Vaccini, flop pasquale: solo 92mila iniezioni. E ora J&J taglia le dosi

Un rallentamento poteva anche starci. Una frenata del genere certo no. La Pasqua manda in lockdown gli hub vaccinali italiani e spedisce ai box per 24 ore la fin qui poco gioiosa macchina da guerra del generale Francesco Paolo Figliuolo. Nonostante zone rosse, chiusure, divieti, terapie intensive affollate e incertezze varie, a Pasqua in tutto il Paese non si è arrivati a 100mila dosi somministrate. Con il record negativo di Umbria e Sardegna, che si sono limitate a vaccinare rispettivamente 14 e 39 persone. La domenica pasquale ha fatto registrare solo 92.734 effettuate iniezioni in Italia. Una settimana prima, il 28 marzo, erano state in totale 159.703, quasi il doppio. In una normale giornata lavorativa di metà settimana, giovedì 1 aprile, si era arrivati a toccare quota 270.329 dosi, tre volte le dosi somministrate a Pasqua. La giornata di ieri, Pasquetta, è andata un po’ meglio, con circa 125 mila iniezioni effettuate all’aggiornamento delle ore 19, e i dati arrivati a tarda serata che hanno visto la somma avvicinarsi alle quote domenicali standard, seppur ben lontane dai lunedì “feriali”.

Alcune regioni, poi sono andate particolarmente male. A parte i casi limite di Umbria e Sardegna, guidate dai governatori filo-leghisti Donatella Tesei e Christian Solinas, ha rallentato anche la Lombardia, che ha vaccinato 7.254 persone contro le 19.920 di domenica scorsa e le oltre 40 mila di giovedì: chiuso l’hub della Fiera di Milano e quelli di Verano-Brianza e Museo della Scienza (per “manutenzione”). Non bene la Liguria, che scende a 620 dosi somministrate a Pasqua, contro le 1.140 di una settimana prima e le quasi 12 mila di giovedì. A mantenersi sui suoi standard è il Lazio, che ha fatto poco meno delle 18 mila inoculazioni del 28 marzo, anche se ben al di sotto delle 27 mila di giovedì: anche a Roma, infatti, ci sono stati problemi, come all’hub di Tor Vergata, che ha dovuto recuperare ieri le iniezioni mancate a 40 persone prenotate.

“È vero, la domenica di Pasqua non è andata benissimo, ma siamo soddisfatti dei dati settimanali, visto che sono cresciute del 20% le somministrazioni agli over 80”, replicano dalla struttura commissariale di Palazzo Chigi. Fatto sta che i giorni passano, l’estate si avvicina e il contatore pubblicato sul sito dell’agenzia governativa Agenas fa ancora registrare un malinconico 3.475.919 di vaccinati alla voce “seconda dose”, appena il 5,75% della popolazione totale.

L’obiettivo fissato dal piano vaccinale di Figliuolo è l’80% (con una media di 500 mila dosi iniettate al giorno) per la fine dell’estate. Traguardo che rischia di allontanarsi. Determinante sarà l’arrivo del vaccino di Johnson& Johnson, in dose unica e facilmente conservabile. Ma anche qui si rischiano ritardi. Il secondo trimestre prevede la consegna di circa 8 milioni di dosi, ma ad aprile intanto saranno solo 500 mila. E dalla struttura commissariale chiedono di pazientare: “Questo sarà un mese di transizione – spiegano fonti vicine al generale Figliuolo – ma già a maggio ci sarà il pieno di dosi. Purtroppo i fornitori tendono a concentrare le consegne nella seconda parte dei trimestri”.

A mostrare segni di insofferenza è però Alessio D’Amato, assessore alla sanità del Lazio, regione che rappresenta esattamente il 10% del Paese. “Abbiamo messo su una macchina da 60 mila dosi al giorno”, dice. “Dare 50 mila dosi di Johnson&Johnson a 20 mila farmacisti significa vaccinare per tre giorni. Non è sufficiente. Figliuolo aveva comunicato un piano da 500 mila dosi al giorno, noi rispondiamo presente, ma anche 8 milioni non bastano, ne servono il doppio”. D’Amato è già pronto a procrastinare ancora il “punto rottura”, la data in cui la sua Regione raggiungerebbe l’immunità di gregge: “Noi puntiamo a quota 4 milioni: dal 30 giugno ci siamo spostati al 15 agosto. Se andiamo avanti così, dovremo ritardare ancora, diciamo al 30 settembre. Ma sia chiaro: non per colpa nostra”.

Il terzo tragico Fantozzi

È vero che il nostro è uno sporco mestiere e che le notizie si danno tutte. Però Repubblica poteva risparmiarci, almeno nel giorno di Pasqua, lo straziante grido di dolore di Antonella Camerana, “villeggiante a Portofino” e ivi “prigioniera in casa”, dopo una rocambolesca “fuga dalla tristezza” di Milano. Immaginare quel viaggio di stenti dalle favelas di via Montenapoleone alle bidonville di Portofino, dove la povera senzatetto “ha raggiunto il borgo ben prima dei divieti” con mezzi di fortuna, forse su un carro bestiame o nel cassone di un camion, ci ha funestato la letizia tipica del dì di festa. Neanche un’anima pia che l’accogliesse al suo arrivo in piazzetta, poi. Per fortuna, giunta nel nuovo lazzaretto, la sventurata ha trovato un po’ di conforto sulle pagine di Rep che, quando si tratta di soccorrere i bisognosi, non si tira mai indietro. Il cronista Massimo Minnella s’è preso cura di lei, cercando di alleviarne la solitudine: “Si è sentita ben accolta quando è arrivata?”, le domanda premuroso. E lei: “E chi mai potrebbe accogliermi? Qui non si vede nessuno, c’è il deserto”. Ma dove sono la Caritas, Sant’Egidio, i servizi sociali? E il reddito di cittadinanza, d’emergenza, d’urgenza? Niente. Non resta che rovistare nei cassonetti a caccia di un tozzo di pane raffermo. Dalla baracca di latta, la sventurata in lacrime nota “una calma innaturale”. “Una piazzetta spettrale, come non era mai accaduto prima”, rincara il cronista. Tant’è che alla fine è lei a rincuorare lui: “Ma è pur sempre Portofino, c’è il mare e poi c’è la natura”. “Ma non è certo come le altre volte”, osserva lui. Lei torna a incupirsi: “Esattamente così. Mi piace molto di più la Portofino normale, amo la gente, i bar aperti… Questo vuoto è molto deprimente. Mi alzo e non vado nemmeno in piazzetta. Non l’ho mai vista così, è incredibile, non me l’aspettavo”. Già: “a Milano tutto chiuso” e pure a Portofino, chi l’avrebbe mai detto. “Prigioniera” nello slum vista mare, la signora non ha neppure i soldi per comprare un giornale, o una tv, o una radiolina a transistor che l’avvertisse della terza ondata di Covid. Un supplizio.

