Putin. Per questo il Sultano ha visto nella critica degli ammiragli un pericolo per la realizzazione della propria agenda aggressiva in corso nel Mediterraneo Orientale. Ankara accusa l’iniziativa degli ammiragli come un appello a effettuare un golpe. “Dire la propria idea è un conto, preparare una dichiarazione in cui si evoca un golpe è invece un’altra cosa”, ha affermato Mustafa Sentop, presidente del Parlamento nonché membro del partito della Giustizia e Sviluppo fondato dal presidente Erdogan e alla guida del governo dal 2003. Oggi i leader del Consiglio europeo, Charles Michel, e della Commissione, Ursula von der Leyen, saranno ad Ankara per incontrare Erdogan con l’intento di dare impulso alle relazioni e presentare la roadmap europea stabilita al summit dei capi di stato e di governo del 25 marzo. Si parlerà di una nuova tranche di finanziamenti Ue affinché il Paese anatolico continui ad accogliere i migranti, di possibili avanzamenti nella politica dei visti, e di un approfondimento dell’unione doganale. Alla faccia dei trattati e del diritto di libertà di espressione e critica.

Zaki, i legali hanno chiesto che il caso passi ad altri giudici

Nuova udienza, ed ennesimo rinvio al Cairo: Patrik George Zaki rimarrà dietro le sbarre del tristemente noto carcere di Tora, nella periferia della capitale egiziana. Italia, Francia, Canada e Stati Uniti: ai diplomatici di questi Paesi ieri è stato vietato l’ingresso in aula dalla polizia, nonostante l’approvazione da parte del tribunale. Non riponeva speranze nella scarcerazione del suo assistito o fiducia nella Corte il legale del ricercatore, Hoda Nasrallah, che ha anche riferito che il ragazzo si trova in un pessimo stato di salute psicologica e ne ha chiesto, insieme ad attivisti e politici, “l’immediato rilascio”. Per ritardi a causa della pandemia, pressioni politiche interne e internazionali, continui prolungamenti o rinvii delle udienze che durano da quando Zaki è stato arrestato il 7 febbraio 2020, il giovane è considerato “vittima di accanimento giudiziario” e per questo il team di avvocati che lo segue ha chiesto ieri che vengano sostituiti i giudici che decidono della custodia cautelare – ed ormai della salute, fisica e psicologica, e del destino – dell’attivista per i diritti umani. Tuttavia, solo oggi o domani si saprà se le istituzioni egiziane accetteranno la richiesta. Lo studente, che frequentava all’Università di Bologna il master europeo Gemma dedicato agli studi di genere e delle donne, è accusato tra l’altro di propaganda sovversiva e istigazione al terrorismo; parte di questi messaggi pubblicati sul social network Facebook da un account che, hanno più volte affermato i suoi legali, non apparteneva a lui. Zaki è in custodia cautelare da oltre quattordici mesi in un Paese in cui questa misura punitiva è prolungabile fino a due anni. In totale, per i capi d’accusa, potrebbe rischiare una condanna fino a 25 anni di carcere. “La difesa di Patrik ha chiesto che vengano cambiati i giudici per un evidente accanimento nei confronti del cliente, per la quantità di udienze rinviate o che si concludono con prolungamento della detenzione. Ciò che è grave, oltre all’attesa, è lo stato psicologico di Zaki descritto dagli avvocati come molto, molto grave: siamo di fronte alla ‘passione di Patrik’. Occorre un’azione urgente ed immediata della comunità internazionale, dei Paesi che hanno dei buoni rapporti con l’Egitto, dell’Italia in primo luogo, affinché il calvario di Zaki cessi” ha detto Riccardo Noury di Amnesty Italia.

Il senso di Bibi per la stampa. Plausi per lui, il resto fango

“È un tentativo di colpo di Stato”. Così il premier Benjamin Netanyahu si è scagliato contro i pubblici ministeri che ieri hanno aperto a Gerusalemme il processo a suo carico per corruzione, frode e abuso di ufficio.

