Enrico “il tiepido” non riesce ancora a derenzizzare il Pd

Come si sta comportando Enrico Letta da segretario del Pd? È presto per dare un giudizio definitivo, ma è abbastanza per farsi già un’idea. Così come la sua scelta giustificava applausi e perplessità, anche le sue prime mosse risultano ambivalenti.

Letta ha scelto Provenzano come vicesegretario del Pd, mossa dichiaratamente di sinistra e antirenziana. Bene. Ma ha dovuto subito bilanciare questo azzardo (per lui) con una seconda vicesegretaria ben meno divisiva come Tinagli. Il nuovo (?) segretario del Pd ha poi incontrato in rapida successione Conte, Fratoianni e Di Maio. Ovvero tre figure che puntano dritte verso quel “campo progressista” (cit. Bersani) che significherebbe chiudere per sempre con Renzi e con un’idea di centrosinistra poco sinistra e molto centro (tendente a destra). Tutti e tre si sono detti soddisfatti dell’incontro con Letta. Fin qui le cose buone.

Poi però ci sono le perplessità. Una delle prime è ciò che Michela Murgia ha giustamente chiamato “pink washing”, ovvero imporre due donne come capogruppo a Camera e Senato. Un maquillage imposto dall’alto e risolto alla maniera piddina: ovvero Marcucci che si oppone mestamente, per poi indicare un nome femminile (Malpezzi) che vuol dire ancora renzismo. E dunque nulla sposta in termini politici.

Enrico Letta, prima vittima illustre di quella tendenza allegramente traditrice di Renzi, sta facendo per ora pochissimo per attuare quella derenzizzazione totale di cui il Pd, per essere credibile e dunque votabile, ha bisogno come il pane. Il Partito democratico risulta ancora una forza oltremodo balcanizzata, devastata dalle correnti e atavicamente sorda a un rinnovamento reale. Per meglio dire: incapace di andare oltre quel “conservatorismo” genetico che da ormai dieci anni lo porta ad accettare qualsiasi governo “per senso dello Stato”: Monti, Alfano, Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Conte, Salvini, Draghi. Praticamente tutti. Con buona pace di un’identità personale che ai più, infatti, sfugge. Certo il buon Enrico non poteva fare miracoli in poche settimane, ma ha ragione Cacciari quando afferma deluso che non si è ancora minimamente capito quale idea di partito abbia in testa Letta.

Vi è poi un aspetto che risulta forse il più fastidioso, ovvero una sorta di spocchia che non dovrebbe attecchire in una figura seria e sobria come Letta. È naturale, per quanto fastidioso, che Letta come Zingaretti attacchino – con toni davvero eccessivi – Virginia Raggi. Il Pd ha il suo (buon) candidato a Roma, Gualtieri, ed è da sempre convinto che Raggi incarni il Maligno. Bah. Romano Prodi insegna però come le alleanze su scala locale siano totalmente diverse da quelle su scala nazionale, e dunque scannarsi su Roma non vuol certo dire non poter unirsi alle prossime elezioni politiche. Il punto è un altro, e lo ha ben sottolineato due giorni fa su queste pagine Barbara Spinelli: mentre i 5 Stelle provano a “rifondarsi” con Conte, il Pd appare tiepido. Statico. E con un’aria insopportabile di superiorità morale (de che?). Lo stesso Letta ha detto che spetterà a Conte trasformare il M5S in una forza non identica al Pd, ma meritevole di dialogare col Pd. Ecco, qui è bene intendersi: se è innegabile che il M5S debba cambiare e maturare, è altrettanto acclarato che Letta (o chi per lui) dovrà attuare una rifondazione analogamente “brutale”. Detta ancora più dritta: se il M5S dovrà meritare di allearsi col Pd, anche il Pd dovrà meritare di allearsi con il M5S. E il Pd attuale, con troppi Marcucci e Malpezzi in prima fila, non può certo dare lezioni di bellezza e democrazia agli altri.

 

Ora giù le mani dalle misure antimafia ideate da La Torre

Si stava recando a bordo della sua Fiat 132, guidata da Rosario Di Salvo, alla sede del Partito comunista, percorrendo una strada stretta della città di Palermo, quando un commando di mafiosi, a bordo di una moto e di un’auto, gli tese un’imboscata, iniziando a sparare. Morirono così, alle 9.20 del 30 aprile 1982, Pio La Torre e il suo accompagnatore. Un delitto punitivo e preventivo, esemplare per ferocia.

