“Dietro ai suoi occhi” il triangolo erotico riserva ancora ottime sorprese

Incubi e sogni a occhi semichiusi che la mente può indirizzare. Nel mezzo una verità torbida come la memoria di traumi indelebili, o quasi. Sembrava scritto per diventare seriale il best-seller Dietro ai suoi occhi (Behind Her Eyes, 2017) di Sarah Pinborough, oggi una delle scrittrici britanniche di maggior successo nella contaminazione di gotico, horror, mistery e thriller. Netflix ha raccolto il materiale e l’ha reso miniserie in 6 episodi sotto ideazione creativa di Steve Lightfoot, dal 21/2 disponibile sulla piattaforma. Al centro è il mistero di una relazione triangolare che coinvolge David e Adele, una ricchissima coppia appena giunta a Londra dalla Scozia, e Louise, giovane madre single ma soprattutto segretaria di lui, apprezzato psichiatra. L’equazione vuole che Louise e David s’incontrino per caso in un pub con attrazione fatale pronta a coglierli ancora ignari che l’una è impiegata nello studio dove l’altro l’indomani inizierà a lavorare. Nel giro di pochi giorni la giovane e solitaria Adele s’imbatte in Louise, ovviamente ignara di tutto, cercando in lei un’amicizia che le spezzi la solitudine. Se già queste premesse preludono a un naturale crescendo melodrammatico, lateralmente si assiste a un affondo di sapore fanta-mistery, con il passato a riemergere fra rimozioni e devianze, accompagnato da dipendenze di differenti tossicità. Prodotto medio della tipologia “Netflix original series”, Dietro ai suoi occhi offre il classico intreccio suspense da melò a tinte nerissime che intrappola curiosità e voyeurismo, creando negli spettatori (specie nelle spettatrici) quel piacere piacevole di cui non bisogna poi sentirsi troppo colpevoli, basta stare al gioco di una serie destinata a non lasciare tracce nella memoria. Nota positiva: la performance dell’ipnotica e sempre più brava Eve Hewson nei panni della tormentata Adele, capace di farci dimenticare di chi è figlia (Bono degli U2).

 

“Gentleman Jack”: che amore di donna

Anne è una trentenne inglese colta e abile negli affari, che ama i viaggi e non ha nessuna intenzione di sposarsi. Non con un uomo almeno: già da ragazza ha deciso che vuole passare la sua vita insieme a una donna, possibilmente bella, sicuramente ricca. In che anno siamo? All’incirca nel 1830. E questa è la vera storia di Anne Lister raccontata dalla serie tv Gentleman Jack – Nessuna mi ha mai detto di no, otto episodi in onda il venerdì sera alle 21.10 su LaF e disponibili anche on demand su Sky e Now.

La serie inizia quando Anne lascia Hastings. La sua ultima amante, miss Hobart, ha deciso di sposarsi con il capitano Cameron e lei non l’ha presa bene. Miss Lister torna a Shibden Hall, l’antica dimora nel West Yorkshire che ha ereditato dallo zio. Qui vivono il padre, la zia e la sorella, ma è lei che comanda, riscuotendo di persona gli affitti dei contadini che coltivano le sue terre e progettando di mettere a frutto i giacimenti di carbone ancora inutilizzati.

Che non sia una donna come tutte le altre lo si capisce subito. Miss Lister guida la carrozza; veste solo di nero evitando accuratamente i nastrini; al posto delle cuffie e dei capelli indossa la tuba. Ad Halifax l’hanno soprannominata Gentleman Jack: per i modi spigliati, per gli abiti maschili e perché non ha nessuna paura di affrontare gli uomini (la scelta di investire nel carbone la porterà in rotta di collisione con la famiglia più ricca e potente della città).

Anne ha viaggiato in tutta l’Inghilterra e in Europa. Shibden Hall le sta strettissima e vorrebbe restarci il minimo indispensabile, ma quando incontra Ann Walker cambia idea. Ann è fragile di carattere, dispone di una cospicua eredità e a 29 anni non si è ancora sposata, il che nella società dell’Ottocento basta e avanza per essere considerata una zitella. Per l’ambiziosa miss Lister rappresenta la preda ideale.

Ha inizio un corteggiamento serratissimo. Anne si presenta tutti i giorni a casa Walker, scrive bigliettini, regala mazzi di fiori, promette viaggi avventurosi: “Roma a Pasqua è magnifica…”. E quando finalmente riesce a convincere la ritrosa ereditiera ad alzare la gonna deve battere la concorrenza di un reverendo che, rimasto vedovo, ambisce ai denari di Ann. Che si tratti di vero amore o interesse, poco importa: Anne ha deciso che vuole passare il resto della sua vita con miss Walker e non si fermerà davanti a nulla.

