Cosa Nostra non è loro – Le nuove fiction senza mafia

La mafia uccide solo d’estate? Di certo, non nell’ultimo inverno, e nemmeno in questo scorcio di primavera, almeno nelle fiction: da Montalbano a Màkari, dal Commissario Ricciardi a Lolita Lobosco, Cosa Nostra non è stata cosa loro. Premiate dal pubblico, meno dall’impegno civile: mafia, camorra e compagnia criminosa nel fuoricampo, buoni sentimenti e splendide cornici, al più, per dirla con il nume Andrea Camilleri, qualche ammazzatina.

Già, pizza e mandolino hanno messo tra parentesi la mafia: inversione autoriale, gusto spettatoriale, desiderata delle sempre più importanti film commission, che cosa ha mandato in soffitta coppola e lupara? Carlo Degli Esposti, lo storico produttore di Montalbano e ora di Màkari, rispedisce l’addebito: “Camilleri ha dedicato la vita all’antimafia, però con Salvo i clan ha preferito sfotterli, prenderli in giro, persino per il culo. Una parafrasi comica, un’indole antropologica, in punta di fioretto, laddove nei suoi romanzi storici ci va giù più pesante”.

La mafia marca visita anche da Màkari, tratta dai romanzi di Gaetano Savatteri, ma il capo di Palomar rimanda alla seconda stagione: “Dovevamo prima fondare i personaggi, il crimine organizzato arriverà”. Certo è che la Sicilia Film Commission non ha catalizzato questa assenza: “Màkari non è stata sostenuta, Montalbano “ha preso 82mila euro nel 2017, a fronte di una ricaduta sul territorio stimata in un miliardo”. Degli Esposti sogghigna ricordando la minaccia di girare le avventure del commissario di Luca Zingaretti in Puglia, affinché l’allora presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, alzasse il telefono, ma seriamente si rivendica Maltese, “la più tosta serie sulla mafia degli ultimi dieci anni, con un mix di fatti storici e fantasia degno de La Piovra”. Da Squadra antimafia allo spin-off Rosy Abate, Pietro Valsecchi ci ha costruito – l’altro architrave è Checco Zalone – la fortuna di Taodue, eppure l’avviso di sparizione lo sottoscrive: “I fattori sono multipli, le onde editoriali conclamate. Oggi broadcaster e streamer preferiscono le mafie sudamericane, io ho una serie su Tommaso Buscetta ferma da un paio d’anni, e non credo che Il Traditore di Marco Bellocchio sia la causa. Vanno di più passioni, intrighi e cronaca, con Mediaset e Netflix ho appena condiviso la serie Yara (Gambirasio, ndr), per la regia di Marco Tullio Giordana”.

Anche Valsecchi non ha chiesto fondi alla Sicilia Film Commission, anch’egli non abdicherà alle cosche sul piccolo schermo: “Inizierò a breve Lady Corleone, storia di una ragazzina che sale ai vertici di Cosa Nostra e ne consolida l’impero finanziario: un colpo di scena dirà quel che la mafia significa oggi”. Nullaosta anche da parte di Nicola Tarantino, subentrato nel novembre scorso ai vertici di Sicilia Film Commission, che ha appena licenziato un bando (scadenza il 15 aprile) da 3 milioni e 400mila euro per produzioni audiovisive nell’isola: “Puntiamo a esaltare il nostro territorio, tra cultura, paesaggi e gastronomia, ma trattare la mafia non è pregiudiziale al finanziamento di film o fiction: non consideriamo solo la promozione, bensì la filiera e l’indotto di una produzione, che – ricordo – deve spendere in loco il 150% del contributo”.

Per Tarantino, “sebbene una serie come Il cacciatore insista con merito sulla mafia, la linea di tendenza è tracciata, e ovviamente la incentiviamo: spensieratezza, bellezza, piuttosto che crimine e brutture, ma dichiarazioni come quelle del vicepresidente della Calabria (Nino Spirlì: “A chi viene qui per girare film, fiction e documentari sul malaffare e sulle saghe mafiose, diciamo: ‘Non sei il benvenuto’”, ndr) sono più politiche che tecniche, e non intaccano le nostre valutazioni”.

