S’indaga sugli altri contatti di Biot: spuntano tre video

Continuano le indagini della Procura di Roma su Walter Biot, il capitano di fregata arrestato per aver consegnato a un ufficiale russo materiale riservato in cambio di una somma di denaro. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire i suoi rapporti con Dmitri Ostroukhov (espulso qualche giorno fa). I due si conoscevano da qualche mese. Ci sono state altre consegne di documenti classificati? E altri passaggi di denaro? Gli investigatori stanno cercando le risposte a queste domande. L’unico incontro di cui si ha certezza è quello del 30 marzo quando Biot in un parcheggio a Spinaceto, nella periferia sud di Roma, ha incontrato l’ufficiale russo e gli ha consegnato una scheda Sd ricevendo in cambio circa 5 mila euro. Ora Biot si dice pronto a parlare con i pm. “È certo di poter grandemente ridimensionare la vicenda – ha spiegato il suo legale, l’avvocato Roberto De Vita -. Il suo incarico non gli poteva garantire di avere a disposizione questi dati”. Gli investigatori intanto stanno analizzando il contenuto della scheda, dei 4 cellulari (tre utenze erano intestate a lui, una alla Marina militare) e di due pc sequestrati. Dall’esame sui cellulari non sono emersi contatti telefonici fra Biot e il funzionario delle forze armate: circostanza che fa ritenere agli inquirenti che gli appuntamenti fra i due fossero decisi con scadenze prestabilite.

Ci sono poi i video. È stato lo stesso Stato Maggiore della difesa a installare, il 16 marzo scorso, alcune telecamere nell’ufficio di Biot. Qui si vede il militare fotografare di nascosto documenti cartacei o direttamente dal monitor del suo pc in tre diversi giorni: il 18, il 23 e il 25 marzo. Nell’ultimo video, quello del 25, l’ufficiale di Marina dopo aver scattato le foto, toglie la scheda di memoria dal cellulare, la infila in un bugiardino di un medicinale e nasconde nello zaino la scatola, che sarà poi trovata e sequestrata dai Ros dopo l’arresto in flagranza di martedì scorso.

Corruzione, chiusa inchiesta sul pm Luberto. “Evitò indagini su politici Pd Aiello e Bossio”

L’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto, “allo scopo di avvantaggiare” l’ex parlamentare del Pd Ferdinando Aiello, “ometteva di iscrivere nel registro degli indagati e di proseguire le indagini anche nei confronti di Adamo Nicola e Bruno Bossio Vincenza”. Il nome della parlamentare del Pd (che assieme al marito non risulta indagata), compare nel capo di imputazione scritto dai pm di Salerno nell’avviso di conclusione indagini notificato al magistrato Vincenzo Luberto. L’accusa per lui è corruzione, falso, favoreggiamento, rivelazione di segreti di ufficio e omissione insieme con l’ex deputato Aiello. In cambio di viaggi e promesse di denaro, Luberto “asserviva stabilmente la sua funzione all’Aiello”. Su sua richiesta, ieri Luberto doveva essere sentito dai pm, ma l’interrogatorio è stato rinviato. Tra le accuse c’è anche quella di avere spifferato ad Aiello di un’inchiesta in cui “emergevano elementi di reato a carico del procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla”.

Salviamo gli alunni dalla dad-tragedia

Se ancora in Italia qualcuno afferma che sono le mamme a chiedere la riapertura delle scuole, siamo messi proprio male. Intanto già la frase sarebbe la negazione della genitorialità. Esiste la genitorialità? Ma che dico? I figli sono delle madri! Lo dicono i numeri, lo dicono le donne che si sono allontanate o hanno perso il lavoro. Il Covid è stato anche questo: ha messo a nudo una società prevalentemente maschilista. Tutto è poi peggiorato con la maledetta Dad. Nel mio reparto ci sono dottoresse che preferiscono fare i turni di notte, per essere “libere” di giorno e dedicarsi alla didattica dei figli.