Netanyahu, impegnato anche nei colloqui per la formazione del governo, è comparso in tribunale per poi ritirarsi durante la pausa. Ma è alla tv nazionale che ha espresso il suo disappunto: “Il processo – ha tuonato – rischia di minare la volontà degli elettori”. A confermare la tesi del procuratore Liat Ben-Ari che accusa il premier di aver “usato il suo potere per promuovere i suoi desideri personali”, è comparso l’ex amministratore delegato del sito di news Walla, Ilan Yeshua che ha descritto nei dettagli il modo in cui Netanyahu attraverso i proprietari della società di telecomunicazioni Bezeq che controlla Walla, Shaul e Iris Elovitch, ha fatto pressioni per avere “una copertura positiva” in cambio di leggi a favore degli editori.

“Minimizzare il negativo e dare addosso ai rivali”

“Questo è ciò che vuole il primo ministro”. Con queste parole, secondo Yeshua, l’editore di Walla gli ordinò di distorcere le notizie su Netanyahu. “Minimizzare gli articoli negativi sul primo ministro e sua moglie Sara e in qualche occasione anche su suo figlio e scrivere pezzi che lo aiutassero. Inoltre mi è stato anche detto di pubblicare storie negative contro i rivali del primo ministro, come Naftali Bennett (attuale capo del partito di destra Yamina e prima a capo di Jewish Home, ndr). Così abbiamo pubblicato una serie di articoli contro Bennett e sua moglie”. Alla domanda del procuratore capo, Yehudit Tirosh sul perché gli editori gli chiedessero quel trattamento di favore per Bibi, Yeshua ha risposto: “Perché è quello che vuole il primo ministro. Questa è stata la spiegazione che è stata data”. Gli input sugli articoli sarebbero arrivati dai superiori di Yeshua, “attraverso l’ufficio del premier, tramite e-mail e messaggi WhatsApp”. Yeshua ha anche ricordato un caso in cui “Walla è stato incaricato di scrivere un articolo negativo sull’allora ministro dell’agricoltura Uri Ariel, ma poiché i giornalisti non sono riusciti a verificare la notizia e Ariel negò le accuse contro di lui” non si pubblicò. Questo però ha portato a una conversazione successiva con Elovitch e Yeshua ha sostenuto di aver parlato anche con Netanyahu. Gli editori a detta sua dicevano “cosa sei, il giornale Haaretz? Cosa sei, un sito web per la sinistra? Cosa sei, un sito web per i membri di Hamas?”.

“Mi sono autocensurato in nome dello stipendio”

“Il 90% delle richieste sono state accolte, ho imparato ad autocensurarmi. Alla fine del 2016 ho smesso di farlo. Adoravo il mio lavoro e speravo che alla fine sarei riuscito a gestirlo. Iris e Shaul dicevano ‘è solo per questo periodo delicato’. Lo stipendio era buono, devo dire”, ha confessato Yeshua. “C’è stato anche un tentativo di inventare una storia di molestie sessuali contro il giornalista Avner Hofstein, ora al quotidiano in lingua araba Zman Israel. “In un’altra occasione non sono stato autorizzato a scrivere della scorrettezza del premier e dei suoi alleati nel- l’acquisto di sottomarini dall’Egitto”. Yeshua e l’ex redattore capo del giornale avevano inventato soprannomi e parole in codice per discutere del premier e della copertura distorta sul sito. “Netanyahu era ‘Kim Jong Un’, il dittatore della Corea del Nord, mentre Sara era ‘Ri Sol-ju’, la moglie di Kim”.

