Ma qualcuno era di sinistra?

Se in Italia esistesse un partito di sinistra, questo attuale sarebbe il suo momento di massima espansione numerica e di massima forza combattiva, perché mai prima d’ora una percentuale così massiccia di popolo si era trovata in una condizione tanto proletarizzata da essere “materia prima” ideale per il reclutamento politico, la forza numerica e l’esercito potenziale di un partito progressista.

Secondo la definizione di Marx, è proletario chi ha mangiato oggi ma non è sicuro che potrà mangiare anche domani. Prima del Reddito di cittadinanza i poveri erano rapidamente raddoppiati: 12 milioni di italiani vivevano in “povertà relativa” e 5 milioni in “povertà assoluta”. Secondo un rapporto dell’Unione Generale del Lavoro (Ugl) la pandemia può gettare nella povertà relativa 13,8 milioni di persone e nella povertà assoluta 9,8 milioni.

Ma a tutti questi, già prima della pandemia, andavano aggiunti almeno altri tre milioni di precari, spesso diplomati e laureati, ma nella condizione occupazionale incerta dei rider. In Italia 48 giovani su cento, tre anni dopo la laurea, non hanno ancora trovato un lavoro. I cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training) sono due milioni, pari al 24% di tutti i giovani tra 15 e 29 anni. A questi proletari, tra qualche mese si aggiungeranno quelli licenziati da aziende fiaccate dalla pandemia, quelli sostituiti dai robot e dall’intelligenza artificiale, quelli resi inutili dal diffondersi dello smart working.

Questa massa di insicuri, che un tempo si chiamava plebe, divenne soggetto sociale quando qualcuno ne intuì la forza potenziale, lottò per conferirle dignitosa consapevolezza, le prospettò un modello di società in cui essa, riscattando se stessa, sarebbe riuscita a riscattare l’intera umanità. In parte quel disegno è riuscito. Diventati “classe”, i proletari dell’Est e dell’Ovest, per motivi e con mezzi diversi, hanno conquistato diritti che sembravano acquisiti per sempre. Ma il comunismo reale, come ha constatato Vaclav Havel, sapeva distribuire la ricchezza senza saperla produrre, mentre il capitalismo reale la sa produrre senza saperla distribuire. Intanto il liberismo, consapevole delle sue deficienze, ha saputo trasformarsi in neo-liberismo mentre il marxismo, stordito dalle sue sconfitte, non ha saputo elaborare un neo-marxismo. Il risultato complessivo di tutto questo è che l’economia ha soppiantato la politica, la finanza ha inglobato l’economia e le agenzie di rating stanno guidando le danze della finanza e le disuguaglianze, che fino allo Statuto dei lavoratori (1970) sembravano attenuarsi, si sono poi allargate a vista d’occhio. In Italia, tra l’inizio e la fine della grande crisi (2008-2018) il patrimonio dei 6 milioni più ricchi è aumentato del 73% e quello dei sei milioni più poveri è diminuito del 62%.

Più cresce il numero degli svantaggiati, più un partito di sinistra ha l’opportunità storica, la necessità politica e il dovere etico di accollarsi l’azione pedagogica, strategica, organizzativa, rivendicativa necessaria per compattare quegli svantaggiati in classe e per guidare quella classe fino al suo riscatto.

“I poveri – diceva il leader della sinistra brasiliana Leonel Brizola – non hanno lobby”. Ma, in Italia, non hanno neppure un partito. E più si approfondisce il solco tra ricchi e poveri, più si finge che le classi sociali non esistano più. Ormai bisogna risalire al Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini (1974) per avere una riflessione socialista sulla segmentazione della nostra società. Sylos rilevava che il 48% degli italiani erano operai, il 17% erano piccola borghesia impiegatizia e il 29% erano piccola borghesia autonoma composta da commercianti, artigiani e coltivatori diretti. Allora il 61% dei voti raccolti dal Pci-Psiup veniva dagli operai e il 25% dalla piccola borghesia relativamente autonoma. A loro volta i votanti del Psi erano per il 59% operai e per 22% piccola borghesia impiegatizia. Quell’anno il Pci, con a capo Enrico Berlinguer, aveva 1.657.825 iscritti e il Psi, con a capo Francesco De Martino, aveva 511.741 iscritti.

Oggi gli operai sono diminuiti, ma l’esercito degli insicuri, dei precari, dei poveri è molto cresciuto complessivamente rispetto a 47 anni fa, arruolando laureati, diplomati e studenti. Intanto il Psi è scomparso e il Pd, che in tutta Italia ha appena 412.675 iscritti, in Roma prende molti più voti ai Parioli (48%) che in periferia (21%). Dunque, questa marea montante di svantaggiati non ha un partito di riferimento e tutti vi pescano voti adescandoli con la medesima mercanzia retorica.