Che la scuola non abbia alcuna responsabilità nella diffusione dell’infezione da SarSCoV2 è ormai non solo un parere. Mentre in Italia l’argomento è affrontato con “ipotesi”, in Francia è stato pubblicato un lavoro epidemiologico che riferisce i risultati di un’indagine svolta su 100.000 bambini, sottoposti a tampone. Solo 500 sono risultati positivi. Ciò dimostra che i bambini che frequentano la scuola si contagiano nello 0,5%. E questa percentuale, ovviamente, non può attribuirsi solo a contagi scolastici, ma potrebbero essere responsabili anche le famiglie. La deduzione logica è che la scuola persino “protegga” dall’infezione. Diamo la parola ai dati oggettivi. In Italia, nei mesi di febbraio e marzo, si è registrato un sensibile aumento delle positività tra i giovani, compresi i bambini. Ai dati epidemiologici, aggiungiamo i fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Dopo le lezioni seguite in Dad, dove stanno i bambini? Ci sono i giardini pubblici italiani gremiti di bambini che, inventandosi, come sa fare quella meravigliosa età, un gioco, si divertono e socializzano al di fuori delle aree-gioco, accuratamente recintate. Dove troviamo i ragazzi over scuola primaria? Nei centri commerciali, seduti sulle panchine delle piazze. Bambini e ragazzi, spesso non indossano la mascherina o la tengono sotto il mento. E questo è contenimento? Diciamo piuttosto che non siamo riusciti a organizzare in sicurezza il mondo che gira intorno alla scuola, prima di tutto il trasporto.

 

Un vuoto d’aria chiamato caparini

Come ci raccontano le cronache è stato Davide Caparini, assessore al bilancio in quota Lega, a volere Aria, l’agenzia che doveva occuparsi della distribuzione e della prenotazione dei vaccini dove ha combinato disastri: prenotazioni in luoghi molto distanti da chi ne doveva usufruire, in un giorno in cui le location non erano disponibili, prenotazioni per soggetti che non avevano maturato il diritto al vaccino.

Io stesso sono stato oggetto di una di queste disfunzioni, perché sono stato convocato via sms in quanto over 80, anche se quell’età sono ancora abbastanza lontano dal raggiungerla e, per la verità, ma questo è affar mio, non ho nessuna voglia di raggiungerla. Il governatore della Lombardia Fontana ha dimissionato il consiglio di amministrazione, ma ha lasciato al suo posto Caparini, cioè il principale responsabile di queste disfunzioni.

Davide Caparini l’ho già incrociato nella mia vita, quando, appena trentaseienne, faceva parte della Commissione di vigilanza Rai, un posto di notevole responsabilità, non si capisce a quale titolo, perché è laureato in Ingegneria meccanica, se non quello di essere appunto un esponente della Lega, in cui era entrato giovanissimo, a 18 anni.

