“Stop porte girevoli, la nostra politica ha perso credibilità”

“Serve subito una legge contro i conflitti di interessi e le lobby”, perché le porte girevoli tra politica e aziende “minano la credibilità delle istituzioni”.

A dirlo è Giuseppe Brescia, deputato M5S e presidente della Commissione Affari Costituzionali alla Camera, che lo scorso anno ha elaborato un testo base – figlio delle proposte di legge della 5 Stelle Anna Macina e del dem Emanuele Fiano – che mira proprio a contrastare i consueti giri di poltrone tra pubblico e privato.

Presidente Brescia, in che modo il suo testo dovrebbe impedire i conflitti di interessi?

Prima di tutto c’è un controllo in ingresso, nel senso che la proposta prevede che chi viene nominato al governo non possa avere partecipazioni superiori al 2 per cento in imprese che operano in regime di monopolio o in concessione per conto dello Stato o degli enti locali, o ancora in settori strategici come per esempio la difesa, il credito, l’energia, le comunicazioni.

Nessun controllo sulle attività future di chi lascia il governo?

Sì, il testo prevede che per un anno non si possano ricevere incarichi in aziende private o enti pubblici, se non con previa autorizzazione dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato.

Nel caso di chi era al governo con Renzi, allora, non sarebbe possibile intervenire.

All’inizio noi del Movimento ci eravamo spinti un po’ più in là con il periodo di “cooling”, ma poi, dopo le varie audizioni, siamo arrivati a un anno di tempo. Voglio però precisare che non bisogna legiferare pensando a casi singoli, facendosi dettare le condizioni dagli ultimi avvenimenti: dobbiamo pensare a una legge lungimirante e concreta per gli anni a venire.

Avete pensato di inserire divieti anche per gli eletti, oltre che per i ministri?

Ci sono proposte del M5S che prevedono limitazioni anche per i parlamentari. Ma se vogliamo ottenere un risultato e arrivare all’approvazione, dobbiamo mediare e così abbiamo fatto. Se rimaniamo su posizioni estreme diventa controproducente, è inutile andare oltre l’immaginabile e non avere i numeri.

Quali resistenze avete incontrato finora?

Durante il governo Conte II eravamo riusciti a trovare un’intesa con Pd e LeU, ma non con Italia Viva, che durante le dichiarazioni di voto sul testo base era stata parecchio critica. Adesso, prima di fissare la scadenza per gli emendamenti, sarà necessario un confronto con la nuova, ampia, maggioranza.

Difficile che Lega e Forza Italia vi diano una mano. Confidate su una sponda dal governo?

Ho voluto subito incontrare la ministra Cartabia, che ha riconosciuto l’esigenza di intervenire sia sul conflitto di interessi che sulle lobby. Ho registrato forte sensibilità, come dimostrano anche le linee programmatiche che la ministra ha annunciato alla Camera. La strada per l’approvazione non è certo in discesa, ma vedremo che ruolo giocherà il governo.

Una legge sul conflitto di interessi la aspettiamo da decenni.

E ce lo ricordano ogni anno agenzie e enti specializzati, da ultimo il Greco (l’organo del Consiglio d’Europa che si occupa di lotta alla corruzione, nda). Ne va della credibilità della politica: dovrebbe essere chi ricopre ruoli pubblici a voler dimostrare che i suoi nuovi incarichi non sono frutto di altri interessi. Ci guadagneremmo in dignità e democrazia. Chi si occupa di queste cose sa perfettamente che serve una legge, ma poi fanno tutti orecchie da mercante.

Alfano, Minniti & C. I ministri di Renzi, casta che lavora

La sintesi più efficace viene da Giovanni Paglia, componente della segreteria nazionale di Sinistra Italiana: “Alfano è a capo del primo gruppo della sanità privata, Padoan si appresta a presiedere Unicredit, Minniti fa il promoter di Leonardo e ora De Vincenti va a lavorare per i Benetton. Tutti ex ministri o sottosegretari: viene quasi da pensare che il governo Renzi sia stato un ufficio di collocamento”.

La metafora funziona perché in effetti, quattro anni e mezzo dopo il referendum che mise fine all’esecutivo di Matteo Renzi, non è solo il senatore semplice di Rignano ad aver trovato fortuna fuori dai Palazzi della politica – in cui però l’ex premier tiene ancora un piede e mezzo dentro – ma anche parecchi dei suoi vecchi compagni di strada. Certo, nessun altro ha un posto come membro stipendiato di un board saudita benedetto dal principe Bin Salman, ma sono comunque tutti ben piazzati, anche grazie alle competenze e alle relazioni personali maturate durante quegli anni di governo.

Affari Banche, aerei e ospedali lombardi

L’ultimo caso è quello di Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo poi promosso ministro alla Coesione territoriale da Paolo Gentiloni, che prenderà il posto del defunto Antonio Catricalà come presidente di Aeroporti di Roma (Adr), la società controllata dalla famiglia Benetton che gestisce gli scali di Ciampino e Fiumicino.

