“Trust e investimenti: Fontana così ha ripulito i milioni evasi”

Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana dovrà spiegare molte cose rispetto all’inchiesta sui conti esteri e sui 5,3 milioni di euro scudati nel 2016. Nella ricostruzione fatta dalla Procura di Milano, che due giorni fa ha inviato una richiesta di rogatoria in Svizzera, emergono ora dettagli inediti. A partire dall’attivismo di Fontana, è spiegato negli atti, rispetto alla ripulitura (anche grazie a investimenti ad alto rischio) di una parte importante (circa 2 milioni) di evasione fiscale grazie a una Voluntary disclosure usata in modo alterato. Di più: il governatore lombardo non ha mai avuto delega a operare sul conto aperto nel 2005 se non dopo la morte della madre. La signora Brunella morirà nel 2015, eppure nella dichiarazione dei redditi del 2014, Fontana, allora sindaco di Varese, dichiarerà di avere la delega per movimentare il denaro.

Una seconda nuova bugia, per come è stato ricostruito dai magistrati, che si aggiunge alla prima nota e che gli è valsa l’accusa di falsa dichiarazione in voluntary. Reato a cui è collegato quello di autoriciclaggio. Fontana, è spiegato negli atti dell’inchiesta, nella procedura di voluntary da un lato dichiara che tutto il denaro è frutto dell’evasione della madre e dall’altro utilizza questo denaro, anche provento di sua evasione secondo la Procura, per fare operazioni sul mercato finanziario, alcune ad alto rischio, reimpiegando così denaro di “provenienza illegale”. Nel febbraio 2016, otto mesi dopo la morte della madre, c’è una prima successione ereditaria di 1 milione tra beni immobili, azioni e quote societarie. Quattro mesi dopo, Fontana integra la sua dichiarazione di successione per altri 5,5 milioni. Si tratta del tesoretto estero. Le procedure di Voluntary disclosure iniziano già nel settembre 2015 per 5,3 milioni in collaborazione con l’avvocato Valerio Vallefuoco. Denaro distribuito su due conti di Ubs Lugano. La prima relazione con codice finale (…) viene aperta nel novembre del 1997 ed è intestata a Maria Giovanna Brunella. Qui Fontana può operare. Otto anni dopo, nell’agosto 2005, il conto viene chiuso con motivazione: costituzione trust. Un mese prima, infatti, il denaro sarà trasferito su una seconda relazione sempre presso Ubs collegata alla società offshore di Nassau Montmellon Valley Inc istituita da una fondazione familiare chiamata “Obbligo” con sede a Vaduz nel Liechtenstein. Nel 2014, quando la signora Brunella ha passato i 90 anni, interviene una nuova e inedita schermatura. Fontana, ricordiamo, è ancora sindaco di Varese. Nell’agosto 2014 così tutte le azioni della Montmellon Valley vengono cedute a Tectum Trust Ma che si pone come trustee della fondazione di Vaduz. La Procura ha individuato il regolamento della Fondazione dal quale si comprende che la signora Brunella ha diritto esclusivo sul patrimonio. Non vi è, ancora una volta, riferimento ad altri beneficiari. Nell’agosto 2005 quando il denaro passa nel secondo conto il saldo lievita fino a 6 milioni di euro. Qualcosa non torna visto che sul conto del 1997 erano presenti 3,5 milioni.

Quando viene aperta la seconda posizione vi è una immissione di denaro nuovo. Di chi è? Sicuramente non è della madre, sostiene la Procura. E per farlo porta in dote il valore della pensione della signora che supera di poco i 20mila euro l’anno. E visto che Maria Giovanna Brunella va in pensione nel 1998, è difficile pensare che da quell’anno al 2005 abbia accumulato 2,5 milioni di euro. Rispetto poi alla provvista totale dei 5,3 milioni una nota dell’Agenzia delle entrate depositata il 21 gennaio spiega che il patrimonio censito nel 2014 è poco congruo rispetto agli stipendi percepiti dai genitori di Fontana tra il 1988 e il 2004. Ma vi è di più. Secondo una perizia grafologica la firma con cui la madre di Fontana dà il via libera al trasferimento di denaro dal primo al secondo conto è falsa. Nella perizia si analizzano altre firme della signora prese da alcune denunce fatte ai carabinieri. E non vi è corrispondenza. Secondo la Procura, ci sono forti dubbi anche sulle firme di madre e figlio per l’apertura del conto del 1997. Quella di Fontana sarebbe stata fatta in tempi successivi e luoghi differenti rispetto a quella della madre.