La stessa sera giunse a Palermo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che raccolse l’invito del ministro dell’Interno Virginio Rognoni e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini di anticipare il suo insediamento quale prefetto della città. Un uomo politico, La Torre, protagonista di primo piano della nostra storia più recente, che ha profondamente segnato lo sviluppo del contrasto alla criminalità mafiosa e che concretamente ha speso le sue energie per salvaguardare il valore universale della pace. Egli sapeva bene i rischi che correva, ma rimase al suo posto e proseguì nella sua azione.

Segretario regionale del Partito comunista, si fece promotore di iniziative volte a fronteggiare la controffensiva della nuova mafia. Aveva redatto, insieme con Cesare Terranova, la relazione di minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, puntando l’indice contro Vito Ciancimino e i Salvo. Aveva capito che cos’era Cosa nostra, quali erano la sua pericolosità e i suoi punti di forza: i suoi rapporti con la politica e la pubblica amministrazione e, soprattutto, la capacità di produrre ricchezza illecitamente; la sua accumulazione è lo scopo e la ragion d’essere delle organizzazioni mafiose, i cui beni rappresentano il simbolo della loro potenza e un prezioso strumento di riciclaggio. Perciò aveva intrapreso iniziative davvero efficaci. Come parlamentare, infatti, La Torre aveva presentato, unitamente a Rognoni, un progetto di legge rivoluzionario, che prevedeva la possibilità di sequestrare e confiscare i beni, anche solo sulla base di un giudizio di pericolosità sociale, senza prima una sentenza penale di condanna, l’introduzione del reato di associazione di tipo mafioso, nuove disposizioni in materia di appalti dirette a vulnerare il segreto bancario che per anni aveva agevolato il riciclaggio.

Non bastarono tuttavia il suo assassinio, la strage della circonvallazione del 16 giugno 1982 nel corso della quale morirono il boss catanese Alfio Ferlito e tre carabinieri, e la scia di sangue che ne seguì. Fu necessaria l’uccisione del generale Dalla Chiesa per far approvare il 13 settembre 1982 la sua proposta di legge, la prima seria normativa antimafia dal dopoguerra, una vera rivoluzione copernicana. A riprova di ciò va ricordato che i vertici di Cosa nostra con le stragi del biennio 1992-94 ricattarono lo Stato per ottenere, fra l’altro, l’eliminazione di quegli strumenti: i mafiosi continuano a dedicarsi a occultare i loro beni e affermano che non esiste “cosa peggiore della confisca dei beni”, con minacce, pressioni e danneggiamenti ai danni di coloro che hanno in affidamento beni sequestrati.

Dopo quasi un quarantennio i sequestri e le confische di prevenzione sono divenute un presidio irrinunciabile, soprattutto oggi in una pandemia che ha generato un collasso dell’economia, terreno ideale per consentire l’ampliamento dell’infiltrazione mafiosa, l’appropriazione delle erogazioni pubbliche, il rischio dell’ingerenza nella gestione della salute. Tuttavia, in molti ne invocano l’incostituzionalità e si registra una deriva ipergarantista in seno alla magistratura, sempre più proiettata ad ancorare le manifestazioni di pericolosità sociale alle sentenze di condanna e alle contestazioni mosse nei procedimenti penali.

 

Copasir, la presidenza subito all’opposizione

In un recente commento all’ordinanza n. 17/2019 della Corte costituzionale, pubblicato su Federalismi, il professor Manzella osserva sconsolato che, ancora oggi, non si è raggiunto un equilibrio tra governo e Parlamento/opposizione per mancanza dei “dispositivi costituzionali”, suggeriti oltre settanta anni fa dall’Assemblea Costituente. La questione è molto delicata perché “il binomio governo-opposizione è uno dei requisiti assolutamente fondamentali di ogni democrazia” (S. Giner), così da evitare l’indecoroso spettacolo della “tirannide della maggioranza” denunciato da Tocqueville ne La democrazia in America. Il fenomeno, purtroppo, non può essere relegato in un ripostiglio quale venerabile fantasma, come consigliava J.P. Quincy nel 1885, perché, a tutt’oggi, il pericolo d’involuzione della democrazia è presente, come dimostrano le riforme costituzionali respinte con referendum nel 2006 e nel 2016: quella del 2006 riduceva le minoranze a una specie di riserva indiana, quella del 2016 ne condizionava l’azione ai regolamenti parlamentari votati dalla maggioranza… In mancanza di “dispositivi costituzionali”, peraltro, non si può conferire valore di legittima disciplina dei rapporti con l’opposizione a un’ambigua prassi parlamentare, come ritiene l’ord. N. 17/2019: un abuso perpetrato da maggioranze diverse (ad esempio quello dei maxiemendamenti governativi che cancellano ogni dialogo con l’opposizione nella primaria materia del bilancio pubblico) non si purga della sostanziale antigiuridicità per il solo fatto di essere ripetuto nel tempo e dalle diverse forze che si alternano al governo come se ciò evidenziasse un’opinio iuris ac necessitatis del tutto impropria.