Ieri, dopo aver trascorso il giorno di Pasqua a struggerci per la sua triste sorte, abbiamo appreso dal web ciò che Rep s’era scordata di dirci: la “prigioniera” è la contessa Antonella Carnelli De Micheli Camerana, seconda moglie del defunto conte Carlo Camerana (pronipote di Giovanni Agnelli fondatore della Fiat e cugino primo di Gianni, Umberto &C.) nonché azionista di Exor-Fca (ergo di Rep), che parla dalla sua villa a Portofino, forse in attesa di rimpiazzare la parigrado Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare nel varo della nuova nave Repubblica: “Ri-ri-vadi, contessa! Ma un po’ più a destra!”.

“Mi guardo attorno e resti sempre il migliore”

De Gregori compie 70 anni oggi? Prima di tutto allora, gli faccio i miei più sinceri auguri di… 100 di questi giorni!!! Tanti ma tanti auguri, Francesco!! De Gregori è uno dei più grandi cantautori italiani, le sue canzoni sono sempre state per me fonte di grande piacere e di ispirazione. Lui ha cominciato prima di me e molto prima di me ha trovato la sua strada, quella della canzone d’autore, io l’ho trovata un po’ dopo la mia, quella del cantautore rock, del rocker e della rockstar.

Non avrei mai immaginato che un giorno mi avrebbe reso un attestato di stima con la sua interpretazione di Vita spericolata, tra l’altro bellissima “alla De Gregori”. Per me è stato come ricevere un Oscar.

Personalmente conoscevo tutte le sue canzoni, negli anni in cui avevo la radio, Punto Radio 75/76, le mettevo sempre nel mio programma sulla musica italiana d’autore. Ai tempi facevo radio, non cantavo ancora, strimpellavo la chitarra e cominciavo a scrivere le mie prime canzoni. Ispirandomi anche alle sue, naturalmente. Ma le canzoni di De Gregori sono dei gioielli di scrittura unici e inimitabili. Lui sì che è un poeta. Anche se non gli piace che lo si definisca così, e giustamente perché lui scrive canzoni d’autore, rimane un fatto che lui scrive dei testi che sono poesia pura.

Non a caso, per Rock sotto l’assedio, il mio concerto a San Siro “contro le guerre”, nel ‘95, scelsi di fare un omaggio a De Gregori cantando in apertura Generale… un capolavoro assoluto, “…Che torneremo ancora a cantare, e farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere”, versi di strettissima attualità perché siamo in guerra anche oggi, anche se in un modo diverso.

Sarà anche una questione di affinità elettive, ma ogni volta che ci incontriamo è un grandissimo piacere, non abbiamo neanche bisogno di troppe parole, tra di noi basta uno sguardo per intenderci.

Ricordo e ricorderò sempre con grande soddisfazione e affetto quella volta a Roma quartiere Prati, ero ancora agli inizi carriera, stavo andando dall’albergo alla Rai per promozione, quando una macchina si ferma, si apre lo sportello e scende dall’auto De Gregori per salutarmi. De Gregori voleva salutare me. Un grandissimo onore per me, allora e tuttora, godere del suo affetto.

Egregio Maestro De Gregori, carissimo Francesco… Ti auguro 100 di questi giorni!!

PS… mi guardo intorno e sei sempre, sei sempre il migliore che c’è

Sei il poeta delle canzoni: tanti auguri, Principe!

Festa per un Principe riluttante. Anche se, come nota l’altro dioscuro Antonello Venditti, “De Gregori schiva le ricorrenze”, in molti hanno accettato l’invito del Fatto a celebrare i 70 anni di Francesco, il gigante che elude le minuzie del tempo. Elisa ha duettato con lui in una perla come Quelli che restano ma resta una devota: “Mi invitò a casa, con sua moglie cucinarono una frittata squisita. Parlammo di vita, di percorsi, sembrava una sospensione del tempo, come se incontri Gandalf o il preside di Hogwarts: si ferma tutto mentre prepari la cena. Fuori c’era l’universo e dentro quella cucina calore ed accoglienza. Lo reputavo un inavvicinabile, mai avrei pensato a un rapporto così bello. La mia preferita è La donna cannone, devo sempre ascoltarla in auto o in treno. Anche quello è un viaggio, ma che va molto oltre qualunque cosa io possa fare. È una finestra sul cielo”. Stessa scelta per Federico Zampaglione: “Un giorno, in aeroporto, gli dissi che chiunque scriva canzoni ha sognato almeno una volta di comporre La donna cannone. Sorrise e mi rispose: ‘A renderla bella c’è anche il pulviscolo del tempo che le si è depositato sopra’. Un’immagine fantastica per spiegare che una grande canzone deve durare negli anni. Solo così diventa immortale”. Storie che Noemi definisce fiabesche: “È la colonna sonora della mia infanzia, c’è un’ambientazione favolistica ne La donna cannone, in Alice, Buonanotte Fiorellino. Fissavo la copertina de La donna cannone, ero seduta in mezzo ai vinili, catturata da quel disegno: mi sono sempre chiesta se dopo aver fatto il giro delle galassie fosse tornata a casa contenta. Auguro a Francesco altri 700 anni da Principe”. Avvicinarsi a lui mette soggezione. Sentite Giorgia: “Ero una bambina, mio zio ascoltava in adorazione Alice, la amavo questa Alice che guardava i gatti. Un giorno incontrai De Gregori. Fu gentilissimo: pensavo neppure mi conoscesse, capii perché lo chiamano Principe. Ma non ebbi il coraggio di chiedergli di Alice”.