“Togli l’articolo, il premier ha cose buone per noi”

Elovitch ha interrotto la testimonianza del direttore di Walla in aula urlando: “Bugiardo. Quanto puoi mentire?” Gli Elovitch sono accusati insieme al premier e finora si sono rifiutati di testimoniare. Ma Yeshua ha rincarato la dose elencando gli intermediari del premier: “Dall’amico di Netanyahu, il magnate Zeev Rubinstein, a Nir Hefetz, ex consigliere per i media, e l’ex portavoce del Likud Shai Haik. Secondo Yeshua, tutto è iniziato nel 2013, ma il maggior numero di ordini e pressioni le ha ricevute in vista delle elezioni del 2013 e del 2015 e quando il ministero delle Comunicazioni avrebbe dovuto approvare una misura che interessava le società di telecomunicazioni Bezeq, controllata dagli Elovitch. “Ci sono state volte in cui dicevano: togli quell’articolo, ora! La prossima settimana (Netanyahu, ndr) deve firmare qualcosa per noi” ha raccontato Yeshua. “Era una lotta quotidiana”.

Fiore, Lilli, Maria & C. i “forever young” che non mollano mai

Con Linus (anni 63) è tutta un’altra musica. E con Fiorello (60 spaccati) è un altro ridere, con Maria De Filippi (59 e rotti) un altro piangere. Con Luca Zingaretti (atletico sessantenne) un’altra fiction, con Carlo Conti (sempre 60 anni) un altro gioco, e con Bianca Berlinguer (61 e mezzo), Lilli Gruber (63 pieni pieni) e Barbara Palombelli (67 anni) tutto un altro discutere.

La televisione – spesso anche la radio – è dei sessantenni. Ovunque ti volti un over segna il tempo, muove le danze, apre i dibattiti e noi, sessantenni in poltrona, accompagniamo l’auditel in questo mesto pellegrinaggio verso l’età televisiva avanzata, i capelli bianchi di chi parla e di chi ascolta. Pantofola su pantofola.

L’Italia è vecchia e la televisione è il suo spietato e felice contagiri. “C’è una corrispondenza culturale e ambientale, persino linguistica. È la fotografia esatta della società attempata che accende l’elettrodomestico. Dai trentacinque anni in giù la questione non esiste, per quella società la tv è il superfluo, l’inutile. Si è accorto che hanno dovuto richiamare in servizio Mara Venier perché Domenica In non faceva più un becco di un ascolto?”. Giorgio Simonelli, critico e storico della tv, afferma una cruda quanto banale verità. E sarebbe certo altrettanto banale la considerazione dei sessantenni al timone di un vettore per sessantenni se non fosse che la televisione è dominata dalla politica e dalle sue esigenze. Che sulla televisione investe perché ancora oggi, attraverso di essa, si espande, orienta, costruisce e poi raccoglie quel che si potrebbe definire la plusvalenza elettorale. “Non fai in tempo a conoscere il dirigente che già s’annuncia il nuovo. In Rai la velocità con cui si cambia il management ha ritmi inediti. Questa prova eccentrica di rotazione perpetua rende noi dipendenti consapevoli dell’ineluttabilità di questa condizione”, dice infatti Massimo Bernardini (65 anni) che prepara da un ventennio, e con una passione esemplare, il suo programma: la tv che parla di televisione (Tv talk, ogni sabato su Rai3). Se non è una novità che il Palazzo abbia le mani in pasta nella Rai e, direttamente o per interposto imprenditore, in tutte le reti private, grandi o piccine, è certamente però una bizzarria che i leader del Palazzo siano prevalentemente quarantenni o addirittura trentenni. La donna in ascesa è Giorgia Meloni (di anni 44) e il capo, ormai da anni, del partito più vecchio del sistema, la Lega, cioè Matteo Salvini, ne ha oggi 48 (appena 40 quando prese il potere). E vogliamo dire qualcosa dei Cinquestelle finora rappresentati dal trentaquattrenneLuigi Di Maio? Vogliamo ricordare che a sinistra la presenza femminile più innovativa è quella di Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia Romagna, trentacinquenne? E abbiamo dimenticato che Matteo Renzi quando aveva 42 anni era padrone del Pd?

