Comunali, ancora “crisi”. Letta vede pure Di Maio

“Il nostro giudizio su Virginia Raggi è negativo”. L’ha detto più volte il segretario del Pd, Enrico Letta, anche negli ultimi giorni. La sindaca di Roma rischia di essere l’ostacolo sul quale si infrange la costruzione dell’alleanza con i Cinque Stelle. Ieri Letta ha incontrato Luigi Di Maio e, tra gli altri, ha affrontato anche il dossier amministrative. Il ragionamento che ha fatto al ministro degli Esteri è semplice e suona più o meno così: “Noi vogliamo fare un’alleanza organica in tutte le città, per vincere”. E questo dovrebbe portare al ritiro della sindaca. Fonti del Pd raccontano che il segretario sarebbe arrivato a spiegare a Di Maio che se la Raggi non molla, è lo stesso progetto dell’alleanza che si rompe. Ma dal Movimento smentiscono. E neanche il Nazareno conferma. Eppure, Enrico Letta sta cercando da giorni di costruire un profilo e un percorso per la Capitale che possa indurre sia Giuseppe Conte sia lo stesso Di Maio a costringere la Raggi a non presentarsi. Lei non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro.

Intanto, pure gestire il Pd non è semplice. Ieri, Irene Tinagli, la vicesegretaria, dopo aver detto che “Calenda sarebbe un bravo sindaco” ha poi dovuto bacchettare il leader di Azione (“ci vuole rispetto per il Pd”). Per il Pd di Letta è vitale chiarire che Calenda non è il suo candidato. Il segretario continua a cercare il nome giusto. David Sassoli ha ribadito il suo no. Nicola Zingaretti non si lascia convincere. Di nuovo, raccontano che senza la sindaca di Roma potrebbe ripensarci. Roberto Gualtieri resta un candidato autorevole, ma al Nazareno aspettano di capire qual è il campo da gioco. Letta preferirebbe una donna. Circolano i nomi di Marianna Madia e Beatrice Lorenzin. Nessuna in grado di vincere. Per ora l’identikit giusto pare non esserci. Mentre resta l’indisponibilità della Raggi a rinunciare alla corsa, il Pd, a partire da Francesco Boccia, responsabile Enti locali, si sta spendendo con Vincenzo De Luca, presidente della Campania, per fargli appoggiare la candidatura di Roberto Fico a Napoli. L’alternativa esiste ed è Gaetano Manfredi, ex ministro dell’Università. Il dossier è ancora intricato nelle città più importanti, comprese Bologna e Torino.

Letta e Di Maio hanno affrontato tutti i temi sul campo. D’altra parte, il segretario ha voluto vederlo subito dopo la prima uscita ufficiale di Conte. Evidente il riconoscimento del peso di Di Maio nel Movimento. Inoltre, i due si conoscono da tempo: il rapporto di Letta con i Cinque stelle non inizia da oggi. Entrambi fanno sapere che l’incontro è andato bene. Si è parlato di Europa, Recovery Plan, digitale, sostenibilità, Sud. E del sostegno al governo Draghi, con il tema delle riforme istituzionali. Convergenze si sono registrate su vari punti, dalla transizione ecologica al commercio estero. Sullo sfondo, anche la riforma della legge elettorale: Letta ha già detto di guardare al Mattarellum. Nel partito si ragiona su un sistema che alzi la quota di collegi plurinominali rispetto a quelli uninominali, previsti da questa legge, magari inserendo le preferenze.

Letta ha quasi finito il suo giro di incontri per costruire la coalizione. Manca Matteo Renzi. Che arriverà per ultimo. Segnali che parlano.

“Messinscena Fontana: l’evasione fiscale scaricata tutta sulla madre”

La vicenda dei conti esteri e la presunta evasione fiscale del presidente lombardo Attilio Fontana sono descritte dalla Procura di Milano come “una complessiva messinscena” costruita “per motivi di immagine politica” e “per evitare di denunciare al fisco la propria pregressa evasione fiscale”. Parole nette quelle dei magistrati, scritte nelle conclusioni della richiesta di rogatoria inviata alle autorità svizzere. A pagina dieci (di 14), la Procura si fa più stringente: “La falsità ideologica che permea l’operazione di rimpatrio dei capitali illeciti ha consentito a Fontana di trarre illegittimo profitto dall’utilizzo della simulata causale della successione ereditaria”, risparmiando 171mila euro di sanzioni. Secondo i pm non tutti i 5,3 milioni scudati sarebbero da ricondurre al presunto “nero” dei genitori del presidente.