Ma qui bisogna fare un lungo passo indietro. Tornare all’autunno del 2003. Eduardo Fiorillo propone al direttore di Rai2 Marano un programma, Cyrano, cui dovrei partecipare anch’io, non come conduttore (questa parte è riservata a Francesca Cheyenne), devo semplicemente legare i vari spezzoni del programma che parlano di narcisismo, di vecchiaia, del rapporto con la morte, insomma niente di politico, il tutto trasmesso in terza serata. Marano accetta, pensa sia utile proporre qualcosa di culturale in Rai2 che proprio in quei mesi ha dato il via all’Isola dei Famosi. Marano accetta, il contratto è firmato. La trasmissione viene annunciata dagli organi ufficiali della Rai e da parecchi giornali. Noi intanto facciamo le prove in Corso Sempione a Milano, la puntata-pilota non è stata ancora montata, insomma in Rai nessuno l’ha vista. Tre giorni prima della trasmissione, che dovrebbe andare in onda martedì, Marano, che appunto non l’ha ancora vista, telefona a Fiorillo dicendo che il programma si può fare ma che deve eliminare la mia presenza. Fiorillo resiste. Marano ci riconvoca per il lunedì proprio il giorno prima della messa in onda. D’accordo con Fiorillo ci portiamo in tasca un registratore. Marano è a suo modo sincero: “A questo punto la trasmissione l’ho vista e potrei dirle che lei non buca il video, che ci sono dei difetti e altre cose del genere, ma non me la sento, non è così. Il fatto è che c’è un veto politico e aziendale sul suo nome, da parte di persona cui non posso resistere”. E mi propone di apparire solo come autore. Io rifiuto per una questione di principio, oltretutto non sono neanche uno degli autori del programma. Cyrano non andrà in onda, verrà sostituito con un simil Cyrano chiamato Border Line, senza di me. Secondo quanto ha dichiarato Marano in Commissione di Vigilanza Rai, sarebbe stato Antonio Socci a mettersi di mezzo. Districarsi fra le contraddizioni di Marano, di Socci e degli altri dirigenti Rai coinvolti, un vero nido di vipere, è impossibile. Quel che è certo è che qualcuno è andato da Berlusconi, che aveva ben altro da fare che guardar me all’una di notte, e gli ha detto: “Ma come, adesso facciamo lavorare anche un antiberlusconiano doc come Massimo Fini?”. Per la verità Berlusconi non avrebbe dovuto entrarci per niente, visto che la trasmissione era Rai, ma lasciamo perdere. Berlusconi fa telefonare da qualcuno a Cattaneo, in quel momento Direttore generale della Rai, Cattaneo telefona a Marano e almeno la filiera diventa istituzionalmente regolare.

Quella censura nei miei riguardi, che Marco Travaglio nel suo libro Regime definirà “antropologica”, provocò alcuni rumors, per la verità non molto accalorati. Chi si superò fu Marcello Veneziani, consigliere di amministrazione Rai, che disse più o meno: “Perché la sinistra si lamenta se la Rai non fa lavorare Fini, dal momento che Fini non ha lavorato nemmeno quando la Rai era di sinistra?”. Seguendo questa logica ineccepibile io non avrei dovuto lavorare mai. Perché se la Rai era di destra la scusa era che nemmeno la sinistra mi aveva fatto lavorare, se era di sinistra la scusa era che la destra non mi aveva fatto lavorare.

Io farò causa alla Rai e la vincerò. Il Tribunale mi riconobbe i danni materiali, ma non quelli morali con la singolare motivazione che ero stato io a darne notizia ai giornali e quindi mi ero autodanneggiato. Sarebbe come se a una ragazza stuprata non fossero riconosciuti i danni morali perché ha denunciato lo stupro.

La questione arrivò comunque davanti alla Commissione parlamentare di vigilanza Rai, di cui era presidente Claudio Petruccioli, allora Ds. A Petruccioli avevo mandato la registrazione che dimostrava in modo inequivocabile che c’era stato un veto politico. E Petruccioli si comportò da Petruccioli. Acquisì la mia registrazione, ne diede notizia alla Commissione di vigilanza ma non gliela fece ascoltare. Quindi la sola cosa che risultava era che io avevo compiuto un atto moralmente se non penalmente illecito. Oltre al danno la beffa. Per quella registrazione Davide Caparini chiese, insieme al forzista Lainati, la mia radiazione dall’Ordine dei giornalisti. Bella riconoscenza visto che io la Lega di Bossi, quella in cui era entrato il giovanissimo Caparini, l’avevo difesa a spada tratta quando tutti i media la attaccavano.

Perché mi sono soffermato così a lungo su un quidam come Davide Caparini? Non per puro spirito di rivalsa. Perché Caparini è emblematico, come per altri versi Luigi Bisignani, di un certo ceto politico e amministrativo che attraversa tutti i partiti. Non ha mai fatto una vera ora di lavoro in vita sua, come piace dire a Berlusconi quando si tratta dei suoi nemici, sorvolando sui suoi amici. La sua carriera è tutta interna alla Lega che gli ha permesso di cumulare presidenze, cariche nei consigli di amministrazione, assessorati, posti di potere che, come abbiamo visto con Aria, incidono sull’amministrazione pubblica e in definitiva sulla nostra vita.