Se il Palazzo è l’élite, e l’élite domina la tv, perché l’élite è giovane e invece chi la rappresenta, col permesso dunque di entrare ogni giorno in casa nostra, è in avanti con gli anni? “Perché forse quella che lei chiama élite semplicemente non lo è, perché il potere decidente non è nelle mani di costoro ma dei loro danti causa? Fui molto colpito, al tempo della grande crisi finanziaria, da una dichiarazione dell’allora governatore della Bce Mario Draghi: ‘Tranquilli, abbiamo il pilota automatico’. Spiegava la teoria del super governo con dei superpoteri”. Per il sociologo Marco Revelli il potere che conta non è quello che vediamo in Parlamento: “Non sono affatto convinto che le scelte per la Lega siano nelle mani di Salvini, e dico un nome per tutti. Lui va in televisione e ciancia, ma le decisioni paiono fuori dal suo orizzonte”.

Banche, assicurazioni, grandi imprese, magistratura. Il potere effettivo è canuto, a volte invisibile. Si farebbe solo rappresentare in televisione dalla politica, che diviene vettore e non gestore delle decisioni, con il Parlamento oramai degradato in ornamento.

Resta intatta la domanda: e se pure fosse così, perché i quarantenni al potere non scelgono coetanei per farsi rappresentare in tv? “Oggi è il tempo dei forever young, e il ceto televisivo vive di quella particolare condizione dell’intramontabile, di colui, cioè, a cui l’anagrafe fa un baffo. Manderebbe in pensione Fiorello?”, chiede l’antropologo Marino Niola.

La televisione azzera l’età, tanto che il più televisivo dei politici, Silvio Berlusconi, padrone di Mediaset, è l’unico ottantenne in attività infischiandosene che la sua Forza Italia vada consumandosi. La storia è scritta solo fino a quando Silvio ci sarà.

Fare televisione però è una fatica particolare: “C’è una competizione assoluta e poi una riserva di credibilità che si allarga negli anni. Noi telespettatori ci affezioniamo al conduttore del gioco preferito. Vogliamo Gerry Scotti (64 anni) o Paolo Bonolis (60 anni) e non gradiamo sorprese. Ci apparirebbero come imposture. La nostra è una richiesta esplicita che dà a questi personaggi la suggestione (spesso si fa realtà) che non c’è altri all’infuori di essi”, spiega Simonelli.

Nella perdurante, fantastica vita del conduttore televisivo, l’imperativo è non mollare mai. Succede così che Maurizio Costanzo (82 anni) ancora sbuchi di notte a tenerci compagnia, che Gigi Marzullo (67 anni) si disperi davanti alla considerazione di aver raggiunto la pensione.

“Eppure la Rai dette alla ventottenne Liliana Cavani, il cui curriculum, data l’età, era privo di fatiche e di successi, il compito di aprire le trasmissioni di Rai Due con un documentario sul Terzo Reich – ricorda Bernardini – e non devo certo io rammentare quale fucina di energie creative nuove, che provenivano dal basso, abbia liberato Raitre. Una televisione che riconosceva i giovani e investiva sui giovani”.

Oggi l’Italia li sta perdendo, e infatti Enrico Letta (55 anni) propone al Pd una battaglia per dare ai sedicenni il diritto di voto. Un artificio, un modo per farli contare di più allargando la loro base numerica. Ma internet li ha portati via dalla televisione e la transizione al digitale completerà l’abbandono rendendo felici quelli che fanno la televisione, “i figli della disillusione post sessantottina” come li definisce Revelli, e felici noi che la guardiamo. Ci riconosciamo in loro, avanzano nell’età come noi e meglio di noi mantenendo fermo il potere nelle loro mani. Ma tutti, e noi con loro, a parlare però di rinnovamento. Fare largo ai giovani!