Emerge, dunque, secondo la lettura dell’accusa, una forte posizione primaria di Fontana in relazione a questi conti. L’attivismo del presidente prosegue anche dopo lo scudo e ciò costituirà, per i magistrati, la base (oltre alla voluntary) per l’accusa di autoriciclaggio. Nel settembre 2015, in contemporanea con le procedure di emersione, Fontana dà mandato alla milanese Unione fiduciaria di gestire il patrimonio scudato. Nasce una terza relazione bancaria presso Ubs sulla quale arrivano tre trasferimenti di liquidità per 3,1 milioni e 35 trasferimenti di titoli per 2,1 milioni. Il governatore poi aderisce a un programma di investimento di Ubs con un profilo di rischio elevato. Tutto avviene dopo lo scudo. Eppure, è spiegato in Procura, tra i documenti della voluntary vi è un foglio in parte bianco: è quello che dovrebbe indicare come sono stati creati i fondi esteri.

Nonostante questo, l’emersione con una procedura alterata va a buon fine. La Procura ha cercato per mesi i documenti della voluntary senza trovarli. Per farlo ha sentito quattro persone ricevendo in cambio risposte evasive. Fabio Frattini, commercialista di Varese, si sarebbe solo limitato a trasmettere gli atti. Paolo Vincenti si è occupato del quadro Rw sui redditi all’estero. Un terzo professionista è morto. Mentre Vallefuoco si appella a un allagamento che ha coinvolto il suo ufficio. Fatto è che lo scudo fiscale così compilato, secondo la Procura, ha permesso a Fontana di ripulire parte dei 5,3 milioni e di risparmiare in sanzioni 171mila euro. Il tutto a partire da una voluntary, secondo i pm, alterata. Ora si attendono le risposte dalla Svizzera. La Procura ha chiesto la documentazione di apertura dei due conti, i nomi dei soggetti delegati a operare e gli estratti conto. Tutto però potrebbe essere anticipato da Fontana se, come annunciato dalla difesa, metterà a disposizione i documenti e la sua testimonianza.

La politica fiscale ‘is back’. Biden surclassa i piani Ue

Con il passare delle settimane prende forma l’agenda di rilancio dell’economia americana nota come Build Back Better ed è sempre più evidente la distanza con le scelte messe in campo dall’Unione europea. L’agenda si comporrà, come annunciato a gennaio dal nuovo presidente Joe Biden, di tre programmi.

Un primo programma, chiamato The American Rescue Plan, è destinato a contrastare gli effetti della pandemia sulla vita e sul reddito degli americani. Diventato legge l’11 marzo scorso, fanno parte di questo Piano l’assegno di 1.400 dollari erogato a gran parte della popolazione, sgravi fiscali per le famiglie con figli, indennità di disoccupazione, schemi di supporto alle piccole imprese. Vale 1.900 miliardi di dollari (il 9% del Pil), quasi tutti sull’anno in corso e verrà finanziato a debito.

Un secondo programma è stato annunciato due giorni fa. Si chiama The American Jobs Plan e avrà il compito di guidare la trasformazione economica degli Usa dopo la pandemia. “Questo non è il tempo di tornare alle cose come erano, ma di reinventare e ricostruire una nuova economia”, si legge nella pagina di presentazione del Piano, articolato in due missioni: creare milioni di nuovi posti di lavoro e fare in modo che l’America superi la concorrenza della Cina. In quattro aree di intervento – trasporti e infrastrutture, abitazioni, sanità e ricerca & sviluppo – verranno investiti oltre 2.000 miliardi di dollari in otto anni. Biden ha proposto di finanziare il Piano con un rialzo delle tasse, che in 15 anni sarebbe sufficiente a coprirne i costi. Un rialzo dell’aliquota fiscale sulle imprese, dal 21% al 28% (annullando parzialmente il taglio dal 35% deciso da Donald Trump), tassazione al 21% dei profitti all’estero delle aziende e una minimum tax globale con sanzioni per gli Stati che non si adegueranno, sono le leve fiscali pensate per aumentare il gettito dalle grandi società che fino a oggi sono riuscite a spostare ingenti profitti all’estero senza colpire chi guadagna meno di 400.000 dollari. Il terzo e ultimo programma, The American Families Plan, verrà presentato alla fine del mese e riguarderà una serie di misure, dalla scuola al sistema sanitario, destinate alle famiglie e alla classe media e dovrebbe pesare per circa 2.000 miliardi.