Il critico televisivo Giorgio Simonelli, ospite fisso a Tv Talk, tira le file: “In Lolita c’è un accenno al crimine organizzato, alla voce speculazione edilizia, per Ricciardi il fascismo aveva eliminato la mafia, o forse vi si era sostituito, vero è che il versante promozional-turistico è preminente, e se racconti un mondo idilliaco le cosche guastano”. Ma le ragioni dell’assenza sono strutturali: “La mafia è un genere, non un contenuto: non puoi metterla altrove. Non bastasse, ha modelli troppo alti, da La Piovra a Romanzo criminale, perché chiunque vi si possa misurare. A meno di non voler dare contentini agli ‘impegnati’ di professione, è meglio soprassedere: Cosa Nostra non è un romanzo d’appendice”.

Celeberrimo commissario Cattani nella serie battezzata da Ennio De Concini, poi alla regia di Romanzo criminale, Michele Placido predica il ritorno al futuro: “Ho proposto alla Rai un progetto su Rosario Livatino, il magistrato assassinato dalla Stidda nel 1990, che il prossimo 9 maggio verrà beatificato: sento la necessità di onorarlo”. Sopralluoghi già fissati, Placido inquadrerà “i sicari ventenni del giudice ragazzino, alla mia maniera pop(olare): voglio omaggiare il maestro Francesco Rosi e Damiano Damiani, che fece della prima Piovra cinema più che tv”.

 

Lee, il “nonno democratico” che fa paura al Dragone

Tra i nove veterani del fronte pro democrazia di Hong Kong condannati dal tribunale distrettuale per aver organizzato una delle manifestazioni del 2019 bollate come illegali da Pechino, c’è anche Martin Lee. Nonostante l’età, 82 anni, Lee fa ancora paura alla super potenza del Terzo millennio tanto da rischiare di finire in carcere almeno per cinque anni. Il fatto che l’anziano ex parlamentare sia finito nella lista nera del regime cinese è la dimostrazione di quanto sia ancora una figura di riferimento e una fonte di ispirazione dei giovani “ribelli” che non vogliono rinunciare ai principi democratici su cui finora si è retta la colonia britannica riconsegnata alla Cina nel 1997. Martin Lee Chu-ming è infatti affettuosamente conosciuto come il “nonno della democrazia di Hong Kong”. Avvocato, ex parlamentare e presidente fondatore degli United Democrats, il primo partito politico di Hong Kong, Lee ha svolto un ruolo di primo piano all’interno del gruppo che ha redatto la Legge fondamentale che specificava i diritti costituzionali fondamentali e le libertà dei cittadini di Hong Kong in vista della sua restituzione alla Cina. Lee, grazie alla propria esperienza in ambito giuridico e politico ha recentemente sottolineato che “purtroppo le fortune della democrazia sono ovunque ai minimi termini”. Secondo il fautore e guardiano della democrazia nella città-Stato “ciò che sta succedendo qui è fondamentale. Stiamo dimostrando che il potere di Pechino non è invincibile o inevitabile. Stiamo dimostrando che il fallimento non è cadere, ma rifiutarsi di alzarsi”, ha sottolineato in un’intervista durante le manifestazioni di due anni fa, in riferimento ai tanti sit in contro il regime. Lee è stato l’unico che ha osato definire l’amministrazione della governatrice voluta da Pechino, Carrie Lam, disfunzionale. “Di fatto ora è la polizia del regime a governare Hong Kong e la brutale forza tattica che sta usando ha suscitato odio e risentimento nella maggior parte della popolazione”. La visione del “nonno democratico” per quanto riguarda il futuro di quello che finora è stato anche uno dei principali hub finanziari del mondo in questi due anni di sollevazione popolare sta diventando sempre meno rosea, per usare un eufemismo. Non vede fine alla violenza delle forze dell’ordine e nutre sempre meno fiducia nella resistenza pacifica da parte dei manifestanti a causa della decisione di Pechino di evitare qualsiasi forma di mediazione.

Settore tessile paralizzato. Le sartine contro i generali

Oltre cinquecento morti e migliaia di feriti. A due mesi dal golpe del generale Min Aung Hlaing che ha di fatto destituito Aung San Suu Kyi, la Birmania è a un passo dalla guerra civile e l’economia è allo stremo. In piazza contro il regime scendono anche i lavoratori. Ai medici, chiamati in prima linea contro l’epidemia e ora in sciopero per mettere pressione alla giunta di Hilaing, si sono sommate le lavoratrici del tessile con i loro copricapo colorati. Un settore, il loro, in via di sviluppo in Birmania – anche grazie alla vicinanza con la Cina e con il Bangladesh – nel quale la forza lavoro femminile rappresenta il 90%. E il loro peso si fa sentire anche per le strade presidiate dai miliari.