Qualche anno dopo quel consiglio di amministrazione Rai, in cui aveva chiesto la mia radiazione dall’Ordine dei giornalisti, incontrai per caso il Caparini in un talk di basso livello. Poiché come ogni polemista sono aggressivo sulla pagina, ma cerco di comportarmi in modo civile nella vita, invece di dargli un cazzotto sul muso come si sarebbe meritato mi fermai a chiacchierare con lui. Mi diede l’impressione di un uomo un po’ “ritardato”, pardon, “indietreggiato” come si dice in Canton Ticino per gli alunni che hanno bisogno di un insegnante di sostegno. Con amministratori di questo genere, di cui il Caparini è solo un esempio marginale, non possiamo poi lamentarci se l’Italia, come l’epidemia ha solo evidenziato, è conciata com’è conciata.

 

Le spie di Conte catturate da Conte

Arrestandola spia filorussa si cancella l’eredità “scomoda” di Conte. Scrive Emiliano Fittipaldi sul Domani, dando linfa alla linea che addebita al precedente governo l’influenza dei Servizi segreti di Putin nel nostro Paese. Tralasciamo, per carità di Patria, la lista dei colleghi che si esercitano con l’ossessione di un’Italia a 5Stelle (perché quello è l’obiettivo, a Salvini amico di Putin non guarda nessuno) limitandoci a citare un titolo surreale del Riformista – “Così Grillo, Di Battista e Di Stefano hanno costruito l’asse Roma-Mosca – solo perché lo stesso giornale ospita un’intervista all’ex ambasciatore Sergio Romano dal titolo definitivo: “Lo spionaggio tra Paesi è routine, nulla di nuovo”. Del resto, un esperto del settore, Daniele Raineri sul Foglio, liquida l’affaire russo scrivendo che Walter Biot “al massimo aveva nove documenti del secondo livello su quattro”. Niente di sconvolgente. Ma la questione più evidente è un’altra: l’indagine dura da mesi ed è stata avviata da quei Servizi segreti nominati da Conte e su cui il perfido ex premier non voleva mollare la presa. Così è stato Conte ad avallare la cattura della spia favorita dal Conte medesimo. Logico, no?

Covid e Parlamento: che discontinuità!

Ora che il nuovo DlCovid (44/2021) è in Gazzetta Ufficiale e allunga fino a maggio (e per alcuni aspetti al 31 luglio) le scelte del “Conte-2” ci è caro tornare a una discussione che ha giustamente appassionato molti nell’ultimo anno: il controverso rapporto tra gestione dell’emergenza, produzione normativa e limitazione delle libertà costituzionali. C’è una cosa che – ribadiamo: giustamente – ha colpito i commentatori: il potere esecutivo (governo) rischiava di mangiarsi del tutto quello legislativo (Parlamento). Diceva il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, già ad aprile: “L’esigenza forte è di esercitare il potere di controllo e di indirizzo del Parlamento”, ruolo che ora “deve essere ancor più forte”. In ottobre il costituzionalista Michele Ainis consigliò a Conte di abbandonare i Dpcm a favore dei decreti legge, che consentono “il coinvolgimento del Parlamento” e la sua “verifica” di testi “che limitano i diritti e la libertà dei cittadini”. Pure Italia Viva si disperava: “Conte ha tolto spazio al ruolo del Parlamento” (Teresa Bellanova a gennaio). Un altro presidente emerito della Consulta, Sabino Cassese, sempre a gennaio si lamentava pure dei decreti, troppo spesso approvati con la fiducia: “Non capisco perché il Parlamento tolleri questo abuso del parlamentarismo”. A inizio marzo, il deputato Pd Stefano Ceccanti riteneva comunque che il passagio ai dl fosse “un punto di svolta per un’effettiva discontinuità quanto a semplificazione delle fonti del diritto e ruolo del Parlamento”. Tutto giusto: l’Italia è una Repubblica parlamentare, i governi hanno preso fin troppo spazio negli ultimi decenni e il Covid gliene ha dato ancora di più. E ora veniamo al nuovo decreto, che arriva in Parlamento mentre quelli precedenti – a tema Covid ce ne sono già 5 targati Draghi – languono in commissione e probabilmente verranno lasciati decadere infilando le parti ancora “buone” nell’ultimo testo disponibile (in gergo, “matrioska”). Ne consegue, per dire, che libertà e diritti dei cittadini siano stati limitati per tutto marzo senza alcuna verifica parlamentare, solo che ora nessuno parla, scrive o si straccia le vesti: succede quando, permanendo il problema, viene a mancare qualunque opposizione…