Letta è persona onesta e intelligente. Ma il suo discorso di insediamento a segretario del Partito democratico e il suo vademecum ai circoli del partito non sono un cambiamento di passo, non partono da un’analisi scientifica della condizione strutturale dei poveri, non danno voce agli svantaggiati senza voce. Per intercettarli, per diventarne leader organico, Letta avrebbe dovuto compiere un’operazione simmetrica a quella realizzata da Papa Francesco in Vaticano. Bergoglio si è subito messo, senza mezze misure, dalla parte dei poveri, con cui ha stretto un’alleanza privilegiata e ha recuperato la missione originaria della Chiesa ancorandosi saldamente alla dottrina dei Padri, brandita come prezioso patrimonio irrinunziabile. Invece Letta, negli 82 minuti del suo discorso, mai si è lasciato scappare la parola “proletari” e una sola volta, quasi di sfuggita, ha pronunziato la parola “poveri”. Mentre questo Papa non dimentica mai di salire sulle spalle di giganti come San Francesco o Sant’Agostino, Letta ha evitato accortamente di salire su quelle di Gramsci o di Berlinguer, dai quali tuttavia ha ereditato il partito. Del resto, il suo pantheon, composto da Jacques Delors e Don Mazzolari, da Hannah Arendt e dagli Scorpions, da Sartre e da Pirandello, è troppo sbilenco per non far rimpiangere l’imponente e solida tradizione culturale della sinistra.

Ma – soprattutto – Papa Francesco ha un modello di società chiaro e compatto da offrire ai poveri. Invece la proposta di Letta, rivolta a tutti e a nessuno, è un armamentario di cacciavite e ruspe e tenaglie, ma senza anima, senza un progetto unitario da proporre alla massa dei disagiati affinché vi riconoscano la loro casa salvifica, lo facciano proprio e lo impongano all’intera società con la forza del loro numero e della loro disperazione.

La proposta di Letta è per tre quarti sovrapponibile a quella di Salvini, Calenda, Berlusconi, e finisce per affollare la mousse del centro con parole ormai prive di mordente e credibilità, corteggiate da qualunque politico interclassista: salute, contratto sociale; diritti umani; cooperazione; donne; partecipazione; apertura; dialogo; prossimità; coerenza; digitale; inclusione; condivisione; valori; identità; solidarietà; sostenibilità; prossimità; competenze trasversali; natalità; lavoro, giustizia.

Ce n’è a sufficienza per regalare definitivamente l’Italia al neo liberismo e gettare i poveri nelle braccia dei loro nemici.

 

Dramma: pochi indagati

Settimana drammatica a Criminopoli: fino a mercoledì sera nessun indagato per corruzione. Ringraziamo il signor Giovanni Giannoccaro di Bari, indagato ieri con altri tre, per averci evitato un’intera settimana all’insegna della legalità: grazie a loro sale a 225 il totale dei nuovi indagati nel 2021. E a Giannoccaro va il nostro Premio Mazzetta della Settimana: da direttore amministrativo della Asl di Brindisi, secondo l’accusa, affidava alla società Saccir la fornitura di filtri anti legionella per un importo di 379mila euro (per la fornitura successiva, un’altra società, fu pagata soli 8.500 euro). In cambio otteneva ristrutturazioni in casa per 67 mila euro da un imprenditore che, a sua volta, riceveva un subappalto dalla Saccir. Una mazzetta lava l’altra e tutte e due ti ristrutturano casa. Il simbolico premio sarà revocato in caso di assoluzione o archiviazione. Fronte mafie: 14 nuovi indagati per un totale di 628. Ah dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.165 giorni.

Da Salvini ai suoi “colleghi”: l’invasione di ovvietà nei tg

È vero che Draghi è entrato in scena con un battage mediatico da salvatore della Patria, ma il miracolo di farlo parlare nonostante lui stia zitto non s’era ancora visto: è successo a febbraio quando, secondo Agcom, parla, suo malgrado, nei telegiornali e nei programmi per oltre otto ore! Un prodigio di telepolitica che non basta a oscurare il soliloquio di Salvini che si riprende la scena: 11 ore di chiacchiera, protagonista su tutte le reti, primo nei ranking di tutti i tiggì e in buona parte dei programmi. Tempi che non avvicinava da due anni e di poco inferiori a quelli del tanto criticato Conte nei mesi cruciali di marzo-aprile 2020. E non si capisce perché debba essere lui, e non altri, non il premier, non il capo dello Stato, a tenere banco tutto l’anno; o quasi. Prima del Covid era sempre Salvini a primeggiare, poi con la pandemia Conte ha dovuto esporsi molto di più, ma già a maggio era di nuovo sovrastato dal leader della Lega. Ciò fino a ottobre, quando la ripresa dei contagi rispediva alla ribalta il premier, anche qui per poco, perché con l’anno nuovo lo oscuravano prima Renzi e poi ancora Salvini.