Nel complesso, un insieme di interventi da 6 mila miliardi di dollari che non ha pari nella storia recente americana. È un decisivo punto di rottura riguardo all’impostazione macroeconomica seguita negli ultimi 20-30 anni. Basta col contenimento delle spese e la riduzione delle tasse ma aumento dell’intervento pubblico con trasferimenti e investimenti anche usando la leva del deficit e delle imposte per fare in modo che la crescita non sia solo più elevata ma anche a beneficio del massimo numero di persone, anche attraverso una maggiore progressività fiscale. Di recente il premio Nobel Joseph Stiglitz ha sottolineato come il pessimo equilibrio di alta disuguaglianza, bassa domanda, bassi investimenti e bassa crescita che ha accompagnato gli ultimi decenni potrà essere superato se il Piano di Biden entrerà completamente in funzione. La crescita americana potrebbe ritornare su un percorso vicino al 4% annuo, come durante la seconda metà del secolo scorso. “Siamo in un nuovo mondo e la caratteristica distintiva è che la politica fiscale è tornata”.

Una completa rivoluzione rispetto a quello che eravamo abituati a sentire, anche qua in Europa, fino all’arrivo della crisi pandemica. Sebbene anche l’Eurozona si sia mossa in una direzione analoga, abbandonando gli stupidi parametri numerici del Patto di stabilità per consentire agli Stati di mettere in campo misure di contrasto agli effetti economici della pandemia e creando finalmente un fondo sovranazionale (il Recovery fund o Next generation Eu) per stimolare gli investimenti una volta passata la pandemia, è evidente il divario di ampiezza e di dimensioni nella risposta tra le due sponde dell’Atlantico. Non sappiamo ancora quanto durerà la sospensione del Patto di stabilità, e se verrà sostituito, come a parole tutti sembrano impegnarsi, con regole meno rigide e più orientate alla crescita. Non sappiamo ancora l’esatta dimensione che il cosiddetto Recovery Plan avrà in aggiunta rispetto ai singoli piani finanziari degli Stati. Fatto salvo l’Italia, che ha deciso di utilizzare una parte della quota di prestiti per provvedimenti aggiuntivi, tutti gli altri grandi Stati sono intenzionati a usare solo la parte a fondo perduto, riducendo così in modo consistente la dimensione dell’intervento rispetto ai già esigui 750 miliardi di euro in 6 anni annunciati (di cui 312 a fondo perduto). Mancano certezze anche sui tempi di partenza, e la recente decisione della Corte costituzionale tedesca di sospendere il processo di ratifica del fondo non fa certo sperare che si avvii in tempi rapidi.

Insomma, il nuovo mondo sembra essere arrivato solo oltreoceano, qui da noi invece sembra sempre lo stesso vecchio mondo.

Nel Recovery le armi tinte di “verde”. Dove finisce una parte dei fondi Ue

Il Recovery Plan (Piano nazionale di ricostruzione e resilienza) di cui si erano perse le tracce, ha dato un colpo di vita ieri e l’altroieri con il voto del Parlamento sulle relazioni di indirizzo al governo. Voto a stragrande maggioranza (anche Fratelli d’Italia si è astenuta) come il governo Draghi esige. E voto che permette di fare il punto sulla situazione, ma anche di prendere la misura della disinvoltura delle indicazioni delle Camere.

Nei testi voluminosi approvati nei giorni scorsi, infatti, si possono trovare l’una accanto all’altra, frasi come questa: “Il Piano ricevuto dal Parlamento purtroppo non prevede nulla per la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, né per la riparazione dei danni ambientali che si sono susseguiti nel tempo su tutto il territorio nazionale. È quindi indispensabile fare in modo che la ‘Missione Rivoluzione verde e transizione ecologica’ contenga in modo chiaro e organico il tema della biodiversità, degli ecosistemi e dei loro servizi, e del paesaggio”. Impegno di chiara matrice ecologista al di là di cosa voglia dire concretamente.