Un contegno reiterato che elude l’iter e le intrinseche garanzie procedimentali presidiate dall’art. 72 Cost. può, a tutto concedere, qualificarsi come consuetudine contra legem e, come tale, non riconoscibile dall’ordinamento. La funzione dell’opposizione è talmente necessaria nel regime democratico che nel Regno Unito l’opposizione è collegata alla sovrana ed è titolare di una serie di funzioni di controllo e garanzia che la configurano come vero e proprio governo-ombra. Le parole “opposizione di sua Maestà”, pronunciate la prima volta con finalità ironica da Hobhouse, oggi definiscono un basilare istituto del Parlamento inglese e della non scritta Costituzione di quel Paese. Volendo tradurre quella formula nel nostro ordinamento repubblicano si può considerare il riferimento alla sovrana come punto di sintesi dell’intera struttura costituzionale che, perciò, va intesa come “opposizione costituzionale”. A quest’ultima, infatti, spetta l’indispensabile ruolo di garanzia proprio di un regime democratico. Un apparato di controlli e contrappesi (check and balance) è irrinunciabile perché le garanzie di sistema sono ugualmente necessarie e funzionali, sia che la democrazia sia di visione maggioritaria sia partecipativa (R. Dworkin), come dimostra, d’altro canto, l’ordinamento statunitense. È in un contesto di garanzie costituzionali indispensabili ad impedire l’asfissia degli istituti democratici che si pone il problema, finora non risolto, della presidenza del Copasir, incarico tuttora ricoperto da un parlamentare della Lega, oggi componente della maggioranza governativa. L’art. 30 c. 3 della legge 124/07 prevede espressamente che “il presidente del Copasir è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione”. Il precetto, seppure introdotto con legge ordinaria, si colloca idealmente tra i “dispositivi costituzionali” utili a equilibrare i rapporti governo-opposizione e, per questo, esige un’immediata e coerente applicazione, quale che sia il colore e la posizione dei partiti dell’opposizione.

La chiarezza della disposizione esclude ogni ipotesi interpretativa perché il mantenimento della presidenza Copasir in capo ad un componente della maggioranza di governo aprirebbe le porte a qualcosa di peggio delle pratiche elusive e alle metodiche parlamentari spregiudicate: significherebbe in modo assolutamente evidente che le norme vanno applicate solo quando fanno comodo al governo. Per impedire una disastrosa deriva della tirannide della maggioranza i presidenti delle Camere, cui compete la custodia della Costituzione, dovranno ristabilire l’ordine istituzionale con sollecita determinazione. Sono rimasti fin troppo in surplace.

 