E ora che l’Autorità ha emesso una direttiva per ricordare che con la nuova larga compagine guidata da Draghi si fa più stringente l’obbligo di una rappresentazione equilibrata della dialettica tra governo, maggioranza e opposizione, ci sarà in Rai e Mediaset più agio per Meloni e Fratoianni e meno per Salvini? Quel che è certo è lo squilibrio realizzato da un modo di raccontare le forze politiche che fa parlare una di esse con la sola forte voce del leader e le altre con una polifonia, che magari realizza tempi uguali, ma nei fatti, al tempo della politica personalizzata, è un pluralismo farlocco. Ed è da aprile del 2019, da quando l’Agcom meritoriamente misura il parlato dei singoli su tg e talk, che l’ingordo ex ministro dell’Interno, grazie alla colposa/dolosa complicità dei media, si prende la fetta più grande della torta.

Il problema naturalmente è legato alla qualità di un telegiornalismo quanto mai subalterno. I tg sono diventati ormai una specie di ufficio postale, che smista la comunicazione-corrispondenza dei vari onorevoli e senatori, raccolta supinamente con un microfono o inviata con video via Fb; e i giornalisti la buca delle lettere di messaggi pieni di ovvietà stereotipate, scontati truismi, slogan senza fantasia. Non un’inchiesta, uno scoop, una notizia originale; rara un’intervista vera. I tempi di parola assegnati poi agli esponenti politico-istituzionali sono amplissimi: il Tg1 negli ultimi cinque mesi ha dato spazio ai politici per quasi 14 ore, il Tg2 lo ha fatto per 12, privilegiando molto di più i partiti (e Salvini) che le istituzioni, il Tg5 idem. Per giunta, la stragrande maggioranza di queste ore vengono occupate da un carosello così penoso per gli spettatori e così umiliante per gli addetti ai lavori, da rendere incomprensibile la scelta scellerata dei direttori di insistere con un formato che andrebbe spazzato via con lo stesso furore con cui fu abbattuto l’ultimo monumento a Stalin. L’unico a provarci seriamente è Mentana, che col suo tg ha concesso ai politici da ottobre a febbraio poco più di 3 ore di parlato: un taglio meritevole, peccato che la conduzione del vecchio ‘mitraglia’, zoppicante e verbosa, non sia più quella di una volta. Anche il Tg3 riduce a otto ore il tempo di parola ai politici, ma ha meno edizioni. Su questo aspetto il caso del Tg1, che è la fonte informativa che più alimenta la sfera pubblica democratica, è davvero preoccupante, vista l’immagine della classe politica che consegna ogni giorno al Paese. Una classe politica che bisognerebbe far parlare meno. Ma (possibilmente) meglio. Come succede, per fortuna, alla radio.

 

Social, non può essere un algoritmo a stabilire la verità

Attanagliati come siamo dalla logica amico-nemico, ormai non ci rendiamo più conto dei rischi che sta correndo anche nei Paesi occidentali la libertà di parola, di pensiero e d’informazione. L’ultima dimostrazione arriva dalla decisione di YouTube di chiudere il canale di Byoblu, il videoblog di Claudio Messora che nel corso degli anni si è trasformato in una vera e propria tv. Byoblu è stato messo offline dopo un percorso consueto. Un avviso e tre avvertimenti lanciati dall’algoritmo che stabilisce se la policy del social è stata violata o meno. Nel mirino sono finiti dei servizi, in un paio di casi nemmeno pubblicati, riguardanti il coronavirus, e le manifestazioni contro i lockdown. Per questo motivo la testata, che aveva circa 600mila follower, è stata oscurata dalla piattaforma per “disinformazione nell’ambito medico”.

A questo punto va chiarita una cosa: Fatti Chiari non condivide nemmeno una virgola del pensiero di Messora sul coronavirus e sui provvedimenti adottati dalle autorità per arginarlo. E allo stesso modo questa rubrica ritiene che le fake news (sempre che Byoblu le abbia diffuse, cosa che al momento non risulta) rappresentino un pericolo per la nostra società. Questo però non ci impedisce di dire che ciò che sta avvenendo da più di un anno a questa parte sui social (non solo su YouTube) ha il brutto sapore della censura. Perché i social sono sì delle piattaforme private, che dal punto di vista teorico possono decidere di fornire i loro servizi a chi pare loro. Ma nella realtà, svolgono ormai da anni una sorta di servizio pubblico. Tanto da essere considerati dai cittadini un tutt’uno con Internet.

Per questo, se si ama la libertà, non si può accettare che sia solo un algoritmo a stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che può essere pubblicato e ciò che va invece cancellato. Il controllo sui contenuti deve essere invece assegnato a un ente terzo (finanziato dai social, ma indipendente da essi) al quale almeno le testate giornalistiche, i partiti politici, i sindacati, le associazioni riconosciute possano rivolgersi come in una sorta di rapidissimo processo d’appello (pensare di farlo con tutti gli utenti, visti i numeri e il largo utilizzo di pseudonimi è oggettivamente impossibile). L’esperienza infatti insegna che assai spesso chi è stato fatto scomparire viene poi rimesso online (dopo molte settimane) quando si rivolge alla giustizia ordinaria. Perché quei contenuti che le policy e gli algoritmi ritenevano inappropriati, una volta verificati non contrastavano con le leggi dello Stato. Lo sappiamo. Questa non è una battaglia semplice. Perché molti (ma non tutti) di coloro i quali sono stati censurati rappresentano gruppi di pensiero o politici che ripugnano ai più: movimenti di estrema destra, nazionalisti, ultra-sovranisti. E per questo la reazione della maggioranza dei cittadini all’avvenuta cancellazione è riassumibile in una frase: peggio per loro, se la sono cercata.