A pagina 2 si legge che, “secondo l’assunto investigativo” Fontana “nel corso della procedura di voluntary ha dichiarato falsamente che il denaro detenuto all’estero sarebbe da ricondurre all’evasione fiscale posta in essere dalla madre Giovanna Maria Brunella, malgrado siano emersi plurimi elementi per ritenere che si sia trattato di provento (tutto o in parte) riconducibile alla propria evasione fiscale”. Poco dopo: “A seguito dell’esito favorevole del procedimento in questione, Fontana ha poi impiegato tali proventi in attività speculative”. Seguendo l’impianto dell’accusa, a pagina 7 si riprende una nota dell’Agenzia delle entrate relativa ai redditi dei genitori del presidente: “Alla luce dei livelli reddituali dichiarati” tra “il 1988 e il 2004 si rileva che il patrimonio detenuto al 31 dicembre 2014 risulta potenzialmente incongruo”.

L’incipit delle conclusioni della richiesta rogatoriale è ancora più netto. È scritto che “gli elementi” raccolti dall’accusa “portano a concludere per la protagonistica gestione da parte” di “Fontana delle operazioni finalizzate a ripulire una parte consistente (almeno 2,5 milioni) dei proventi dell’evasione fiscale per il tramite di un distorto utilizzo della voluntary disclosure”. Distorsione legata anche al fatto che Fontana, secondo i pm, non ha fornito “i documenti (…) per spiegare come sono stati generati i capitali all’estero”. Tanto che “la relazione (…) al riguardo è totalmente muta”. Di più: i tentativi dei pm di recuperare i documenti sono falliti visto che “le procedure di voluntary” per come spiegato dai testimoni “hanno seguito percorsi (…) inverosimili”. Per questo il governatore lombardo è indagato per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary. Fontana è anche accusato di frode in pubbliche forniture rispetto al caso dei camici venduti alla Regione dal cognato.

Sempre a pagina 10 della rogatoria si spiega come è stato impiegato il denaro scudato nel 2016: “Non vi sono dubbi che il patrimonio ripulito (…) è stato reinvestito da Fontana in strumenti finanziari”, attraverso un mandato all’Unione fiduciaria e l’apertura di un profilo di investimento presso Ubs che, per la Procura, “è annoverabile nel genus delle attività speculative”. Dagli atti, poi, emerge che Fontana scuderà 5,3 milioni, ma solo 3,5 sono riconducibili al conto del 1997 intestato alla madre. Su altri 2,5 milioni vi sono dei buchi che la rogatoria tenterà di ricostruire. Si legge, infatti, che “con l’apertura della relazione (…) (quella del 2005) vi è stata “una immissione di liquidità ulteriore rispetto a quella proveniente dalla relazione (…) (quella del 1997)”.

Dalla rogatoria emerge poi un dubbio di autenticità sulle firme relative al conto del 2005 e anche al conto del 1997. Viene scritto: “L’elaborato peritale rileva (…) anomalie nelle firme apposte nel 1997 da Fontana e da sua madre all’atto dell’apertura del conto (…) in quanto apparentemente apposte in un primo momento dalla signora Brunella e solo successivamente in circostanze di luogo e di tempo diverse, da Fontana”. Insomma una “messinscena” e, per i pm, “un duplice movente: economico e di immagine”. Fontana dal canto suo ha inizialmente spiegato di aver saputo del primo conto nel 2015 e poi, ieri, di averlo saputo già allora, anche se il conto lo gestiva la madre. Ora da indagato, se vorrà, potrà spiegare tutto ai magistrati.