Ecco il motivo per cui la zia mi fa gli auguri il giorno di Pasquetta

Il giorno di Pasquetta mia zia mi telefona sempre per cantarmi buon compleanno. Non sono nato a Pasquetta, ma è l’anniversario del giorno in cui la feci venire sei volte in un’ora, leccandole il clitoride come un gattino che lappa il latte da una ciotola. Lappare è il modo migliore per leccare il clitoride, però nessuna donna, che io sappia, si è mai interrogata sul modo singolare con cui un maestro esegue l’atto. Molti uomini, come molti animali, per stimolare il clitoride sfruttano la suzione, che aspira il clitoride verso l’alto; mentre i cani immergono vigorosamente la lingua nella vulva tenendola piegata come un mestolo. I gatti, invece, non usano né l’una né l’altra strategia. Come fanno? Si pose questa domanda anche Agnetha Bris, biofisica all’Accademia Reale delle scienze (Stoccolma), guardando il suo uomo, Alexander Lindqvist, mentre le lappava il clitoride: “Ho capito che dietro questa deliziosa, semplicissima azione si nascondeva un interessante problema di biomeccanica.” Così, Agnetha coinvolse altri ricercatori dell’Accademia in un progetto di ricerca sui meccanismi di lappata del clitoride, i cui risultati, alquanto sorprendenti, hanno meritato la pubblicazione sulla rivista Il mughetto. Le riprese ad alta velocità di diverse persone che lappavano il clitoride di Agnetha hanno consentito ai ricercatori di osservare chiaramente che solo la parte superiore della lingua tocca il clitoride, e che le sottili protuberanze sulla superficie della lingua, finora ritenute essenziali per la lappata, in realtà non intervengono nel fenomeno. I maestri della lappata del clitoride, a differenza dei cani, non immergono la lingua nella vulva: il meccanismo che sfruttano è molto più sofisticato ed elegante. La punta della lingua sfiora appena la superficie della vulva, e viene subito riportata in bocca. In tal modo si forma una colonna di aria che vibra fra la lingua in movimento e la superficie del clitoride. Il maschio quindi avvicina il muso e lecca il clito senza bagnarsi il mento (video). Sempre grazie alle riprese ad alta velocità, i ricercatori hanno potuto determinare la frequenza di lappata, grazie alla quale, conoscendo dimensione e velocità della lingua, hanno potuto sviluppare un modello matematico che coinvolge il numero di Froude, un parametro adimensionale che caratterizza il rapporto fra gravità e inerzia. Per tutti i maschi, di qualsiasi taglia, questo numero è quasi esattamente pari a uno, indicando un perfetto bilanciamento delle forze in gioco. La colonna d’aria vibrante è creata da un delicato equilibrio fra la gravità, che spinge l’aria a tornare sulla vulva, e l’inerzia, ossia la sua tendenza a permanere nello stato di moto. Un maestro sa istintivamente quanto rapidamente deve lappare per bilanciare le due forze, proprio quando l’aria è vicina al suo muso. Se aspettasse una frazione di secondo in più, la gravità sovrasterebbe l’inerzia, con la conseguente rottura della colonna e la ricaduta dell’aria sulla vulva, cosicché la lingua non creerebbe l’effetto vibrante. In media, un maestro compie quattro lappate al secondo, ciascuna delle quali fa vibrare 0,1 millilitri di aria. I maschi più anziani lappano più lentamente, ma sempre in modo da mantenere il magico equilibrio fra gravità e inerzia.

Durante le pulizie di Pasqua ho trovato in uno scatolone un vecchio cubo di Rubik, che mi faceva ammattire. Oggi non lo considero solo un gioco, ma uno strumento reazionario di indottrinamento al pensiero razzista. Pensateci un attimo: vinci se riporti ogni faccia del cubo a un colore unico. In termini razzisti: i gialli coi gialli, i bianchi coi bianchi, i negri coi negri! Mio fratello riesce a risolvere il cubo di Rubik in 8 secondi. Fascista.

 

La Commissione parlamentare guarda alla pista finanziaria

Il fascicolo di Siena di cui scriviamo in queste pagine, per il momento, non ha indagati né ipotesi di reato. Le dichiarazioni rese agli inquirenti sono tutte da verificare. Ma, secondo indiscrezioni, la pista finanziaria interessa molto la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi, nata sulla spinta del deputato Walter Rizzetto e appena insediatasi. Proprio da qui partiranno gli accertamenti parlamentari, chiamati a fare luce sugli aspetti più oscuri della vicenda, e su cui la magistratura fino ad oggi non è riuscita a dare risposte soddisfacenti. La Commissione ha facoltà di convocare testimoni. E potrebbe, per esempio, effettuare un confronto richiesto dagli avvocati della famiglia Rossi, e mai concesso dai pm che avevano in mano il fascicolo: quello tra due dirigenti Tim, Angelo Diana e Laura Benignetti, che sul mistero del numero 4099009 – di cui leggerete nel pezzo qui a fianco – hanno fornito per iscritto due risposte diverse.

Il primo, in un rapporto consegnato alla polizia giudiziaria il 30 marzo del 2017, afferma che chi aveva in mano il telefono di David Rossi rispose ad almeno una chiamata in entrata, della durata di tre secondi. Una versione successivamente smentita il 12 aprile 2017 dalla collega Benignetti: nessuno – disse lei – rispose al telefono, e quelle che sembravano chiamate in uscita dal cellulare di Rossi non erano che la deviazione di due chiamate in entrata di persone che avevano esaurito il credito. Una versione che però da sempre desta molte perplessità. Perché, incrociando i dati con i tabulati, gli inquirenti si sono convinti che quelle due telefonate fossero state fatte da Carolina Orlandi, la figlia di David, e da un giornalista di un’agenzia di stampa. Entrambi quindi, la figlia Carolina e il giornalista, nella mezz’ora successiva alla morte di Rossi lo avrebbero chiamato avendo esaurito il credito: peccato che nessuno dei due lo ricordi.