Che ridere i comici che si sfidano per far ridere: “Lol”

Sui comici girano un sacco di luoghi comuni: lontani dal palco sono tristi, sono competitivi, sono insicuri, si venderebbero la madre per una battuta. Quasi tutto vero, per giunta. Poi c’è la storia “non ridono mai, la comicità altrui li diverte poco”. E in effetti, è vero pure questo. I comici – da spettatori – conoscono i meccanismi della battuta.
Ne anticipano spesso il finale, si annoiano con facilità, hanno il filtro critico costantemente attivato perché sono interessati non tanto al risultato (la risata) quanto alla costruzione. Alla tecnica. E infatti, l’unica cosa che li diverte davvero, è quasi sempre tutto ciò che annulla ogni costruzione. Ciò che li spiazza. Solitamente, le cose più sceme: una barzelletta triste, una volgarità gratuita e inattesa, un tentativo maldestro di far ridere, quelle cose che fanno palesemente ridere solo chi le dice, il coraggio di certi comici allo sbaraglio, la comicità fanciullesca.

Bisogna partire da qui per raccontare cos’è Lol – Chi ride è fuori, lo show di Amazon Prime (ispirato a un format giapponese) in cui dieci comici devono trascorrere sei ore insieme in una stanza cercando di non ridere a battute e gag altrui. Uno show che sta avendo un clamoroso successo, forse il primo vero successo di Amazon Prime dopo qualche tentativo mal riuscito nel mondo dei reality (il disastroso Celebrity Hunter, per esempio). Il cast è formato da Elio, Caterina Guzzanti, Lillo, Angelo Pintus, Frank Matano, Katia Follesa, Ciro e Fru dei The Jackal, Michela Giraud e Luca Ravenna, i conduttori sono Fedez, con Mara Maionchi. Insomma, dagli youtuber ai teatranti, ai televisivi, fino ai mestieranti da stand up comedy, in Lol ci sono più correnti che nel Pd. Ed è questo, in definitiva, l’aspetto più interessante del programma: ognuno, per far ridere gli altri, utilizza il suo registro.

Elio, dunque, si presenta con la testa infilata in un quadro (la Gioconda) e quattro braccia, ovviamente senza un perché. Balla un interminabile, estenuante tip tap con la gonna tirata su e i calzini fino al ginocchio, ovviamente – anche in questo caso – senza un perché. Commenta con puntuale e spassosa serietà le battute altrui, giocandosi le sue carte al meglio, tra demenzialità e autorevolezza. Frank Matano, col suo oggetto-feticcio che fa ridere perché non fa ridere, adotta un sistema di raro ingegno per non scoppiare in una risata quando gli scappa: cammina senza sosta per tutta la stanza. Se non vince Lol, può comunque ambire ad un buon piazzamento nella prossima maratona delle Dolomiti. E dopo Italia’s got talent, Matano conferma di essere a suo agio in ogni contesto televisivo, riuscendo ad adattare il contenitore a sé, e non il contrario, tant’è che l’unico momento in cui manifesta insofferenza è quando gli autori gli chiedono di indossare un “abito” da lottatore di sumo: “Ho un problema con i costumi, mi fanno sentire a disagio”. Da notare: un attimo prima, senza costumi, aveva simulato l’accoppiamento di un qualche uccello in un cespuglio, perfettamente a suo agio.

Angelo Pintus è uno che fa il comico da quando Franceschini fa il ministro, cioè da sempre. Ha partecipato a tutti i programmi da “comici in batteria”, allevati come polli, della serie: poco tempo per crescere, molti muoiono dopo pochi giorni di vita. Lui è sopravvissuto più o meno a tutto, con un successo da mediano e un ego da attaccante. Per intenderci, è di quelli che chiamano gli spettacoli “50 sfumature di Pintus”, “Pintus Arena” e così via, insomma un Donald Trump che non ce l’ha fatta. Però – siamo onesti – in Lol fa la metà del lavoro: intrattiene, coinvolge, si diverte, diverte, osa. Insomma, ha mestiere e si vede. Inevitabilmente però, inciampa nel suo ego: non deve ridere delle battute degli altri e gli riesce benissimo. In compenso, ride delle sue, finendo per farsi fuori da solo.