Il “contentino” a Salvini regala pieni poteri al governo Draghi

Che la “manina” sia di matrice leghista o di qualcun altro, poco importa. Fatto sta che il “contentino” concesso dal governo Draghi a Matteo Salvini nel decreto che ha chiuso l’Italia anche ad aprile, approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri, rischia di dare all’esecutivo i pieni poteri sulle misure anti-Covid esautorando il Parlamento. La norma si trova nell’articolo 1 del decreto emanato giovedì dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “In ragione dell’andamento dell’epidemia, nonché dello stato di attuazione del Piano vaccini (…), con deliberazione del Consiglio dei ministri, sono possibili determinazioni in deroga al primo periodo e possono essere modificate le misure”. Ergo: dopo Pasqua il governo potrebbe fare un “tagliando” dei dati epidemiologici e modificare le misure (aperture, chiusure…) con una semplice delibera del Consiglio dei ministri. Una fonte che non rientra tra quelle coperte dal decreto legge del 25 marzo 2020 con cui il governo indicò gli strumenti legislativi – tra cui i Dpcm – per affrontare la pandemia. Nell’ultimo anno le delibere sono state usate solo 7 volte per decisioni che non limitavano la libertà dei cittadini: 4 volte per la dichiarazione e la proroga dello Stato di emergenza e 3 volte per lo stanziamento di fondi alla Protezione civile.

Il Cdm, insomma, non ha mai usato le delibere per disporre aperture o chiusure di bar, ristoranti, negozi o limitare la libertà dei cittadini. Per un motivo: su questo strumento normativo il Parlamento non ha alcun potere di controllo. Ancora minore rispetto ai Dpcm del governo Conte-2 e al primo del governo Draghi che trovavano la propria legittimazione giuridica nei decreti convertiti dalle Camere.

E sì che il governo Draghi, sostenuto da giuristi à la Sabino Cassese che per un anno hanno attaccato i giallorosa sulla “dittatura sanitaria”, si era impegnato ad accantonare i famigerati Dpcm in favore dei dl per fronteggiare l’epidemia. Una scelta che aveva un valore simbolico più che sostanziale visto che, di norma, i dl vengono convertiti dal Parlamento a ridosso della scadenza dei 60 giorni quando ormai sono stati già superati dai fatti e da un decreto successivo: il virus non guarda in faccia ai biblici tempi delle Camere. Draghi aveva affidato il compito di sostituire i Dpcm al sottosegretario a Chigi Roberto Garofoli, magistrato ed esperto di diritto amministrativo, anche in base al richiamo del Parlamento che si sentiva esautorato. Il 4 marzo, infatti, il Comitato per la legislazione presieduto dal pd Stefano Ceccanti aveva redatto un parere per chiedere al governo di eliminare i Dpcm e “ricondurre alla fonte legislativa il quadro generale delle misure da applicare nelle diverse zone”. Ora Ceccanti, a proposito della nuova norma, parla di “una regressione non accettabile” e proverà a modificarla in chiave di conversione spalleggiato dal M5S. E pare che anche Mattarella abbia storto il naso prima di emanare il decreto.

“Vaccinare per fasce di età avrebbe evitato più di 6mila vittime”

Con le vaccinazioni, che hanno iniziato a fare effetto a metà gennaio con le prime dosi somministrate a fine dicembre, in Italia abbiamo evitato circa 2.500 morti. Sono tanti, poco meno del 10% dei 30 mila registrati dal 15 gennaio (erano stati 35 mila nella prima ondata del 2020 al netto della mortalità in eccesso, ufficialmente non Covid, attestata dall’Istat). Se però la precedenza nelle vaccinazioni fosse stata data fin dall’inizio ai più anziani, rallentando l’immunizzazione del personale sanitario, avremmo potuto evitare circa 8.900 decessi, cioè 6.400 in più. Sono le stime di Matteo Villa dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), ottenute con un modello matematico che non dà risultati certi, ma tendenze e ordini di grandezza. Villa assume come piano “ottimale” quello in cui il personale sanitario viene vaccinato nel doppio del tempo (a fine gennaio avevano già quasi tutti la prima dose) come in Francia e in Germania, non ci sono altre categorie prioritarie e dunque anche gli operatori scolastici e di polizia si mettono in fila secondo l’anno di nascita. L’errore, col senno di poi, lo vedono tutti: nessuno parla più di “immunità di gregge”, il nodo è proteggere chi rischia di più. Il Lazio, in parte, l’ha fatto.