Gli otto episodi di Gentleman Jack sono tratti dai diari di Anne Lister (1791-1840): ben 7.700 fogli, quattro milioni di parole in tutto, scritti in un codice che utilizzava simboli matematici e alfabeto greco. Diari preziosissimi, pubblicati anche in Italia con il titolo Nessuna mi ha mai detto di no, perché raccontano le imprese imprenditoriali e amorose di una delle prime lesbiche dell’Inghilterra moderna. Una donna coraggiosa, indifferente alle rigide regole dell’epoca vittoriana e lontana dalle eroine raccontate dai romanzi di Jane Austen.

Prodotta da Hbo e Bbc, Gentleman Jack tenta di modernizzare la scrittura e il linguaggio visivo dei tradizionali drammi in costume britannici. Un esperimento ben riuscito anche grazie all’efficace interpretazione di Suranne Jones nei panni di Anne Lister. L’attrice inglese guarda in camera e si rivolge direttamente agli spettatori, come faceva Kevin Spacey/Frank Underwood in House of Cards, riuscendo a dare vita a un personaggio moderno quale era effettivamente miss Lister.

Convincente anche Sophie Rundle, che qualcuno ricorderà nel ruolo di Ada Shelby in Peaky Blinders e che qui cambia completamente registro per interpretare la timida e fragile Ann Walker.

Nel cast tutto britannico c’è anche Gemma Whelan, un volto noto al pubblico italiano per aver lavorato in Game of Thrones (è Yara Greyjoy) e The End of The F***ing World. Gentleman Jack è stata scritta e in parte diretta da Sally Wainwright, già creatrice di Happy Valley che è considerata una delle migliori serie inglesi degli ultimi anni. Le riprese della seconda stagione sono iniziate lo scorso novembre.

 

Aaron Sorkin per ridere con Javier Bardem e Nicole Kidman

In attesa del verdetto del prossimo 25 aprile sulle sei candidature agli Oscar ricevute dal suo Il processo ai Chicago 7, il geniale regista e sceneggiatore Aaron Sorkin ha iniziato a Los Angeles la lavorazione di Being the Ricardos, il suo terzo lungometraggio con Javier Bardem e Nicole Kidman protagonisti. Si tratta del racconto di una settimana di lavorazione della celebre sitcom comica Usa I love Lucy (Lucy e io) i cui interpreti nel ruolo dei “Ricardos”, Desi Arnaz e Lucille Ball, all’epoca marito e moglie, devono fronteggiare una crisi che potrebbe compromettere per sempre sia le loro carriere sia il loro matrimonio.

Silvio Soldini tornerà sul set per dirigere a Milano 3/19 con Kasia Smutniak nella parte di un’avvocatessa di successo coinvolta in un incidente che provoca la morte di un giovane migrante. Producono Lionello Cerri per Lumière & Co. e Vision Distribution con il contributo del ministero della Cultura.

Si sono concluse a Ostia le riprese di Il paradiso del pavone, il terzo film di Laura Bispuri interpretato nei ruoli principali da Dominique Sanda, Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Carlo Cerciello e Fabrizio Ferracane. Prodotto da Vivo film con Rai Cinema in associazione con Colorado Film racconta le vicende di un’affollata riunione familiare organizzata per il compleanno di un’anziana signora in una casa al mare. Un pavone si innamorerà a sorpresa della piccola colomba dipinta in un quadro del salotto e questo amore impossibile metterà in discussione i sentimenti di tutti.

Matilde Gioli, Ilenia Pastorelli, Giuseppe Maggio e Matteo Martari sono i protagonisti di Quattro metà, una nuova commedia sentimentale di Alessio Maria Federici prodotta da Bartlebyfilm srl e Cattleya attualmente sul set a Lisbona prima delle imminenti riprese romane.

“Apples”, azzerare tutta la memoria per ricominciare

L’intelligenza cinematografica è (quasi) sempre collettiva. E sia in senso intrafilmico, ovvero il concorso di cast & crew, che interfilmico, ovvero la convergenza poetico-stilistica di più autori: dal secondo corno, vengono le correnti o, meglio, le onde. È un’evenienza che il cinema italiano non frequenta da decenni, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, ma che altrove in Europa sta dando buoni frutti: della Nouvelle Vague rumena abbiamo detto di recente, a proposito del superlativo Collective di Alexander Nanau, della Greek Weird Wave, che annovera tra gli altri Yorgos Lanthimos (Alps, The Lobster), Alexander Avranas (Miss Violence) e Athina Rachel Tsangari (Attenberg, Chevalier), parliamo ora per Apples, l’esordio alla regia di Christos Nikou, già assistente dello stesso Lanthimos sull’opera prima Dogtooth (2009).