Arrivano le armi. Poco dopo si legge però anche che occorre “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.

Al di là del linguaggio involuto (di quelli che fanno inorridire il professor Cassese), il testo è molto chiaro e, come ha notato la Rete Disarmo, di fatto punta a destinare una parte dei fondi del Pnrr a rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare. “Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che la Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta”.

Questa attenzione al settore militare finora era rimasta sottotraccia, anche perché difficilmente compatibile con i vincoli e le indicazioni che il Next Generation Eu ha previsto (Digitale, Transizione ecologica, Coesione sociale). Ma nelle discussioni delle commissioni parlamentari, da cui quel testo proviene, la fantasia non manca e a qualcuno è sembrato naturale poter inserire il potenziamento del sistema militare all’interno della direttrice ecologica. Senza però trascurare quella digitale. E infatti in un altro passaggio “malandrino” della risoluzione della Camera si trova “l’esigenza di valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica”. Al Senato si scrive, invece, che si “ritiene opportuno valorizzare il contributo della Difesa al rafforzamento della difesa cibernetica, sostenendo i programmi volti a rafforzare questo settore dello strumento militare, anche nell’ambito dei progetti in corso di svolgimento a livello dell’Unione europea”.

È il piano Conte.L’aspetto buffo della vicenda, comunque, è che il Parlamento ha discusso e votato sul vecchio progetto presentato dal governo Conte e, come ha fatto notare la sola Fratelli d’Italia, non ha potuto mai essere aggiornato su quanto sta facendo il governo Draghi. Se il Pnrr, per la gran parte della stampa italiana, era in ritardo già prima di essere ideato, oggi che alla scadenza mancano 29 giorni, nessuno se ne preoccupa più.

Sia il Senato che la Camera hanno iscritto nelle loro raccomandazioni, l’esigenza di una puntuale informazione anche con un successivo passaggio parlamentare prima della presentazione del Piano oppure tramite una relazione periodica. “Dovrebbero essere fornite maggiori informazioni in merito al modello di governance del Piano”, si legge nel documento del Senato. Entrambe le Camere, poi, hanno ribadito che occorrerà una “piattaforma digitale” per verificare l’andamento del Piano riaffermando per l’ennesima volta la necessità di semplificare le norme per l’attuazione dei progetti e di avviare le solite riforme strutturali (giustizia, Pubblica amministrazione, mercato del lavoro) che l’Unione europea richiede.

Le promesse di Franco. Tutti i gruppi si sono poi, in sede di dichiarazione di voto, detti soddisfatti delle spiegazioni proposte dal ministro dell’Economia Daniele Franco che, in verità, non è andato oltre il generico. “Ogni euro che verrà impegnato, ogni euro che verrà speso dovrà essere rendicontato”, ha garantito Franco, anche perché “i contributi a fondo perduto impongono un onere per il bilancio europeo a cui il nostro Paese è poi tenuto a contribuire”. Il ministro si è sperticato in elogi per il lavoro parlamentare assicurando che ogni indicazione verrà presa in considerazione (anche quella sulle armi?) dando poi qualche informazione su quanto si sta elaborando presso il proprio dicastero, unico centro di comando nella gestione del Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Franco ha ricordato che al momento la dotazione del Piano è di 191,5 miliardi di euro di cui circa “il 60 per cento dovrà essere destinato a obiettivi di modernizzazione digitale del Paese e di transizione ecologica, e che devono essere indirizzati soprattutto a giovani e imprese. Mi riferisco, qui, alle imprese di tutti i settori: innanzitutto, il settore manifatturiero; i servizi, tra i quali, ovviamente, è fondamentale il turismo; l’agricoltura, che è stata spesso ricordata questa mattina”.

La centralità è al sistema produttivo, dunque, nella solita convinzione che basti finanziare, a fondo perduto, l’offerta perché ci sia sviluppo, crescita e benessere. Fuori da questa priorità ci sarà il sostegno all’occupazione (non precisata, in genere si tratta di incentivi alle imprese), finanziamenti all’imprenditorialità femminile, per rafforzare la parità di genere, con misure che dovrebbero garantire “una parità sostanziale nei diversi ambiti, non solo lavorativo, ma anche sociale e culturale”. Alla fine, però, stringendo un po’, l’unico termine che viene fuori sono gli asili nido.