Sinner, Draghi i loro cantori portano sfiga

Il povero Jannik Sinner doveva aver saputo che in Italia era diventato “Jannik l’eroe” (Il Foglio) mentre balbettava tennis sotto le legnate del lungagnone polacco. E quando sul 6 a 5 con il servizio a disposizione invece di chiudere il primo set (“l’eroe spara la palla lontano dall’avversario vicino alla riga, e poi, con un fare composto, di rispetto al prossimo e al fato, chiude il pugno”) di botto si (e ci) ammosciava restando a zero. Infatti ci chiedevamo attoniti dove diavolo fosse finito l‘“eroe” che “fende aria con la racchetta tra le mani e se ha bisogno di avanzare avanza, di fermarsi si ferma”, eccetera. Intendiamoci, assaporato la domenica mattina il ritratto di Alessandro Bonan, ci era apparso perfettamente consono all’attesa dell’inevitabile massacro del gutturale carneade, Hubert Hurkacz. E davanti alla brace pasquale pure noi avevamo discettato con la sicumera da intenditori (che non siamo) sulle “ultime fasi dell’eroe quelle in cui si prepara a raccogliere i tulipani lanciati dagli spalti” (solo che non avremmo saputo scriverlo altrettanto bene). Crogiolandoci poi nel pomeriggio Sky con la sapienza di Paolo Bertolucci intessuta di fausti auspici (figuriamoci se l’uomo dal braccio d’oro non annusava la vittoria).

Perché non potevamo lontanamente immaginare che “una figura di italiano – italiano sì, regione Alto Adige – che fa le cose giuste nel momento in cui servono” (quanto consonante con quell’altro Italiano, il Migliore, però romano di Roma) se ne tornasse a casa con le pive di un perentorio 7-6, 6-4. Il fatto è che noi giornalisti dovremmo morderci la lingua prima di preconizzare trionfi ed eroi, sportivi e non. Anche perché non porta bene. Non dimentichiamo la copertina di Sette dedicata al “nuovo re di Milano”, Andrea Stramaccioni l’allenatore dell’Inter reduce da dieci vittorie consecutive, ma poi purtroppo esonerato a fine stagione. E cosa dire di Rudi Garcia proclamato re di Roma, e della Roma, dopo dieci vittorie consecutive (aridaje), autore di un bestseller dal titolo “La chiesa al centro del villaggio” (il suo aureo motto dopo la vittoria nel derby). Purtroppo da quel culmine destinato a rapido e inglorioso capitombolo. Jannik Sinner è fortissimo ma forse andrebbe lasciato in pace a migliorarsi senza magnificarlo oltre misura (oltretutto al torneo di Miami non c’era gente come Djokovic, Nadal, Federer). Ragion per cui quando leggo di lodi sperticate per Mario Draghi tremo per lui perché nella vita c’è sempre un Hurkacz che non t’aspetti.

Aprile decisivo per i giallorosa

Ora i due rifondatori devono correre. Hanno poco, pochissimo tempo Giuseppe Conte ed Enrico Letta, perché le Comunali sono a ottobre, molto più vicino di quanto si pensi, e il tavolo sugli accordi è ancora abbastanza per aria. “Eppure dobbiamo chiudere entro aprile, massimo ai primi di maggio, o rischiamo di lavorare malissimo” riflette un big del M5S, che ricorda: “I dem un minimo di macchina ce l’hanno ancora, ma noi…”. Loro, i 5 Stelle, no, è per questo che Conte vorrebbe una struttura con referenti regionali e dipartimenti.