Ron ha più volte condiviso il palco con il Nostro: “Banana Republic era un pazzesco film di Kubrick, imparai tantissimo grazie a Dalla e De Gregori. Ricordo di quanto Francesco avesse bisogno del suo gruppo, la fiducia reciproca. Anche per me è così. Una delle più belle? La Leva calcistica. Lì c’è un pensiero fondamentale. Un giocatore si vede dal coraggio dall’altruismo e dalla fantasia, cosa si può dire di più a un figlio?”. Anche Fabrizio Moro è stato folgorato da quel pallone: “La Leva mi lega a mio figlio Libero che ama il calcio alla follia. Gliela feci ascoltare quando aveva 7 anni: mi chiese di riproporla a Sanremo! Mentre la cantavo, sul maxischermo dell’Ariston c’era la foto di Libero in tenuta da calcio. Ogni volta mi commuovo: penso alla fragilità di mio figlio che lotta sul campo nonostante i calci e il fiato corto”. È una foto del cuore anche per Alex Britti: “Mi innamorai di Titanic per La Leva calcistica: ‘13 anni e il cuore pieno di paure’. E io avevo quell’età, sono del ‘68. La mettevo sullo stereo a casa dei miei e ci suonavo sopra”. De Gregori nume familiare. Ecco Giuliano Sangiorgi: “Lui è la musica condivisa con i genitori. Ho avuto il privilegio di suonarci insieme, all’Arena e coi Negramaro. A Verona con Ligabue eseguimmo Rimmel, fu come se fossimo noi tre soli attorno a un falò. Cantai anche Guarda che non sono io, un capolavoro in cui leggi la voglia di De Gregori di rifiutare il successo e la difesa della quotidianità. In quella ‘busta della spesa’ ti perdi, non trovi tutto quello che hai fatto, torni a essere figlio e padre, un qualunque essere umano”. È un artista che si fa carico dei legami di sangue, spiega Mannarino: “Lo associo ai primi ricordi da piccolino, quando forse neanche sapevo ancora scrivere e leggere e mamma lo metteva sul giradischi mentre io dondolavo su un’altalena. Rimmel era la canzone di mia madre. Al liceo l’ho scoperto davvero, mi ha accompagnato nella mia formazione insieme ai poeti e ai filosofi. Quattro anni fa ho avuto l’emozione di conoscerlo a Parigi, dopo un suo concerto al Bataclan. Nei bis cantò Anema e core con la moglie Francesca. Quel gesto mi colpì: condividere con la donna della vita i tuoi applausi anche se lei non è una cantante. È importante riconoscere, pure da questo si misura la grandezza”. Aristocratico ma complice. Secondo Ermal Meta “è il poeta delle cose non dette, che occupano tutto lo spazio a propria disposizione, e dell’amore taciuto che esplode in un giorno di sole così che nessuno lo veda. Sempre e per sempre mi fa fare un giro nel mio quartiere, fra le persone che conosco non conoscendole. Come le sue canzoni, che ti prendono per mano per mostrarti una parte di te da un’angolazione mai considerata. Francesco è un prisma in cui si entra sconosciuti e si esce amici”.

“A papa Francesco do del tu. Erri De Luca è un ‘teologo’. Welby meritava il funerale”

Il “lei” si può tramutare in un ostacolo, in un diaframma offensivo se lo sguardo è verso l’alto, o l’Altissimo: “Se a papa Francesco do del tu? Quando prego mi rivolgo a nostro Signore in maniera confidenziale, come è giusto e naturale, così mi sembra doveroso mantenere lo stesso approccio con chi gli sta un gradino sotto”.

Quindi anche noi siamo “costretti” al tu con don Marco Pozza (“bravo, hai capito”), 42 anni, cappellano del carcere “Due Palazzi” di Padova, protagonista sul Nove di una serie di interviste (in onda questa sera) per parlare di Vizi e virtù con alcuni personaggi come Carlo Verdone, Mara Venier, J-Ax e soprattutto Papa Francesco.

Anni fa è diventato celebre con il nomignolo di “don spritz” perché con i suoi modi confidenziali, gli abiti comuni (“vesto sempre così”), l’aspetto fisico piacevole, quasi piacione, andava a reclutare le anime proprio all’ora dell’aperitivo, “ma la vera svolta è arrivata quando ho varcato la soglia del carcere di Padova”. E lì ha incrociato il suo percorso con uno dei più feroci serial killer della nostra storia.

Donato Bilancia.

È la prima persona che ho conosciuto; (cambia tono) vengo da un contesto molto giustizialista e per deformazione professionale esistevano solo il bianco e il nero: i carcerati per me erano “merde” che dovevano morire e la gente che sbagliava doveva crepare.

Poi.

Il Signore, per rendermi più umile, mi ha aperto le porte del carcere e ho cominciato a scoprire una città sommersa composta da 900 detenuti; lì mi è sorto un cruccio: come inizio?

Risposta?

È un po’ come il papa: la prima enciclica è quella programmatica, il primo gesto detta il cammino, così ho pensato al parroco di quando ero bambino: al suo arrivo in paese iniziò le visite dalla persona più anziana.

E in carcere era Bilancia.

Lì i parametri sono differenti: dietro le sbarre “l’anzianità” è data dalla condanna più pesante. Il “Caino” era proprio lui, con 17 ergastoli e circa 100 anni di reclusione prevista; (cambia tono) appena ho sentito il suo nome mi sono ricordato di me diciottenne che prendevo il treno ed ero spaventato da quel serial killer.

L’incontro.

Adesso pago il peso delle parole che sto per pronunciare, ma in dieci anni di rapporto penso sia stato il tentativo di resurrezione più vero dentro il nostro carcere; Donato Bilancia ha in apparenza sempre sostenuto di non credere, ma negli ultimi cinque anni, non so come, forse dopo la morte della volontaria che aveva sempre creduto in lui, si era aperta una fessura.

E ha celebrato il funerale.

Tempo prima gli avevo annunciato la mia intenzione: “Non ti permetterò di realizzare il tuo sogno di andare via come una bestia, ti tratterò da signore, parlerò di Caino e Abele e attorno alla tua bara piazzerò 17 sedie vuote, una per ognuna delle tue vittime”.

E lui?

“Se quel giorno farai questo sappi che mi farai morire”.

Così è andata.