Fatti chiari però, al contrario di tanti liberali alle vongole che imperversano sui media mainstream, continua a pensarla in altro modo.

Cosa può essere pubblicato e cosa no nei Paesi democratici lo stabiliscono solo le norme approvate in Parlamento, non il colore politico di chi pubblica. Anche perché se tutto il potere viene lasciato in mano ai privati, prima o poi i privati si accorderanno con chi è pro tempore al governo. Rendendo le nostre già acciaccate democrazie una sempre più ignobile farsa.

 

Bonaccini e & c.: foreste e boschi le loro vittime

“Rimbombando là sovra San Benedetto/de l’Alpe per cadere ad una scesa”. Così Dante celebrava l’imponente cascata detta per contrasto dell’Acquacheta fra Forlì e Firenze. Luogo fra i tanti magico che tale non è parso al governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini che, avuti dall’Ente Parco Nazionale Foreste Casentinesi, dalla Soprintendenza, dallo Stato solo pareri negativi, ha deciso di suo di istallarvi un robusto parco eolico. Che soltanto con strade e carrarecce scasserà quell’intatto Appennino dantesco. Sul litorale laziale (Parco del Litorale) non hanno neppure chiesto permessi: hanno tagliato un bel po’ di alberi e buonasera. Questa è la considerazione in cui gli Italiani tengono il loro verde, che nonostante tutto è cresciuto verso gli 11 milioni di ettari. Tenendo conto del verde precario, stento, cresciuto sui terreni collinari e montani abbandonati dai contadini scesi in città o emigrati verso vite meno sacrificate. Le bonifiche moderne, poi, hanno pelato le pianure svellendo le siepi (utilissimo rifugio ed essenziale sostentamento per le api, che infatti sono molto diminuite) e i filari di gelsi (addio bachi da seta che avrebbero tuttora mercato). La Pianura padana era tutta una foresta nordica di querceti, dalle sorgenti del Po alla sua foce. La pineta di Ravenna è una grandiosa “piantata” romana con scopi militari: a Classe, con quel legno che in acqua diveniva durissimo, si costruivano le triremi da guerra per il Nord, mentre la flotta del Sud era alla fonda a Capo Miseno. Le pinete litoranee di Ravenna e di Cervia sono state salvate a stento, le prime nel 1905 con la prima legge statale di tutela in materia. Ma la erosione delle spiagge le minaccia con tempeste di sabbia e di salmastro. Ora il governatore Bonaccini lancia un piano di rimboschimento per alcuni miliardi, ma non saranno le foreste urbane che gli scienziati e anche i virologi auspicano per combattere i virus che prosperano nello smog più pesante. Nel contempo sfregia con le pale eoliche gli intatti parchi del Casentinese. Il Lazio ha censito il patrimonio di alberi antichi e pregiati della Provincia (quando c’era) di Roma, catalogando oltre 600 essenze, l’intera faggeta dei Lucretili ad esempio. Ma per istituire il Parco Regionale dei Simbruini sopra Subiaco in quel consiglio comunale venimmo fisicamente aggrediti dai sindaci al grido; “Voialtri sete amici der lupo non dell’omo!”. I rimboschimenti vanno studiati scientificamente. Ricordate la stesa impressionante di abeti rossi anni fa in Val di Fiemme? Gli abeti rossi erano inadatti a quel clima avendo radici molto deboli e superficiali.

E lo stupendo vario colorato “bosco italico” tipico dell’Appennino dai pini loricati di Calabria ai giganteschi platani bolognesi (dentro a uno hanno ricavato un posto di ristoro), ai faggi del Modenese? Tutto dimenticato in nome della fretta, snaturando però un paesaggio unico al mondo perché nordico e mediterraneo insieme. C’è una specie antica di pera che si trova in Calabria chiamata Pera del Paradiso e in Romagna dove diventa Pera degli Angeli. Con tutti i nostri difetti e limiti siamo diventati, dopo la Spagna, il Paese che ha più boschi sommando pure boscaglie spontanee e deboli. Di quegli 11 milioni di ettari, 4 vengono dalle aree protette con la legge n. 493 Ceruti-Cederna del 1991 che si è tentato più volte di stravolgere, da ultimo “aprendola” alle corporazioni interessate come i cavatori e i petrolieri in cambio di royalties. Cose da pazzi. Ma i parchi, tutti i parchi, sono già di per sé “redditizi” perché, oltre a concorrere poderosamente al tempo libero degli italiani, assicurano un’aria più pulita. Dopo la discutibile abolizione a metà delle Province, cosa sta accadendo nei loro Parchi? Cose gravi, perché è venuta meno una tutela stringente, diretta. Da tutta Italia, Giorgio Boscagli, già direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, diffonde notizie di abbattimenti inconsulti, di tagli radicali in luogo di cure fitosanitarie tempestive. Un panorama desolante di incuria, incultura, ignoranza ambientale. Nella fascia soprattutto appenninica al di sotto dei 700 metri di altitudine, ecco comparire castagneti che per secoli e secoli sono stati l’alimento essenziale dei montanari: le stesse “trofie” liguri da mangiare col pesto sono di farina di castagne e mille altre ricette salate e dolci. Il grande storico dell’arte Roberto Longhi sosteneva che non c’era più grande pittura sopra la linea dei castagni. Ne abbiamo di antichi e sontuosi come il castagneto dei Cento Cavalli sopra Catania o come il castagneto di Vallerana nel Viterbese. Purtroppo abbiamo importato dalla Cina un verme molto insidioso dovendo già lottare con la Cydia Splendana scoperta nel 700. Insomma, siamo fra i primi per boschi e foreste, ma li maltrattiamo. Se vogliamo “foreste” per la salute collettiva, dobbiamo impegnarci molto di più.