Nell’attesa , Letta ha già incontrato sia lui sia Luigi Di Maio, e al di là delle note ufficiali hanno parlato quasi solo di Amministrative. Il segretario dem sa che per reggere al Nazareno deve portare a casa un po’ di città, altrimenti le correnti che prova a ridimensionare gliela faranno pagare. “Su Roma mi gioco l’osso del collo” ha ammesso l’ex premier. Preoccupato dal rischio di non arrivare al ballottaggio nella Capitale, dove Virginia Raggi correrà per il bis, e nessuno, neppure Conte, può farci nulla. Ad oggi l’unico dem disposto a candidarsi resta il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, tonico nei sondaggi, più di quanto pensassero ai piani alti del Pd. Ma il pressing di Letta e dei big locali sul governatore del Lazio Nicola Zingaretti resta forte. Lui continua a dire no. “Ma la verità è che Nicola ci sta ancora pensando” soffia una fonte qualificata. In ogni caso, dem e 5Stelle si ritroveranno nel secondo turno. Come a Trieste, la città del ministro all’Agricoltura Stefano Patuanelli, dove al primo turno il M5S presenterà Alessandra Richetti, presidente della Sesta circoscrizione comunale. Ma al ballottaggio i giallorosa faranno asse, probabilmente sul vicepresidente del Consiglio regionale Francesco Russo, lettiano doc. Lo schema del secondo turno però non può reggere ovunque. A Napoli urge un nome comune, e dal M5S dicono che il presidente della Camera Roberto Fico sia ancora un’ipotesi concreta, anche se Vincenzo De Luca preferirebbe l’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi.

Poi c’è Torino, dove gli sherpa giallorosa, Francesco Boccia per i dem e Laura Castelli per i 5 Stelle, puntano a un nome terzo, il rettore del Politecnico Guido Saracco. Ma le resistenze nei rispettivi fronti restano fortissime. L’elenco prosegue con Milano, dove il passaggio del sindaco Beppe Sala ai Verdi potrebbe favorire una coalizione larga, e con Bologna, dove il M5S è ancora diviso. Tanti nodi, ma le lancette corrono. Lo sa anche Conte, che in queste ore lo ha detto ai suoi: “Bisogna accelerare”. Presto vedrà i parlamentari sul suo piano di rifondazione del Movimento. A breve rivedrà anche Letta. E parleranno di accordi, eccome.

Il virus sgonfia Salvini. Meno 10% in un anno

Matteo Salvini si agita, bombarda il governo da fuori, prova a respingere l’assalto alla leadership di Giorgia Meloni e stringe alleanze con i primi ministri sovranisti di tutta Europa. Ma la Lega, dopo la crisi del Papeete dell’agosto 2019, non si è mai più ripresa. Un crollo costante, accentuato nell’ultimo anno, da quando è iniziata la pandemia: il Carroccio da inizio 2020 ha perso ben dieci punti percentuali nelle intenzioni di voto. Nel gennaio 2020, infatti, la Lega veleggiava intorno al 32% mentre secondo l’ultima supermedia settimanale di YouTrend il Carroccio è sceso sotto la soglia psicologica del 23%, pur rimanendo il primo partito: oggi è al 22,9%, il minimo storico negli ultimi tre anni. Era l’1 maggio 2018, a due mesi dalle elezioni che avevano consacrato il M5S ma anche il partito di Salvini (17,4%), ed erano in corso le trattative per il governo gialloverde: la Lega era arrivata al 23,7%. Poi, un anno dopo, raggiunse il 34% alle elezioni europee e il picco nell’agosto 2019, poco prima della caduta del Conte-1, con il 36,8%.

Da quel momento in poi è stata una caduta libera proseguita nell’anno della pandemia che non si è arrestata nemmeno con l’ingresso della Lega nel governo di Mario Draghi. Secondo la supermedia YouTrend, nelle ultime due settimane, quelle del decreto in cui sono state mantenute le zone arancioni e rosse anche per tutto aprile, il Carroccio ha perso lo 0,4%, il partito che insieme a Forza Italia (altra forza politica aperturista) ha subìto la maggiore flessione (-0,6%). Nemmeno il sostegno al governo Draghi ha fatto bene al partito di Salvini: da metà febbraio la Lega ha lasciato per strada lo 0,6%. Un dato confermato da Open Polis che ha analizzato i sondaggi dell’ultimo anno facendo una media aritmetica tra le rilevazioni degli istituti Emg, Ixe, Tecnè, Swg, Euromedia e Ipsos soffermandosi sui rapporti di forza tra le coalizioni: se nel centrosinistra Pd e M5S sono rimasti più o meno stabili, il cambio di scenario riguarda il centrodestra, dove si è aperta la guerra per la leadership tra Salvini e Giorgia Meloni. Se a inizio 2020 tra Lega e Fratelli d’Italia c’erano ben 22 punti di scarto (32 a 10%), oggi il distacco si è ridotto a un terzo: il partito di Meloni ha fatto un balzo di quasi sette punti, arrivando al 16,6% a meno 7 punti dalla Lega. E tutto a discapito del Carroccio, visto che Forza Italia dal gennaio 2020 è cresciuta di 1,5 punti passando dal 6,8 all’8,3% di fine marzo.