L’Italia è indietro non tanto nelle vaccinazioni in generale quanto sugli anziani: gli over 80 che hanno circa una probabilità su dieci di morire se contraggono il virus (dal 7 al 12%, gli uomini peggio delle donne) e quasi una su cinque di finire in ospedale, ma anche i 70/79enni che muoiono tra il 4,3 e l’8,6% e vengono ricoverati nel 16,6% dei casi (sono i numeri riportati da Robert Verity su Lancet infectious diseases). Una correzione c’è stata, anche prima del cambio di governo. Al 20 febbraio solo il 6% degli ultra80enni aveva ricevuto una dose mentre in Francia e in Germania erano al 25%; ora invece siamo al 57%. L’Italia è a metà classifica come la Francia, la Germania è al 72% e solo Malta, Irlanda, Svezia e Finlandia hanno superato l’80%, l’obiettivo dell’Ue per il 31 marzo. Fra i 70/79enni invece abbiamo appena il 10,2% di prime dosi contro il 39,4% dei francesi secondo l’Ecdc, l’agenzia europea per il controllo delle malattie che però non ha i dati di Germania e Spagna. E i morti sono sempre troppi. A breve l’Italia supererà la Gran Bretagna nel conto dei decessi per milione di abitanti: su worldometers.info siamo a 1.827 contro 1.861 (il Belgio è primo in Europa occidentale: 1.982) ma da noi aumentano più rapidamente. Ieri sono stati 481, dovrebbero cominciare a scendere tra una settimana. Non arriveremo ai quasi mille al giorno della prima e della seconda ondata.

Il report settimanale diffuso ieri dal ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità dice che Rt è tornato sotto 1 dopo tre settimane, calcolato tra il 10 e il 23 marzo è a 0,98 (0,87-1,11) contro 1,08 di sette giorni prima. Resta sopra 1 in Basilicata (1,15), Calabria (1,33 e rischio alto), Campania (1,33), Liguria (1,02 e rischio alto), Molise (1 ma in calo), Puglia (1,09 e rischio alto), Sardegna (1,18), Sicilia (1,08), Toscana (1,08 e rischio alto) Val d’Aosta (1,52), Veneto (1,12 e rischio alto). È a rischio alto anche l’Emilia-Romagna per i contagi e per il tracciamento in ritardo, però Rt è sceso a 0,83. “La curva dei contagi ha cominciato a decrescere, ma molto lentamente”, ha detto il professor Silvio Brusaferro dell’Iss presentando i dati con il collega Gianni Rezza del ministero della Salute. Tra il 22 e il 28 marzo, per la seconda settimana, l’incidenza media è scesa da 240 a 232 nuovi casi ogni 100 mila abitanti in 7 giorni (a 250 le Regioni vanno in zona rossa in automatico). Preoccupa la situazione degli ospedali, ma negli ultimi giorni sembra esserci un’inversione di tendenza: l’occupazione media delle terapie intensive è scesa dal 41 al 40%, ma sempre sopra la soglia d’allerta del 30% superata in 13 Regioni con punte oltre il 50% in Emilia-Romagna (52%), Lombardia (61%), Marche (60%), Piemonte (59%), Trentino (53%). A ogni modo, martedì 6 aprile Marche, Veneto e Trentino passano dal rosso all’arancione. Restano rosse Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta. Tutte le altre, passata Pasqua, arancioni.

Piemonte, il n. 1 del 118 al mare. Liguria: caccia agli ultimi “salta-fila”

Gli ospedali al collasso, i pazienti trasferiti in altre province, i medici sottoposti a doppi turni. Mentre a Torino, all’inizio della settimana, esplodeva la polemica sull’affollamento dei pronto soccorso e sul blocco dei riposi dei sanitari, Mario Raviolo, il responsabile per la maxi-emergenza 118 per il Piemonte (regione maglia nera per il Covid) era in spiaggia a Loano (Savona). E si faceva intervistare, il 31 marzo, dal Tg3 mentre, con le palme sullo sfondo e l’asciugamano in spalla, attraversava l’Aurelia in una giornata di sole. Si trattava di un servizio sui pochi turisti arrivati – a discapito degli esercenti – nelle seconde case liguri per le “ferie” di Pasqua. Ferie che in Piemonte quasi nessun sanitario ha praticamente mai fatto (se non alcuni giorni la scorsa estate) da quando è scoppiata la pandemia.

Raviolo non ha commesso alcun reato, sottolinea il suo avvocato Stefano Campanello, che parla di “ingiustificato e gratuito discredito sulla figura del mio assistito”. Il medico, spiega ancora il suo legale, non si sarebbe sottratto ad alcuna “precettazione di medici, che non sarebbe in atto”. Sarebbe andato a Loano per “riparare il condizionatore”. “Non ho violato alcuna norma, mi dovrebbero chiedere scusa, da mercoledì ero al lavoro”, precisa lo stesso Raviolo.