Alcune leader, come Moe Sandar Mynt, portavoce della Federazione sindacale dei lavoratori tessili della Birmania, sono state costrette a scappare per timore di rappresaglie. Ma non per questo Moe e le altre si sono arrese. Per un Paese che esporta quasi 6 milioni di euro in vestiti, secondo i dati della Camera di Commercio, il lavoro di queste donne è cruciale. Da qui l’idea che la migliore protesta fosse lo sciopero. Se non fosse che i padroni delle fabbriche, fornitori delle marche occidentali e asiatiche, hanno deciso di vendicarsi rinchiudendo più di mille di loro nella fabbrica di Gy sen che produce per marchi europei. Ma le lavoratrici non si sono arrese e hanno inviato una lettera ai dirigenti dei grandi gruppi: “Crediamo che vista la nostra situazione politica attuale, e tenendo conto che stiamo sviluppando una responsabilità d’impresa, il minimo che possiate fare sia difendere il nostro diritto alla libertà d’espressione”. Dei marchi europei per ora pochi hanno preso provvedimenti. Alcuni hanno cancellato gli ordini, come forma di pressione sui proprietari delle fabbriche affinché assecondino le rivendicazioni delle lavoratrici. H&M ha condannato il golpe e sta valutando altre mosse contro il regime. Un grande passo per il milione di donne birmane. “Ora lottiamo per il Paese, non siamo più soggetti passivi. Abbiamo bisogno della democrazia perché abbiamo bisogno dei nostri diritti”, ha dichiarato Moe, che con le colleghe Ei Ei Phyu Ma e Tin Tin Sai rischia il processo.

Intanto le lavoratrici continuano a scendere in strada per chiedere ai marchi della moda di fare da megafono alla situazione birmana, dimostrando che senza di loro non c’è produzione.

A proposito di produzione, è di ieri la notizia – data dal sito Myanmar now, uno dei pochi in grado di aggiornare le notizie – dell’incendio di due supermercati gestiti dai militari a Yangon, città sotto coprifuoco. I supermercati sono tra le numerose attività boicottate dagli oppositori del colpo di Stato, in realtà. Da Yangon è partita anche la protesta del “rogo della Costituzione” del 2008. Sono migliaia le persone che danno fuoco alla Carta scritta dai militari per rivendicare la libertà e la democrazia. Intanto il conflitto va avanti: a morire, secondo Save the Children sono stati finora anche 43 bambini, uccisi dai militari in una situazione definita “da incubo”. La vittima più giovane aveva 7 anni. L’inviato dell’Onu in Myanmar ha avvertito del rischio di un “bagno di sangue imminente” visto l’intensificarsi della repressione delle proteste da parte della giunta, oltreché il nuovo focolaio di combattimenti tra l’esercito e le milizie delle minoranze etniche nelle zone di confine.

Secondo testimoni, ormai le forze armate sparano a tutto spiano per le strade delle città in rivolta o uccidono casa per casa, o, come scrive Myanmar now, i manifestanti fermati non fanno più rientro a casa. La famiglia della bambina di sette anni, Khin Myo Chit, ha raccontato alla Bbc che è stata uccisa dalla polizia mentre correva verso suo padre durante un’irruzione nella loro abitazione. La violenza dei militari ha scatenato una protesta internazionale, con vari Paesi – inclusi Stati Uniti e Regno Unito – che hanno annunciato sanzioni contro i leader del golpe e le società legate ai militari. Ieri, Londra ha annunciato ulteriori misure contro la Myanmar Economic Corporation (Mec), società che ha fornito fondi all’esercito birmano. Infine, la giunta militare ha ordinato la sospensione dei servizi internet wireless “fino a nuovo avviso”. I militari avevano già disposto la sospensione del trasferimento dati dai dispositivi mobili. Una nuova stretta che rischia di paralizzare le comunicazioni on-line.

Draghi scrive come Conte: ora Cassese chiederà la Siberia?