 

Le feste pasquali e quello che la Chiesa (ancora) non riesce a eliminare

E per la serie “L’inferno è pieno di fiamme quindi molti anziani ci sperano freddolosi come sono”, la posta della settimana.

Caro Daniele, perché celebriamo la Pasqua? (Roberta Bernardini, Tivoli).

Dal Concilio di Nicea (325 d.C.), i cristiani celebrano la resurrezione di Cristo la domenica dopo la prima luna piena di primavera. Cosa sia davvero la Pasqua, però, l’ho scoperto leggendo un libro sul Carnevale (Di Cocco, 2007): le due ricorrenze, infatti, sono collegate dall’antico culto di Iside. Quando l’imperatore romano Costantino, nel IV sec. d.C., prende la decisione politica di unificare ideologicamente il suo Impero con il cristianesimo, la narrazione del culto cristiano viene strutturata dai filologi alessandrini sulla falsariga del plurimillenario culto di Iside, diffusissimo in tutto il Mediterraneo. L’antico mito egizio narra di Iside, sorella, madre e sposa di Osiride. Osiride viene ucciso dal fratello Seth, e il suo corpo viene smembrato. Iside va in cerca delle parti del corpo di Osiride, le ricompone, vi soffia la vita e Osiride risorge. Il mito è un’allegoria astrologica: Osiride è il Sole; muore/tramonta in mare, colorandolo di rosso/sangue; Iside è la Luna, che di notte segue il tragitto del marito per ritrovarlo e riportarlo in vita. E il mattino, il Sole risorge (Sole e Luna sovrastano il crocifisso di Raffaello, nonostante il terzo concilio di Costantinopoli avesse proibito tale simbologia perché evocava altre religioni). La cerimonia del culto di Iside, raccontata da Apuleio nell’XI libro dell’Asino d’oro

, era la parte culminante del rito di consacrazione di un sacerdote di Osiride; le stazioni della passione di Cristo (percosso, coronato, crocifisso, sepolto) sono un calco di quel percorso iniziatico, così come iconografia e preghiere mariane sono un calco di quelle di Iside. Con la cerimonia, i sacerdoti “dedicano al mare, ormai navigabile, una nave vergine”, e offrono a Iside le primizie della navigazione. Il loro corteo solenne è preceduto da una processione festosa e mascherata. La festa del Navigium Isidis, diffusa in tutto l’Impero romano, è giunta fino a noi trasformata in Carnevale (carrus navalis), festa tipica di località marine e fluviali (Venezia, Viareggio, Colonia; e Rio, dove venne portata dai portoghesi). La festa del Navigium Isidis seguiva il calendario lunare babilonese: coincideva con la prima luna piena di primavera, cioè col capodanno babilonese; ma nel IV sec. d.C. venne spostata indietro di 40 giorni (ridefiniti come quaresima) perché non si sovrapponesse alla Pasqua, che ne aveva preso il posto; e fu edulcorata in Carnevale. La Pasqua, insomma, è ciò che resta di una parte della cerimonia isiaca (la resurrezione dell’iniziato alla nuova vita sacerdotale), il Carnevale è ciò che resta dell’altra parte della festa (la processione delle maschere). Nonostante i rimaneggiamenti, la Chiesa non è ancora riuscita a eliminare l’indizio fondamentale sulle origini isiache della Pasqua: la data variabile, collegata alla prima luna piena di primavera. Ma il gesuita Bergoglio non è lì a pettinare le bambole, e nel 2015 ha proposto di “stabilire una data fissa per la Pasqua”, affinché “possa essere festeggiata nello stesso giorno da tutti i cristiani, siano essi cattolici, protestanti o ortodossi”. Se conosci l’antefatto, la proposta di Bergoglio mette i brividi, perché cancella proprio quell’ultimo indizio isiaco. Nel leggere la notizia, ho fatto un salto sulla sedia, come la prima volta che vidi Vera Miles girare il cadavere mummificato della signora Bates alla fine di Psycho. E quale modo migliore per celebrare la Pasqua che rivedere quella scena? (shorturl.at/qtEU1) Buona Pasqua di resurrezione, signora Bates!

