Il “lei” si può tramutare in un ostacolo, in un diaframma offensivo se lo sguardo è verso l’alto, o l’Altissimo: “Se a papa Francesco do del tu? Quando prego mi rivolgo a nostro Signore in maniera confidenziale, come è giusto e naturale, così mi sembra doveroso mantenere lo stesso approccio con chi gli sta un gradino sotto”.
Quindi anche noi siamo “costretti” al tu con don Marco Pozza (“bravo, hai capito”), 42 anni, cappellano del carcere “Due Palazzi” di Padova, protagonista sul Nove di una serie di interviste (in onda questa sera) per parlare di Vizi e virtù con alcuni personaggi come Carlo Verdone, Mara Venier, J-Ax e soprattutto Papa Francesco.
Anni fa è diventato celebre con il nomignolo di “don spritz” perché con i suoi modi confidenziali, gli abiti comuni (“vesto sempre così”), l’aspetto fisico piacevole, quasi piacione, andava a reclutare le anime proprio all’ora dell’aperitivo, “ma la vera svolta è arrivata quando ho varcato la soglia del carcere di Padova”. E lì ha incrociato il suo percorso con uno dei più feroci serial killer della nostra storia.
Donato Bilancia.
È la prima persona che ho conosciuto; (cambia tono) vengo da un contesto molto giustizialista e per deformazione professionale esistevano solo il bianco e il nero: i carcerati per me erano “merde” che dovevano morire e la gente che sbagliava doveva crepare.
Poi.
Il Signore, per rendermi più umile, mi ha aperto le porte del carcere e ho cominciato a scoprire una città sommersa composta da 900 detenuti; lì mi è sorto un cruccio: come inizio?
Risposta?
È un po’ come il papa: la prima enciclica è quella programmatica, il primo gesto detta il cammino, così ho pensato al parroco di quando ero bambino: al suo arrivo in paese iniziò le visite dalla persona più anziana.
E in carcere era Bilancia.
Lì i parametri sono differenti: dietro le sbarre “l’anzianità” è data dalla condanna più pesante. Il “Caino” era proprio lui, con 17 ergastoli e circa 100 anni di reclusione prevista; (cambia tono) appena ho sentito il suo nome mi sono ricordato di me diciottenne che prendevo il treno ed ero spaventato da quel serial killer.
L’incontro.
Adesso pago il peso delle parole che sto per pronunciare, ma in dieci anni di rapporto penso sia stato il tentativo di resurrezione più vero dentro il nostro carcere; Donato Bilancia ha in apparenza sempre sostenuto di non credere, ma negli ultimi cinque anni, non so come, forse dopo la morte della volontaria che aveva sempre creduto in lui, si era aperta una fessura.
E ha celebrato il funerale.
Tempo prima gli avevo annunciato la mia intenzione: “Non ti permetterò di realizzare il tuo sogno di andare via come una bestia, ti tratterò da signore, parlerò di Caino e Abele e attorno alla tua bara piazzerò 17 sedie vuote, una per ognuna delle tue vittime”.
E lui?
“Se quel giorno farai questo sappi che mi farai morire”.
Così è andata.
Non avevo calcolato la sepoltura: dalla sua tomba si vede la cella dove è stato rinchiuso; Vizi e virtù nasce un po’ da questo mio rapporto con lui e l’ho dedicato a lui e alle sue vittime: in ogni uomo c’è una lotta tra l’Arcangelo e la Bestia.
Avrebbe celebrato il funerale di Welby?
Se me lo avessi chiesto anni fa, avrei risposto di no: dopo quattordici anni di seminario ero convinto delle mie certezze, credevo di saper riconoscere il giusto dallo sbagliato, mentre con il carcere ho capito che dietro ogni scelta c’è una storia di sofferenza e una di benedizione, e una preghiera non va mai negata, perché non si può mettere un freno alla grazia di Dio; penso a Dante e a quella lacrimuccia che in punto di morte può riscattare una vita intera.
Quindi…
Certe storie si debbono benedire e chi ha condiviso un pezzo di quella storia ha il dovere di prendersi la responsabilità di fronte a Dio; io di fronte a Dio ho assunto la responsabilità di un funerale a Donato Bilancia.
