È caduto mentre in bicicletta stava facendo una consegna e ora – dopo essere stato operato d’urgenza a causa di una perforazione intestinale – è ricoverato all’ospedale ferrarese di Cona in coma farmacologico. Protagonista della vicenda, un rider 23enne di origine pakistana. Finito al centro del dibattito dopo che la fidanzata italiana ha raccontato al quotidiano La Nuova Ferrara di dover combattere anche con la burocrazia dato che, per aprire la pratica di infortunio, ci sarebbe voluto il codice identificativo del ragazzo. Che solo lui conosce e che non può essere riferito a voce, essendo in coma. Una vicenda che ha sollevato l’interesse del ministro del Lavoro, Andrea Orlando. E ha visto l’azienda cui fa capo il ciclo-fattorino, Deliveroo, precisare la propria posizione dicendo di avere già avviato l’iter del caso. Il ministero, venuto a conoscenza della caduta del giovane, ha sentito l’Inail che, vista l’eccezionalità del caso, si è detta disponibile a prestare le tutele necessarie al fattorino. Cui la stessa Deliveroo, ha espresso vicinanza e assicurato il coinvolgimento. “La pratica infortunistica è stata gestita e trasmessa all’Inail in linea con quanto previsto dalla normativa – chiarisce la multinazionale – Il rider è assicurato e confermiamo che la pratica è stata gestita. L’azienda è e resterà in contatto con le persone più prossime al rider coinvolto nell’incidente, compresa la sua ragazza”. Proprio le parole della giovane hanno infatti sollevato la questione: a suo dire, per avviare l’iter relativo all’infortunio era risultato inutile fornire nome, data di nascita, fotocopia del documento del fattorino, visto che, aveva sottolineato, “questi ragazzi sono ridotti a un numero”, il cosiddetto “Id rider”. I fatti risalgono a martedì scorso, quando, verso le 14.30, il rider – che da tre anni svolge questa attività – stava pedalando per lavoro lungo via Copparo, a Ferrara: per evitare un’auto, è caduto e la bicicletta gli è finita addosso. Il ragazzo è stato operato e ora si trova in coma farmacologico.
L’antidroga va alla Dadone (M5S), scontro in maggioranza. FI: “Così il governo cade”
Rissa in maggioranza per la delega sulla droga affidata alla ministra M5S alle Politiche giovanili, Fabiana Dadone. Il maggiorente di Forza Italia, Maurizio Gasparri, minaccia di far saltare il governo Draghi. Ma si scatena pure Giorgia Meloni dall’opposizione, che coglie al balzo l’occasione per mettere in mora gli alleati di centrodestra che appoggiano l’esecutivo: “È grave e deludente che per un compito così delicato come la lotta alle dipendenze sia stato scelto un politico firmatario di proposte per legalizzare la cannabis. Rinnovo il mio appello ai partiti di centrodestra affinché si facciano sentire con decisione: FdI lo farà”. Attacchi strumentali per il M5S che fa quadrato attorno a Dadone. A partire da Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera: “Le critiche sono palesemente aprioristiche e strumentali. La Corte di Cassazione ha già stabilito i limiti entro i quali è consentita la coltivazione della cannabis per uso personale. Presto calendarizzerò la proposta di legge per inserire quei principi nel nostro ordinamento”.
Un festino con i politici: scandalo a San Marino
ASan Marino i vincoli imposti dalle leggi non sono uguali per tutti. O meglio: chi le leggi le presenta e le fa approvare può (allegramente) trasgredirle. Anche quando riguardano le misure restrittive imposte dalla pandemia. E in effetti erano tutti molto allegri – tanti persino ubriachi, qualcuno senza mascherina – gli esponenti politici della maggioranza di governo del Titano che il 1° aprile sono stati pizzicati dalla gendarmeria mentre festeggiavano l’elezione di uno dei due capitani reggenti (l’equivalente del nostro presidente della Repubblica): il democristiano Giancarlo Vittorini che guiderà il Paese per sei mesi insieme all’altro eletto, Marco Nicolini, del movimento Rete.