 

Quegli eroi messi a gestire i servizi Rai-me

Nel lontano (ma come vedremo vicino) Anno Rai 2010, il giornalista Paolo Ruffini, rimosso dal vertice di Rai3 su ordine dei berluscones, vinse una storica causa contro l’azienda che per tacitarlo gli aveva proposto la direzione dei canali digitali (Raidigit). Peccato fosse un incarico in una struttura del tutto inesistente, come ammesso dalla stessa Rai in sede processuale. Una storia strepitosa che, nelle sapienti mani di un regista visionario (Buñuel? Fellini?) avrebbe potuto far germogliare un film di successo la cui scaletta era praticamente già scritta. Dunque, un dirigente Rai privo di poltrona consuma tristemente i suoi anni al terzo piano di Viale Mazzini. Chiamato il Miglio Verde, come nell’omonimo romanzo di Stephen King, il percorso dalla cella al braccio della morte.

Un giorno, forte di certe sue conoscenze nel cda fresco di nomina governativa, riesce a farsi assegnare la direzione di una nuova struttura tematica che, su sua proposta, si chiamerà RaiMe. Ovviamente, a nessuno interessa sapere di cosa realmente si occuperà, ma da quel momento la vita del nostro eroe subisce una svolta positiva. Direttore di se stesso, e finalmente sfuggito al Miglio Verde, potrà disporre di una stanza e di una segretaria adeguate al nuovo status (anche l’emolumento subirà benefici riflessi). Mentre dal garage aziendale gli verrà comunicata la lista delle auto di servizio disponibili (con prevalenza di suv di marca tedesca).

Provviste perfino di autista, sempre che la “conoscenza” politica di riferimento sia di pari peso. Ogni mattina potrà riunirsi con se stesso, formulare proposte e organizzare progetti che non avranno seguito alcuno. La sua vita sociale ne ricaverà un vigoroso impulso: sarà impegnato in colazioni di lavoro (saldate con carta di credito aziendale) in ristoranti ben frequentati. Programmerà trasferte, anche all’estero, motivate da perlustrazioni e contatti per ipotetici esterni.

In breve, il suo peso crescerà nella considerazione dell’ambiente circostante, tanto che alla vigilia di nuovi avvicendamenti al settimo piano il suo nome comincerà a circolare nel toto-nomine dei giornali per la direzione di un telegiornale e, perfino, di una rete.

Con il vento in poppa darà alle stampe un sapido pamphlet sulla crisi di credibilità del monopolio pubblico radiotelevisivo (con un capitoletto dedicato a RaiMe, dal titolo: un’occasione perduta).

Seguirà dibattito.

Ecco come il Cremlino tratta le spie

Due spie, due modi di procedere. Se il caso del militare italiano a libro paga di Mosca ha avuto dovizia di particolari, così non si può dire di una vicenda avvenuta a poche ore di distanza, in Crimea. In questo caso, le autorità russe, che hanno comminato una condanna a 12 anni, hanno fatto tutto in sordina, forse perchè la pericolosa spia in realtà è una vecchina.

Si tratta della cittadina russa D. colpevole di spionaggio dopo un processo a porte chiuse nel tribunale di Sebastopoli, nella Crimea annessa alla Federazione russa nel 2014, primo anno di guerra del conflitto ucraino. Che la pensionata si chiami Galina Dovgopolaya l’ha rivelato alla stampa di Kiev Lyudmila Denisova, responsabile dei diritti umani del Parlamento ucraino, che ha anche diffuso una sua fotografia: l’anziana dall’aria innocua ha i capelli bianchi, 66 anni e moltissime rughe, è nata nel 1955 e abita a Bakhchysarai. Un motivo per tenerla d’occhio i russi l’avevano: si era schierata contro il referendum per la riunificazione con la Russia e ha invitato i suoi figli a trasferirsi in Ucraina.

Per l’Fsb la donna arrestata nel novembre 2019, è una collaboratrice del ministero della Difesa ucraino ed è responsabile di “alto tradimento”, reato la cui pena è codificata nell’articolo 275 del Codice criminale della Federazione. Dopo aver esteso più volte la sua detenzione in seguito all’arresto avvenuto a Sebastopoli due anni fa, i russi l’hanno condannata a 12 anni di colonia penale per spionaggio: avrebbe raccolto informazioni su un reggimento dell’aviazione russa di stanza nelle basi sul Mar Nero, avrebbe poi fornito dettagli riguardanti comunicazioni radio e segnali telegrafici della flotta direttamente all’intelligence ucraina.