Per ridurre gli squilibri territoriali, Franco annuncia che “le risorse destinate alle aree territoriali del Mezzogiorno supereranno significativamente la quota del 34 per cento”. Qui parliamo di Alta velocità, scuola, sanità e agricoltura. Infine, alcune informazioni sulla governance: “Vi anticipo – ha detto il ministro – che la proposta finale di Piano conterrà la descrizione di un modello organizzativo basato su una struttura di coordinamento centrale, collegata a specifici presidi settoriali preso tutte le amministrazioni coinvolte, unitamente a strumenti e strutture di valutazione, sorveglianza e attuazione degli interventi”.

È poi previsto un pacchetto di “norme di semplificazione procedurale che agevoli la concreta messa in opera degli interventi, anche nel caso di interventi la cui realizzazione sarà responsabilità degli enti territoriali”, quindi con una serie di deroghe, immaginiamo, che erano state fortemente contestate al precedente governo. Sarà poi prevista “una piattaforma digitale pubblica centralizzata, con i dati relativi all’attuazione dei progetti del piano”.

Ora Frattini scala Palazzo Spada

Franco Frattini, già ministro berlusconiano con il pallino dell’animalismo e la passione per lo sci, è in pole per il vertice del Consiglio di Stato. È sua la candidatura per l’incarico di presidente aggiunto a Palazzo Spada, che di fatto apre le danze per la successione all’incarico più ambito, quello attualmente ricoperto da Filippo Patroni Griffi.

Il plenum dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa deciderà sulla nomina dell’aggiunto il 16 aprile: sono in corsa anche Giuseppe Severini (che però è prossimo alla pensione), Luigi Maruotti, Carmine Volpe e Giampiero Paolo Cirillo, tutti nomi di assoluto pregio ma con minore anzianità di servizio rispetto a Frattini, nominato consigliere di stato nell’85, a soli 28 anni.

Ma la svolta, per Frattini, è stato l’incontro con Silvio Berlusconi, di cui è stato delfino prediletto per molti anni: lo aveva voluto prima ministro per la Funzione pubblica e a lungo agli Affari esteri, sponsorizzandolo in seguito per il posto di vicepresidente della Commissione Europea e di Commissario europeo per la Giustizia. Fino alla decisione di Frattini di non ricandidarsi alle elezioni e tornare al consiglio di Stato, ma senza perdere di vista la politica.

E non solo per via del suo ruolo alla presidenza del comitato di gestione del Coni, ma anche per i buoni contatti internazionali coltivati prima alla Farnesina e poi come presidente della Sioi, la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale. Talché essendo molto ascoltato dal ministro Luigi Di Maio, lo scorso anno Frattini era stato accreditato per l’incarico di inviato speciale per la Libia. Ma ora a Palazzo Spada si gioca per lui una partita che vale oro: chi vince la corsa per il posto di aggiunto (che sarà lasciato libero a giorni da Sergio Santoro) ha praticamente in tasca la nomina per diventarne presidente. E la cosa potrebbe avvenire in tempi assai rapidi per un micidiale incastro che ha un precedente pesante. Perché a fine anno si libererà un posto alla Consulta, proprio il seggio che spetta eleggere alla giustizia amministrativa. Se Filippo Patroni Griffi dovesse scegliere di candidarsi per il posto oggi occupato da Giancarlo Coraggio (che aveva lasciato la presidenza del Consiglio di Stato per andare alla Corte costituzionale che oggi guida), per l’aggiunto sarebbe come fare tombola.

Frattini ci spera e pure i principali azionisti del governo largo di Mario Draghi. A partire dall’ex Cavaliere, ché il Consiglio di Stato deve ancora decidere su tutta una serie di questioni che lo riguardano, a partire dal caso Vivendi-Mediaset.

Bavaglio anti-pm: l’odg farlocco degli impuniti

Cosa non si farebbe per non far correre rischi al governo. Dire più sì possibili, che non generino conflitti interni, o che li evitino, è diventato un imperativo dell’era Draghi.