Film d’apertura della meritoria ma misconosciuta sezione Orizzonti all’ultima Mostra di Venezia, distribuito da Lucky Red sulla piattaforma streaming MioCinema, Apples (Mila) viene benissimo ai tempi del Covid-19: il protagonista è vittima di una pandemia che causa improvvisa e totale amnesia, sicché si trova a vivere dal nulla, costruendosi un presente, ossia un passato prossimo, a tavolino. Mutatis mutandis, tra contingenze e limitazioni non è quanto ciascuno di noi ha fatto da più di un anno a questa parte, allorché il Covid ha segnato una cesura tra il prima e il dopo, il come eravamo e il come siamo – forzatamente – diventati? Nikou prende per mano ucronia e distopia, ma senza strattoni, con le buone maniere: Aris (il bravo Aris Servetalis) si ritrova iscritto a un programma di recupero dell’identità per gli “smemorati” non reclamati da alcuno; i compiti affidati alle audiocassette gli vengono prescritti quotidianamente; i nuovi ricordi devono essere documentati con una Polaroid e archiviati; il possibile ritorno alla normalità ha il volto di Anna (Sofia Georgovasili), a sua volta inserita nel programma. Non è un film clamoroso, Apples, sopra tutto perché non vuole esserlo: è centrato (il formato 4:3 aiuta), è scritto un’ottava sotto, ha un’esibita gentilezza, persino un’affettazione dal sapore farmacologico. È un’opera che intenzionalmente si accorda al recupero, al – ehm – recovery plan all’indomani dell’apocalisse, ma l’elaborazione del lutto che pone in essere, da camuffato survival-movie qual è, è nondimeno dirompente, ossia neurologicamente e filosoficamente dirimente: i ricordi aiutano a vivere o la sopravvivenza ne prescrive la cancellazione? Fosse stato un film americano, parafrasando un illustre precedente violentato dalla traduzione italiana, Apples si sarebbe potuto rinominare “Se mi lasci mi cancello”, e stavolta non ci sarebbero state recriminazioni: “Potrebbe essere che non vogliamo dimenticare le esperienze dolorose, perché senza perderemmo la nostra identità? Alla fine – si e ci chiede Nikous – siamo semplicemente la somma di tutte le cose che non dimentichiamo?”.

 

“Basta trattare le donne come mostri, serpi, streghe”

C’è un mostro nell’angolo oscuro della casa infestata. Oppure è una donna? Spesso le cose coincidono, scrive Jude Ellison Sady Doyle, saggista statunitense e attivista femminista transgender, cinefilo. Il suo Dead blondes and bad mothers, ovvero “bionde morte e madri cattive”, tradotto da Tlon come Il mostruoso femminile, sostiene che tutto l’immaginario della paura occidentale, dai miti sumeri all’horror, si è fondato sulla paura delle donne, viste come “altro” pericoloso dal punto di vista maschile. Ma il genere sta cambiando, racconta Doyle.

Si può dire che il suo sia un saggio sul genere horror?

Ho iniziato guardando praticamente ogni singolo titolo della categoria horror di Netflix. Poi sono passato al true crime, poi ho cominciato a rispolverare i miti sumeri, le leggende irlandesi sui mutaforma. È incredibile quanto certe figure siano rimaste uguali nel tempo. C’è un film degli anni 90 intitolato Species, Specie mortale, su una donna che in realtà è un serpente alieno che prima seduce gli uomini e poi li uccide. È il peggior film che abbia mai visto, però richiama il mito di Lamia, la donna serpente che si finge umana per sposare un uomo. Diciamo che attraverso la mitologia ho trovato il bandolo della matassa di immaginario di cui volevo parlare.

Ecco, appunto, qual è lo scopo del libro?

Lo scopo è parlare del fatto che viviamo in una società fondata sull’idea che solo gli uomini bianchi senza disabilità e che non hanno mai fatto sesso con altri uomini siano umani, e tutti gli altri sono esseri mostruosi o comunque non del tutto umani. Penso che le narrazioni definiscono i valori. Se cresci vedendo film in cui le donne transgender sono solo mostri o serial killer, diventa difficile pensare che nella realtà sono spesso vittime di violenza. Penso che se una cultura dipinge costantemente un gruppo di persone come mostruoso, strano o pericoloso sta indirettamente orientando la violenza in quella direzione.