Non avevo calcolato la sepoltura: dalla sua tomba si vede la cella dove è stato rinchiuso; Vizi e virtù nasce un po’ da questo mio rapporto con lui e l’ho dedicato a lui e alle sue vittime: in ogni uomo c’è una lotta tra l’Arcangelo e la Bestia.

Avrebbe celebrato il funerale di Welby?

Se me lo avessi chiesto anni fa, avrei risposto di no: dopo quattordici anni di seminario ero convinto delle mie certezze, credevo di saper riconoscere il giusto dallo sbagliato, mentre con il carcere ho capito che dietro ogni scelta c’è una storia di sofferenza e una di benedizione, e una preghiera non va mai negata, perché non si può mettere un freno alla grazia di Dio; penso a Dante e a quella lacrimuccia che in punto di morte può riscattare una vita intera.

Quindi…

Certe storie si debbono benedire e chi ha condiviso un pezzo di quella storia ha il dovere di prendersi la responsabilità di fronte a Dio; io di fronte a Dio ho assunto la responsabilità di un funerale a Donato Bilancia.

Prima ti sei definito giustizialista.

Sono nato dividendo tutto in bianco e nero, potevo diventare un radiologo, mentre il Signore mi ha detto: “Tu vai meglio come giardiniere”; poi sbagliando ho imparato la bellezza della giustizia cristiana che con fatica coniuga giustizia e misericordia…

C’è un “ma”?

La giustizia senza misericordia diventa la mamma della tortura; la misericordia senza giustizia è la mamma del lassismo: armonizzare tutto questo è la battaglia che combatto e che nove volte su dieci perdo.

Hai letto l’intervista sul Corriere di Aldo Cazzullo al cardinal Ruini?

Sul celibato? Ho pensato che se si è innamorato anche Ruini a 90 anni, vuol dire che fino al punto di morte il Signore ci dà la grazia di restare uomini, di non vergognarci della nostra umanità; ricordo con un pizzico di delusione e passione anche l’ultima intervista al cardinal Martini, uscita postuma: ero affascinato dal suo cervello e pure lì mi sono domandato perché si affrontano certi temi solo in punto di morte, quando non si ha più il tempo di concretizzare certe idee.

Con Martini cosa ti colpì?

Che la Chiesa era indietro di due o trecento anni, e detto da un cardinale che ha fondato la Cattedra dei non credenti, allora c’era da crederci; (sorride) di questo mi sono lamentato con il Signore e lui mi ha “punito” perché ha mandato un papa che sta portando avanti quelle idee; (ripensa a Ruini) comunque mi piace quando un uomo di Chiesa non si vergogna di raccontare la sua umanità: un cristianesimo senza carne e senza umanità è incredibile, nel senso peggiore.

Ruini ha anche parlato della lotta politica dentro la Chiesa.

È un uomo che ha rappresentato il lato politico, ma la Chiesa è carisma e pure un’istituzione, temo solo quando il lato politico supera lo spirituale e allora penso alla frase dei milanesi “pasticciere, fai il tuo mestiere”. Siamo chiamati per guidare le anime non un popolo.

Difficile trovare la giusta distanza.

Per guidare le anime è anche necessario cercare che il messaggio cristiano diventi storia e carne, entri dentro quei laboratori dove si costruisce la cultura.

Ti fanno la guerra per i tuoi modi?

Sarebbe triste se non accadesse; come dice il mio amico Sinisa Mihajlovic, a me lo zucchero filato fa schifo; comunque le guerre sono altre, mentre la sana guerriglia ti costringe a mantenere le antenne alte.

Nella libreria hai proprio il libro di Sinisa.

C’è la Bibbia o l’Odissea di Kazantzakis, un po’ di tutto: già a scuola amavo i collegamenti.

Uno scrittore per te.

Erri De Luca: lui si definisce non credente, ma è il mio “teologo” di riferimento perché ha una capacità straordinaria di parlare della scrittura di Dio.

Come andavi a scuola?

Benissimo, madre natura mi ha donato un cervello che non merito; il problema grosso è stato il mio carattere, già allora uno strafottente, uno di quegli alunni che i professori detestano perché avevo sempre la mano alzata.

I tuoi genitori?

Mio padre ha perso il posto di lavoro quando ero bambino: davanti ai libri pensavo sempre al loro sudore per permettermi di stare lì; poi da prete ho capito che le mie armi erano lo studio e la preghiera, un po’ come sosteneva don Milani: se saprò utilizzare quelle benedette cento parole, allora non mi fotteranno più facilmente.

Leader?

Sempre stato, sia nel bene che nelle marachelle; ma leadership e autostima sono una fortuna, perché in carcere hai bisogno di certe risorse, quando raschi il barile per non soccombere alla fatica.

Perché hai scelto Mihajlovic per la trasmissione?

Penso spesso al suo sguardo quando è entrato al Bentegodi di Verona, fuggito dall’ospedale: il volto era di un perdente che non si sentiva sconfitto.

J-Ax.

Mi piace il suo lato dissacrante ma profondo.

Mara Venier.

Una mattatrice televisiva, ma quando parla della sua intimità ha le lacrime agli occhi.

Silvia Avallone.

È la mia sorellina non credente, la migliore scrittrice che conosco: come racconta lei le periferie, nessuno.

Carlo Verdone.

Mi incuriosiva scoprire se era l’uomo o l’attore: ha messo in scena la vita quotidiana, sa raccontare scelte diverse senza giudicarle; (ci pensa) a me del cristianesimo ha sempre pesato il lato moralistico, mentre Gesù ha solo proposto un modo diverso di essere uomini, per questo mi affascina quando incontro persone che non umiliano le passioni.

Da quale peccato sei tentato?

La disperazione perché è presente nelle carceri; ho paura della gente disperata, non di quella cattiva: se uno non ha una speranza, nulla gli impedisce di prendere una pistola e sparare.

Dai del tu al Papa.

La prima volta che l’ho conosciuto l’ho appellato Santo Padre, poi lui mi ha dato del tu e allora ho proseguito sulla stessa strada: c’è un lato professionale e uno umano.

Comunque è il Papa.