Tremino i burocrati di Palazzo Chigi, stanno arrivando le purghe siberiane. E se qualcuno si scandalizzasse per i toni forti, si rassicuri: l’idea non è nostra, ma del fine giurista Sabino Cassese, presidente Emerito della Corte costituzionale. Già, perché un paio di mesi fa, Cassese si agitava contro i decreti di Giuseppe Conte, auspicando “la colonia penale” per chi scriveva quegli orrendi Dpcm: “Sì, ci vorrebbe la Siberia!”. Oggi che al governo ci sono i Migliori, scopriamo però che i decreti sono scritti in maniera praticamente identica a quelli del precedente esecutivo, giustificando così l’auspicio di lavori forzati per gli autori. Sempreché, nel frattempo, Cassese non abbia cambiato idea. Guardare per credere. Prendiamo l’ultima bozza del decreto legge approvato due sere fa in Consiglio dei ministri (presto sarà pubblicato il testo definitivo) e l’ultimo varato dal governo Conte, quello del 14 gennaio, e addentriamoci in un’analisi linguistica. Nel decreto dei Peggiori, all’articolo 1, si leggeva: “All’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, le parole ‘31 gennaio 2021’ sono sostituite dalle seguenti: ‘30 aprile 2021’”.

Incomprensibile, dirà Cassese. Per fortuna c’è il nuovo articolo 1 del nuovo decreto del nuovo governo. Eccolo: “Dal 7 aprile al 30 aprile 2021 si applicano le misure di cui al provvedimento adottato in data 2 marzo 2021, in attuazione dell’articolo 2, comma 1, del decreto legge 25 marzo 2020, numero 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, numero 35, salvo quanto diversamente disposto dal presente decreto”.

Meglio di un divino endacasillabo, se pensiamo di aver capito il criterio estetico di Cassese. E degno del Petrarca sarà allora anche un passaggio successivo del decreto, dove finalmente l’autore libera la scrittura dalle solite gabbie stilistiche della legge, abbracciando lo stilnovo: “Resta fermo quanto disposto all’articolo 2, comma 2,del decreto legge numero 19 del 2020, e fatto salvo quanto previsto dall’articolo 2, comma 1, dall’articolo 1, comma 16, del decreto legge 16 maggio 2020, numero 33, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, numero 74”. Una bellezza artistica – diciamo bene, Cassese? – cui si affianca la chiarezza dei contenuti, per la prima volta davvero alla portata di un bambino delle elementari e non più accessibile, come nella cupa èra giallorosa, soltanto agli azzeccagarbugli.

E poi c’è la fortunata scelta di rivedere la divisione degli articoli, favorendo la scorrevolezza. Basta dar conto, proprio come darebbe Cassese, del geniale spostamento del vecchio articolo 2 del decreto brutto e scritto male, quello di Conte: “La violazione delle disposizioni dell’articolo 1 è sanzionata ai sensi dell’articolo 4 del decreto legge n. 19 del 2020”. La norma è confermata para para – se ci è consentito di abbassare per un attimo il livello lessicale di questo articolo –, ma con Draghi e i suoi Migliori diventa il comma 7 dell’articolo 1.

D’altra parte quel che si osserva oggi confrontando i decreti legge lo si era percepito già quando, a inizio marzo, era stato varato il primo Dpcm dell’ex governatore Bce. Per quanto fosse sconcertante, nello stile non c’era alcuna differenza sostanziale rispetto agli scritti del predecessore. Anche in quel caso c’era stato qualche trasferimento, con l’articolo 12 di Conte finito all’articolo 3 e l’articolo 5 spacchettato tra il 5 e il 6 del nuovo testo, ma non certo una rivoluzione. A meno che non si consideri tale, ma qui facciamo un passo indietro e lasciamo il giudizio all’Emerito Cassese, l’introduzione dei “capi”, ovvero di alcuni macro-capitoli che raggruppano per tema un certo numero di articoli.