Tra i vari esempi c’è l’Esorcista come metafora della pubertà femminile…

C’è questa bambina posseduta che inizia a masturbarsi e imprecare. Ha scatti d’umore, la sua pelle esplode: cos’altro può essere, se non una spettacolarizzazione della pubertà?

Oppure di Alien come “maternità mostruosa”…

Sì, Alien fotografa sicuramente l’orrore dell’idea di avere un corpo che può contenere altri corpi. È una paura primordiale. Alla fine il motivo per cui guardiamo questi film è proprio per avere uno spazio dove sfogare le paure della vita. Uno guarda Alien e pensa “Ok, questa cosa del parto è un casino. Sembra doloroso, non voglio farlo”.

Lo stigma del mostruoso di cui parla la riguarda personalmente, in quanto trans?

Il libro l’ho scritto prima della transizione. All’epoca ero incinta. In realtà non sono più tornato sul libro dopo perché ho paura di rileggere cose in cui non mi riconosco più. Non dico che lo rinnego. Penso sia una specie di fotografia di com’ero in quel momento. Lì parlo di femminilità, concezione patriarcale, costruzione sociale del genere. Penso si veda che stavo elaborando il fatto che non voglio necessariamente essere una donna, che mi sentivo costretto in un ruolo in cui non stavo bene.

Direbbe che questo libro è un documento della sua transizione?

Di sicuro ho messo al centro il tema del corpo. Fino a che punto scrivere di corpi era un modo per capire come vivere nel mio? Ho scritto di eterosessualità e bisessualità, di mutaforma. Nel libro ci sono un sacco di uomini che sposano donne che non sono esattamente donne. Parlo molto di Jurassic Park, con il suo caos sessuale: dinosauri mostruosi che cambiano sesso e si mettono incinta a vicenda. Alla fine credo le storie dell’orrore servano anche a trovare il “tuo” mostro, la parte mostruosa di ognuno di noi. Spero i mostri di questo libro aiutino le persone a tirare fuori i loro lati nascosti.

Quindi ci sono anche mostri “buoni”, una narrativa mostruosa positiva?

Un esempio è il film Babadook di Jennifer Kent. La protagonista è una mamma single che non arriva a fine mese, che a un certo punto viene posseduta. La ragione per cui trovo quel film così sorprendente è che la possessione demoniaca è un topos, però stavolta il demone entra in una donna che suscita empatia. Mi sembra una cosa nuova, un mostro raccontato dal punto di vista di una donna. E fa paura lo stesso. Spero di vedere presto horror più consapevoli sulla transessualità. Mi entusiasma l’idea di vedere storie raccontate da persone tradizionalmente dipinte come mostri.

L’horror sta cambiando?

C’è tutta una scuola di registe horror donne, come Karyn Kusama di Jennifer’s body e The Imitation, che mi interessa molto. Ho letto che farà un adattamento di Dracula, e anche Chloe Jannik sta girando un film sul vampiro. Secondo me queste registe contribuiranno a cambiare il modo in cui pensiamo i mostri e la paura.

Olanda Rutte, il partito lo vuole mollare

Una tempesta politica s’è abbattuta sul premier Mark Rutte, uscito vincitore dalle politiche del 17 marzo. Il leader liberale, ininterrottamente al potere dal 2010, non è più sicuro di succedere a se stesso alla guida di una coalizione di centro-destra: la sua sorte si deciderà dopo Pasqua, quando le trattative per la formazione del governo riprenderanno. Rutte ha evitato d’un soffio giovedì notte la sfiducia del Parlamento sollecitata dall’opposizione: la sua colpa, avere mentito sui colloqui fra partiti in corso, caratterizzati da un avvio caotico tra documenti smarriti e dimissioni dei negoziatori. Il premier ha però subito ad ampia maggioranza una mozione di censura presentata da Sigrid Kaag, la leader del D66, partito in forte crescita e alleato dei liberali. Pure il leader cristiano-democratico Wopke Hoekstra ha firmato la mozione, innescata dall’ostracismo di Rutte verso Pieter Omtzigt, deputato del Cda molto critico con il governo. Ora il Vvd, il partito del premier, potrebbe mollarlo per evitare il rischio d’un ritorno alle urne immediato.