La maestra delle elementari mi ha insegnato che il “tu” non è il pronome della villaneria ma della confidenza; io non sono nessuno per intervistare il papa, il mio sogno era di conversarci, un po’ come fosse mio nonno. Ma se do del tu a Dio – me lo ha detto Gesù: “Chiamalo papà” – non credo di fare un torto al Papa, che è un gradino sotto. Ciò non toglie il rispetto.

Rispetto grande.

In questi anni ci ha insegnato la prossimità, la vicinanza, quindi a uno che si avvicina per un abbraccio non gli si può porgere la mano.

A Ratzinger avresti dato del tu?

L’ho incontrato una sola volta e gli ho dato la mano, del lei, non so nemmeno se sono riuscito ad appellarlo Santità; forse mi sono sbagliato e ho detto “Beatitudine”; (pausa) in quei dieci minuti che ho passato con lui ho scorto i suoi occhi illuminati, poi ho studiato i suoi testi, e il suo Gesù di Nazaret lo rileggo sempre con il batticuore.

Con il papa parli di pallone?

Il calcio è andato in soffitta il giorno dell’addio di Baggio.

Quanto è osteggiato Papa Francesco?

Per usare un’immagine sportiva: se il contrasto è un vento contro, chi attacca in salita più va forte e più lo percepisce.

Quindi?

Tantissimo, ma è direttamente proporzionale al suo tentativo di riportare la Chiesa a come la voleva Gesù; chi lo attacca vorrebbe che tutto fosse o bianco o nero, un po’ come ero io nella mia fase giustizialista.

Sei proprio cambiato.

Se non avessi vissuto questi anni di carcere, forse neanche io avrei capito Papa Francesco; per questo non mi arrabbio quando non lo comprendono, ma quando lo offendono.

Più don Gallo o Ruini?

Nessuno dei due, il mio grande modello, oltre al Papa, è don Fortunato Di Noto, il prete siciliano che lotta contro la pedofilia: è l’immagine vivente di una profezia inascoltata che rimane fedele all’intuizione dello Spirito Santo e, quando la sera mi può capitare di sentire l’impulso di uscire fuori da questa Chiesa, penso a loro due e spazzo via certi istinti.

Per noi e per i nostri lettori don Gallo è un punto di riferimento.

Tra la visione don Gallo e quella di Ruini sto con don Gallo, sto dalla parte della strada, ma in quella strada c’è anche don Fortunato: denunciare 25 anni fa la pedofilia e la pedopornografia, e insistere davanti all’indifferenza, è oltre il coraggio.

Il 25 aprile lo festeggi?

È anche il mio onomastico; per me è un giorno da rispettare, e penso a tutte le sofferenze, perché racconta le fatiche della mia terra per essere libera e indipendente.

Chi sei?

Un ragazzo che nella vita ha fatto una scelta precisa: piuttosto che essere normale ho deciso di essere felice. A ogni costo.

(Canta Fiorella Mannoia in “Che sia benedetta”: “Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta/ Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta/ Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta/ Tenersela stretta)”.

Banche senza regole: Archegos e quei miliardi bruciati in 24 ore

Quando alle prime luci dell’alba di lunedì 26 marzo le agenzie di stampa internazionali iniziano a informare i clienti sul buco di bilancio che l’implosione di un fondo finanziario chiamato Archegos avrebbe arrecato alle trimestrali di alcune delle più note banche d’affari internazionali, per gran parte degli operatori quel nome suona come un’assoluta novità. In realtà negli ambienti super-ovattati dell’alta finanza il gestore del fondo, tal Sung Kook (Bill) Hwang è di casa.

Per quanto si predichi il valore della meritocrazia, anche nei Paesi anglosassoni non accedi a linee di credito del valore di qualche miliardo di dollari se non appartieni al “giro giusto”. E Hwang non solo conosce le persone giuste, ma da anni ci fa affari, pur avendo subito nel 2013 dalla Sec, l’Authority di controllo della Borsa Usa, una multa da 44 milioni di dollari e l’interdizione al trading per 5 anni per aver manipolato alcuni titoli quando era gestore del fondo speculativo Tiger Asia.

Una volta riabilitato, per rifarsi una verginità finanziaria, Hwang pensa bene di tornare in sella nel 2019 adottando la forma societaria del family office, decisamente più leggera sul fronte dei requisiti patrimoniali in quanto rivolta (in teoria) solo alla gestione del proprio patrimonio personale. Nasce così Archegos. È bravo nel suo lavoro, Hwang, trader molto aggressivo, capace di passare da 200 milioni di dollari a 15 miliardi in soli 7 anni. Davanti a performance tanto stellari, le banche d’affari, che svolgono la funzione di primary broker, non lesinano certo sui prestiti, chiudendo tutti e due gli occhi sul fatto che di Archegos nei registri della Sec non vi sia praticamente traccia. A oggi rimane poco chiaro il motivo per cui il nome del family office non compaia nei registri dell’Authority, ma è indubbio che ad aver favorito l’operatività nell’ombra di Hwang sia stato l’uso di uno degli strumenti derivati più utilizzati a Wall Street: il Total return swap (Trs).

In cosa consiste? Poniamo, per esempio, che un operatore finanziario intenda acquistare un titolo azionario amplificando il potenziale guadagno con un effetto leva: a quel punto chiede al primary broker di finanziare l’operazione, procedendo alla fine di ogni mese a un settlement che prevede l’incasso di denaro se il valore dell’azione sarà superiore a quella di acquisto, oppure il pagamento se invece il titolo finanziario scenderà al di sotto del livello. Per l’istituto di credito l’operazione è una win-win: intasca ricche commissioni, senza peraltro correre rischi elevati, dato che l’eventuale pagamento al trader viene coperto con un’apposita assicurazione.

Una pratica, quella del Trs, certamente legale, usata quotidianamente da migliaia di attori finanziari. Trattandosi però di uno strumento derivato over the counter, ossia non regolamentato, può essere più o meno facilmente nascosto nelle pieghe dei bilanci degli istituti di credito. Per Hwang il Trs non è dunque solo uno strumento per amplificare l’effetto leva, ma anche per nascondere il più possibile agli occhi degli organi di controllo l’operatività del suo family office che a tutti gli effetti opera invece come un hedge fund, un fondo speculativo. E così tutto procede liscio fino a che Hwang cade vittima della peggiore disgrazia che può colpire un trader, il senso di onnipotenza che fa perdere il senso del rischio.