C’erano numerosi membri del Consiglio grande e generale (il parlamento sammarinese), un segretario di Stato (che è come un nostro ministro) e persino dirigenti della sanità. Circa una settantina di persone hanno partecipato al festino che si svolgeva nel retrobottega di un negozio, una coda dei festeggiamenti iniziati con il tradizionale pranzo per l’investitura dei due capi di Stato. C’è chi ha persino postato su Facebook delle foto di quella adunata con gli immancabili calici di vino in mano – foto poi cancellate – con la scritta “Dimmi che rumore fa la felicità”. Quando sono arrivati i gendarmi, avvisati dai cittadini che dalle case vicine stavano assistendo a quell’andirivieni e all’assembramento, ne hanno trovati sei. Gli altri se l’erano già squagliata. Tutti membri di quella stessa maggioranza – guidata dalla Democrazia cristiana: qui esiste ancora ed è un partito molto radicato – che ha approvato il coprifuoco alle ore 20, la chiusura degli esercizi pubblici e dei negozi alle 18, il divieto di assembramenti e lo stop alle feste.
Tutto per contrastare una pandemia che fino ad ora qui ha provocato quasi 4.800 contagi, su una popolazione di circa 33mila abitanti, e oltre 80 morti. I gendarmi hanno preso nomi, redatto i verbali. Ora, fanno sapere, dovranno valutare se procedere anche nei confronti di chi ha messo a disposizione il retrobottega. Non senza evidente imbarazzo, visto che questa volta i trasgressori sono gli stessi che hanno voluto i decreti. Soprattutto nell’indignazione generale. Al governo, dal gennaio del 2020, insieme alla Democrazia cristiana ci sono il movimento Rete e il gruppo consigliare Noi per la Repubblica, nel quale sono confluiti transfughi del centrosinistra ma anche della destra. C’è anche Motus Liberi (piccolo partito che non aveva suoi esponenti presenti al festino) e che ha preso le distanze, chiedendo che “le forze dell’ordine svolgano tutte le indagini necessarie”. Tutto si è svolto dalle 16 alle 18,30. “Il fatto più grave è che a violare la legge siano stati rappresentanti delle istituzioni”, dice Matteo Ciacci, segretario di Libera (sinistra), principale partito di opposizione, che ha subito presentato una interpellanza al governo.
C’è da dire che qualcuno ha già fatto ammenda. Sono Alberto Giordano Spagni Reffi e Gloria Arcangeloni, entrambi consiglieri di Rete, che hanno rimesso il loro mandato al consiglio direttivo del movimento. Una leggerezza, dicono ora: “Non si trattava assolutamente di un festino preorganizzato, bensì di un evento estemporaneo e improvvisato, al cui invito abbiamo risposto con eccessiva superficialità”. Nel frattempo proseguono le vaccinazioni. Con Pfizer ma anche con Sputnik, il vaccino ottenuto da Mosca, in febbraio, grazie alle ottime relazioni che legano la Russia e la piccola repubblica.
Guaio AstraZeneca: anche l’Italia valuta di limitarlo a over 60
C’è una donna in rianimazione al San Martino di Genova: 32 anni, trombosi cerebrale, il 22 marzo si era vaccinata con AstraZeneca e venerdì ha avuto i sintomi, gravi. I Paesi Bassi ieri l’altro hanno limitato agli over 60 le vaccinazioni con il prodotto dell’azienda anglo-svedese dopo 5 casi “sospetti”, ieri le hanno sospese del tutto. In Gran Bretagna al 24 marzo, ha fatto sapere il Medicines and healthcare regulatory agency (Mhra), ci sono stati sette decessi su 22 casi di trombosi cerebrale dei seni venosi e otto altri tipi di trombosi, 30 in tutto su 18 milioni di vaccinati con quel prodotto. Non vi è certezza di un nesso causale col vaccino, anzi il Mhra ribadisce che “i benefici superano i rischi”. Sappiamo solo che alcuni eventi avversi si presentano in numeri limitati ma ritenuti superiori all’atteso e in misura assai variabile da un Paese all’altro: nei 14 giorni presi in esame dal report dell’agenzia europea del farmaco europeo Ema datato 18 marzo 2021 le trombosi del seno cerebrale erano in tutto 15, 13 nello Spazio economico europeo (Ue più Islanda, Liechtenstein e Norvegia) e 2 in Gran Bretagna, ma in percentuale corrisponde al 42% in più del valore atteso nell’intera area e addirittura al 394% in più, il quintuplo, eliminando i dati britannici. Riguardano soprattutto giovani donne, che a volte prendono la pillola anticoncezionale e a volte no.