Questo almeno dicono gli 007 di Mosca, e bisogna credergli sulla parola: niente arresti in flagrante, come hanno fatto i carabinieri con l’ufficiale della Marina. La sentenza, emessa a fine marzo senza pubblico in aula dopo un processo di poche udienze “in regime segreto”, è stata resa pubblica qualche giorno fa ma rimangono invece ancora secretate le prove che hanno portato all’arresto perché, afferma la Corte, il caso riguarda dei segreti di Stato. Nonostante le proteste delle ong per i diritti umani, Galina rimane in carcere.

Dall’anno dell’annessione alla Russia centinaia di persone sono state processate per terrorismo e spionaggio nella penisola. Su Telegram la parlamentare Dovgopolaya fa appello “alla comunità internazionale per usare ogni possibile strumento per aumentare la pressione sulla Russia, per far rilasciare il prima possibile i cittadini ucraini detenuti per terrorismo”.

Militare adescato dai russi. Il video che l’ha incastrato

C’è un momento in cui il cerchio intorno al capitano di fregata della Marina militare Walter Biot inizia a stringersi. È il 16 marzo scorso quando vengono installate alcune telecamere nel suo ufficio al III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa. Qui, dieci giorno dopo, il 25 marzo, Biot è ripreso mentre scatta fotografie al monitor ed estrapola alcuni documenti. I filmati vengono acquisiti dai funzionari dello Stato Maggiore della Difesa il 30 marzo scorso. Proprio la sera dello stesso giorno il loro collega incontra l’ufficiale russo, Dmitri Ostroukhov, in un parcheggio della periferia romana e gli consegna una chiavetta con documenti riservati. In cambio di denaro, secondo le accuse, circa 5 mila euro che hanno portato Biot in carcere. Ieri il gip Antonella Minunni ha convalidato l’arresto: il militare italiano ha deciso di non rispondere subito alle domande del giudice, lo farà in un secondo momento.

 

Dal giudice “Mai messo a rischio la sicurezza”

“Non avevo alcun interesse politico o ideologico. Non ho mai messo a rischio la sicurezza dello Stato, non ho fornito alcuna informazione di rilievo, non ho mai fornito documenti che potessero mettere in pericolo l’Italia o altri Paesi”, ha detto ieri al suo legale, l’avvocato Roberto De Vita, che lo ha incontrato in carcere a Regina Coeli. Insomma dietro le sue presunte scelte ci sono problemi familiari molto seri e anche difficoltà economiche che il Covid avrebbe esasperato. Se ha sbagliato, ha spiegato al legale, lo ha fatto per la sua famiglia.

Intanto nell’ordinanza di misura cautelare emessa dal giudice nei suoi confronti emergono nuovi dettagli di questa spy story. L’arresto in flagranza del 30 marzo scorso è però solo l’epilogo. Il militare italiano infatti era da tempo tenuto sott’occhio dell’Aisi (i servizi segreti interni). Ma una segnalazione era arrivata anche dall’Ufficio Analisi Minaccia Asimmetrica, un reparto dello Stato Maggiore della Difesa, che aveva sollevato il sospetto di comportamenti anomali. Da qui è partita la decisione di installare, il 16 marzo scorso, alcune telecamere nell’ufficio di Biot. Video in cui si vede il capitano di fregata scattare foto nell’ufficio in cui, come ricostruisce il gip, gestiva documenti coperti da segreto preordinati alla sicurezza della Stato: si occupava della “proiezione degli assetti italiani della Difesa in teatri operativi esteri e anche di operazioni Nato, Ue e Onu”.

 

181 foto 47 “nato secret” 9 doc “riservatissimi”

Nella scheda di memoria che gli è stata sequestrata sono state trovate 181 foto di documenti cartacei, nove di questi di natura militare classificati – secondo il gip – come “riservatissimi” e 47 di tipo “Nato Secret”. Secondo la ricostruzione del giudice, erano diverse le precauzioni messe in atto prima dell’appuntamento fissato a Spinaceto: la scheda Sd conservata all’interno del bugiardino dei medicinali, poi ci sono i 4 smartphone in possesso del militare. L’incontro era pre-organizzato e non concordato telefonicamente: infatti dai telefoni in uso a Biot non emergono appuntamenti o contatti con l’agente russo.

Scrive il gip nell’ordinanza: “Gli elementi sono sintomatici dello spessore criminale dell’indagato che non si è posto alcuno scrupolo nel tradire la fiducia dell’istituzione di appartenenza al solo fine di conseguire profitti di natura economica”.

 

Precauzioni Auto senza cimici e nessun contatto telefonico

Quelle che sarebbero state messe in atto per il gip sono state “modalità esecutive che mostrano in maniera palmare l’estrema pericolosità del soggetto stante la professionalità dimostrata nel compimento delle suddette azione desumibile dai parecchi strumenti utilizzati (4 smartphone) e dagli accorgimenti adottati”. L’unico incontro contestato è quello di martedì, quando Biot si presenta con un’auto diversa, la Nissan della moglie. Che non aveva all’interno alcuna cimice. Per questo i carabinieri del Ros decidono di intervenire.