A oggi non è ancora chiaro quali investimenti siano andati male (c’è anche chi dice che Hwang sia finito vittima dello squeeze su Gamestop, ma non ci sono riscontri). Sta di fatto che il bilancio del trader peggiora al punto da far scattare le richieste di rientro immediato da parte dei broker (margin call) che Hwang non è però in grado di coprire avendo replicato lo stesso contratto di finanziamento con molteplici controparti.

Per salvare il salvabile, allora, le banche si trovano costrette a liquidare i titoli in portafoglio del trader asiatico per un controvalore di 50 miliardi di dollari. A farne maggiormente le spese sono le banche d’affari Nomura e Credit Suisse (la cui perdita complessiva ammonterebbe a circa 8 miliardi di dollari), mentre le cugine americane Morgan Stanley e Goldman Sachs riescono a liquidare i titoli di Archegos con grande velocità, riportando danni molto più contenuti. Per qualche giorno il ricordo del crac del fondo LTCM, che rischiò di far collassare i mercati finanziari nel 1998, è tornato alla mente degli operatori più anziani, ma il paragone è improprio perché oggi la liquidità sui mercati è molto più elevata (a febbraio, per dire, l’indice di massa monetaria negli Usa ha registrato un balzo del 27% su base annuale). Più centrata è probabilmente la similitudine con la crisi dei subprime del 2008 scoppiata non tanto per il collasso dei prezzi immobiliari quanto per la cartolarizzazione senza freni dei mutui adottata dalle banche d’affari.

Oggi come ieri si pone il problema di far luce sull’abuso dei Total return swap. Se infatti un semplice family office, per giunta quasi inesistente nei registri della Sec, aveva un’esposizione da 50 miliardi di dollari, non sarebbe forse il caso che le autorità di regolamentazione inizino a far luce sul giro d’affari di questi derivati? Sarebbe un errore considerare l’implosione di Archegos come un caso isolato. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati casi di collassi di hedge fund i cui indici di patrimonializzazione non riescono a stare al passo con la crescente volatilità dei mercati derivante anche dalla mole di liquidità in circolazione per effetto delle politiche monetarie espansive delle banche centrali.

Ma forse cercare di frenare l’abuso dei Trs è una questione che le persone ‘giuste’ non hanno molta voglia di affrontare.

Azioni di disturbo: la Turchia rimanda i migranti ad Atene

Tornano ad agitarsi le acque del mar Egeo ma non per il cattivo tempo, anzi. La Grecia accusa la Turchia di aver approfittato del mare calmo per spingere nelle acque nazionali elleniche alcuni gommoni, salpati dalle coste turche, con a bordo numerosi migranti, allo scopo di provocare Atene e l’Europa, come nel marzo dell’anno scorso. Ma lo scorso anno “l’arma” dei migranti usata dal presidente Recep Tayyip Erdogan contro la Grecia – frontiera orientale europea sia terrestre sia marittima – fu più letale, colpendo soprattutto il valico di Evros con la pressione di migliaia di profughi fino ad allora rifugiati in Turchia, pagata, a torto o a ragione, a partire dal 2016 dalla Ue per mantenerli sul proprio territorio. Il ministro della Migrazione, Notis Mitarachi, ha detto che la guardia costiera greca ha riferito di diversi incidenti provocati dai colleghi e dalla marina turchi che accompagnavano le barche dei migranti “al confine dell’Europa, nel tentativo di innescare una nuova escalation” con la Grecia.

“Non c’è dubbio che questi migranti provengano dalle coste turche e, dato il fatto che erano scortati dalla marina di Ankara, non erano a rischio”, ha detto Mitarachi in una dichiarazione registrata. Il ministero della Difesa turco non ha risposto immediatamente a una richiesta di commentare le accuse. I tentativi della guardia costiera turca di far entrare le barche con i migranti nelle acque attorno alle isole greche – la più nota è Lesbo – affacciate sul Mediterraneo orientale sarebbero stati tre. Proprio a Lesbo, dove sono bloccati migliaia di disperati in fuga dalle guerre, una nave della guardia costiera turca è entrata nelle acque territoriali greche arrivando quasi allo scontro con una motovedetta greca. Atene e Ankara sono in disaccordo da tempo su una serie di questioni.

Nell’autunno del 2020, le tensioni tra i due alleati Nato sono riprese a causa della decisione di Ankara di mandare alcune navi trivella a esplorare la piattaforma marina greca e cipriota alla ricerca delle risorse energetiche che si trovano nei fondali dell’Egeo e che secondo i trattati internazionali appartengono ai due Paesi europei. Ankara tuttavia li ritiene contesi e li rivendica come propri.

Processo Floyd, la polizia non protegge più Chauvin

Nel tentativo di salvare la propria credibilità – e di sventare sommosse – la polizia di Minneapolis ‘scarica’ Derek Chauvin, l’agente che tenne il ginocchio premuto sul collo di George Floyd anche quando era già morto, il 25 maggio dello scorso anno. Al processo, i suoi superiori riferiscono che il suo comportamento “era totalmente non necessario”, l’uso della forza “spropositato” e non corrispondeva all’addestramento ricevuto. È un segnale che qualcosa è cambiato nell’Unione, rispetto ai tempi del processo ai poliziotti che pestarono Rodney King. Allora, nel 1992, i colleghi fecero quadrato intorno ai quattro agenti finiti sotto processo, che furono assolti da una giuria quasi esclusivamente bianca. Questa volta, invece, Chauvin viene lasciato al suo destino e la giuria rispecchia la composizione multi-etnica di Minneapolis. Nella settimana del processo, altri episodi provano il nuovo clima negli Stati Uniti, l’intolleranza verso i comportamenti discriminatori su base razziale delle forze dell’ordine e del potere politico. Sette agenti di custodia sono stati licenziati in Texas per la morte di un nero, Marvin Scott III, sottoposto a misure restrittive “in violazione di regole e procedure”, ha stabilito il loro sceriffo.