Si cerca di evitare reazioni scomposte come quelle delle scorse settimane, quando in Italia siamo passati da “è sicurissimo” a “fermiamo tutto” dopo che l’ha fatto la Germania. La Danimarca non ha mai ripreso a usare AstraZeneca. Il sottosegretario Pierpaolo Sileri ieri ha rassicurato: “Numeri bassissimi”. Il professor Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive al Sacco di Milano, vede “questioni politiche” dietro la scelta olandese: “I dati esatti della frequenza precedente di questi fenomeni, non ci sono. Non ci sono lavori che dicono che i casi siano più frequenti di quanto si creda. È impossibile stabilire una relazione stretta tra i due fenomeni, le trombosi e il vaccino”. Insomma, grande pressione su AstraZeneca – il vaccino su cui l’Ue e l’Italia hanno puntato di più – e intanto c’è chi esalta Sputnik.
Aspetteremo le valutazioni di Ema sulle trombosi, forse già martedì. Al ministero della Salute però si avanza l’ipotesi di fare come in Francia, Germania e altri Paesi e limitare AstraZeneca al di sopra di una certa età, potrebbe essere 65 anni. “Utilizzeremmo Pfizer per i giovani, non sarebbe una cattiva idea perché i primi studi negli Stati Uniti rilevano un’elevata efficacia di Pfizer/Biontech nel prevenire l’infezione e non solo la malattia grave. Può essere utile proprio per i giovani che hanno maggiori contatti. E AstraZeneca offre agli anziani assolute garanzie contro la malattia grave”, ragiona una fonte qualificata. I Centri per il controllo delle malattie (Cdc) statunitensi hanno reso noto uno studio condotto su 3.950 medici, infermieri e altri lavoratori vaccinati con Pfizer/Biontech e Moderna e monitorati per 13 settimane quando già circolavano le varianti: il rischio di infezione è ridotto del 90% dopo due dosi e dell’80% dopo una sola.
Nulla è deciso, tocca ad Aifa, l’agenzia del farmaco, che all’inizio aveva consigliato AstraZeneca agli under 55 perché non erano ritenuti sufficienti i dati sugli anziani, che poi sono arrivati con le vaccinazioni in Gran Bretagna. Ma c’è anche chi scappa da quel vaccino: ieri il Sappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, ha fatto sapere che il 20-30% degli agenti lo rifiuta e chiede Pfizer o Moderna; a Roma girano nelle chat elenchi degli hub che fanno questo o quel vaccino in modo che l’utenza possa provare a scegliere.
Terapie intensive sature ma Salvini e Fontana parlano di “riaperture”
“Ancora sette, dieci giorni di passione in terapia intensiva”, è convinto il professor Massimo Antonelli, responsabile della Rianimazione del Gemelli di Roma. Lo aveva detto qualche settimana fa: “È il momento più difficile”. E così è stato, terapie intensive sature un po’ ovunque, ieri il saldo nazionale delle ultime ventiquattr’ore riportava ancora un +10, con 234 nuovi ingressi e un totale di 3.714 malati. E “la fatica di un anno si sente, anche se non molliamo mai”, sospira Antonelli. “La situazione in ospedale è piuttosto critica – spiega Andrea Cambieri, direttore sanitario del Gemelli –. Nella notte tra venerdì e sabato abbiamo avuto molti ingressi, circa una ventina di pazienti. La terapia intensiva, per quanto riguarda i pazienti Covid, è satura. Abbiamo 69 letti dedicati e sono tutti pieni”. Al Policlinico Umberto I, altro grande ospedale di Roma, non è molto diverso: “In intensiva abbiamo 51 posti letto occupati su 55 disponibili, siamo evidentemente sotto pressione”, racconta Francesco Pugliese, direttore del dipartimento Emergenza. E il picco è previsto a giorni, almeno nella capitale (nel Lazio 392 posti letto occupati), poi i reparti di terapia intensiva cominceranno lentamente a svuotarsi. A Firenze i posti letto in rianimazione sono addirittura esauriti e i medici pronosticano: “Il picco è ancora lontano”; mentre la Lombardia ha raggiunto il record del doppio del valore soglia con 862 presenze.