Intanto, però, i sindacati degli infermieri gridano allo scandalo. E la diffusione della notizia ha costretto l’assessore alla Sanità Luigi Icardi a una dichiarazione pubblica sulla vicenda: “Raviolo è stato al mare da lunedì, mercoledì era già al lavoro”. Su quel “già” ironizzano in molti. Peraltro anche Icardi era finito nella bufera mediatica, quando, in piena crisi di morti nelle Rsa, pochi mesi fa era partito in viaggio di nozze, volando nel Sud Italia per una settimana.

intanto in Liguria è stata aperta un’indagine sui furbetti del vaccino. I carabinieri del Nas hanno acquisito dalla Regione la lista dichi in questi mesi ha avuto accesso ai vaccini, per capire se tra qui nomi c’è chi ha saltato la fila. I militari, guidati dal maggiore Massimo Pierini, stanno partendo dall’analisi dei fruitori più giovani incrociando appunto il dato anagrafico, l’appartenenza a categorie privilegiate ed eventuali patologie. A Genova negli ultimi giorni è emerso il caso della vaccinazione del segretario generale della Regione Pier Paolo Giampellegrini, manager pubblico considerato un fedelissimo del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Secondo quanto ricostruito nelle settimane successive, Giampellegrini si era presentato l’11 marzo scorso all’Hub di Confcommercio ottenendo una dose di Pfizer rimasta in frigo. Una circostanza, quella del passaggio del dirigente presso il centro vaccinazioni, che è rimasta senza ulteriori chiarimenti. Sulla vicenda lo stesso Toti, alla richiesta di chiarimenti, aveva scaricato ogni spiegazione su Giampellegrini: “Non sapevo niente di questa vicenda, chiedete a lui”. Il procuratore capo Francesco Cozzi aveva sottolineato la necessità di una norma “per i cosiddetti riservisti per stabilire criteri chiari su chi si possa vaccinare per non sprecare le dosi”.

La Liguria, va ricordato, durante la prima fase di campagna vaccinale, quella che riguardava il personale sanitario, aveva registrato un 40% di dosi assegnate a categorie non prioritarie, tra le percentuali più alte in Italia.

Ferragnez vs Pirellone. Per gli over 80 senza dose oltre la beffa l’inganno

C’è voluto il bombardamento social di una big come Chiara Ferragni per spegnere l’entusiasmo generato dal primo giorno di attività del portale di Poste (che ha funzionato perfettamente) per le prenotazioni dei vaccini e riportare la Lombardia alla realtà di una campagna allo sbando. Se infatti 192.144 prenotazioni per i 79/75enni sono partite senza intoppo, per gli over 80 il calvario continua.

Tra gli anziani ancora in attesa, anche Luciana, nonna 90enne di Fedez. Un’attesa denunciata giovedì da Ferragni sui social. Critiche che ieri avevano spinto l’Ats di Milano a contattare direttamente la signora, come denunciato dall’influencer: “Oggi la nonna di Fede fa il vaccino – scrive Ferragni – perché dopo le mie stories di critica alla gestione dei vaccini ieri, un addetto ha chiamato nonna Luciana chiedendo ‘Lei è la nonna di Fedez? Alle 12 può venire a fare il vaccino’. Se ieri ero arrabbiata oggi lo sono ancora di più”. E sottolinea: “Nonna Luciana riesce a far rispettare un suo diritto perché qualcuno ha paura che io possa smuovere l’opinione pubblica. E invece le altre nonne come faranno?”.

“Nessuno dei nostri operatori ha chiesto alla signora se fosse la nonna di Fedez – si è difesa Ats – la somministrazione offerta oggi alla signora, che aveva omesso il Comune di residenza nella compilazione dell’adesione, è avvenuta anche per altri cittadini”. E aggiunge: “Riceviamo ogni giorno decine di segnalazioni in merito a over 80 che non sono stati ancora convocati”. Un’ammissione dei ritardi.