Musumeci e la destra da sbiancare in volto

Confinato da un trentennio in quel ghetto per emarginati che è la prima pagina del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia non ha mai smesso di denunciare l’oppressiva egemonia culturale degli intellettuali di sinistra. Una campagna indefessa che di volta in volta lo ha portato a simpatizzare per Craxi o per il M5S, fino all’apertura di credito concessa di recente alla destra di Giorgia Meloni. E pazienza se la suddetta ha riconfermato il suo appoggio a Trump anche dopo l’assalto al Campidoglio: l’unica raccomandazione che l’illustre politologo le ha rivolto è di mettere a tacere i nostalgici tuttora attivi tra i Fratelli d’Italia.

Nostalgici? Vorremmo segnalare a Galli della Loggia l’ultimo exploit di uno dei più autorevoli compagni di strada della Meloni, il presidente siciliano Nello Musumeci che ieri a Palazzo dei Normanni, in preda all’ira, anziché scusarsi per la falsificazione dei dati Covid (“I morti? Spalmiamoli”) ordinata dal suo braccio destro Ruggero Razza, ha rilanciato la calunnia omofoba contro il suo predecessore Rosario Crocetta: “Come se i siciliani avessero dimenticato la squallida vicenda dello sbiancamento anale, non mi interessa se presunta o vera, voglio sperare falsa”.

Fino a qualche tempo fa, Musumeci non esitava a proclamarsi fascista. Ma evidentemente la classe dirigente della “nuova destra”, chiamata a trattenersi sulla nostalgia per il Duce, non per questo ha rinunciato alle più bieche argomentazioni viriloidi del passato regime. Le stesse che indirizzano ai rom, agli immigrati, all’“usuraio Soros” e agli avversari politici. Tipiche dei fascisti del Terzo millennio. Se questa è la destra meloniana cui dà credito Galli della Loggia, auguri.

Quanto a Musumeci, la vergogna dovrebbe provocargli come minimo uno sbiancamento facciale.

Il doppio mandato non riguarda solo i Cinquestelle

 

 

 

“C’è un filo di continuità nella storia italiana, un elemento che rimbalza da un secolo all’altro, indelebile come il termine che lo denota: Trasformismo”

(Michele Ainis, costituzionalista)

 

Non c’è una pratica o un vizio della politica italiana che comprometta più del trasformismo parlamentare il rapporto di fiducia fra elettori ed eletti. La legislatura in corso è avviata a stabilire un altro record, con i 147 “cambi di casacca” avvenuti finora – di cui 57 nell’ultimo anno, 18 senatori e 39 deputati – pari a un totale del 38,8% (dati Open Polis). E fra tutte le forze politiche che hanno registrato flussi in entrata o in uscita, il più colpito da questa emorragia è stato il Movimento 5 Stelle con 33 transfughi.