Lillo è un fuoriclasse e, probabilmente, il più versatile: fa ridere con il costume da “Posaman”, quando racconta la barzelletta sugli asterischi, quando spiega con aria compunta i segreti della sua linea “perfetta”. Per non ridere alle sue battute ci si deve concentrare con tutte le forze su avvenimenti drammatici, tipo l’intervista della Boschi a Verissimo. Katia Follesa gioca d’astuzia: sempre seduta, in modalità ape regina, commenta molto gli altri e si espone poco, ma risulta azzeccata ed efficace. Ciro dei The Jackal fa spesso il suo cavallo da battaglia – la nonna col fischio – e lì, come direbbe qualcuno, “so’ gusti”, come forse è una questione di gusti anche la comicità di Caterina Guzzanti, che è l’esatto contrario di Frank Matano: sembra a suo agio solo dentro a un costume, imprigionata in gag teatrali e forzate. Fuori, è impassibile a qualunque stimolo comico, uditivo, visivo, tattile. Forse non è neppure lei: quello è il costume di Caterina Guzzanti e dentro c’è Francesco Borgonovo.

Sottotono Fru e Ravenna, menzione speciale per Michela Giraud che riesce nel raro proposito di giocarsi la carta della volgarità gratuita (la hit “Mignottone pazzo” è già leggenda”) senza risultare volgare. Sui due conduttori, poco da dire: avrei evitato l’accoppiata Maionchi/Fedez che fa molto Sky e X Factor e toglie un po’ di identità a un prodotto nuovo e ben fatto. Mara fa Mara, Fedez si sganascia e raggiunge lo studio in monopattino, annunciando le ammonizioni/espulsioni con il carisma, appunto, di un monopattino. Ma in fondo, poco importa. Lol è un programma così spassoso e fortunato che potrebbe presentarlo chiunque: perfino Fedez.

Covid, il contagio della confusione

Credevamo che la bagarre si fosse placata. Purtroppo non è cosi. Chi come me riceve telefonate e mail giornalmente, non solo da conoscenti ma anche da semplici cittadini che chiedono chiarimenti su tutto ciò che concerne Covid, può affermare che il comune denominatore di questa pandemia, soprattutto oggi, è una stanca confusione. La gente è stanca, non c’è dubbio. Abbiamo accettato ogni restrizione che è stata una terapia amara, con effetti collaterali a volte gravi, ma necessaria. La confusione no. In un momento di crisi, durante il quale nessuno può scagliare la prima pietra verso chi, nella maggior parte dei casi, ha cercato di gestirla al meglio, commettendo inevitabili errori, non è accettabile la confusione. Questo “vizio di forma” ha accompagnato l’intero periodo pandemico e oggi, proprio quando se ne intravvede la fine, è ancora presente e si insinua in ogni meandro della comunicazione. La confusione è tale che persino noi “esperti” non ne siamo esenti, nel crearla e nel subirla. Tutti, anche inconsapevolmente, abbiamo giocato un ruolo. Chi, da tecnico, non ha tenuto conto che chi ascolta o legge alcune dichiarazioni è spesso un non tecnico e per di più impaurito; chi ha ceduto al protagonismo mediatico; chi ha sguazzato fra le righe delle diverse dichiarazioni con deplorevoli strumentalizzazioni. Il danno psicologico che ne deriva è enorme. Mi riferisco a quegli “pseudo-comunicatori”, che non oso definire giornalisti per il rispetto alla categoria e ai tanti professionisti che la rappresentano. Sono quelli che, quando scorri le news, il mattino successivo a una dichiarazione, ti fanno saltare sulla sedia. Un’abilità geniale di taglia ed incolla che, con arte, riprende le tue parole, costruisce un concetto totalmente contrario a quello che volevi esprimere. Se lo scopo è quello di ottenere visualizzazioni sui blog o sul web, che ho scoperto fruttino guadagni economici, sono bravissimi. Eppure l’Ordine dei Giornalisti ha un codice deontologico molto severo. Perché non viene applicato in questi casi di palese trasgressione che oggi riempiono soprattutto la rete?