Nel 2018 De Vincenti aveva fallito il ritorno in Parlamento, sconfitto in malo modo nel collegio uninominale di Sassuolo, dove il centrosinistra arrivò terzo dietro sia al centrodestra che al Movimento 5 Stelle. Occupandosi di aeroporti, per l’esponente del Pd sarà anche un ritorno all’antico: quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi – parliamo della fine del secolo scorso – De Vincenti coordinava il Nars, la struttura del ministero del Tesoro che regola i servizi di pubblica utilità. Tutti motivi per cui adesso potrà mettersi alle spalle l’ultima delusione elettorale, come per altro avevano già fatto altri colleghi dell’epopea renziana.

A indicare la via ci pensò Angelino Alfano. Già nel luglio 2019, l’ex ministro dell’Interno (con Gentiloni sarebbe passato agli Esteri) si fece convincere dall’allettante proposta del Gruppo San Donato, il colosso della famiglia Rotelli che domina la sanità privata lombarda e che gli offrì la presidenza della holding. Anche Alfano, come De Vincenti, era fuori da Montecitorio dal 2018, quando decise di non ricandidarsi.

La stessa cosa non si può dire per due ex ministri renziani approdati di recente ad altre carriere, scelte a scapito del posto in Parlamento. Pier Carlo Padoan ha infatti lasciato il seggio in quota Pd: a ottobre Unicredit lo ha designato componente del Consiglio di amministrazione e presto verrà formalizzata la sua nomina a presidente dell’Istituto. Un incarico per cui gli torneranno parecchio utili gli anni di esperienza da ministro dell’Economia, ben quattro tra il 2014 e il 2018, prima con Renzi e poi con Gentiloni. In Unicredit infatti potrebbe trovarsi a gestire la fusione con il Montepaschi, la banca che da ministro ha nazionalizzato nel 2017 e a cui il suo ex ministero garantirà una cospicua dote pubblica.

Allo stesso modo, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti farà tesoro del periodo al governo ora che dovrà dirigere la fondazione Med-Or, creatura del gigante della difesa e dell’aerospazio Leonardo (la ex Finmeccanica). E se di Minniti si ricordano soprattutto le fatiche nel contrasto all’immigrazione dal Nord Africa e nelle relazioni con la Libia, parte di quei temi torneranno centrali nella sua attività, dato che l’obiettivo di Med-Or è quello di costruire “un ponte” attraverso cui “far circolare idee, programmi e progetti concreti” nel settore della difesa e della tecnologia con i Paesi esteri “dal Mediterraneo allargato fin sotto il Sahara, fino al Medio ed Estremo Oriente”.

Se poi Minniti dovesse aver nostalgia degli anni al governo, potrà sempre farsi un giro nei corridoi di Leonardo, dove potrebbe incrociare una sua vecchia conoscenza dei Consigli dei ministri renziani. Da maggio 2020 infatti Federica Guidi fa parte del cda dell’azienda, dove è giunta quattro anni dopo aver lasciato lo Sviluppo Economico a causa dell’inchiesta sul progetto Tempa Rossa: non indagata, l’ex ministra fu intercettata mentre parlava con il compagno (archiviato dopo l’inchiesta) di un imminente emendamento che avrebbe riguardato anche gli interessi industriali dell’uomo. Finita l’esperienza al ministero, la Guidi ha anche potuto recuperare il posto in Ducati Energie (dove è vice-presidente esecutivo) e in Gmg Group, dove siede nel Consiglio di amministrazione.

Onu Agricoltura e scuola tra nazioni unite e europa

Un po’ diversi, ma certo non meno prestigiosi, i percorsi di Maurizio Martina e Stefania Giannini. Il primo, dopo quattro anni trascorsi alle Politiche Agricole e uno, particolarmente travagliato, da segretario reggente del Pd, a gennaio di quest’anno è stato nominato vicedirettore generale aggiunto della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura.

E all’Onu lavora da un pezzo anche Stefania Giannini, che con Renzi fu ministra dell’Istruzione fino al 2016. Dopo una lunga carriera universitaria e gli anni al governo, oggi la Giannini è vicedirettrice dell’Unesco, la nota agenzia che promuove “la pace e la comprensione” tra le Nazioni, ente in cui l’ex ministra ha la delega all’Istruzione.

Posizione da cui, anche in virtù dei mesi fianco a fianco al governo, potrà forse dare qualche consiglio a Federica Mogherini, ministra degli Esteri con Renzi e da settembre 2020 rettrice del Collegio d’Europa, l’Istituto di alta formazione in studi europei con sede a Bruges e a Varsavia e finanziato dall’Unione.