È vero che la Costituzione non prevede il “vincolo di mandato” (articolo 67), lasciando a ciascun parlamentare la facoltà di votare anche contro le scelte e le indicazioni del proprio partito o magari di passare a un altro gruppo, portandosi dietro una “dote” di contributi pubblici (56 mila euro). Ma, di questo passo, il Parlamento italiano rischia di assomigliare sempre più a un Grand Hotel con le porte girevoli perennemente in funzione. Il che nuoce all’immagine e alla credibilità della politica, alimentando la sfiducia, il distacco e quindi l’astensionismo.

Ha fatto bene perciò Enrico Letta, appena eletto segretario del Pd, a rilanciare pubblicamente la questione, con la proposta di disincentivare questa prassi togliendo ai voltagabbana la possibilità di costituire nuovi gruppi e il diritto di ricevere una quota del finanziamento pubblico. E, se non interpretiamo male le intenzioni di Beppe Grillo, non sbaglia il garante dei Cinquestelle a richiamare i suoi parlamentari al vincolo del doppio mandato, anche per favorire un turn over interno. Questo – come ha detto lui stesso – è un “pilastro” del Movimento e chi ha sottoscritto quell’impegno davanti agli elettori non può tradirlo impunemente.

Ora non mancano certamente a Giuseppe Conte – destinato a diventare leader del nuovo M5S, dopo l’intervento in streaming all’Assemblea – né il buon senso né la capacità di mediazione per ricomporre le turbolenze che la sortita di Grillo ha suscitato. Tanto più che, sulla base della proposta presentata dagli stessi Cinquestelle e ormai convertita in legge, il numero dei deputati diminuirà da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200, con 345 seggi elettivi in meno da assegnare. Nella previsione che alle prossime Politiche il M5S difficilmente riuscirà a ripetere l’exploit del 2018, un “taglio” dunque s’impone, a cominciare proprio da chi ha già compiuto due legislature, con le deroghe e le eccezioni che anche questa regola comporta in ragione della competenza, del merito e dell’esperienza.

Sarebbe opportuno, anzi, che altrettanto facessero tutti i partiti per evitare che il mandato parlamentare si trasformi definitivamente da “servizio civile” in un mestiere. O quantomeno, per contenere una prassi che risale addirittura ai tempi di Agostino Depretis (1813-1887). Dieci anni, 5 + 5, sono più che sufficienti per svolgere proficuamente questo ruolo. E rappresentano anche un limite ragionevole per dissuadere i “professionisti della politica” e delle porte girevoli.

A ben vedere, infatti, il trasformismo si combina con la possibilità di piantare le tende in Parlamento per tutta la vita, facendo “carriera” tra Montecitorio e Palazzo Madama. Per passare magari da un partito all’altro a seconda delle opportunità e delle convenienze. Questa è l’origine della Casta. Da qui derivano anche l’immobilismo, la conservazione, il clientelismo e a volte la corruzione che inquinano la politica italiana.

La beffa delle donne nel Pd, scelte da correnti maschili

È indubbio che nel Pd vi sia un problema di disuguaglianza nella rappresentanza di genere e che tale problema assuma un rilievo identitario. Si pensi solo alle leadership femminili delle socialdemocrazie europee a cui il Pd è affratellato.

A marcare il ritardo, basti notare che a porre la questione è stato il nuovo segretario maschio, fresco di un plebiscitario insediamento, che lo ha fatto anche (perché tacerlo?) per sostituire i due capigruppo in carica: la querelle si è risolta con l’elezione di donne sostanzialmente designate dalle correnti, tutte rigorosamente guidate da uomini. In una competizione a due priva di ogni qualificazione politica. Dopo una mera disputa mediatica intorno a chi fosse la meno segnata dallo stigma della cooptazione. Del resto, la stessa vicenda del Pd, nato nel 2008, è eloquente: una sola volta vi fu una donna che si candidò alla leadership del partito e cioè Rosy Bindi, la quale poi, con il suo seguito, diede corpo a una piccola corrente con un profilo politico-culturale riconoscibile: di sinistra di ispirazione cristiano-sociale.