La percentuale media nazionale di occupazione dei posti letto da parte di pazienti Covid nelle rianimazioni è al 41% (con lievissime oscillazioni nell’ultima settimana), ovvero ben 11 punti percentuali oltre la soglia critica fissata al 30% dal ministero della Salute, come certificano gli ultimi dati dell’Agenzia per i servizi sanitari (Agenas), aggiornati alle 18.35 di ieri. In particolare sono 14 le regioni decisamente oltre il livello critico. La situazione peggiore è, appunto, quella della Lombardia al 61%, seguita dal Piemonte al 59% e dalla provincia autonoma di Trento (57%). Ancora molte sopra soglia: Marche (56%), Emilia-Romagna (48%), Friuli Venezia-Giulia (45%), Puglia e Toscana (44%), Lazio (42%), Umbria e Valle d’Aosta (40%), Molise (36%), Liguria (35%), Abruzzo (33%).
Questa è la situazione negli ospedali e il professor Antonelli, prevedendo il picco fra dieci giorni e poi la lenta discesa, aggiunge: “Sperando che la Pasqua non complichi tutto”, tra violazioni delle misure, riunioni familiari, viaggi all’estero (questi consentiti). Se gli scienziati hanno poche certezze e molti timori i soliti politici non hanno remore nello sfoggiare ottimismo, a cominciare da Matteo Salvini, ovviamente. Il capo della Lega ieri sul Corriere della sera favoleggiava: ho chiesto un incontro “con Draghi per parlare del ritorno alla vita; ci sono intere regioni in cui la situazione per fortuna è più tranquilla, riaprire in quei territori non è un capriccio di Salvini”. Il governatore della Lombardia Attilio Fontana, sempre della Lega, con la regione messa peggio dall’inizio della pandemia, addirittura si sospinge a indicare una data: “Sono convinto che dal 12 di aprile inizierà questa grande operazione della vaccinazione di massa e riusciremo a dire basta a queste troppe limitazioni che stiamo subendo”.
Più cauto sulle date, ma anche il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri mostra ottimismo: “I numeri tendono a migliorare e grazie alla vaccinazione siamo davvero all’ultimo miglio e a maggio molte regioni saranno gialle e qualcuna sarà bianca. A quattro settimane vediamo che i vaccini hanno il loro pieno effetto immunizzante. Dalla metà di aprile dovremmo vedere un progressivo calo dei ricoveri, e dalla metà di maggio potremmo vedere ciò che ha visto in questi giorni la Gran Bretagna, ovvero un numero di morti vicino a zero”. Ed effettivamente rispetto all’Italia il Regno Unito va a un’altra velocità: superata quota cinque milioni di vaccinati (prima e seconda dose) e il numero dei decessi per Covid cala ai minimi da sette mesi con 10 morti nelle ultime 24 ore, il numero più basso di vittime dal 14 settembre del 2020, mentre i nuovi contagi ieri erano 3.423.
Ehi, dici a noi?
Un tempo, se ricordavi le condanne di un politico, ti beccavi del “giustizialista” dal Giornale&C.. Ora te lo becchi dal Giornale&C., ma anche, in stereo, da Repubblica. È capitato a Di Battista, reo di notare che i renziani chiedono alla Rai il bavaglio per Scanzi, mai indagato, e non per le orde di pregiudicati e imputati per gravi reati che pontificano come gigli di campo. Apriti cielo. Sallusti sul Giornale e Cappellini su Rep sono insorti come un sol uomo, riproducendo su carta le larghe intese di governo. Sallusti, a suo modo, è financo divertente. Invece Cappellini, offeso perché i talk “pagano Scanzi per fare l’opinionista” e lui no, ci rifila un bignami di storia del giustizialismo, noioso quasi quanto lui. Un frullato di storie e persone diverse per deplorare chi detesta i corrotti anziché esaltarli: un vizio tipicamente “reazionario”, che però purtroppo “nasce a sinistra” fin da quando il Pci, invece di colludere con le Br, “sperimenta il collateralismo con le procure” (testuale). Poi c’è Tangentopoli, “col tifo per i pm del pool di Milano” anziché per i ladri. Segue una raffica di slogan copiati paro paro dal catalogo berlusconiano: “avviso di garanzia come condanna anticipata, carcerazione preventiva per estorcere confessioni, difesa in minorità rispetto all’accusa e presunzione di colpevolezza teorizzata da Davigo, star di un giustizialismo colorato nel frattempo di grillismo”. A quel punto, “nelle tribune della sinistra o sedicente tale”, arriva il “nuovo Zdanov”, cioè il sottoscritto, in compagnia dei putribondi “Santoro, Di Pietro e Funari”, e “l’Unità di Furio Colombo” mi “elesse commentatore principe” (anziché eleggervi, che so, un Cappellini). E poi “il girotondino Flores d’Arcais” e quel facinoroso di Asor Rosa, al grido di “più Ddr per tutti”.