Per il resto, anche il nuovo testo ricorre a continui rimandi ad altre leggi (se ne è dato conto sopra) e a frasi arzigogolate che sembrano un maldestro omaggio all’amore per la virgola di José Saramago, qui riproposto però – duole farlo notare – con meno qualità: “In ragione dell’emergenza sanitaria in atto, per le procedure concorsuali in corso di svolgimento o i cui bandi sono pubblicati alla data di entrata in vigore del presente decreto, volte all’assunzione di personale con qualifica non dirigenziale, che prevedono tra le fasi selettive un corso di formazione, si applicano le disposizioni di cui al comma 3, anche in deroga al bando, dandone tempestiva comunicazione ai partecipanti nelle medesime forme di pubblicità adottate per il bando stesso, senza necessità di riaprire i termini di partecipazione e garantendo comunque il profilo comparativo e la parità tra i partecipanti”. La Siberia, però, questa volta, pare sia prevista per chi non capisce e non più per chi scrive i testi. Dicesi “cambio di passo.”

Camorra, il verbale del figlio di Sandokan: “I Casalesi volevano uccidere Cosentino”

La difesa di Nicola Cosentino al processo d’appello per concorso esterno in associazione camorristica, conclusosi in primo grado con la condanna a nove anni, punta dritta su un verbale del pentito Nicola Schiavone. Il figlio di Francesco “Sandokan” Schiavone, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, ha rivelato ai pm che suo zio, Francesco Schiavone detto “Cicciariello”, aveva progettato di uccidere l’ex sottosegretario di Berlusconi. “Mio zio voleva uccidere Cosentino e ci volle il bello e il buono per calmarlo. Non lo ipotizzò, quello dette l’ordine”, dice Schiavone jr in un verbale del 25 settembre 2018.

Secondo la ricostruzione del collaboratore di giustizia, il politico di Forza Italia andava colpito a morte perché aveva rifiutato l’invito di Cicciariello a incontrarlo. La circostanza, evidenziata dagli avvocati Agostino De Caro, Stefano Montone ed Elena Lepre in una memoria depositata in udienza, “riconduce alla impossibile compatibilità con l’ipotesi in contestazione”, anche perché in un altro verbale lo stesso Schiavone jr sostiene che non gli sarebbe dispiaciuto “fare l’agguato a Cosentino” perché non gli aveva suggerito il nome di un bravo avvocato.

Detto in parole semplici: queste secondo i suoi legali sarebbero prove che Cosentino non era colluso con il clan, anzi evitava di assecondarne i desiderata, tanto da rischiare la vita. Non la pensa così la Procura generale di Napoli, che ha chiesto di confermare la condanna e di aumentare la pena a dieci anni.

Le parole di Schiavone jr offrono altri spunti utili alla difesa di Cosentino. A cominciare da quanto detto in un verbale reso due giorni dopo, quando il pentito indica Nicola Ferraro come politico di riferimento del clan. In quegli anni, Ferraro era un rivale di Cosentino, collocato nell’Udeur di Mastella e nel centrosinistra di Bassolino in consiglio regionale. Schiavone jr “rinnova la narrazione in merito all’affronto subito a opera di Cosentino allorquando nel 2008 aveva individuato il terreno di Ferrandelle, a loro confiscato, come discarica per contenere ‘l’immondizia di Napoli’”, si legge nella memoria.

Bisognerà aspettare qualche settimana per la sentenza. La Corte d’appello ha infatti deciso un supplemento d’istruttoria per ascoltare in videoconferenza Nicola Schiavone. L’udienza è fissata il 14 aprile.

Seif torna all’utile. E il Fatto registra +47% delle copie

Seif, Società Editoriale Il Fatto torna all’utile nel 2020. Il bilancio dello scorso anno ha infatti registrato un risultato netto positivo (pari a euro 301 mila), un valore della produzione pari a euro 38,027 milioni (+18,89 per cento rispetto all’esercizio 2019), un Ebitda pari a euro 5,266 milioni (+325 per cento rispetto all’esercizio 2019) e un incremento dei ricavi in tutte le divisioni di business. La società quotata su Aim Italia e a Parigi su Euronext Growth, sottolinea poi che Il Fatto Quotidiano ha registrato a gennaio 2021 un totale di 58.449 copie diffuse, in crescita dell’8,84 per cento rispetto a dicembre 2020 (53.702 copie). Si tratta del maggiore incremento tra i primi 20 quotidiani di informazione, al netto delle testate sportive. Ma rispetto al gennaio del 2020, quindi anno su anno, l’incremento è del 47%, il maggiore di tutto il mercato per copie pubblicate. Tra i quotidiani d’informazione, Il Fatto quotidiano si posiziona oggi all’ottavo posto, ma con la migliore performance di crescita annuale.