Il discorso di Conte e il futuro del M5S

 

Svolta È una vera rigenerazione, ma la risposta del Pd è deludente

La cura delle parole e della loro potenza trasformatrice; la centralità della competenza nell’aurea regola democratica dell’“Uno vale Uno”; i sentieri paralleli della democrazia rappresentativa e di quella diretta, che i 5 Stelle sperimentano da anni, anche se con fatica. Sono alcuni punti nodali della rifondazione che Giuseppe Conte ha proposto giovedì al Movimento. Non un restyling ma una rigenerazione basata sulla giustizia sociale, su una “cultura integralmente ecologica”, sull’etica pubblica, su una cittadinanza attiva che non viva solo nelle elezioni. Quel che colpisce è la reazione del Pd e dei giornali mainstream a questa promessa rifondatrice. L’alleanza con il M5S s’avvicina – pontificano – se Conte potrà davvero cambiare il Movimento, metterlo in riga. La pretesa è completamente assurda, se il Pd di Letta resta invece quello che è, non si sente anch’esso messo in causa, non ha alle spalle nessun “assalto al Palazzo”, e finge di rigenerarsi con risibili restyling femministi.

Barbara Spinelli

 

La strategia Moderato nei toni ma intransigente nei valori

Etica pubblica, onestà, competenza, lotta alla mafia, lotta alle diseguaglianze, giustizia e transizione ecologica. Sono queste le parole chiave del discorso di Giuseppe Conte. Un discorso che al di là dei passaggi sugli aspetti organizzativi del nuovo Movimento, assai complicati da realizzare (radicarsi sul territorio è un’impresa titanica), ci consegna la volontà dell’ex premier di trasformare i pentastellati in un vero e proprio partito. In una formazione che ricalchi il suo stile: moderato nei toni, disponibile quando necessario al compromesso, ma intransigente sui valori. Un passaggio su tutti rende bene l’idea del cambiamento immaginato da Conte: “La politica non deve lasciarsi accecare dalla polemica, deve cercare profondità di pensiero e riconoscere anche la bontà delle idee altrui”. Cosa che in Italia non avviene mai. Avverrà d’ora in poi nel Movimento nato dai vaffa? Non lo sappiamo. Ma già provarci, dopo aver ottenuto il plauso di eletti e iscritti, è un bel risultato.

Peter Gomez

 

La sfida Trasformare un uomo delle istituzioni in un leader

La democrazia parlamentare e la scienza politica spiegano in modo piuttosto puntuale quello che sta succedendo al Movimento Cinque Stelle. La democrazia parlamentare ha mostrato di non essere affatto debole e di essere ancora capace di imporre vincoli al comportamento di tutti gli attori al suo interno. Il Movimento Cinque Stelle ha dovuto trarne delle conseguenze significative sia nella formazione delle alleanze, sia, ora lo vediamo, nella durata dei mandati. La scienza politica dice che è difficile trasformare un movimento in un partito, ma che a determinate condizioni, sotto una guida competente, lo si può fare, anche con buone possibilità di successo. Adesso rimane da vedere se un leader istituzionale come è stato Giuseppe Conte abbia la capacità di trasformarsi in un capo politico a tutti gli effetti. Penso che questa sia la sfida principale per l’ex premier e per i Cinque Stelle: la sfida, la scienza politica dice che è una trasformazione possibile, anche se difficile.

Gianfranco Pasquino

 

Finalmente Basta infantilismi, è un partito di centrosinistra

L’idea di Conte è addirittura quella di “rifondare” il Movimento 5 Stelle. Finalmente il M5S va oltre la boiata del “né di destra né di sinistra” e si colloca – oserei dire ideologicamente – nell’alveo del centrosinistra. Già solo questa è una rivoluzione copernicana. L’impronta generale pare rifarsi ai Verdi tedeschi. Viene abbattuta la litania insopportabile dell’“uno vale uno”: Di Maio non vale Ciampolillo, Conte non vale Cunial. Eccetera. Basta anche col “tutti possono fare politica”: no, servono competenza e qualità. Non basta essere onesti. Bene le scuole di formazione, meno irrinunciabile il passaggio sul non usare toni “troppo aggressivi”. Ottime la sottolineatura della questione morale e l’apertura alla società civile. Le prossime mosse saranno recidere il cordone ombelicale con Casaleggio e abbattere il limite del doppio mandato. Il M5S di Conte ambisce a divenire un partito (sì, un partito) di radicalismo civico dentro il centrosinistra. È positivo? Sì. Ci riuscirà? Boh.