 

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L’ombra della censura sulla cacciata di Scanzi

Caro Travaglio, condivido pienamente la sua risposta in merito a Scanzi, ma vorrei aggiungere una lancia spezzata in favore di Andrea, ricordando che lui, in diretta ad Accordi e Disaccordi, aveva preannunciato che, se si fosse presentata l’occasione, si sarebbe vaccinato come testimonial pro Astrazeneca contro le paure infondate. Ma a chi lo vuoi dire? I fucili sono spianati, ma sparano sempre nel vuoto con proiettili pieni di veleno! Orgoglioso di essere tra i vostri lettori.

Giuseppe Mazzei

Scanzi cacciato dalla Rai su richiesta di Italia Viva. Ma la libertà di espressione? Renzi è amico di Bin Salman, quello che ha approvato il piano per uccidere il giornalista Khashoggi. Renzi sappia che l’art.21 della nostra Costituzione recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”.

Roberto Ghisotti

Mi sono permesso di creare una pagina Instagram che ho chiamato Ganzi per Scanzi, per dire no alla censura che lo ha colpito. Da Fo a Biagi, Santoro e Luttazzi fino a Corrado Guzzanti, la censura è stata un boomerang contro chi l’ha praticata! E sarà così anche per il bravissimo Andrea Scanzi.

Andrea Pellizzari

 

Sanità, alla Calabria non basta certo Figliuolo

Che cosa subiscono i calabresi! La responsabile comunicazione della Calabria invia direttive con mail sul portale e poi rettifica. Chi è pratico fa e rifà l’iter, ma chi è anziano e fragile come fa?

Maria Teresa Armentano

Possibile che solo il Fatto si è accorto che in Calabria non è tutto ok quanto alla vaccinazione? Ci volevano gli occhi del Supremo Militare per vedere quello che tutti non vedono quanto a caos, ritardi e bilanci in rosso?

Alberto Volpe

 

Nell’esercito ci sono esperti in medicina

Vorrei conoscere il motivo per il quale non si è pensato meglio di affidare l’incarico, al posto del generale di Corpo d’armata Figliuolo, a un direttore di Sanità militare, anche lui con il grado di generale a una, due o più stellette.

Dott. Luigi A. Ferramosca

 

Ergastolo ostativo: fiducia nella Consulta?

Vorrei rincuorare la sorella di Falcone e il fratello di Borsellino che la loro preoccupazione è infondata: la Corte Costituzionale è formata da persone al di sopra di ogni sospetto e quindi non potranno privarci dei sacrifici fatti da chi è morto per combattere i nemici dello Stato. O no? Mah!

Raffaele Fabbrocino

 

Sui viaggi di Renzi intervenga Mattarella

Continuo a leggere che Renzi con le sue visite in oriente infrange lo spirito della Costituzione. Mi domando: quanto tempo ancora ci vorrà per vedere un intervento energico di Mattarella?

Alberto Alvino

Caro Alberto, aspetta e spera…

M. Trav.

 

La cassa integrazione continua a ritardare

Vi scrivo per invitarvi a parlare di più della cassa integrazione, che nel mio caso non è mai arrivata regolare ogni fine mese. Sono stato anche 4 mesi senza ricevere un euro e ora sto aspettando ancora la 13a del 2020, più gennaio e febbraio 2021. Ho accumulato per questo 12 mesi di affitto arretrato con varie bollette da pagare. Sono stanco di essere discriminato e passare per cittadino di serie B.