Il Covid affonda Merkel Elettori delusi dalla Cdu

Se le elezioni generali in Germania si tenessero domani anziché alla fine di settembre, il partito cristiano democratico Cdu attualmente alla guida del governo federale assieme alla costola bavarese Csu e ai socialdemocratici della Spd potrebbe uscire di scena con la propria ormai storica leader, l’attuale cancelliera Angela Merkel che non sarà più della partita avendo deciso di lasciare la vita politica. Nella migliore delle ipotesi, il partito guidato da Merkel fino a tre anni fa sarà parte di una triplice koalition con i Verdi e i rossi dell’Spd, ma potrebbe finire all’opposizione in seguito alla formazione della cosiddetta “coalizione semaforo” in cui al suo posto ci sarà il Partito liberale contraddistinto dal colore giallo.

I Verdi saranno l’ago della bilancia e potrebbero addirittura esprimere per la prima volta il nuovo Cancelliere. Una possibilità configuratasi dopo la doppia batosta elettorale subita dalla Cdu/Csu nel Baden Wuerttemberg e Renania Palatinato un mese e mezzo fa. Segni di un cambio di passo fondamentale che ora appare ancora più chiaro nei sondaggi pre-pasquali. Secondo quanto delineato dall’istituto Deutschlandtrend solo il 35% dei tedeschi si è dichiarato soddisfatto del governo federale: una perdita di consenso drammatica se si pensa che nel novembre dello scorso anno, ovvero sei mesi fa, ancora il 70% dei cittadini approvava il partito principale dell’esecutivo. La fiducia dei tedeschi è venuta sempre meno soprattutto a causa della gestione della pandemia che, nonostante il duro lockdown, continua a mietere troppe vittime e per la lenta e farraginosa campagna vaccinale. Il sondaggio ha mostrato allo stesso tempo che il 58% dei tedeschi è soddisfatto o molto soddisfatto della leadership della cancelliera Angela Merkel, facendone la figura politica più popolare designata da coloro che hanno risposto alle domande di Deutschlandtrend. Al secondo posto tra i leader preferiti c’è il premier dello Stato bavarese e leader dell’Unione sociale cristiana (Csu) Markus Söder con il 54% dei consensi mentre al terzo posto si è attestato l’attuale ministro degli Esteri, Heiko Maas, con il 43%. Per quanto riguarda la pandemia, il sondaggio ha mostrato che solo il 19% dei tedeschi era soddisfatto della risposta federale e statale. Non più tardi di dicembre, l’approvazione pubblica in merito si aggirava intorno al 60%. La cooperazione tra Berlino e gli Stati che formano la Federazione è stata giudicata lacunosa e sbagliata. Merkel si è dovuta recentemente scusare per il debole e poi ritirato piano di confinamento messo a punto in vista delle le vacanze di Pasqua. Con l’aggravarsi della pandemia, i tedeschi si stanno dunque dimostrando sempre più ostili nei confronti della Cdu che ha registrato un calo di quasi 10 punti da metà dicembre. Dal sondaggio dell’1 aprile si evince che se domani si tenessero le elezioni federali, solo il 27% dei tedeschi voterebbe per la Cdu, il 22% invece sceglierebbe i Verdi e il 16% i socialdemocratici. Il tandem Cdu-Csu ha perso 6 punti in un mese e circa il doppio negli ultimi sei. Il sondaggio ha anche valutato come i tedeschi giudicano i più probabili successori della Merkel. Il leader della Cdu, Armin Laschet, e Söder sarebbero i migliori candidati possibili cancellieri per la Cdu- Csu nelle elezioni federali di settembre. Ma solo il 19% dei tedeschi ritiene che Laschet sia il migliore tra i presunti contendenti a vantaggio di Söder che incontra il favore del 54% dei partecipanti al sondaggio. Merkel ha recentemente criticato Laschet, che è anche il premier dell’importante Stato del Nord Reno-Westfalia, perchè assieme ad alcuni governatori si è rifiutato di attuare restrizioni più severe nonostante l’aumento delle infezioni. Laschet è visto come un centrista che rispecchierebbe più da vicino la politica basata sul consenso della Merkel, mentre Söder ha precedentemente espresso opinioni più conservatrici su questioni come la migrazione.

Senti chi parla: come spiare il mondo intero frugando il Mar Rosso

Il Mar Rosso non è soltanto una grande via d’acqua per le grandi petroliere che arrivano dal Golfo Persico – in media il 26-30% del petrolio e il 12% del commercio mondiale passa di qui per imboccare il Canale di Suez, dove è bastato il blocco per l’insabbiamento della porta container Ever Given per far schizzare il prezzo di alcune materie prime anche del 50% –, ma è soprattutto la grande via di Internet. I cavi di fibra ottica posati sul fondo del Mar Rosso assicurano collegamenti fra Europa e Africa, tra i Paesi della Penisola Araba, ma anche con l’India e l’Estremo Oriente. La crescita delle reti di cavi in fibra ottica in Medio Oriente ha fornito alle agenzie di intelligence occidentali un accesso senza precedenti al traffico di dati e comunicazioni della regione.