Andrea Scanzi

 

Il ruolo Parla da “pedagogo”: il Movimento ne ha gran bisogno

Il discorso di Conte ha confermato il giudizio che mi ero fatto da tempo: credo che sia una risorsa per la politica italiana. E d’altra parte mi ha fatto capire perché in molti abbiano fatto così tanto per farlo cadere. Ascoltando i diversi passaggi del suo intervento, mi pare Conte sia l’opposto di Draghi. I pilastri sono la coppia ecologia e giustizia sociale; la necessità di tenere insieme un rigoroso rispettoso dell’ambiente e la battaglia per ridurre le disuguaglianze. Mi pare significativo poi l’impegno di Conte di conciliare democrazia diretta e democrazia rappresentativa. È una bella acquisizione per un Movimento che è stato spesso “impreciso” su questi temi. Conte si è posto nella posizione di rifondatore di un Movimento di cui non si vogliono rinnegare le origini e la storia, ma che riconosce la necessità di adeguarsi alla nuova fase. Mi sembra una formula molto seria. Si candida a un ruolo pedagogico nel M5S e i 5 Stelle ne hanno bisogno. Forse ha sopravvalutato i cambiamenti dei 5 Stelle: le grandi battagli ambientali – contro il Tav, il gasdotto, per la chiusura dell’Ilva – sono state lasciate per strada.

Marco Revelli

 

Strada difficile Sarebbe stato più forte con un “brand” nuovo

Conte aveva due strade per rientrare nel mercato della politica: creare un nuovo partito o prendere la leadership del Movimento Cinque Stelle. Chi fa business in genere preferisce entrare in un mercato affidandosi a un marchio noto e facendo un restyling, così prende un brand affermato che ha già delle quote di mercato. In politica invece questa scelta dà raramente buoni risultati: il ciclo di vita dei partiti e dei leader politici è molto più breve di quello dei marchi commerciali. Conte ha scelto quindi una strada che sembra più facile – fare il leader dei Cinque Stelle – ma con un grande punto di debolezza: prende la guida di un partito in crisi e non è detto che vinca la sfida di rivitalizzarlo. Sarebbe stata una strategia più forte creare un “partito di Conte”. L’ex premier ha presentato una serie di nuove regole per i 5S, con il rischio di snaturarli e dividerli ancora di più. Se avesse applicato queste regole a un nuovo partito, sarebbero sembrate più legittime. La sua leadership rischia di spaccare ancora il Movimento: una parte non lo seguirà. Con un partito nuovo invece avrebbe avuto una forza aggregante.

Antonio Noto

E Vespa si attribuì due lauree…

Un mero errore materiale, sarà di sicuro quello, ma paradossale se si pensa a chi lo ha compiuto, vale a dire Pasquale Vespa, sindacalista dei precari della scuola e per 48 ore consulente del sottosegretario leghista al ministero dell’Istruzione, Rossano Sasso.

Il polverone alzato dal suo incarico al ministero mentre è a processo per commenti e frasi sessisti e minacciosi nei confronti dell’ex ministra Lucia Azzolina (accuse da cui lui si è sempre difeso ritenendola satira) ha portato Vespa prima sugli altari della cronaca e poi nella polvere della revoca dell’incarico. Al ministero avrebbe dovuto continuare la sua lotta in favore dei precari storici della scuola, la stessa che porta avanti da anni come presidente di un coordinamento dei precari che è un prolungamento anche del sindacato Uil a Napoli. Se però finora è stato solo il peggior nemico di se stesso, a spulciare bene le carte il povero Vespa rischia di essere – magari suo malgrado – un po’ nemico anche di quei precari che vuole rappresentare e difendere. Tra le domande inoltrate per iscriversi alle Gps, le graduatorie provinciali per insegnare, ha infatti erroneamente inserito per due volte il suo diploma di laurea: la prima volta (correttamente) nel comparto dedicato al titolo di accesso, la seconda volta invece nella sezione “altri titoli” in cui espressamente si indicava di non inserire il titolo di accesso. Il sistema ha così registrato la dichiarazione come fosse una seconda laurea e gli ha attribuito tre punti in più. Poi, il suo punteggio si è ridotto di 3 punti quando il sistema – sapientemente digitalizzato – ha effettuato la revisione per la classe di concorso in cui sta insegnando e ha segnalato l’incongruenza. Nelle altre classi per cui concorre è invece lo stesso.

Per fortuna la correzione ha impedito che quei punti in più gli facessero guadagnare dei posti in graduatoria a discapito di altri aspiranti supplenti che non sono incappati nello stesso errore. Certo, una svista di poco conto, ma che nella guerra tra poveri per accedere a una cattedra può cambiare le sorti di molti.

Ora la Lega punta ai precari arrabbiati: torna la sanatoria

Precari: la parola è in questo momento una delle più sensibili in viale Trastevere, sede del ministero dell’Istruzione. Complice l’ultima tegola, che ha portato alla rimozione di Pasquale Vespa – che dei precari è uno dei rappresentanti più famosi (vedi il pezzo qui in basso) – dal suo incarico di collaboratore del sottosegretario in quota Lega, Rossano Sasso. Per precari della scuola s’intende un esercito di almeno 64mila aspiranti docenti che da tempo chiede di avere una cattedra sulla base dei propri titoli e soprattutto degli anni di servizio. Chiedono la cosiddetta “sanatoria”, invocata come la panacea di una supplentite cronica, in opposizione ai concorsi pubblici invisi per un motivo (“non dobbiamo dimostrare più niente!”) o per un altro (“c’è il Covid, sono pericolosi”). Politicamente, poi, la sanatoria piace alla Lega per consolidare i consensi raccolti nell’ultimo anno di critica feroce all’operato del ministero. E infine fa comodo anche ai sindacati, che potrebbero così soddisfare le aspirazioni dei molti loro iscritti “ricorsisti”.