È di due giorni fa l’ennesimo annuncio dell’avvio della “campagna di massa”, a partire dal 12 aprile, per 70-79enni in giù. Ma come spiegato dallo stesso Guido Bertolaso, finché non finiranno le vaccinazioni degli ultra80enni, non potranno iniziare quelle per le fasce d’età inferiori. La data fissata è l’11 aprile (così da far partire quelle ai 79/75enni il 12 aprile). Ma difficilmente potrà essere rispettata, perché si dovrebbe vaccinare in 8 giorni quasi lo stesso numero di 80enni vaccinati dal 18 febbraio a oggi.

In regione gli over 80 totali sono 676.346; di questi, si sono iscritti al portale in 612.440 e 377.006 hanno ricevuto la prima dose (62%). Ne mancano 235.434, ai quali vanno sommati i 63.906 non registrati. Il totale fa 299.360 persone ancora da vaccinare. Un esercito. Al quale si affiancano altri 400.000 tra fragili, fragilissimi, invalidi e caregiver, altre categorie prioritarie.

Ieri Letizia Moratti a sorpresa ha dichiarato: “Dal 7 all’11 aprile gli over 80 che non hanno aderito alla campagna anti-Covid e coloro che ancora non sono stati chiamati potranno vaccinarsi recandosi semplicemente presso il centro vaccinale più vicino”. Ha poi precisato che “nel caso avessero difficoltà a camminare potranno rivolgersi al proprio medico di famiglia”. Una soluzione che ha fatto scattare l’assalto agli hub. Ma anche una resa. Da una parte svela la consapevolezza della gravità della situazione, dall’altra conferma come fossero vuoti proclami gli annunci con i quali da settimane il Pirellone si vanta di aver dato l’appuntamento a ogni anziano. A smentire Regione Lombardia ci sono anche i medici. “Ieri ho segnalato due pazienti, 99 e 93 anni, che non erano mai state contattate”, racconta un medico di famiglia del Milanese. “Un caso incredibile è quello di una mia paziente di 101 anni, non deambulante, segnata oltre un mese fa ad Ats, che è stata convocata in un hub. Il figlio, disperato, pur di farla vaccinare, pagherà privatamente un’ambulanza”. E sul “vaccino libero”, il medico dice: “Non ne sapevamo nulla. Le segnalazioni degli allettati le ho fatte un mese fa”.

Stesse denunce che riempiono da settimane le caselle mail di giornali e le frequenze di Radio Popolare, che da giorni chiede agli ascoltatori di indicare gli anziani dimenticati. L’ultima email ricevuta denunciava il caso di 4 anziani, nati tra il 1929 e il 1935, a Como.

E poi ci sono le disfunzioni dei centri vaccinali. Se giovedì e venerdì era rimasto chiuso il centro del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, perché mancavano i vaccinandi (“Abbiamo finito gli insegnanti e non ci hanno mandato altri nominativi”, dicevano i responsabili), i volontari del centro di Verano Brianza ieri hanno ricevuto questo messaggio: “Caro volontario, il 3-4-5 aprile il centro vaccini sarà chiuso e quindi non è necessario il presidio”. Con tanti auguri agli ultra80enni.

Mario si chiama Mario

Gira voce i comunicatori di Draghi stiano implorando i giornaloni di frenare le loro lingue più vellutate che, a furia di spacciarlo per il Messia, promettono miracoli che poi la gente non vede e s’incazza. Se è vero, vuol dire che Draghi ha degli ottimi comunicatori. Ma pure che la lingua, in certi esseri umani, è un muscolo molto più involontario di quell’altro. Ieri, per dire, il sito di Repubblica titolava “Draghi a Città della Pieve: il premier torna ad essere ‘Mario’ nel weekend di Pasqua”, onde evitare che qualcuno sospetti che diventi inopinatamente Ugo, lo chiami col nome sbagliato e lui non si giri. E la scorta? È posizionata “davanti alla casa di Draghi” (sul retro servirebbe a poco). Quanto al premier, “si è presentato ieri sera al cancello della sua villa a mezzogiorno e mezzo” e quello di far calare la sera alle 12.30 è un prodigio che riesce solo a Lui. Del resto aveva un “sorriso benedicente sul volto e la mano sinistra levata per salutare la scorta”, tipo Papa, “adagiato sul sedile del passeggero di un’utilitaria Fiat”. Un altro sarebbe stato seduto, Lui è “adagiato”. Abbigliamento: “Il due bottoni austero degli impegni istituzionali è rimasto nell’armadio a Roma, rimpiazzato da una t-shirt blu cobalto. Divisa più appropriata per un giro in paese” prima di mettersi “presumibilmente a tavola con in familiari”, sennò violerebbe il suo decreto.