Le agenzie di spionaggio sfruttano i cavi per intercettare enormi volumi di dati, dalle telefonate al contenuto delle email, alla cronologia di navigazione web e ai metadati. Anche i dati finanziari, militari e governativi passano attraverso cavi. Queste informazioni vengono vagliate dagli analisti, mentre i filtri automatici estraggono materiale in base ai 40.000 termini di ricerca di NSA e GCHQ – soggetti, parole usate, numeri di telefono e indirizzi email – per un’ispezione più approfondita. The Five Eyes, l’alleanza di intelligence dei segnali (Sigint) di Usa, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda, spia nell’inquieta regione mediorientale da quando una prima rete di cavi telefonici venne posata dopo la Seconda guerra mondiale. Gli attori principali sono la National Security Agency (NSA) degli Usa e il Government Communications Headquarters (GCHQ) del Regno Unito, che utilizzano strutture note e segrete nella regione per raccogliere dati. “L’importanza dei cavi è ancora largamente sconosciuta alla gente comune. Pensano che gli smartphone siano wireless e passino attraverso l’aria, ma non si rendono conto che è attraverso i cavi che possono connettersi”, spiega Alan Mauldin, direttore della ricerca presso la società di ricerca TeleGeography a Washington. Questo sistema fisico di cavi in fibra ottica collega i principali paesi del mondo e trasporta oltre il 95% del traffico voce e dati internazionale. Nonostante l’importanza dei cavi sottomarini, sono scarsamente protetti dal diritto internazionale. L’Egitto è uno dei principali hub di Internet poiché gestisce il traffico dall’Europa al Medio Oriente, Asia e Africa e viceversa. I 15 cavi che dal Mediterraneo entrano nel Mar Rosso rappresentano tra il 17% e il 30% del traffico mondiale di Internet, cioè da 1,3 a 2,3 miliardi di utenti. I cavi sottomarini sono preferiti in quanto sono considerati più sicuri, rispetto a quelli terrestri. Anche se quelli che passano sotto il Canale di Suez presentano rischi logistici, come rotture da ancore nelle acque poco profonde o da interferenze umane. Nel 2013, tre subacquei con utensili manuali tagliarono il cavo principale che collega Egitto e Europa, riducendo la larghezza di banda Internet dell’Egitto del 60%. Gli egiziani sono in una posizione eccellente per l’accesso ai dati sui cavi ma sono considerati un partner poco affidabile. Nonostante la sua importanza strategica, l’Egitto non fa parte di nessuna rete Sigint. L’alleanza Five Eyes ha accordi di condivisione delle informazioni con alcuni Paesi europei, Giappone e Corea del Sud, per intercettare i dati provenienti da Russia e Cina. L’intelligence Usa ha rapporti meno formali con alcuni Paesi in Medio Oriente, tra cui Egitto, Israele, Giordania, Arabia Saudita, Turchia e Emirati arabi.

Gli egiziani hanno un accordo con l’intelligence americana, ma lo spionaggio di Washington fa trapelare al Cairo solo informazioni ritenute strategiche. I Five Eyes possono comunque intercettare i cavi in Egitto o nelle sue acque territoriali. I documenti trafugati da Edward Snowden nel 2013 si riferiscono a una base clandestina della NSA in Medio Oriente chiamata Dancing Oasis, nota anche come DGO. Un sito segretissimo e la sua location è pura supposizione: in Giordania, in Arabia Saudita o in Egitto. I cavi che collegano Europa, Africa e Asia scendono lungo il Mar Rosso fino allo stretto di Bab el Mandeb tra Yemen e Gibuti. I cavi diretti a Est virano verso l’Oman. E infatti a Seeb, a ovest della capitale Muscat, si trova un sito di sorveglianza GCHQ, nome in codice Circuit. Le rivelazioni di Snowden hanno anche svelato che per intercettare i dati dai cavi nel fondo marino sono stati appositamente modificati anche alcuni sommergibili Usa, uno di questi è l’USS Jimmy Carter. Israele è un altro Paese con la capacità tecnica di intercettare i cavi sottomarini nella regione, sebbene attualmente non abbia connessioni alle reti del Medio Oriente. Non ci sono cavi che vanno oltre i due punti di approdo costiero di Tel Aviv e Haifa, che sono collegati all’Europa continentale e Cipro. Ma ciò potrebbe cambiare presto se i piani segnalati da Google per il suo nuovo cavo “Blue-Raman” che va dall’Europa all’India attraverso Israele, Giordania, Arabia Saudita e Oman si realizzeranno.