Sarà proprio per la contesa con Meloni che Salvini ha deciso a febbraio di imprimere una svolta al Carroccio sostenendo Draghi, anche per non deludere quei ceti produttivi del nord che non avrebbero sopportato altri due anni di opposizione. Eppure, negli ultimi giorni, la frustrazione per non essere riuscito a dettare l’agenda del governo e il fiato sul collo della destra di Meloni hanno fatto tornare Salvini su posizioni sovraniste e “di lotta”: le richieste sul condono delle cartelle esattoriali e sulle riaperture e la visita a Budapest con i premier sovranisti Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki. A soffrire nei sondaggi però è anche il premier Mario Draghi e il suo governo: la luna di miele delle prime settimane sta finendo. Secondo l’ultimo sondaggio di Tecné relativo all’1 aprile, infatti, nelle ultime due settimane il gradimento di Draghi è caduto dal 60,6 al 57,8% (-2,8%) mentre, per quanto riguarda il governo, il crollo è ancora più accentuato: se nel primo mese l’indice di gradimento era rimasto stabile intorno al 58%, dal 19 marzo a oggi è sceso di oltre 5 punti, passando dal 57,4 al 52,1%.

“La sanzione agli operai è un autogol. Ora intervenga il ministro Orlando”

“La sanzione contro gli operai per il post sulla nostra fiction sarà un autogol per Arcelor Mittal”. Quando Simona Izzo ha saputo che due lavoratori sono stati puniti dagli attuali proprietari dell’Ilva per un post social in cui associavano le vicende narrate in Svegliati amore mio alla realtà di Taranto, ha pensato fosse una fake news. Poi ha controllato e ha scoperto che era tutto vero: una sospensione perché quel contenuto diffuso su Facebook avrebbe leso l’immagine del colosso dell’acciaio. Izzo, insieme a suo marito Ricky Tognazzi, è la regista dello sceneggiato tv in onda su Canale 5 (mercoledì sera l’ultima puntata). La protagonista, interpretata da Sabrina Ferilli, è la madre di una bimba che si ammala di leucemia a causa del polo siderurgico nel quale lavora suo padre, interpretato da Ettore Bassi.

Simona Izzo, avreste mai immaginato che la vostra fiction sarebbe diventata il pretesto per un richiamo disciplinare a due addetti dell’acciaieria di Taranto?

Sapevamo che avrebbe scosso le coscienze, non che diventasse occasione per sospendere due persone per un post in un gruppo privato, che evidentemente sono state controllate dall’azienda. Su questo ho letto poche reazioni da parte della politica e vorrei fare appello affinché il ministro del Lavoro Andrea Orlando presti attenzione a questo episodio.

Arcelor Mittal, tra l’altro, non era citata nel post…

Sarà un autogol perché, come si dice, excusatio non petita, accusatio manifesta. Sembra una censura a ciò che la fiction ha suscitato in queste persone. Certo, non è quello che successe a Ultimo tango a Parigi, mandato al rogo per le accuse sulle scene esplicite al regista Bernardo Bertolucci, ma ora quei lavoratori dovranno presentare le loro giustificazioni per quello che hanno condiviso. Che dovranno dire? Siamo ai reati di opinione?

La fiction non nomina esplicitamente Taranto ed è ambientata nei primi anni 2000, quando l’Ilva non era in mano agli attuali proprietari. Come mai?

La scelta di collocarla in quel periodo serve a raccontare il percorso di una madre che non ha ancora contezza del rapporto tra inquinamento della fabbrica e malattie. Con gli autori, Fabrizia Bettelli, Roberta Colombo e Matteo Bondioli, abbiamo concordato di non puntare il dito solo su Taranto: in Italia ci sono 42 acciaierie. È ovvio che quanto successo nella città pugliese ci abbia ispirati. In questi giorni ci hanno scritto anche da Piombino.

Ieri c’è stato un incidente proprio all’ex Ilva. Il video diffuso mostra un’esplosione e ricorda una delle prime scene della fiction.