I precari, in sostanza, dicono di aver coperto per anni le carenze di una scuola in affanno e ora vogliono essere assunti, anche senza concorso. A ben guardare, oggi la situazione è praticamente la stessa di un anno fa (o di anni fa se è per questo) e torna l’ipotesi della sanatoria. La prospettiva per settembre, secondo le dichiarazioni dei sindacati, è di avere almeno 200mila cattedre scoperte: una cifra a cui si arriva contando molte altre categorie, come le cattedre di sostegno; quelle realmente vacanti dovrebbero aggirarsi attorno alle 100mila.

Va detto che l’eterno ritorno della supplentite e della discussione sui precari è in parte dovuto al Covid, in parte a una scelta politica: dopo mesi di scontro, l’anno scorso l’ex ministra Lucia Azzolina era riuscita a ottenere un concorso straordinario riservato ai precari di lunga data che, seppur semplificato, conservava la dignità di concorso. Parallelamente erano stati indetti i concorsi ordinari per tutti gli altri aspiranti docenti, compresi i neolaureati.

Se il primo è partito e si è svolto (mancano ancora tutte le correzioni), i secondi – come molti altri – sono stati bloccati dal virus. Tradotto: le cattedre vacanti a settembre sono un rischio tangibile, nonostante i concorsi “veloci” inseriti da Renato Brunetta nell’ultimo decreto (non è ancora chiaro come organizzare le sessioni in presenza).

Lo sblocco dei concorsi servirebbe però come il pane al nuovo ministro Patrizio Bianchi per tenere insieme le varie anime della scuola. I sindacati, ad esempio, sono assai contrariati per non aver ottenuto lo sblocco delle regole sulla mobilità, ovvero l’impossibilità per i docenti – una volta avuta la cattedra – di spostarsi per almeno 5 anni favorendo così la continuità didattica degli studenti. Pareva che il ministro potesse decidere per uno sblocco della mobilità dopo tre anni, ma non se n’è fatto nulla: per ora si deve decidere come rientrare velocemente e senza ulteriori complicazioni oltre a quelle, già difficilmente gestibili, del Covid.

In questo, ovviamente, bloccare i docenti nei posti che già occupano aiuterebbe molto: l’obiettivo è riuscire ad assegnare tutte le cattedre ai supplenti già entro il 31 luglio, grazie anche alla digitalizzazione delle graduatorie provinciali effettuata nell’ultimo anno. Contemporaneamente il ministero ha chiesto all’Inps di accelerare le pratiche dei pensionamenti (circa 27mila) e di velocizzare i trasferimenti.

Bianchi pare sapere che le cattedre vuote sono un argomento perfetto nelle mani di chi spinge per la sanatoria dei precari, come la Lega e la schiera di loro difensori che sta entrando al ministero passando per gli uffici del sottosegretario Sasso. E qui c’è una strana consonanza tra gli interessi del mondo “salviniano” e una previsione delle norme volute da Brunetta per la P.a. che potrebbe tradursi, nella scuola, in una sanatoria mascherata. Per le assunzioni a scuola, infatti, gli anni di servizio vanno a costituire un titolo vero e proprio: assunzioni semplificate nella P.a., basate soprattutto sui titoli, nel comparto istruzione significano dare precedenza a chi da più tempo insegna come supplente. Insomma, una sanatoria.

Il neo-ministro, tuttavia, non vuole essere associato ad alcuna sanatoria, né vuole che la pratica passi nelle mani del sottosegretario leghista: in questo senso, per Bianchi, è stato un colpo di fortuna la pubblicazione della notizia che la moglie di Sasso è un’avvocatessa e rappresentante dei ricorsisti. Il ministro, tecnico d’area dem, sa anche bene che in caso di sanatoria sia chi ha partecipato al concorso straordinario sia chi attendeva i concorsi ordinari potrà sbizzarrirsi coi ricorsi: i primi perché potrebbero avere come colleghi di ruolo anche coloro che sono stati bocciati (molte commissioni segnalano forti insufficienze), i secondi perché potrebbero vedersi togliere posti per cui si erano persino già iscritti a concorso (erano arrivate quasi 500mila domande).

Per ora sono allo studio diverse ipotesi su come procedere. La più accreditata è l’ideazione di una sorta di “corso-concorso”: prima una valutazione del candidato per titoli, poi una valutazione costante per un certo periodo una volta che abbia preso servizio. Solo alla fine, l’esito definitivo. Anche così, però, sarebbe in sostanza una sanatoria.