Strapagati a prescindere: Orcel e i suoi (tanti) fratelli

Deve ancora entrare in carica, ma il nuovo amministratore delegato di UniCredit Andrea Orcel ha già scatenato un putiferio. Le società di consulenza Glass Lewis e Iss consigliano agli azionisti della banca milanese di bocciare la politica di remunerazione nell’assemblea del 15 aprile per protestare contro i 7,5 milioni di paga del nuovo capo azienda. La banca chiede però di modificare anche le politiche sulle liquidazioni, aumentandone il tetto da 7,2 a 15 milioni (sei volte lo stipendio annuale). Dunque il “Ronaldo dei banchieri” già prima di scendere in campo s’è accaparrato almeno 22,5 milioni. Il suo predecessore Jean Pierre Mustier nel 2020 ha ricevuto “solo” 900 mila euro più stock option per altri 4,4. Molto meno della mega-liquidazione da 40 milioni pagata nel 2010 ad Alessandro Profumo. A far discutere è il fatto che nel primo anno Orcel sarà pagato senza alcun collegamento coi risultati aziendali.

Prima dell’arrivo di Orcel, in Italia il divario tra stipendi dei vertici e quelli dei dipendenti delle banche era in calo. Secondo la Uilca, il sindacato dei bancari della Uil, nel 2007 i ceo delle banche quotate guadagnavano in media 139 volte lo stipendio medio dei dipendenti (28mila euro lordi l’anno), nel 2019 “appena” 44 volte. C’è chi, come Carlo Messina di Intesa Sanpaolo, dall’entrata in carica a settembre 2013 a oggi ha ricevuto oltre 23,5 milioni ottenendo però utili netti per 21,4 miliardi. Il ceo di Unipol Carlo Cimbri nel 2019 è stato pagato 5,6 milioni, il 26% in più dei 4,47 del 2018, ma a fronte di utili netti cresciuti del 73% da 0,63 a 1,09 miliardi. Tuttavia non sono mancati manager la cui retribuzione è stata una “variabile indipendente” rispetto ai risultati. Victor Massiah, ad di Ubi dal primo dicembre 2008 al 3 agosto scorso, ha ricevuto oltre 19,2 milioni mentre la banca nello stesso periodo ne perdeva 952. Nonostante la perdita netta di 57 milioni, nel 2018 la paga di Giuseppe Castagna, ceo di Banco Bpm dal primo gennaio 2017, è aumentata di 124mila euro a 1,63 milioni. Marco Morelli, ad di Mps da settembre 2016 a maggio 2020, per volere della Bce dovette ridursi lo stipendio da oltre un milione a 488mila euro ma dal 2017 al 2019 perse 4,2 miliardi.

Quisquilie rispetto a quanto avviene nella finanza all’estero. Charles Lowrey, presidente e ad di Prudential, nel 2019 è stato pagato circa 16 milioni. Larry Fink, ceo di Blackrock il maggior gestore di fondi mondiale, nel 2020 di milioni ne ha ottenuti 25 e 7,9 Mario Greco, ceo delle assicurazioni Zurich. Il numero uno di Allianz Oliver Bate ha guadagnato 5,35 milioni, il ceo di Axa Thomas Buberl e quello di Generali, Philippe Donnet, 3,1 più azioni per 2,3. Il capo azienda di Credit Suisse Thomas Gottstein nel 2020 ha ottenuto 7,6 milioni.

Il fenomeno parte da lontano. A Wall Street nel 1965 un amministratore delegato riceveva 20 volte la paga media dei suoi dipendenti. Nel 2000 era a 344 volte, scese a 188 con la crisi finanziaria del 2009 per tornare a 312 nel 2017, quando la retribuzione dei ceo delle 350 maggiori aziende era in media di 18,9 milioni di dollari. Ma le prime cinque banche Usa (Goldman Sachs, Citigroup, JPMorgan Chase, Bank of America e Morgan Stanley) pagavano i loro ceo in media 25,3 milioni. Secondo un report della società di head hunting Willis Towers Watson sugli stipendi dei ceo di 429 società quotate, nel 2019 negli Stati Uniti i capi azienda guadagnavano in media 11,88 milioni, nel Regno Unito 5, in Germania 5,7, in Francia 4,1 e in Giappone appena 1,55. Ma a fare la differenza sono i bonus: nel 2019 negli Usa gli incentivi variabili valevano il 72% della paga totale dei ceo. Quest’anno però Bank of America (Bofa) e Citigroup hanno ridotto i compensi degli ad per il 2020 a causa della pandemia e di errori di gestione. Bofa ha ridotto la paga di Brian Moynihan del 7,5% a 24,5 milioni, Citigroup quella dell’uscente Michael Corbat del 21% a 19 milioni.