In paese non si parla d’altro: “Davanti a una tazzina fumante al Caffè degli artisti raccontano” che mangerà “torta al formaggio”. E non sarà l’unico fenomeno paranormale: “I segnali della presenza del ‘professore’, come lo chiamano all’ombra del campanile del duomo dei santi Gervasio e Protasio, si erano iniziati ad avvertire già nei giorni scorsi, con un intensificarsi dei movimenti attorno alla proprietà”: pieno così di gente col ballo di San Vito che non stava ferma un attimo. Un vicino di casa: “Nel pomeriggio le imposte erano aperte e la sera, a differenza delle scorse settimane, era tutto illuminato a giorno”, anche perché lì fa buio già alle 12.30. Un commerciante “sussurra” ma “chiede di non comparire”, temendo l’arresto per spionaggio: “La signora Serenella è passata a fare la spesa al Conad”. Roba forte, compromettente. Talvolta il “divo quasi normale in maglietta blu cobalto”, che poi sarebbe Draghi, va in farmacia. E lì è tutta gente sveglia, che si “scambia un’occhiata” interrogativa: “Ma era lui?”. Pare infatti che il divo quasi normale indossi regolarmente un passamontagna (sempre blu cobalto, ton sur ton). Poi gli astuti farmacisti scrutano “la firma sullo scontrino della carta di credito, la stessa dell’allora presidente della Bce impressa su una qualsiasi banconota da 10 euro” e lo riconoscono: è lui, “non c’è dubbio”. Non Ugo: Mario.

Stellantis: “Avremo 40 modelli a batteria”

Tra i frutti del recente matrimonio tra Fca e Psa, che ha dato luogo al colosso Stellantis, ci sono anche quelli che vengono dalle piattaforme elettrificate. Stiamo parlando di una nutrita schiera di veicoli a batteria che sono arrivati o arriveranno entro fine anno sotto le insegne del sodalizio italo-francese: dalla sbarazzina Citroën Ami alle iconiche Fiat Nuova 500 e Jeep Wrangler 4xe, passando per la sportiva Peugeot 508 PSE e per le lussuose DS a batteria, senza dimenticare i veicoli commerciali full electric di Fiat Professional, Peugeot, Citroën e Opel.

“La mobilità è chiamata a entrare in una nuova era di sostenibilità per il contrasto dei cambiamenti climatici che sono al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, della stampa e dei governi anche in Italia”, ha dichiarato il Country Manager di Stellantis in Italia, Santo Ficili.

“In questo contesto, i veicoli elettrificati giocano un ruolo fondamentale e Stellantis vuole conquistare la leadership di questo mercato. Siamo già da ora pronti a proporre auto e veicoli commerciali accessibili, sicuri e sostenibili, con offerte differenziate e calibrate all’uso reale del cliente e delle sue esigenze”.

Quantificare questo “da ora” con numeri e scadenze, significa stando alle spiegazioni fornite dall’azienda affiancare ai 29 modelli a elettroni già disponibili altri 11 novità, per un totale di 40 veicoli da qui a fine 2021.

Con la promessa di fornire entro il 2025 una versione a batteria di tutti i veicoli attualmente in gamma. Un impegno importante, che solo il tempo dirà se fattibile. Anche perché, se portato a termine, significherebbe la pole position nella gara della mobilità sostenibile.

“Siamo gli unici in grado di garantire una mobilità senza emissioni con formule d’acquisto e leasing cuciti su misura, e per tutti i clienti, a partire dai 14 anni, con Citroën Ami, sino alle esigenze del mondo professionale con l’E-Ducato di Fiat Professional, senza tralasciare chi cerca l’avventura off-road a bordo di un Suv Jeep o il comfort premium con DS”, ha concluso Ficili.

La Ue punta sull’elettrico, ma dimentica le colonnine

Siamo nel mezzo di una fin troppo euforica tempesta elettrica su quattro ruote. I costruttori sono costretti a spingere a tavoletta sulla nuova mobilità sostenibile, a patto che sia davvero tale. E al di là di ogni ragionevole legge di mercato. Di solito è la domanda che crea l’offerta, mentre oggi al consumatore viene proposto (imposto?) un prodotto che magari non avrebbe mai inserito nella sua shopping list. E che è ancora abbastanza restio ad acquistare, nonostante sia sostenuto da corposi incentivi statali.