Ora, se non andiamo errati, Asor Rosa scrive su Repubblica fin dalla fondazione. E Flores dirigeva MicroMega per il gruppo Repubblica-Espresso, mentre l’Espresso di Rinaldi rivaleggiava con Repubblica di Scalfari e Mauro nel pubblicare i verbali di Mani Pulite, i memoriali dell’Ariosto, le 10 Domande a B. su Noemi ecc. Da quelle stesse colonne, Cappellini ci spiega che il suo giornale ha sbagliato tutto per 40 anni finché, reduce dal Riformista, dal Messaggero e da Mediaset, arrivò lui. Possibile, per carità: ma non si vede perché lo venga a dire a noi. Onde evitare che completi la storia del giustizialismo con la seconda puntata sul gruppo Repubblica-Espresso, ci appelliamo ai casting dei talk, anche del mattino presto o della sera tardi: offrite due spicci pure a Cappellini. Non più perché non venga, ma perché venga. Sì, è vero, il motto di Montanelli era “Un solo padrone: il lettore”. E il suo è “Un solo lettore: il padrone”. Ma fate un’opera buona. Sennò riattacca il pippone.
Il “secolo breve” dello Stato sociale: troppo breve per essere accettato
Ci sono realtà conosciute che è bene rileggere e studiare nuovamente per stare correttamente nel flusso del dibattito. La situazione dello Stato sociale in Italia è uno di quei temi su cui si dibatte molto, ma senza studiare abbastanza, e il libro di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan permette di dotarsi di un buon manuale di dati e sviluppo storico per inquadrare la questione nel modo migliore.
Il refrain degli ultimi venti anni, infatti, è quello che la spesa pubblica, cioè sociale, in Italia è troppo alta e quindi va tagliata come in effetti è stato fatto dal 1992 in poi. Uno dei meriti del libro è quindi abituarci a distinguere tra “spesa pubblica” e “spesa sociale” mostrandoci, nel caso italiano, come la divaricazione delle due sia stata funzionale a fasi diverse della storia politica ed economica del Paese.
L’Italia accumula un grande ritardo rispetto agli grandi Paesi europei (Francia e Germania) di cui riesce a intersecare la curva solo dopo il boom degli anni 50-60 e le lotte sociali di fine anni 60 e anni 70. Se nel 1960 la spesa sociale italiana è poco sopra il 10% del Pil e quella francese e tedesca si colloca tra il 10 e il 15%, alla fine degli anni 90 tutte e tre viaggiano intorno al 20%. La spesa sociale “è un fattore chiave del boom”. Gli anni 80 però vedono l’impennata del debito italiano, che non ha niente a che vedere con la spesa sociale che, infatti, “cresce a ritmi più modesti” mentre la spesa pubblica raggiunge nel 1993 il 56% del Pil. L’austerità imposta da Maastricht la porterà al 46% nel 2009, ma la spesa sociale cresce molto meno di quella pubblica e arriva al 22% nel 1992. E se nel 2015 raggiunge il 28%, ciò si deve in gran parte alla stagnazione del Pil (praticamente fermo tra il 2008 e il 2015).
Ormai spesa sociale fa rima con riduzione dei costi, in pieno spirito neoliberista. Lo Stato sociale ha avuto il suo momento di gloria per circa 30-40 anni in quello che le autrici definiscono il suo “secolo breve”. Forse troppo breve per essere accettato.
“Il mio passato è un libro: agli altri lascio il titolo”
“Lei che non credeva in nessuna specie di immortalità non poté fare a meno di sentire che la sua anima sarebbe andata e tornata in eterno” scriveva in Orlando, opera ispirata dall’intimità con la poetessa Vita Sackville-West. Immortale, Virginia Woolf, lo è diventata. Quando decise di andarsene aveva 59 anni, era il 28 marzo del ’41, scrisse una struggente lettera al marito Leonard, la posò sulla mensola del camino di Monk’s House, residenza di campagna nel Sussex e ultima dimora dopo che il loro ottavo nido londinese fu bombardato nel ’40, si diresse verso il fiume Ouse, meta di molte passeggiate, riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare.