Quel “credito” che adesso Salvini vuole incassare

Nemmeno la visita a Budapest con due primi ministri ultrasovranisti come Viktor Orbán (Ungheria) e Mateusz Morawiecki (Polonia) ha fatto tornare il buon umore a Matteo Salvini. Brucia ancora troppo la sconfitta subìta dalla coppia Draghi-Speranza nel decreto di mercoledì con cui l’Italia è stata chiusa per tutto aprile senza la possibilità, come chiedeva a gran voce il leader della Lega, di tornare alle zone gialle dove possibile dopo Pasqua. Nonostante il “contentino” ottenuto che permetterà di cambiare le misure con una semplice delibera del Cdm, Salvini ha dato l’ordine ai suoi di attaccare Speranza reo di “chiudere tutto per ideologia” e ieri sul Corriere ha definito il titolare della Salute una “parete” che non vuole ascoltare. E mentre Pd e Lega si scontrano su chi deve “chiarire” sui rapporti con la Russia nella spy story dell’ufficiale Walter Biot, il segretario del Carroccio ha chiesto un incontro al premier ché, ripete ai fedelissimi, “adesso dobbiamo incidere di più”. Draghi riceverà Salvini a Palazzo Chigi dopo Pasqua, probabilmente già mercoledì, e sarà in quel contesto che il leghista porrà le sue condizioni per continuare a lavorare senza alzare i toni. Nel Carroccio infatti sono convinti che dopo la batosta sul decreto Aprile, Salvini abbia maturato un credito nei confronti del governo e sia pronto ad andare a riscuoterlo. In primo luogo, sulle misure anti-Covid, il leghista chiederà, spalleggiato da alcuni governatori come il ligure Giovanni Toti o il trentino Maurizio Fugatti, un’inversione di rotta già dalla cabina di regia di venerdì, quando i dati sui contagi potrebbero essere migliorati: Salvini vorrebbe considerare anche i parametri delle terapie intensive e del piano vaccinale ma anche che a metà aprile il Cdm torni a riunirsi per fare un “tagliando” dei dati e capire se ci sono le condizioni per riaprire.

L’altro fronte su cui Salvini chiederà di rivedere una decisione presa in cdm riguarda l’altra grande sconfitta leghista delle ultime settimane: il condono nel dl Sostegni. È cosa nota che la Lega avrebbe voluto la rottamazione delle cartelle esattoriali senza limite di reddito e per un tempo più lungo ma alla fine il governo ha optato per lo stralcio delle cartelle fino a 5 mila euro dal 2000 al 2010 e per i cittadini con un reddito inferiore a 30 mila euro. Per la Lega non è abbastanza e presenterà diversi emendamenti in Senato. Obiettivo: aumentare il periodo di tempo delle cartelle che scompariranno (fino al 2015), alzando il tetto da 5 a 10 mila euro ed eliminando il limite di reddito. Difficile che il premier accetti senza spaccare la maggioranza. Inoltre il leader della Lega vorrebbe ampliare la platea dei beneficiari dei prossimi ristori di aprile, che richiederanno un nuovo scostamento di bilancio: la cifra ipotizzata è di 30 miliardi ma Salvini vorrebbe portarla almeno a 40. Infine, fanno sapere i bene informati nel Carroccio, il segretario ha messo nel mirino anche alcune delle principali nomine nelle partecipate di Stato che sono sulla scrivania di Draghi e del suo sottosegretario Roberto Garofoli. “Anche Matteo vuole mettersi a tavola”, dice un senatore leghista. Per esempio sulle nomine nel cda e dei vertici Rai. Il premier ne ha parlato con Giancarlo Giorgetti ma, anche per i dissidi col suo vice, Salvini chiederà di essere coinvolto in prima persona.

“Norma pericolosa: dà poteri al governo su premesse vaghe”

In questo anno si è fatto (e giustamente) un gran parlare della limitazione delle libertà costituzionali in relazione alle norme anti-Covid. Dei Dpcm si è a lungo discusso perché da molti ritenuti inadeguati a disciplinare materie costituzionalmente sensibili dal punto di vista dei diritti fondamentali. Il governo Draghi ha scelto la via dei decreti legge. In quello del 1° aprile però è contenuta una previsione che ha fatto alzare più di un sopracciglio, e cioè la possibilità di modificare le norme previste con una “deliberazione” del Consiglio dei ministri. Abbiamo chiesto lumi a Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale alla Sapienza.

Professore, che pensa di questa previsione?

Mi sembra una misura pericolosa e inutile. Pericolosa, perché noi già abbiamo un sistema delle fonti sotto stress. L’emergenza pandemica ha inevitabilmente portato a strappi o forzature, proprio a causa dell’eccezionalità della situazione. I famosi Dpcm in materia di libertà e diritti fondamentali in una situazione ordinaria non avrebbero legittimazione, sono stati adottati per poter fronteggiare uno stato di assoluta emergenza che – in base a quanto previsto da due decreti legge convertiti dal Parlamento – rendeva necessario l’intervento immediato del governo. Già questi atti sono parsi al limite dell’assetto costituzionale delle fonti. Questo governo, ma nei suoi ultimi tempi anche l’esecutivo Conte, si è reso conto di queste eccessive forzature e ha cercato di correre ai ripari, limitandone l’uso e adottando la forma più lineare dei decreti legge. Questa ultima previsione appare andare in senso opposto. Ci si affida a provvedimenti del governo, che possono essere assunti senza neppure chiari parametri preventivi.