Toti e “la nave che sta costruendo la diga”. Gaffe sui social, l’annuncio è una fake news

Mercoledì mattina, ore 9.35. Il governatore della Liguria Giovanni Toti – impegnato in queste settimane nella trincea della campagna vaccinale – diffonde sul suo profilo Facebook un annuncio trionfale: “Qualcuno in questi giorni si sarà accorto di una nave che fino stazionava davanti al porto di Genova. Sta facendo i rilievi del fondale per la costruzione della nuova diga (progetto da 1 miliardo di euro, che ad aprile sarà sottoposto al Ministero ndr), che permetterà alla nostra città di avere uno scalo competitivo per i traffici dei prossimi decenni. La pandemia non ci ferma, usiamo questo momento per progettare e costruire il domani. Questo è il Modello Liguria!”. Segue foto evocativa: imbarcazione all’orizzonte, cielo azzurro e tetti. Il messaggio è rilanciato sui canali del Comune di Genova. Prima di accorgersi che si tratta di una patacca: nell’immagine – conferma la capitaneria di porto – è ritratta una nave della compagnia Saipem, nel capoluogo ligure per una normale manutenzione.

c’è chi se ne accorge anche nella vasta platea social che segue il profilo del leader di Cambiamo, che da ex giornalista presta molta attenzione alla comunicazione. “Mi sembra la nave Saipem che era in manutenzione ai cantieri San Giorgio – commenta un utente – non sapevo si fosse messa a far questo genere di lavori… mi puzza di fake news”. Infatti. A prescindere dalla veridicità, ma sui social non è una novità, il post ha un certo successo. Suscita molti commenti di ammirazione e in 24 ore colleziona 1.115 like e 46 condivisioni. Ma come nasce l’annuncio? Il Fatto ieri lo ha chiesto allo staff che segue il presidente della Regione Liguria. La risposta mette il cerino in mano a uno stretto collaboratore di Toti, il presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Emilio Signorini: sarebbe stato lui a metterlo sulla cattiva strada. Una circostanza confermata dallo stesso Signorini che si prende la responsabilità: “Temo sia colpa mia – dice con tono divertito –, ieri il presidente mi ha domandato cosa fosse quella nave, e io ho pensato fosse quella dei rilievi. È stato un dialogo veloce, non avevo idea che sarebbe finito sui social. In effetti non è la nave giusta”. Ma almeno questi rilievi sono mai stati fatti? A dire di Signorini sì, ma “fra la fine dell’anno e l’Epifania”. Insomma, la notizia è un po’ datata e photoshoppata (si passi il termine), ma sempre buona per acchiappare qualche clic.

Mail Box

 

Un romagnolo Aire fa appello per il vaccino

Caro direttore Travaglio, perché io e mia moglie, entrambi pensionati e purtroppo portatori di patologie riconosciute, essendo da un anno residenti all’estero (iscritti Aire) siamo, assieme a tanti altri, assurdamente discriminati da una norma regionale che non consente ai residenti all’estero, pur attualmente domiciliati in Italia e con l’impossibilità di raggiungere a breve la residenza (per noi il civile Portogallo) di essere vaccinati? Sbaglio o il “Fenomeno medagliato” giura e spergiura che vuole vaccinare anche coloro che passano per caso? Perché dunque la mia Ausl Romagna, sotto direttiva della presidenza Bonaccini, rifiuta a chi per 43 anni ha pagato regolarmente tutte le tasse e i contributi? E perché il presidente non risponde alle mie email?

Walther Casadei

 

Caro Walther, giriamo le sue domande al presidente Bonaccini sperando che le risponda sul Fatto.

M. Trav.

 

Con il Pd delle correnti Letta deve stare attento

Non so cosa sarà in grado di fare Letta con un Pd balcanizzato dalle varie correnti. È davvero pensabile che chi oggi lo abbraccia e lo bacia sia stato di colpo fulminato dai problemi che attanagliano milioni di cittadini? Gli svergognati di Zingaretti non vi pare che facciano buon viso a sorte dubbia? Su una cosa si può concordare con Letta: al Pd non serve un Segretario ma una classe dirigente! Letta farebbe cosa buona e giusta riaprendo quanto prima le porte del partito a persone perbene e capaci quali Bersani, Barca, Speranza, ma anche D’Attorre e Fratoianni solo per citare alcuni esponenti di Leu; e con altrettanta premura chiudere il portone e ogni più piccolo spiraglio e fessura agli opportunisti renziani.