Il paradosso è che loro, i fabbricanti d’auto, se avessero potuto non si sarebbero mai imbarcati in un’avventura del genere. Lo ammettono a microfoni spenti, lo sibilano sottovoce: ci sono pochi dubbi che l’elettrico un giorno sarà dominante, ma è ancora troppo presto. La gradualità, che serve per sdoganare una qualsiasi nuova tecnologia, all’auto elettrica è stata negata dalla frenesia delle istituzioni, abili nel fissare obiettivi discutibili sulle emissioni tenendo poco conto delle evidenze scientifiche che attribuiscono all’auto un ruolo marginale in tema di riscaldamento globale.

E, soprattutto, dando ancora meno in cambio. Un esempio? Ecco l’ultimo, in ordine di tempo: l’Unione europea sta discutendo dei nuovi limiti per auto e furgoni dal 2030. Ma mentre chiede a chi li produce di investire miliardi su tecnologie come elettricità e idrogeno, ancora non dice nulla riguardo allo stanziamento dei fondi per finanziare ciò che più serve alla loro diffusione: punti di ricarica e stazioni di rifornimento. Alla via così.

Con la “Portofino M” il fascino della Rossa è dentro 620 cavalli

Magnifica. Magnetica. O, al limite, anche magica, perché no? Ma quella emme che in Ferrari hanno aggiunto al nome di Portofino significa, più modestamente, “Modificata”. È tale nella meccanica e nell’elettronica, evolutissime, ma uguale a se stessa in quanto a stile e fruibilità. Trovare un qualcosa di analogo fra le concorrenti è (quasi) impossibile. La Portofino è anche un’auto compatta, almeno per gli standard di Maranello: lunga circa 4,6 metri, è utilizzabile senza patemi anche nella vita quotidiana, tanto riesce a essere confortevole e disinvolta nel traffico più sostenuto. Alla voce “massa in ordine di marcia” c’è scritto 1.664 kg: non pochi, in teoria. In pratica, però, la Portofino li porta con nonchalance. E, del resto, col tetto rigido retrattile e relativo servomeccanismo, meglio non si può fare.

Ma cosa rappresenta la Portofino M? Diciamo che è l’“entry level” della gamma di Maranello – per quanto si possa definire così un bolide da 206 mila euro – ed è anche la Rossa meno esasperata. È fatta per far sentire subito a proprio agio il guidatore, specie quello che per la prima volta si avvicina a una Ferrari. Splendido il volante, che integra tutti i comandi necessari alla guida, dagli abbaglianti al tergicristallo all’attivazione degli indicatori di direzione: ruotando il rinnovato manettino a 5 posizioni fino a selezionare la modalità “Comfort”, le sospensioni magnetoreologiche compiono un lavoro eccellente nel controllo dei movimenti della scocca: le asperità sono filtrate al meglio e l’isolamento acustico è ottimo.

Dalla modalità “Sport” a salire verso quelle più racing, le sospensioni si induriscono, la reattività del propulsore aumenta e l’anima ruggente del V8 biturbo da 3,9 litri prende il sopravvento. A ogni pressione del gas sono disponibili fino a 620 cavalli di potenza, 20 in più che in passato. La spinta è portentosa, il passaggio da 0 a 100 km/h avviene in 3,45 secondi e la velocità massima, di oltre 320 km/h. Il nuovo e rapidissimo cambio doppia frizione ad 8 rapporti ha le prime 7 marce più ravvicinate tra loro, per massimizzare lo sprint, mentre l’ottava è lunga per migliorare efficienza e silenziosità di marcia.

A controlli elettronici completamente disabilitati, è un gioco da ragazzi mettere a dura prova i pneumatici posteriori, lasciando sull’asfalto enormi strisce nere nonostante la generosa gommatura 235/45R20 all’anteriore e 285/35R20 al posteriore. Difetti? Chiamiamoli piuttosto imperfezioni: limitata visibilità posteriore, vano bagagli piccolino, specie con la capote aperta, e scarsa abitabilità delle sedute posteriori. Roba che non intacca l’appeal della Portofino M.