Sulla scrivania aveva lasciato il manoscritto del romanzo Fra un atto e l’altro, in cui incombe un senso di fine e smarrimento, stato intimo ma anche riflesso di un momento storicamente drammatico, uscito postumo dopo successi come La stanza di Giacobbe, La signora Dalloway, Al faro, che l’hanno consacrata icona del flusso di coscienza al pari di Joyce.
Ipersensibile, da sempre minata da una specie di disturbo bipolare, trovava conforto nella scrittura, a cui si dedicava due ore e mezza al giorno, che fu sempre un volgersi dentro, “era arrivata a pensare che quello che si sente è l’unica cosa che valeva la pena di dire”, si legge ne La signora Dalloway. “Non ho mai conosciuto nessuno che amasse tanto scrivere”, disse l’amico Edward Forster e in effetti Virginia scrisse sin da piccola, fu da giovane giornalista su temi disparati, dalla moda agli animali, dalle guerre ai diritti delle donne, pubblicò saggi, romanzi, racconti, diari e lettere.
Guizzanti e stranamente poco malinconiche quelle tra lei e il biografo Lytton Strachey che Woolf meditò anche di sposare perché lo vedeva come un fratello (era omosessuale) e con lui avrebbe potuto evitare la temuta intimità. La tentata violenza quando aveva sei anni da parte del fratellastro George la traumatizzò ed ebbe sempre un cattivo rapporto col proprio corpo che riteneva mostruoso. Sposò invece l’intellettuale Leonard Woolf, che le rimase nottetempo vicino e le regalò nel 1917 un torchio tipografico cosicché potesse stampare i suoi scritti in autonomia. Da quel dono nacque l’editrice Hogarth Press che pubblicò penne come T.S. Eliot, Freud (quando s’incontrano per la prima volta lui le regala un narciso), Italo Svevo, Katherine Mansfield, per cui Virginia non nutre immediata simpatia, lo si evince dallo scambio con Strachey, ma va detto che ebbe da ridire pure su Henry James nei cui lavori non vedeva che “acqua di rose blandamente colorata, mondana e setosa ma grossolana”.
In perenne lotta contro depressione, emicrania e allucinazioni, Woolf non ebbe vita semplice. “Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” scrisse. Provata prima dalla morte della madre quando è ragazzina, poi da quella del padre, della sorellastra Stella e ancora del fratello Tobhy, quando stava bene si rivelava però socievole, amante del dibattito culturale (fu anima del circolo intellettuale Bloomsbury), attenta ai diritti delle donne in una società vittoriana di stampo patriarcale. Lei, che con la sorella Vanessa era stata istruita in casa perché femmina, considerava vitale per ogni donna essere economicamente indipendente e avere una stanza tutta per sé. “Non c’è cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente” scrisse e si augurava fosse così per tutte.
Ipersensibile fu sempre tesa a cogliere il senso della vita. In Al faro la pittrice Lily si domanda quale sia. “La grande rivelazione non era mai arrivata. La grande rivelazione forse non arriverà mai. C’erano invece piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi inaspettatamente nel buio”. Ecco, la vita per Virginia stava negli attimi, anche in una chiocciola che si fa strada in un prato come nel racconto Kew Gardens: la vita “non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente, è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine”.
Mistero a Venezia: il patriarca sparisce, poi viene ucciso un gondoliere gay
Incredibile: a Venezia è sparito il patriarca, un omino mite che si chiama Franco Bisato. “Fra i veneziani era considerato in odore di santità per la sua insistenza sull’aiuto ai diseredati”. Insomma un cardinale francescano, non mondano e grassone. Dov’è finito, allora, il patriarca? La notizia investe come un ciclone la redazione dell’Istrice, uno dei quotidiani cittadini. Un direttore orso, qualche culodipietra della macchina del giornale e soprattutto l’inviato Alvise Selvadego, quasi sessantenne esperto di giudiziaria.