Per inciso, non ricordo un largo sostegno femminile. Due le lezioni: a) le donne devono attivarsi per conquistare ruoli di responsabilità che gli uomini non regalano e non attendere di essere cooptate; b) dovrebbero ingaggiare una battaglia maiuscola, cioè appunto mirata al vertice e non a posti di risulta.

Nel Pd vi sono tre questioni intimamente intrecciate: la parità di genere, la degenerazione del correntismo, le logiche cooptative. Ma per venirne a capo e non limitarsi a operazioni tattiche, strumentali o addirittura cosmetiche, il problema va preso per la testa ed è problema genuinamente politico. Solo un risolutivo chiarimento identitario può sortire, a valle, una persuasiva soluzione al problema del suo assetto e dei suoi meccanismi di rappresentanza. A monte di tutto si richiederebbe di porre fine alla prassi unanimistica, da subito inaugurata con Veltroni, che contrassegna la storia del Pd. A dispetto delle apparenze, essa è l’altra faccia delle sue endemiche divisioni, di cui la precarietà delle leadership è solo il corollario. Le differenze politico-culturali, iscritte nel dna del Pd, devono essere portate in superficie, fatte oggetto di un franco, aperto confronto dal quale sortiscano maggioranze e minoranze. Dotandosi di luoghi a ciò deputati. Tipo congressi. Non il plebiscito di un giorno che investe un capo cui tutti fanno finta di allinearsi. A seguire: si richiederebbe un vasto, effettivo, costante coinvolgimento di iscritti ed elettori. Non convocati una tantum. Senza questo decisivo ingrediente si acuisce la palese deriva di un ceto politico autoreferenziale che, al centro e in periferia, non discute di politica (cioè dei problemi dei cittadini e della società), ma solo occasionalmente si mobilita per ratificare organigrammi e candidature. Terzo: le regole elettorali. Se non si corregge la trentennale abitudine delle liste bloccate e dei nominati al Parlamento decisi dal sinedrio dei capi di partito e, pro quota, di corrente, tutta la vita (si fa per dire) del partito si funzionalizza a quei passaggi. In concreto si riduce il partito a ufficio di collocamento e si avallano logiche spartitorie. Con il risultato di allontanare quanti vorrebbero partecipare senza mire di carriera.

Infine, ma non ultima, la cultura politica. Vero che il Pd è stato una fusione a freddo di due gruppi dirigenti, vero che le due tradizioni/culture ivi confluite erano estenuate, ma è ancor più vero che la retorica della cosiddetta natura “post-ideologica” del Pd si è risolta nell’azzeramento delle culture. Soprattutto qui si misura la desertificazione prodotta dal renzismo: la rottamazione dei gruppi dirigenti ci poteva stare, non però delle culture.

 

Il partito “riaperturista” contro i virologi esausti

“Quanti bambini piccoli ci sono ricoverati?” chiede il giornalista Sallusti all’infettivologo Galli a Otto e mezzo, credendo di essere acuto, sottile, provocatorio. La tesi, lepidissima, è che non occorre chiudere le scuole perché i bambini non muoiono di Covid.

Il professor Galli è stanco, nervoso; fa capire che la giornata in reparto non è stata il massimo. Cerca di contrastare una vulgata che dura da un anno, oggi per lo più salviniana (anche se Salvini è al governo), ieri confindustriale e renziana (anche se Renzi era al governo): bisogna aprire il più possibile, a cominciare dalle scuole, perché i bambini non muoiono e soprattutto perché i genitori devono lavorare. Galli prova a spiegare che i Paesi europei, come la Germania, che hanno tenuto le scuole aperte nell’ultimo mese hanno avuto un balzo nei contagi e adesso devono precipitosamente richiudere tutto, per periodi più lunghi e presumibilmente con maggiori danni all’economia e alla salute mentale dei cittadini. Galli dà per scontato un dato verificato con metodo sperimentale: più i bambini si contagiano, più si fanno vettori del virus presso la popolazione adulta e anziana, più malati gravi e morti in proporzione si hanno, più gli ospedali si saturano, meno si possono curare i malati di altre patologie, più varianti si diffondono, più i vaccini rischiano di diventare inefficaci.