In quella scena l’acciaieria viene raccontata come un luogo che costituisce anche un pericolo fisico per chi ci lavora, oltre che un problema ambientale. I nostri attori avevano tute ignifughe che sembravano quelle di astronauti. Un’immagine insolita per una tv generalista. Noi ringraziamo Mediaset per aver puntato su questa storia. Nella puntata di domani la denuncia sarà ancora più forte.

Così come le ricorrenti immagini del vento rosso finora non avevano trovato spazio in una serie trasmessa in prime time

Ci sono molti documentari, programmi televisivi specifici che le hanno mostrate, ma mai in orari così all’attenzione dello spettatore. Avevamo cercato altri film per ispirarci, abbiamo trovato solo Acciaio.

A parte quelle evidenti, quali reazioni avete registrato dalla comunità tarantina?

Mi ha scritto una mamma con lo stesso cognome della nostra protagonista e ci ha detto di aver perso una bambina di cinque anni. Ci hanno chiesto di parlare dell’Admo, l’associazione donatori di midollo, una pratica che è importante diffondere in quanto solo un midollo su centomila è uguale all’altro. Un’altra frase che mi ha colpito è di una madre: per i nostri figli, ha detto, il sangue è come il latte. Lei ha allattato al seno solo il primo. Poi, temendo che potesse essere nocivo, ha smesso. Una cosa terribile da parte di una mamma.

Altra tragedia sfiorata all’ex Ilva: “Preoccupati solo per la fiction”

“Porre fine a questo scempio, a questo continuo smacco all’Italia”. Sono le parole con le quali il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha commentato l’ultimo incidente nell’ex Ilva di Taranto dove ieri mattina una deflagrazione e poi un incendio hanno rischiato di trasformarsi in una nuova tragedia nella fabbrica gestita da Arcelor Mittal. L’incidente si è verificato intorno alle 7.30 nel reparto “Colata Continua 2” dell’acciaieria. Fortunatamente nessuno degli operai in turno è rimasto ferito. Per i sindacati, però, è l’ennesimo segnale che la fabbrica non è più un posto sicuro per i lavoratori. “La condizione di sicurezza impiantistica è fortemente compromessa – ha dichiarato Francesco Rizzo dell’Usb – ed è nettamente peggiorata con la gestione di Lucia Morselli”. Secondo Rizzo “solo per un miracolo, l’ennesimo, non vi sono state vittime”. Il sindacalista ha esteso la responsabilità del rischio corso dai lavoratori non solo ai gestori dello stabilimento siderurgico: “Non se ne può più, il governo deve intervenire immediatamente, allontanando chi con una gestione sciagurata e superficiale, si preoccupa di punire chi condivide la messa in onda della fiction con Sabrina Ferilli Svegliati amore mio, invece di garantire la manutenzione degli impianti oramai al collasso, mettendo così in grave rischio salute e sicurezza di operatori e cittadini”. Il riferimento è ai provvedimenti disciplinari presi dalla multinazionale per l’acciaio contro i lavoratori che avevano condiviso sui social l’invito a guardare la fiction scritta e diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo che nei giorni scorsi ha scatenato le legittime polemiche contro i nuovi padroni dell’acciaio.

Sull’incidente di ieri è intervenuto anche il primo cittadino di Taranto, Melucci che, ironizzando sull’azienda che punisce chi esprime sui social la propria indignazione per il disastro ambientale e sanitario causato negli anni scorsi dalla gestione Riva, ha ricordato come lo Stato italiano riconosca e rispetti la rilevanza economica e sociale dell’industria dell’acciaio, così come di ogni altra forma di sviluppo economico, ma non può consentire “qualunque cosa”. Il sindaco Melucci, ricordando la sentenza del Tar di Lecce che ha imposto lo spegnimento dei reparti dell’area a caldo e sulla quale si esprimerà il Consiglio di Stato il prossimo 13 maggio, ha ribadito che “non è banale ormai richiedere la sospensione cautelativa dello stabilimento siderurgico di Taranto” per “la perdurante violenza verso la comunità e i suoi lavoratori”. Infine, rivolgendosi alle massime istituzioni del Paese, ha chiesto “di mettere presto fine a questo scempio, a questo continuo smacco all’Italia”. L’azienda, in una nota, ha replicato innanzitutto chiarendo che non c’è stata “nessuna interruzione del ciclo produttivo” e poi che “gli addetti e il sistema hanno gestito in sicurezza, secondo consolidate procedure, un evento di reazione in paniera durante la fase di colaggio nell’Acciaieria 2”.