E la lega del baseball, forse la maggiore organizzazione sportiva Usa, ha deciso di non fare svolgere ad Atlanta in Georgia l’All-Star Game 2021, in segno di protesta contro la legge appena approvata da quello Stato che limita l’esercizio del diritto di voto, specialmente a danno dei neri. Per tutta la settimana, il processo di Minneapolis ha visto sfilare testimoni oculari, operatori del 911 e funzionari di polizia. Richard Zimmerman, il tenente che comanda la sezione omicidi, riferisce: “Se premi un ginocchio sul collo di qualcuno, sai che puoi ucciderlo. Una volta che una persona è ammanettata, il livello della minaccia diminuisce drasticamente: tenere la persona prona premendole il ginocchio sul collo ne riduce drasticamente la capacità di respirare”.

Il tenente Zimmerman arrivò dopo che Floyd era stato portato via in ambulanza. L’uomo era già morto quando i soccorritori si avvicinarono, ha riferito uno di loro, Derek Smith: “Non riuscivo a sentire il polso”. Mentre Smith cercava di capire se l’afroamericano fosse vivo o meno, Chauvin teneva ancora il ginocchio sul collo della vittima. Prima di Zimmerman, aveva deposto il supervisore di Chauvin, il sergente David Pleoger, anche lui accorso sulla scena del delitto: capì subito – racconta – che non c’era motivo per tenere il ginocchio sul collo di Floyd per tutti quegli interminabili minuti: “L’agente doveva cessare l’uso della forza non appena l’arrestato cessò di opporre resistenza”. Ai giurati è stato pure mostrato un altro video: 3’47” di immagini dalla bodycam di Thomas Lane, uno degli altri agenti coinvolti nell’episodio: loro andranno a processo dopo Chauvin, probabilmente in estate. Vi si vede quel che raccontano i testimoni oculari, fra cui una bambina di 9 anni e un istruttore di arti marziali: l’arresto, il parapiglia, Floyd a terra e Chauvin con il ginocchio sul suo collo. La fidanzata di George, Courteney Ross, racconta che era stato contagiato dal Covid a fine marzo e ammette, piangendo, che lei e lui soffrivano di dipendenza da oppiacei a causa di dolori cronici. La difesa di Chauvin tenta di attribuire la morte di Floyd all’uso di stupefacenti e a patologie pregresse. L’imputato, giacca, cravatta e mascherina sul viso, segue impassibile il procedimento.

La Bulgaria è rassegnata. La cricca dentro le urne

È il Paese più povero dell’Unione europea ad aprire le sue urne oggi. Il già tre volte premier Boyko Borissov, ex pompiere ed ex guardia del corpo, a capo del partito di destra Gerb, “Cittadini per lo sviluppo europeo”, potrebbe tornare a trionfare alle elezioni e rimanere sulla poltrona che occupa da ormai oltre una decade, nonostante le manifestazioni della scorsa estate. Con stelle di cartone giallo tra le mani, – per fare eco a quelle della bandiera blu dell’Unione – solo pochi mesi fa molti dei sette milioni di cittadini sono scesi per le strade dello Stato contro la corruzione endemica che scorre nelle vene del governo Borissov e contro “l’oligarchia mafiosa” che ormai si è infiltrata in ogni settore economico e finanziario del Paese. Accusato di abuso di fondi europei, frode e corruzione, il premier non si è allontanato dalla poltrona nonostante la pressione della piazza e non è stato abbandonato dagli alleati stranieri, tra cui c’è la cancelliera Angela Merkel e molti politici del Ppe, Partito popolare europeo.

Secondo molti bulgari sono proprio i finanziamenti di Bruxelles a rafforzare e prolungare il suo potere: è la stessa Europa occidentale che fa finta di non vedere quando diritti civili, libertà dei media, indipendenza dei giudici e le fondamenta più basilari della democrazia vengono violate dal politico, che comunque, di nuovo, le previsioni danno per vincente. Secondo i sondaggi di Europe Elects è Borissov il primo della lista dei vincitori con il 28,4% dei voti, una cifra verso cui oscilla però anche Korneliya Ninova dei socialisti del Bsp, che secondo l’Istituto, potrebbe ottenere il 23% delle preferenze. In continuo bilico tra polarizzazione politica ed incertezza sul futuro, dopo una campagna elettorale senza idee, speranze e vera partecipazione, l’opposizione si presenta divisa e con nuovi protagonisti dai programmi spesso vaghi, improduttivi e oscuri, che difficilmente riusciranno a risollevare le sorti della nazione afflitta da criminalità e povertà. Sono sette le forze politiche che possono superare lo sbarramento del 4% e impantanare l’attività di un Parlamento che potrebbe nascere frammentato e caotico. Tra gli eletti potrebbero esserci vecchi volti come quello di Hristo Ivanov, ex ministro della giustizia a capo del partito Sì, membri di piccole formazioni di nazionalisti o del centro-destra di Bulgaria democratica. In corsa c’è anche l’auto-proclamata leader delle proteste estive, Maya Manolova, dell’ex partito socialista. La testa d’ariete della piazza mira a un bacino di elettori di centro e sinistra, proprio come fanno i nuovi movimenti nati la scorsa estate che partecipano alla corsa elettorale con molti punti esclamativi negli slogan e perfino nel nome: “Svegliatevi! Fuori la mafia!”. Ha fondato invece il suo partito dei “Repubblicani per la Bulgaria”, abbandonando Gerb, l’ex alleato del premier Tsvetan Tsvetanov. Mentre il Paese affronta la terza ondata del virus che taglieggia economia e società civile, il sistema sanitario bulgaro è al collasso e nuovi record di contagio vengono battuti giorno dopo giorno. Le autorità di Sofia, temendo l’astensione, hanno messo in piedi un sistema che permette anche a chi è in quarantena o nei reparti di cliniche e ospedali di segnare la croce del voto della scheda elettorale. Tra le nazioni più colpite nei Balcani flagellati dall’emergenza sanitaria per mancanza di vaccini, la Bulgaria potrebbe decidere di affidarsi a chi protesta contro misure sanitarie, restrizioni e lentezza estrema della campagna vaccinale. Si tratta del cantante che alterna concerti e comizi. Il mogul dei media Stanislav Trifonov è nato al confine con la Romania 55 anni fa e tutto il Paese lo chiama semplicemente “Slavi”: milioni di bulgari conoscevano già la sua voce per averla sentita in discoteche e bar quando, con il suo gruppo di folk balcanico, intonava canzoni in cui la parola “Costituzione” faceva rima con “prostituzione”. Slavi, nell’anno del collasso del comunismo e dell’Urss, si è assicurato fama e gloria con la satira via cavo nei programmi in onda in tarda serata.