Parcheggiati, trombati, defilati: i direttori di se stessi in casa Rai

Parcheggiati, trombati o semplicemente defilati. Fino a un paio d’anni fa, di dirigenti Rai “direttori di se stessi” ce n’erano un bel numero. Non sempre per colpa loro. A volte si è trattato di persone cadute politicamente in disgrazia. Oppure di ex direttori rimasti senza poltrona che rifiutavano incarichi “minori”. O semplicemente soggetti osteggiati dai vertici. La situazione ora è migliorata, perché non esiste quasi più la figura del direttore “senza incarico”. Ma i parcheggiati e quelli “in attesa di..” ci sono lo stesso. Anche perché a volte “i ruoli assegnati assomigliano a delle scatole vuote, create solo per giustificare un lauto stipendio oppure per pianificare progetti che però già si sa che non vedranno mai la luce”, spiega una fonte interna all’azienda. Vediamone alcuni.

Partiamo da Francesco Pionati, il mitico giornalista politico del Tg1 inventore del “panino”: maggioranza-opposizione-maggioranza. Leggenda narra che arrivò in Rai grazie ai buoni uffici di Ciriaco De Mita, suo conterraneo. Dopo essere stato eletto senatore nel 2006 e deputato nel 2008 nelle file dell’Udc, il nostro nel 2013 è tornato in azienda e ora (per 215.360 euro annui lordi) “è alle dirette dipendenze del direttore della Tgr”. In pratica è in forze alla Rai di Napoli.

Un altro che non si vede da un pezzo è Fabrizio Maffei (240 mila euro). Dopo esser stato nel 2015 alle “dirette dipendenze del direttore generale”, dal 2016 risulta “membro della commissione preposta al progetto di mappatura del personale giornalistico”.

Poi ci sono i direttori di due canali “fantasma”. Uno è Fabrizio Ferragni (218.589 euro) che, dopo aver diretto il misterioso canale istituzionale, ora guida il canale in lingua inglese che, senza aver visto ancora la luce, è già costato 2 milioni di euro. Il progetto dovrebbe esser pronto, peccato che difficilmente il nuovo canale partirà prima del rinnovo del vertice Rai in scadenza a luglio. A dirigere il canale istituzionale è andato l’ex direttore del Gr Luca Mazzà (240 mila euro). Risultato: due documentari su “I palazzi del potere ai tempi del Covid”: il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Roba forte. Ma qui la scelta opinabile sta a monte: perché un canale istituzionale quando c’è già Rai Parlamento (la cui direzione ha scatenato una guerra per affossare la nuova testata)?

Ma andiamo oltre. Dopo molti anni negli Usa, corrispondente da Pechino ora sarebbe Giovanna Botteri (211.666 euro), peccato che la sede Rai in Cina sia chiusa. La Botteri manca dall’agosto 2020 per problemi col visto: le era scaduto e non le è stato rinnovato. Nel frattempo si è candidata per essere spostata a Bruxelles, senza fortuna. Alla famosa inviata di guerra non resta che andare ospite dove richiesta, da Fazio a Sanremo, e continuare a partecipare da Roma a Linea Notte. E in Cina la tv pubblica non ha nessuno. Era a Gerusalemme dal 2015, invece, l’ex governatore della Regione Lazio Piero Marrazzo (232.886 euro), ma nel luglio 2019 è dovuto rientrare per irregolarità nella gestione economica dell’ufficio sui cui si è fatta pure un’indagine interna. Ora è alle dipendenze della direzione di Rai News24 e ogni tanto lo si vede in video.

Quella che assomiglia poi a una scatola vuota è la “direzione editoriale per l’offerta informativa”, alla cui guida c’è l’ex direttrice del Tg3, Giuseppina Paterniti (206.702 euro). Dovrebbe coordinare la linea dell’informazione tra i Tg, ma se c’è una cosa che i direttori di tg non sopportano è avere qualcuno sopra la testa che dica loro cosa fare. Lei, però, con buona volontà ci prova. Tra le scatole vuote, secondo alcuni, c’è pure Rai Vaticano: da quando la Santa Sede ha un suo centro di produzione tv, la struttura di Viale Mazzini serve a poco. A dirigerla dall’epoca Gubitosi è Massimo Milone (sotto i 200 mila euro). E che dire della direzione generale di San Marino Rtv, la concessionaria pubblica del servizio radiotelevisivo della Repubblica di San Marino (diretto da Carlo Romeo)? O del Prix Italia, il concorso internazionale di programmi tv organizzato dalla Rai (sotto la guida di Annalisa Bruchi)?

Così, mentre l’ex presidente Monica Maggioni (240 mila) è stata appena nominata capo-struttura di se stessa con un budget dedicato (conduce Sette Storie su Rai1), c’è poi l’Ufficio Studi, dove in questi due anni di attività è rimasto parcheggiato l’ex direttore del Tg1 Andrea Montanari, ora passato alla guida di Radio 3. Ufficio di cui finora si ricorda un solo volume pubblicato (Coesione sociale. La sfida del servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale, edito da Rai libri) e poco altro. Ma magari in futuro andrà meglio.