Anche i decreti danno problemi però, come l’effetto “matrioska”.

Certo. Questo nuovo decreto arriva in Parlamento mentre quelli precedenti sono fermi in commissione e probabilmente verranno lasciati decadere assimilando le parti ancora “buone” nell’ultimo testo disponibile. Senza che ci sia stata una verifica parlamentare. Oggi il Parlamento è in difficoltà, e anziché favorire un processo di riequilibrio che assicuri un maggior controllo delle Camere sugli atti dell’esecutivo si fa il contrario. Si passa alla mera “delibera” del governo, che non passerà mai al vaglio del Parlamento.

Prima lei ha detto “misura inutile”: perché?

Perché non c’è nulla che impedisca una più lineare soluzione. Se dovessero mutare le condizioni epidemiologiche e sanitarie il governo potrebbe procedere tranquillamente ad adottare un nuovo decreto legge, senza bisogno di alcuna autorizzazione preventiva e nel pieno rispetto del sistema delle fonti. Per questo ritengo che sia stata una misura poco meditata, credo sia stata assunta solo per ragioni di natura politica: raggiungere un compromesso con i cosiddetti “aperturisti”.

Non potrebbe essere un caso di delegificazione?

No. Abbiamo delegificazione quando la disciplina di alcune materie su cui non c’è la riserva di legge viene trasferita da norme primarie a norme secondarie. Qui si scrive che la delibera opererebbe “in deroga”. La natura giuridica dell’atto del governo, in realtà, è piuttosto oscura. Una previsione che ammette la deroga di un atto di legislazione primaria da parte di una delibera del governo rappresenta una vera novità. Peraltro una delibera che non si propone – come i Dpcm – di “attuare” quanto previsto nel decreto legge, bensì di “derogare” (ovvero far venir meno) quanto stabilito dalla fonte primaria. Non è una differenza da poco.

Perché è preoccupato del fatto che non siano indicati i parametri?

La formula che autorizza il governo è troppo vaga. Il decreto legge dice che la deroga si potrà fare in ragione dell’andamento epidemiologico e della campagna vaccinale. Che vuol dire? Non c’è alcuna indicazione specifica. Almeno le ordinanze del ministro della Sanità che regolano il sistema dei colori e le relative restrizioni sono fondate su parametri certi. Qui si dà una possibilità di deroga al Cdm sulla base di una formula del tutto indeterminata.

Decreti attuativi, ne mancano all’appello più della metà

Non basta, in nome dell’emergenza pandemica, legiferare con i decreti legge. Poi servono i decreti attuativi che devono essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale da ogni ministero per dare attuazione alle norme, il vero motivo per cui spesso alcune misure vengono annunciate ma non entrano in vigore per mesi o anni. Da quando si è insediato, così il governo Draghi si è trovato sulle spalle un macigno molto pesante: secondo l’ultimo rapporto di Open Polis che ha rielaborato i dati dell’Ufficio per il programma di governo, sui 1.178 decreti attuativi richiesti dai 95 atti aventi forza di legge (leggi, decreti o decreti legislativi), ben 675 mancano ancora all’appello. Più della metà: il 57,3%. Molti di questi sono stati lasciati in eredità dal governo Conte 2 che, per rispondere all’emergenza Covid, è stato costretto ad approvare una quantità molto elevata di decreti legge in tempi rapidi che richiedevano molti decreti attuativi. La misura con il maggior numero di decreti attuativi mancanti è la legge di Bilancio (57 decreti su 122 richiesti; il 46,7%), poi c’è il dl Rilancio (43 su 137; 31,4%) e il dl Agosto (40 su 63; 63,5%). Paradosso dei paradossi: il decreto Semplificazioni, approvato a luglio dai giallorosa per sbloccare e snellire la burocrazia sulle opere pubbliche, ha la percentuale più alta di decreti attuativi mancanti: 31 su 37 (83,8%). Tra le norme non ancora applicabili c’è il fondo contro le discriminazioni di genere o una sulla messa in sicurezza di ponti e viadotti. Secondo Open Polis i dicasteri che fanno peggio sono quelli dell’Economia (97 decreti mancanti su 193), Infrastrutture e Trasporti (83 su 131) e Sviluppo Economico (64 su 100). Ma il vizio dei ritardi sulle attuazioni delle norme non può essere totalmente attribuito al governo precedente: il nuovo dicastero della Transizione Ecologica di Roberto Cingolani in un mese e mezzo non ha ancora pubblicato un solo decreto attuativo di sua competenza sui 15 totali.