Negli ultimi trent’anni ha fondato prima il gruppo Ku Ku, poi un programma con lo stesso nome, in seguito un canale tv privato e adesso un partito: l’Itv, Ima Takuv Narod, “esiste un popolo del genere”. Pelato, con un orecchino a destra e uno a sinistra, è populista, volgare e furbo: guida gli arrabbiati contro le élite tradizionali, capitalizza la sfiducia ormai cronica dei bulgari verso i loro politici, cavalca la rassegnazione degli indigenti e segue, secondo i politologi, le orme di un altro showman che ha guidato la popolazione intera di una nazione contro il suo establishment. Sofia come Kiev: la parabola politica del presidente-comico ucraino Vlodimir Zelensky può ripetersi in Bulgaria, lo Stato che quattordici anni fa si è unito alla famiglia europea ma risulta oggi, secondo gli ultimi dati dell’ong Transparency International, il più corrotto dei 27. Nonostante le previsioni sulla continuità del partito Gerb, in Bulgaria oggi potrebbe accadere di tutto: proprio come in una canzone di Slavi.

 

Cliché-inaspettato: meccanismo classico che fa ridere sempre

Il prodotto di ogni sistema semiotico (linguistico, visivo, gestuale, musicale, filmico, &c.) è un “testo” che può essere studiato utilizzando i modelli interpretativi più diversi. Uno dei più fruttuosi per la prassi divertente è quello che si basa sul concetto di frame, o schema narrativo (in varie accezioni: Minsky, 1974; Goffman, 1974; Fillmore, 1976). Ogni gag, infatti, fa ridere quando ci sorprende rispetto a un esito previsto; e questo esito lo prevediamo perché affrontiamo il mondo applicando i frame, sceneggiature di situazioni che accumuliamo nella memoria con l’esperienza, e utilizziamo quando dobbiamo capire cosa sta succedendo, per agire di conseguenza. Dare un finale diverso a un frame conosciuto è una fonte classica di comicità. Qui Harold Lloyd attiva nello spettatore il frame “passeggiata con cane grosso”, che poi inattiva di colpo, con effetto comico: shorturl.at/clyLP. Lo stesso fa Buster Keaton con il frame “scendere nello scantinato”: shorturl.at/rAJX9. E Roscoe Arbuckle con il frame “pulire il finestrino”: shorturl.at/cBCQ0. E Stanlio con il frame “trasportare una lunga asse”: shorturl.at/alprB.

L’inversione del frame

La tattica più semplice e diffusa per fare comicità con un frame è quella dell’inversione. Prendiamo il frame, reso popolare dalle storie western, del predicatore che, colpito al petto dalla pallottola del pistolero fuorilegge, si salva grazie alla Bibbia che tiene nel taschino della giacca. Eccone la versione divertente di Woody Allen: “Portavo sempre una pallottola nel taschino. Un giorno un evangelista impazzito lanciò una Bibbia dalla finestra. La Bibbia mi avrebbe trapassato il cuore se non fosse stato per la pallottola”. È una gag comica, ovvero il suo senso è “sono un bambino” (cfr. Qc #48).

Un altro esempio è il frame “giocattoli con batterie non incluse”. Bernard Manning ne ricavò questo joke di inversione: “Un Natale ho regalato ai miei figli una confezione di batterie con un biglietto che diceva: ‘Giocattoli non inclusi’”. È una gag umoristica, ovvero il suo senso è “sono un cinico” (cfr. Qc #48).

Lo stratagemma dell’inversione è talmente facile ed efficace che la rivista Mad lo usava di continuo per le sue gag in copertina. La cosa importante, dal punto di vista teorico, è questa: nonostante le differenze apparenti, le gag comiche di inversione sono tutte la stessa gag, poiché a far scattare la risata non è mai la generica “idea buffa”, come credono i più, ma la tecnica della gag. In altri termini, tutte le gag comiche di inversione sono calchi della prima gag comica che usò questo stratagemma: ne condividono la struttura retorica e l’ambito psicologico. Abbiamo definito questo fenomeno “isomorfismo” (cfr. Qc #5). Il fatto che molte gag sembrino risalire alla notte dei tempi è spesso una questione di isomorfismo. Il joke di Allen, invece, non è isomorfo a quello di Manning perché i due joke, pur avendo la stessa struttura retorica (inversione), hanno un significato psicologico diverso (uno è comico, l’altro umoristico).

Se due gag condividono struttura retorica e ambito psicologico, c’è un terzo fattore con cui completare la valutazione dell’isomorfismo: quello simbolico (drammatico, mistico, eroico). Lo vedremo in una delle prossime puntate.

Cosa accadrebbe se…?

Un altro modo divertente di giocare con i frame consiste nel sostituirne un elemento e immaginare la conseguenza assurda. Steven Wright è un campione di questo tipo di metalogismi:

La notte scorsa ho fatto tardi giocando a poker con le carte dei Tarocchi. Ho fatto full e sono morte quattro persone.

Una volta sono andato a pesca con Salvador Dalì. Usava una lenza tratteggiata. Pescava un pesce sì e uno no.

Ero nel primo sottomarino. Invece del periscopio, avevano un caleidoscopio. “Siamo circondati!”

Ho messo del caffè istantaneo in un forno a microonde e sono quasi andato indietro nel tempo.

Cliché comici

La comicità, a sua volta, crea schemi narrativi. Quelli efficaci vengono ripetuti di continuo, e diventano luoghi comuni. È il caso del frame “scivolata sulla buccia di banana”: Buster Keaton creò una gag dando un finale sorprendente a quel frame ormai noto, con sberleffo al pubblico (shorturl.at/ehzE2). Nei termini della retorica del Gruppo di Liegi (1972), si tratta di uno “scarto dallo scarto” (cfr. Qc #16). Quando anche il frame “giocattoli con batterie non incluse” diventò un cliché, Steven Wright propose la variazione: “Ho comprato delle batterie, ma non erano incluse”. Questo metalogismo (un’autofagia, argomento quasi-logico, cfr. Qc #22) si fa beffe del pubblico: è una gag spiritosa, ovvero il suo senso è “ho idee pericolose” (cfr. Qc #48).

(50. Continua)