Totò D’Alessandro

 

Domiciliari diseguali: possibile non ci si pensi?

In Italia si parla spesso di giustizia. Vorrei sapere proprio quale giustizia sia quella che (dopo sentenza passata in giudicato) manda i colletti bianchi a scontare la pena nelle loro lussuose ville in collina con parco privato (o in appartamenti super lusso) mentre i poveracci nelle case popolari in appartamenti sovraffollati.

Carlo Boni

 

Ritornano le primule, ma c’è chi può reciderle

Caro Travaglio, sono vecchio e malmesso e per età ti potrei essere padre. Per provare a sentirmi vivo leggo il Fatto e poi… faccio orto. Sulle primule: non ho mai visto un fiore nascere dalla merda; se ci prova, c’è chi lo recide.

Antonio Dal Tio

 

Altro che condoni, serve garantire il Reddito

Non ricevo il Reddito di cittadinanza perché ho un Isee di 6.670. Da un anno sono senza lavoro, non ho entrate, non ho potuto fare la dichiarazione non avendo guadagnato un centesimo. Però la casa per cui non riuscirò a pagare i 20 anni di mutuo e che la banca mi toglierà mi dà automaticamente questa cifra. Non sarebbe il caso di far decidere a “umani” se uno sia degno del Rdc? Il computer immediatamente blocca la pratica, visto che “supero i 6.000 euro”. Ulteriore beffa: i condoni. Il Bel Paese.

D. V.

 

“Libero”, quanto livore e insulti contro il “Fatto”

Ho letto tutti gli improperi che Libero ha rivolto a lei e a Selvaggia Lucarelli. Non capisco tutto questo livore che scaturisce da un giornale. Forza e buon lavoro!

Marco Olla

 

Grazie, ma perché si ostina a chiamare Libero “giornale”?

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo intitolato “La Soprintendente, la figlia e il regista. Le clip si girano in famiglia”, da Voi pubblicato in data 10 febbraio 2021, ritengo opportune talune doverose precisazioni rispetto ai fatti ivi riportati. Anzitutto, voglio precisare che la Soprintendenza non ha mai conferito alcun incarico professionale al regista citato nel suddetto articolo. A quanto è dato sapere, il regista in questione ha realizzato dei video sullo stato dei lavori del PAN Parco Amphitheatrum Naturae nel Parco archeologico dell’anfiteatro su incarico della TMC pubblicità, a fronte di un modesto importo pari a circa Euro 2.000,00. Per quanto concerne, poi, mia figlia, la stessa, appassionata di riprese, ha semplicemente girato a titolo amatoriale e personale, senza alcuna altra utilità e finalità, qualche clip in ordine ai lavori del PAN.

Antonella Ranaldi

 

La cifra dell’importo corrisposto al regista ci era stato comunicata, telefonicamente, dalla soprintendente. A ogni modo, nel testo non si fa menzione di un conferimento diretto dell’incarico dalla Soprintendenza al regista, ma di “input”, come conferma anche la nota dell’architetto Ranaldi. L’impiego a titolo gratuito della figlia Marta Ranaldi è ben specificato nell’articolo.

Vin. Bis.