Sallusti insiste: quanti bambini ci sono ricoverati? Come se i bambini poi dormissero a scuola. La risposta ovviamente è “pochissimi”, in genere bambini oncologici o immunodepressi: ma è noioso pensare a loro quando c’è una normalità da riacquistare, denaro da far girare, imprenditori da lisciare con scemenze demagogiche. Il problema è che le mamme stanno a casa a guardare i figli in Dad, dicono. Ma che gliene è mai importato a questa gente delle mamme che non lavorano perché hanno i bambini a casa? Basta guardare i titoli dei loro giornali d’area per intendere quanto rispetto nutrano per le donne. C’è un altro non detto: “Eh, è un peccato che gli anziani e i malati muoiano, ma non possiamo fermare il Paese. Che schiattino, così noi viviamo”. Perché non lo dicono chiaramente? Siamo sicuri che troverebbero adepti: ormai quello dei riaperturisti è un partito a sé, in via di radicalizzazione. Non lo dicono non certo per un residuo di pudore, ma perché mantenere una parvenza di umanità corrobora la posa di essere neoliberisti stando dalla parte del popolo, e non ci si può presentare come tutori dei commercianti, degli albergatori, dei ristoratori etc. se si è esplicitamente degli esimi bastardi. Dovrebbero arrivare a fine ragionamento e confessare che i loro beniamini politici, tutti riaperturisti, sono stati i più grandi affamatori della Sanità pubblica; sono stati quelli che hanno dirottato i soldi pubblici sugli ospedali privati, motivo per cui quando si è presentata una pandemia non siamo stati in grado di fronteggiarla; siamo andati alla guerra con le ciabatte. Ma ci vuole onestà intellettuale per questo.

A questo punto, è la nostra modesta proposta, i virologi seri la smettano di andare in Tv. È un anno che vanno in Tv a dire come stanno le cose, e non ha funzionato. Chi voleva capire ha capito, gli altri sono cause perse. C’è gente che dice che il virus è un’influenza (2 milioni e 800 mila morti nel mondo) o un trucco delle case farmaceutiche, e c’è gente che cavalca queste idiozie per motivi elettorali, purché il mercato si riprenda la sua preminenza sulla vita. Gli slogan dementi “Milano riparte”, “Bergamo non si ferma” (gridati da sindaci di centrosinistra) non nascevano dal nulla: erano espressione di una schietta ideologia darwinista che ha trovato poi, a destra, un fertile terreno pseudo-complottista: le adunate di Salvini-Meloni, il capo della Lega che rifiutava la mascherina in Senato, per tacere di altre scene ingloriose, con medici che proclamavano il virus clinicamente morto ed escludevano la seconda ondata, mentre quell’altro, Renzi, opinava che i morti di Bergamo e Brescia avrebbero voluto riaprire tutto.

Abbiamo visto e sentito di tutto. Storie di lutti e separazioni dolorosissime hanno impunturato le immagini di corpi danzati al Billionaire; lavoratori del turismo si sono contagiati in massa; i padroni hanno finto la cassa integrazione continuando a far lavorare e morire i dipendenti. Chi non ha maturato una coscienza rispetto a questo come potrebbe maturarla ora? I virologi hanno ottenuto l’effetto contrario: sono diventati opinionisti, di quel tipo sgradito a chi ragiona per bias di conferma e vorrebbe solo il via libera per una condotta spensierata. Si sono esposti all’effetto saturazione, appoggiando o non appoggiando le scelte del governo; si sono messi al livello del primo interlocutore grullo o in cattiva fede che passava. Tornino a lavorare autorevolmente, a riparo dalla cagnara, per il sollievo di chi almeno dei medici vorrebbe potersi fidare.