Prima ti sei definito giustizialista.
Sono nato dividendo tutto in bianco e nero, potevo diventare un radiologo, mentre il Signore mi ha detto: “Tu vai meglio come giardiniere”; poi sbagliando ho imparato la bellezza della giustizia cristiana che con fatica coniuga giustizia e misericordia…
C’è un “ma”?
La giustizia senza misericordia diventa la mamma della tortura; la misericordia senza giustizia è la mamma del lassismo: armonizzare tutto questo è la battaglia che combatto e che nove volte su dieci perdo.
Hai letto l’intervista sul Corriere di Aldo Cazzullo al cardinal Ruini?
Sul celibato? Ho pensato che se si è innamorato anche Ruini a 90 anni, vuol dire che fino al punto di morte il Signore ci dà la grazia di restare uomini, di non vergognarci della nostra umanità; ricordo con un pizzico di delusione e passione anche l’ultima intervista al cardinal Martini, uscita postuma: ero affascinato dal suo cervello e pure lì mi sono domandato perché si affrontano certi temi solo in punto di morte, quando non si ha più il tempo di concretizzare certe idee.
Con Martini cosa ti colpì?
Che la Chiesa era indietro di due o trecento anni, e detto da un cardinale che ha fondato la Cattedra dei non credenti, allora c’era da crederci; (sorride) di questo mi sono lamentato con il Signore e lui mi ha “punito” perché ha mandato un papa che sta portando avanti quelle idee; (ripensa a Ruini) comunque mi piace quando un uomo di Chiesa non si vergogna di raccontare la sua umanità: un cristianesimo senza carne e senza umanità è incredibile, nel senso peggiore.
Ruini ha anche parlato della lotta politica dentro la Chiesa.
È un uomo che ha rappresentato il lato politico, ma la Chiesa è carisma e pure un’istituzione, temo solo quando il lato politico supera lo spirituale e allora penso alla frase dei milanesi “pasticciere, fai il tuo mestiere”. Siamo chiamati per guidare le anime non un popolo.
Difficile trovare la giusta distanza.
Per guidare le anime è anche necessario cercare che il messaggio cristiano diventi storia e carne, entri dentro quei laboratori dove si costruisce la cultura.
Ti fanno la guerra per i tuoi modi?
Sarebbe triste se non accadesse; come dice il mio amico Sinisa Mihajlovic, a me lo zucchero filato fa schifo; comunque le guerre sono altre, mentre la sana guerriglia ti costringe a mantenere le antenne alte.
Nella libreria hai proprio il libro di Sinisa.
C’è la Bibbia o l’Odissea di Kazantzakis, un po’ di tutto: già a scuola amavo i collegamenti.
Uno scrittore per te.
Erri De Luca: lui si definisce non credente, ma è il mio “teologo” di riferimento perché ha una capacità straordinaria di parlare della scrittura di Dio.
Come andavi a scuola?
Benissimo, madre natura mi ha donato un cervello che non merito; il problema grosso è stato il mio carattere, già allora uno strafottente, uno di quegli alunni che i professori detestano perché avevo sempre la mano alzata.
I tuoi genitori?
Mio padre ha perso il posto di lavoro quando ero bambino: davanti ai libri pensavo sempre al loro sudore per permettermi di stare lì; poi da prete ho capito che le mie armi erano lo studio e la preghiera, un po’ come sosteneva don Milani: se saprò utilizzare quelle benedette cento parole, allora non mi fotteranno più facilmente.
Leader?
Sempre stato, sia nel bene che nelle marachelle; ma leadership e autostima sono una fortuna, perché in carcere hai bisogno di certe risorse, quando raschi il barile per non soccombere alla fatica.
Perché hai scelto Mihajlovic per la trasmissione?
Penso spesso al suo sguardo quando è entrato al Bentegodi di Verona, fuggito dall’ospedale: il volto era di un perdente che non si sentiva sconfitto.
J-Ax.
Mi piace il suo lato dissacrante ma profondo.
Mara Venier.