Elia Rauzino

 

Una risposta alla mamma preoccupata per la Dad

Ho letto la lettera della mamma preoccupata per i figli che stanno perdendo stimoli causa “didattica a distanza”. Io ho 84 anni ma non vivo sulla luna: il disagio lo proviamo tutti. Ho due figli che ora sono docenti universitari di fisica e matematica. Per arrivare a questo hanno dovuto studiare molto. Posso capire lo sconforto della mamma, ma se posso darle un consiglio, piuttosto che rivolgersi ai presidi e ai docenti, che più di tanto non possono fare, cerchi anche lei di motivarli. Il futuro si costruisce solo con tanto sacrificio e tante rinunce.

Claudio Scandolo

 

La serie su Leonardo non rende onore al genio

Nel kolossal televisivo, Leonardo da Vinci non sembra lui: dal carcere in cui non è mai stato alla rivelazione di maledizioni inesistenti, sciocchezze di un provincialismo moralistico che più di bassa lega non può essere. Anche con i fatti veri si possono costruire storie interessanti. Bisogna lavorarci di più. Possibile che non venga rispettata la vita del più grande genio che abbiamo avuto?

Lilli Maria Trizio

 

Ancora apprezzamenti per i risultati del “Fatto”

Leggo con grande piacere che il Fatto è cresciuto in un anno del 47% e che Seif chiude il 2020 tornando in utile. Avete ringraziato noi lettori ma il grande merito va a voi giornalisti! Continuate così!

Ombretta Chieregato

Vaccini “Io, anziano e disabile, sono in attesa per colpa della burocrazia”

Gentile redazione, ho 74 anni e sono affetto da fibrosi polmonare con disabilità al 100 per cento.

La mia patologia è rara, grave e irreversibile: comporta la necessità di ossigenoterapia per 24 ore al giorno su 24 e rende estremamente difficoltoso ogni movimento, tanto che mi posso muovere solo in carrozzella e da tempo, per le periodiche analisi del sangue che devo fare, usufruisco di un servizio a domicilio.

Per questi motivi sono soggetto ad altissimo rischio Covid-19, per cui il mio medico curante lo scorso 15 marzo ha subito segnalato il mio nominativo per la vaccinazione, informandomi però che sul modulo di prenotazione non era indicata la modalità per richiedere l’inoculazione a domicilio.

Tra molte difficoltà – mancanza di indirizzi di posta elettronica a cui sottoporre il problema e numeri telefonici ai quali non risponde mai nessuno – riesco a contattare la Asl di mia competenza (Torino 3) e una gentile signora mi dice che è possibile ottenere la vaccinazione a domicilio, ma la richiesta deve essere fatta dal mio medico curante.

Contatto quindi nuovamente il mio medico che, dopo un paio di giorni, mi risponde testualmente: “Nonostante i miei numerosi tentativi di richiedere la vaccinazione a domicilio, il sistema mi continua a dire che, una volta inviate, le preadesioni al vaccino non possono più essere modificate o cancellate”.

Morale: io, anziano, disabile con patologia ad altissimo rischio, non sono ancora stato vaccinato né so quando lo sarò, e quando sarà il mio turno dovrò probabilmente recarmi io con grandissima fatica e difficoltà all’Asl grazie a una cretina, assurda e insopportabile burocrazia che nel nostro Paese continua a essere un muro insormontabile contro i cittadini.

Da quando sono in queste condizioni ho a che fare con dottori, infermieri, funzionari dell’Asl – tutti estremamente gentili, collaborativi, competenti e comprensivi –, ma la loro buona volontà è sempre stoppata in un modo o nell’altro da disposizioni e sistemi idioti ideati da imbecilli incapaci.

Carlo Stevan