È lui il protagonista di Vipere a San Marco, ultimo giallo del veneziano Paolo Forcellini, a sua volta bravissimo giornalista per lungo tempo all’Espresso. E un mistero a Venezia esercita sempre un fascino particolare sul lettore. Come nota Massimo Cacciari, altro autoctono di rango: “Quale scena più del labirinto veneziano può offrire ispirazione per racconti di intrighi, di identità smarrite, di misteriose scomparse e fortunosi ritrovamenti?”. Selvadego è un cronista antico, ergo le sue sono indagini vere e proprie. I risultati li condivide con l’amico vicequestore Bastiano Possamai. I due non si nascondono nulla e scoprono che il cardinale è stato rapito. Da chi? C’è pure una falsa pista, che per un giorno fa finire Venezia su tutti i media. Ma questo è un giallo e non è d’uopo svelare altri dettagli. Perdipiù, un gondoliere omosessuale viene ritrovato ammazzato. In passato arrotondava prostituendosi. Rapimento e omicidio sono collegati? I due amici, cronista e poliziotto, sono uniti anche dall’amore per la cucina. E tra pranzi, cene e calli da scarpinare vengono a capo di un piano impensabile. Senza dimenticare che Selvadego alla fine troverà amore e passione con la giovane Gaspara Maravegia, collega della cultura e “meraviglia di esemplare femminile”. Forcellini attinge anche alla lingua veneziana, ma con parsimonia senza mai essere incomprensibile.
L’altro Dante (Arfelli), nostro zio d’America
“L’ho scritto in dieci giorni, d’estate, non riuscivo nemmeno a dormire”. Così Dante Arfelli, di cui ricorre il centenario della nascita, mitizza la genesi del suo fortunato esordio I superflui. Fortunato perché, edito da Rizzoli nel 1949, esce in traduzione due anni dopo oltreoceano con il titolo The Unwanted e conquista i lettori americani macinando quasi un milione di copie vendute.
La parabola letteraria di Arfelli, morto in una casa di riposo nel 1995, conta altri tre volumi e resta confinata in un cono d’ombra duro a dissiparsi. Marsilio proprio alla metà degli anni 90 tenta il rilancio, un altro buco nero di quasi trent’anni e oggi rispunta il nome dello scrittore romagnolo grazie alla neonata Edizioni readerforblind. Vale la pena chinarsi su pagine che Gabriele Sabatini, nell’introduzione a questo nuovo repêchage, sublima come imprescindibili perché “l’umanità superflua ha ancora bisogno di ritrovare la sua voce?”. Vale la pena perché I superflui, pur abitando la stagione del neorealismo, sembra sabotarlo dall’interno al pari di un ordigno esploso.
Siamo nei mesi dell’immediato dopoguerra. Luca, giovane di provincia, giunge a Roma, “questa città che è una gran mucca e c’è latte per tutti”, nel tentativo di sottrarsi a un destino di miseria. Prova a far fruttare le due lettere di raccomandazione che gli hanno messo in tasca il parroco e il segretario socialista del suo paese ma invano perché “sembrava che gli altri giocassero alla palla e che lui fosse la palla da rimandarsi attraverso la città”. L’unico impiego precario che riesce a trovare è quello di addetto alle paghe in un cantiere edile che ristruttura una caserma. Un lavoro frustrante, scandito dal disdoro di osservare dalla finestra dell’ufficio una fila di uomini entrare e uscire da un orinatoio. È Lidia, una prostituta che alloggia nella sua stessa miserabile pensione e che sogna di espatriare in Argentina, il suo angelo custode nella capitale. Tra loro si consolida un sentimento, sia pure ambiguo e che sfuma in un finale tragico alla Madame Bovary. Intorno alla coppia tre personaggi che per ragioni diverse scompariranno dal loro orizzonte: la vecchia proprietaria della pensione, arcigna e avida di denaro; Luca, anarchico militante che si immolerà alla causa; e Alberto, studente di legge roso dell’ambizione.
Un romanzo in cui le speranze di riscatto volano rasoterra, ancorate a una mera sopravvivenza. Nessuna ansia di mutamento (“Io dico che si stava meglio quando c’era la guerra”), nessuna fiducia nel Sol dell’Avvenire (“dopo l’elezione non ci sarebbero stati più né amici, né compagni, né fratelli”), nessuna volontà di elevarsi (“Egli si conosceva e si rammaricava di essere così. Ora capiva che non era proprio lui il tipo più adatto per venire in una città e tentare l’avventura”). Certo è singolare che questo romanzo stoico e rassegnato abbia sedotto gli americani degli Anni 50, eroi di un dream capace di redimere anche il fango più irriducibile. Forse con paterno esorcismo, e sulla scorta della generosità del Piano Marshall, avranno digerito passaggi come: “Il destino siamo noi. È per questo che non possiamo scamparlo. Quando uno è fatto in un modo farà sempre in quel modo”.