Una mattatrice televisiva, ma quando parla della sua intimità ha le lacrime agli occhi.
Silvia Avallone.
È la mia sorellina non credente, la migliore scrittrice che conosco: come racconta lei le periferie, nessuno.
Carlo Verdone.
Mi incuriosiva scoprire se era l’uomo o l’attore: ha messo in scena la vita quotidiana, sa raccontare scelte diverse senza giudicarle; (ci pensa) a me del cristianesimo ha sempre pesato il lato moralistico, mentre Gesù ha solo proposto un modo diverso di essere uomini, per questo mi affascina quando incontro persone che non umiliano le passioni.
Da quale peccato sei tentato?
La disperazione perché è presente nelle carceri; ho paura della gente disperata, non di quella cattiva: se uno non ha una speranza, nulla gli impedisce di prendere una pistola e sparare.
Dai del tu al Papa.
La prima volta che l’ho conosciuto l’ho appellato Santo Padre, poi lui mi ha dato del tu e allora ho proseguito sulla stessa strada: c’è un lato professionale e uno umano.
Comunque è il Papa.
La maestra delle elementari mi ha insegnato che il “tu” non è il pronome della villaneria ma della confidenza; io non sono nessuno per intervistare il papa, il mio sogno era di conversarci, un po’ come fosse mio nonno. Ma se do del tu a Dio – me lo ha detto Gesù: “Chiamalo papà” – non credo di fare un torto al Papa, che è un gradino sotto. Ciò non toglie il rispetto.
Rispetto grande.
In questi anni ci ha insegnato la prossimità, la vicinanza, quindi a uno che si avvicina per un abbraccio non gli si può porgere la mano.
A Ratzinger avresti dato del tu?
L’ho incontrato una sola volta e gli ho dato la mano, del lei, non so nemmeno se sono riuscito ad appellarlo Santità; forse mi sono sbagliato e ho detto “Beatitudine”; (pausa) in quei dieci minuti che ho passato con lui ho scorto i suoi occhi illuminati, poi ho studiato i suoi testi, e il suo Gesù di Nazaret lo rileggo sempre con il batticuore.
Con il papa parli di pallone?
Il calcio è andato in soffitta il giorno dell’addio di Baggio.
Quanto è osteggiato Papa Francesco?
Per usare un’immagine sportiva: se il contrasto è un vento contro, chi attacca in salita più va forte e più lo percepisce.
Quindi?
Tantissimo, ma è direttamente proporzionale al suo tentativo di riportare la Chiesa a come la voleva Gesù; chi lo attacca vorrebbe che tutto fosse o bianco o nero, un po’ come ero io nella mia fase giustizialista.
Sei proprio cambiato.
Se non avessi vissuto questi anni di carcere, forse neanche io avrei capito Papa Francesco; per questo non mi arrabbio quando non lo comprendono, ma quando lo offendono.
Più don Gallo o Ruini?
Nessuno dei due, il mio grande modello, oltre al Papa, è don Fortunato Di Noto, il prete siciliano che lotta contro la pedofilia: è l’immagine vivente di una profezia inascoltata che rimane fedele all’intuizione dello Spirito Santo e, quando la sera mi può capitare di sentire l’impulso di uscire fuori da questa Chiesa, penso a loro due e spazzo via certi istinti.
Per noi e per i nostri lettori don Gallo è un punto di riferimento.
Tra la visione don Gallo e quella di Ruini sto con don Gallo, sto dalla parte della strada, ma in quella strada c’è anche don Fortunato: denunciare 25 anni fa la pedofilia e la pedopornografia, e insistere davanti all’indifferenza, è oltre il coraggio.
Il 25 aprile lo festeggi?
È anche il mio onomastico; per me è un giorno da rispettare, e penso a tutte le sofferenze, perché racconta le fatiche della mia terra per essere libera e indipendente.
Chi sei?
Un ragazzo che nella vita ha fatto una scelta precisa: piuttosto che essere normale ho deciso di essere felice. A ogni costo.
(Canta Fiorella Mannoia in “Che sia benedetta”: “Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta/ Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta/ Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta/ Tenersela stretta)”.