Noi tassisti siamo stati abbandonati nonostante un servizio essenziale

La sveglia alle 4:30 è sempre improvvisa anche se si ripete abitualmente da più di 20 anni; accendere la macchina del caffè, uno yogurt e la doccia in 10 minuti, la camicia e tutto il resto in rigoroso ordine pronti dalla sera precedente, la mascherina d’ordinanza e giù per le scale senza aver dimenticato di attivare l’app del Taxi Network. In box ricontrollo tutto e si parte, destinazione Casal Bruciato, prima corsa del mattino e dopo si attende, 15/30/45/60 minuti, è un’attesa infinita ma ho già incassato 9,50 euro e la giornata è lunga. Dopo due caffè in compagnia dei colleghi ci confrontiamo: 27 euro è il miglior risultato. Sono le 8:45. No, non voglio raccontare il romanzo di una professione, ma solo introdurre un argomento che alle migliaia di colleghi distribuiti suonerà molto familiare. Dopo un anno passato ad attendere tempi migliori e dopo aver visto in Rete il video della protesta di Milano, credo sia il momento che il Paese intero conosca la situazione che stiamo vivendo. Non è il piagnisteo di un frustrato questo, ma un resoconto, spero oggettivo, che induca anche chi amministra un settore come quello del Tpl (trasporto pubblico locale) oltreché il governo, a confrontarsi in modo sereno e appropriato cercando, in modo condiviso, una via di uscita. Dallo scorso anno, in media, abbiamo perso dai 20 ai 30 mila euro di incassi lordi a fronte di indennizzi che hanno raggiunto al massimo i 5.700 euro (dato effettivo nel Lazio). La frequenza dei vari “ristori” col precedente governo era quasi regolare con piccoli interventi mensili o giù di lì; da dicembre 2020 non abbiamo più percepito alcunché, nonostante lo stanziamento del decreto Ristori quinques, poi saltato per il grande intervento di un politico di cui non ricordo il nome e che tante altre categorie stanno ancora ringraziando e osannando. Si era parlato di contributi mensili di 1.000 euro per le categorie più colpite, si è parlato di un anno bianco per i contributi Inps, si è parlato, parlato, parlato…. La mia finanziaria a luglio vorrà che io e tutti quelli come me ricomincino a pagare i leasing e/o i finanziamenti, il proprietario del box vorrà che io ricominci a pagare gli affitti, la mia commercialista non mi chiede nulla, ma io vorrei riprendere a pagarLa come merita. Potrei continuare fino alla noia, ma non è lo scopo della mia missiva.

Caro presidente Draghi, noi non abbiamo mai smesso di lavorare e di assicurare un servizio essenziale per la collettività, abbiamo operato nei momenti difficili abbandonati sulle strade di una città che non ci ha offerto un bar per un caffè, un bagno dove espletare i bisogni primari e, cosa più importante, senza di che portare a casa per alleviare il bilancio famigliare. Non La stiamo pregando per tornaconto, ma per farci tornare a sperare che ci possa essere un futuro per le migliaia di tassisti e le loro famiglie e per non consegnarci alle lobby delle grandi imprese mondiali, che non vedono l’ora di spogliarci della nostra dignità.

Presidente noi La preghiamo.

Maurizio Piluso

Il cinismo dolciastro del politicamente ok

Forte delle proprie teche quasi ventennali, Che tempo che fa è andato conquistandosi una “zona obituary” in parallelo alle sue dirette; dirette postume, per così dire, che vengono mandate in onda nel giorno della scomparsa di un ospite memorabile, come è doverosamente accaduto anche nel caso di Enrico Vaime. È vero che a Che tempo che fa vengono invitati per lo più i congiunti – la vera tara della sinistra italiana è di sentirsi un club inglese –, ma è altrettanto vero che l’acquario di Fabio Fazio è uno dei pochi luoghi frequentabili della tv (perfino Umberto Eco, che accettava inviti solo dalla Francia in su, faceva uno strappo alla regola). Risalente a cinque anni fa, il vis-à-vis tra Fazio e Vaime non appariva datato, ma anzi istruttivo e puntuale perché i ruoli sono chiari; grato e adorante il fratacchione; cauto, mosso da ruvida sprezzatura, consapevole di appartenere a una specie in via di estinzione il vecchio lupo di varietà. Siccome i cattivi hanno fama di essere cinici, a un certo punto il Buono chiede al Cattivo se confondere il cinismo con la cattiveria non sia un errore.

Certo che è un abbaglio, convengono entrambi, e mai come in tempi di dittatura del politicamente corretto, dove fare certe battute o inventarsi la sigla finale del varietà Tante scuse (il femminicidio di Sandra a opera di Raimondo) sarebbe un gesto da kamikaze (già vediamo i social marciare compatti su Viale Mazzini). Mai come oggi l’uso dell’ironia è a proprio rischio e pericolo, dunque tutt’altro che professione di cinismo; ma questo non significa che il cinismo sia scomparso. Prendiamo proprio la tv, dove tutto è perfetto, tutto è meraviglioso per definizione, altrimenti in tv non ci andrebbe proprio. Ma questo oceano di rosolio, questo scambio di complimenti e cotillon tra gente che va e gente che viene sarà autentico, o ci sarà del calcolo, della convenienza, dei do ut des? Insomma, chi è più cinico, in tv come nella vita? I buoni o i cattivi?