La Fisac, il sindacato dei bancari Cgil, ha calcolato che tra il 2008 e il 2019 il personale dell’intero sistema bancario italiano è costato 292,2 miliardi, in media 25,1 l’anno, dai 26,6 del 2008 ai 23,5 del 2019. Il dato comprende stipendi e altri costi come oneri di ristrutturazione e incentivi all’esodo. Nello stesso periodo infatti i bancari sono calati di 46 mila unità, uno su sette, da 328 a 282mila. Nell’ultimo decennio non è che le azioni delle banche abbiano brillato: l’indice settoriale a Milano è passato dai 19mila punti dell’aprile 2011 agli attuali 8.745. Una frenata analoga ha riguardato anche le banche svizzere e quelle di altri Paesi. Le elvetiche Credit Suisse e Ubs hanno pagato i dipendenti oltre 297 miliardi, più di tutte le banche italiane. A fare la differenza è il peso della finanza: Cs e Ubs pagano mega-bonus legati ai risultati, mentre le banche italiane restano dipendenti dalle vendite allo sportello. Quand’era capo del Corporate and investment banking di Ubs, Orcel otteneva premi annuali per decine di milioni, più dello stesso ad Ermotti. Ora in UniCredit nessuno prenderà più di lui, ma molti temono la sua scure sui costi del personale.

Voti comprati con soldi e pacchi di pasta Arrestato consigliere a Torre del Greco

Il giorno delle elezioni amministrative del 2018 a Torre del Greco, 85mila abitanti in provincia di Napoli, “c’erano ben sette gruppi che stavano compiendo l’illecita attività di ricerca e acquisto di voti”, secondo quanto messo a verbale da una gola profonda. “Bande letteralmente scatenate nei pressi dei seggi”, sottolinea il Gip di Torre Annunziata, Antonio Fiorentino, nell’ordinanza che ha disposto l’arresto del consigliere comunale Mario Buono e di altre tre persone (per una quinta è scattato il divieto di dimora), con accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale che hanno colpito candidati e galoppini della zona grigia delle clientele in politica.

È il secondo provvedimento del genere in pochi anni a Torre del Greco (già nel 2019 ci furono arresti per le elezioni 2018 con imputazioni simili, si sono svolti i processi, con patteggiamenti e condanne). Sconfortante il quadro dipinto dalle indagini del procuratore Pierpaolo Filippelli: voti svenduti per poche decine di euro, faccendieri a distribuire “duecento pacchi di generi alimentari” e 3.000 euro nel quartiere di San Giuseppe, aggressioni, minacce, i progetti di Garanzia Giovani e le promesse di assunzione nell’azienda dei rifiuti usati come piede di porco per aprire i forzieri delle preferenze di disperati e disoccupati.

Buono, della lista “Forza Torre”, ritenuto uno dei promotori del sodalizio, fu eletto con ben 844 voti. Da poco era entrato nella traballante maggioranza del sindaco Giovanni Palomba, che da quando si è insediato alterna crisi e rimpasti a minacce di dimissioni. Ora la giunta Palomba regge su una anomala coalizione Pd-Lega-Fratelli d’Italia di cui fa parte anche l’ex parlamentare Nello Formisano, colui che aveva l’ultima parola sui candidati di Di Pietro in Campania quando Italia dei Valori era in auge e riciclava gli scarti di Berlusconi e Mastella. Uno di questi, Ciro Borriello, è stato l’ultimo sindaco, in quota Lega, prima di Palomba. Dovette interrompere il mandato perché arrestato nell’estate 2017 con accuse di tangenti sugli appalti della spazzatura “in una città con un tessuto economico ancora fortemente provato dal crac della Deiulemar – scrive la Procura nella richiesta di arresti – e date queste premesse, è facile comprendere come la città arrivava al voto in un clima avvelenato e gravido di tensioni e rancori”. Fino a trasformare le elezioni in una guerra tra bande a caccia di voti comprati. Il Gip ha deciso in poche settimane “perché non può affatto escludersi un imminente ritorno al voto, bisogna provvedere al più presto per impedire che anche per le future elezioni si verifichi un analogo fenomeno di criminale mercimonio di voti, assolutamente indegno in un Paese civile!”. Testuale.