Ong, giornalista intercettata a Trapani. La ministra Cartabia manda gli ispettori

La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha disposto accertamenti sul caso dell’inchiesta della Procura di Trapani sulle Ong, dove i magistrati, su richiesta della polizia, hanno intercettato la giornalista d’inchiesta Nancy Porsia. Una procedura che non è escluso possa portare all’invio di ispettori. La reporter era stata messa sotto ascolto e pedinata senza mai essere indagata, e senza che a suo carico fossero ipotizzati reati. Una richiesta motivata proprio dal fatto che Porsia nelle sue inchieste si è occupata spesso di migrazioni e delle organizzazioni specializzate nel traffico di esseri umani. Tra le intercettazioni agli atti dell’inchiesta di Trapani anche una conversazione con il suo avvocato, Alessandra Ballerini, legale che ha seguito la famiglia Regeni. “Il retrogusto amaro di tutta questa faccenda è avere la conferma che chi doveva proteggermi invece mi intercettava. Questo è certo. La mia vita era in pericolo e loro lo sapevano”, ha commentato ieri la giornalista. Altri cinque giornalisti – Antonio Massari, Nello Scavo, Fausto Biloslavo, Francesca Mannocchi e Claudia Di Pasquale, sono finiti nelle intercettazioni in modo indiretto.

il caso ieri ha provocato forti reazioni. “Siamo di fronte allo sfregio del segreto professionale – ha commentato il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna – La vicenda appare di estrema gravità e merita una mobilitazione, non solo della categoria. Emblematica l’intercettazione di una giornalista che parla con l’avvocata. Dove arriverà questo Paese, alle cimici nei confessionali? È un fatto che riguarda la qualità della democrazia”. Così la Fnsi, il sindacato dei giornalisti: “Chi e perché ha disposto tali misure? Si volevano scoprire le fonti, violando il segreto professionale? A che titolo sono state trascritti i colloqui tra la cronista e la sua legale? Perché, particolare ancora più inquietante, sono stati trascritti brani relativi all’affaire Giulio Regeni?”.

Sulla vicenda ieri è intervenuto anche il procuratore capo di Trapani Maurizio Agnello: “Premetto subito che non intendo assolutamente disconoscere questa vicenda – ha dichiarato all’Adnkronos – ma voglio sottolineare soltanto che io ho preso servizio nel febbraio 2019, quando era già in corso l’incidente probatorio del procedimento, io e le colleghe assegnatarie abbiamo ereditato questo fascicolo. Come mi ha riferito l’ex capo della Squadra Mobile di Trapani la giornalista Nancy Porsia è stata intercettata per alcuni mesi nella seconda metà del 2017, perché alcuni soggetti indagati facevano riferimento a lei che si trovava a bordo di una delle navi oggetto di investigazioni”.

Alitalia, rischio stop. Martedì incontro con l’Ue

Resta incerto il destino di Alitalia, in amministrazione straordinaria, la cui cassa si è esaurita, come testimonia il pagamento in ritardo e al 50% degli stipendi dei dipendenti. Ora rischia il fermo operativo a fine mese. Per questo, già dall’inizio della prossima settimana si tenterà di arrivare a una soluzione, a cominciare dal confronto con Bruxelles che dovrebbe esserci martedì prossimo. Il 2 maggio ricorreranno i 4 anni dall’inizio dell’amministrazione straordinaria: la previsione era di concludere che la vendita della compagnia nell’arco di pochi mesi. Ed è anche un anno che è stato concepito il progetto di rilancio che ha poi visto la nascita della newco Ita con un dotazione di 3 miliardi. Se nello scorso dicembre, con l’approvazione del nuovo piano industriale, si puntava al decollo in aprile, lo stallo nel negoziato con la Ue sta allungando sempre di più i tempi della partenza.

Il fattore tempo è fondamentale anche per poter competere sull’alta stagione del trasporto aereo anche perché la concorrenza non è rimasta a guardare in questi mesi. Se le compagnie italiane navigano in acque tempestose, il mercato italiano ha sempre il suo inossidabile appeal e, se la campagna di vaccinazione prosegue con successo, ci sono potenzialità importanti da cogliere e da sfruttare. Si spiegano così i piani predisposti dalle compagnie straniere in questi mesi, da Ryanair a Easyjet, da Wizz Air a Vueling che annunciano nuovi voli e basi in Italia. Intanto a Fiumicino si è svolta una manifestazione spontanea degli addetti di terra che hanno esposto cartelli con gli stipendi di marzo che vanno da alcune decine di euro a poche centinaia di euro. Il 7 aprile si terranno nuovi sit-in organizzati da Filt Cgil, Fit Cgil, Uiltrasporti e Ugl. Poi il 14 aprile ci sarà la manifestazione di tutto il trasporto aereo. Non c’è infatti solo la crisi di Alitalia: c’è Air Italy che ha aperto le procedure di licenziamento collettivo per quasi 1.400 lavoratori, mentre Blue Panoramaha rinnovato la Cig.