Ed è questo il motivo per cui il governo, ieri, con la regia della ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha dato parere favorevole a un ordine del giorno presentato alla Camera in materia di tabulati telefonici, proposto da Enrico Costa, ex Forza Italia, oggi leader di Azione e firmato anche dalla renzianissima Lucia Annibali e da Riccardo Magi, di Più Europa. L’odg, che recepisce una sentenza della Corte di Giustizia europea, chiede che l’accesso del pubblico ministero ai tabulati telefonici dovrà essere “subordinato all’autorizzazione del giudice”, come per le intercettazioni, ma “nei casi urgenti” sarà sufficiente “la convalida successiva.” Adesso, invece, per i tabulati, il pm non ha bisogno dell’autorizzazione del gip.

Con il nuovo regime le indagini sono minacciate? Per diversi pm, che abbiamo interpellato (anche informalmente) quando ci sarà la norma che il governo si è impegnato ieri a far varare, non cambierà nulla di sostanziale anche se alcuni si preoccupano per come sarà scritta.

Al momento questo via libera del governo, spacciato da Costa come una vittoria di Azione, sembra più una bandierina da giocarsi nella campagna elettorale perenne in cui ci troviamo, così come faranno i renziani. Ma quando Costa, con l’appoggio di Iv, aveva alzato il tiro, su prescrizione, intercettazioni, bavaglio ai magistrati, divieto di pubblicazione di ordinanze, la ministra Cartabia è riuscita a stoppare l’operazione dato che avrebbe provocato una scossa tellurica nella maggioranza per il no di M5S e Leu e almeno un pezzo del Pd. Poi, però, Cartabia ha detto sì all’inserimento nella legge europea del principio della presunzione di innocenza, anche se nella nostra Costituzione c’è già la presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2), e ieri ha dato il via libera all’odg sui tabulati, anche perché, come si dice in questi casi, “ce lo chiede l’Europa”. La ministra, con questo ultimo sì di ieri, ricorda, per la sua volontà di destreggiarsi, di mediare fra anime opposte ma costrette a convivere, quei politici navigati democristiani, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui, si dice nei palazzi che contano, è sempre più probabile succederà.

Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ex capo dell’ufficio legislativo al ministero della Giustizia con Andrea Orlando, non è preoccupato ma spiega perché l’Italia non avrebbe avuto bisogno di un cambio di norma: “Nel resto d’Europa non sempre la pubblica accusa gode della garanzia e autonomia del pm italiano, quindi ci si può chieder se nel nostro ordinamento, dato che il pm è un magistrato dell’ordine giudiziario, sia una misura così necessaria”. Teme per le sorti delle indagini? “Non credo si possano complicare, perché si potrà creare una disciplina analoga a quella delle intercettazioni e quindi con la possibilità di un intervento d’urgenza del pm poi sottoposto a convalida del giudice”.

La pensa così anche il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, anche se è preoccupato di come sarà scritta la norma. Prima, però, vuole fare una premessa sul senso della pronuncia europea che dovremo recepire: “La sentenza della Corte di Giustizia amplia il concetto di sfera di riservatezza della persona, da garantire con un provvedimento del giudice, non solo per il contenuto intrinseco delle conversazioni, ma anche per i dati estrinseci a esse, come tempo e luogo e circuito relazionale registrato da un tabulato. Ha un valore generale e, pertanto, supera i precedenti orientamenti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. Ciò, comunque, non determina un blocco o un rallentamento delle indagini, perché come avviene per l’attuale regime delle intercettazioni, il pm può operare d’urgenza e poi chiedere la convalida al giudice, al limite il pm può anche operare il sequestro dei tabulati”.

E veniamo ai timori: “Auspico che il legislatore scriva una disciplina chiara soprattutto in ordine ai presupposti per l’acquisizione e l’utilizzazione dei tabulati. Cioè non deve essere più restrittiva rispetto alla prassi sinora consolidata e quantomeno deve essere coerente con la disciplina delle intercettazioni”. Su questo rilancia un pm che non vuole essere citato: “Sarà fondamentale leggere a quali parametri viene ancorata la richiesta di concessione dei tabulati”. La possibilità del decreto di urgenza da parte del pm, comunque, tranquillizza la maggior parte di loro.

L’“europeista” Salvini va da Orbán

Il termine va di moda – Matteo Renzi ne aveva parlato con il principe saudita Mohammed bin Salman – e quindi Matteo Salvini lo usa senza farsi troppi problemi: “Sono qui per un nuovo rinascimento europeo”. Dimenticandosi la presunta “svolta europeista” della Lega che ha portato alla nascita del governo Draghi, ieri il segretario del Carroccio è volato a Budapest per incontrare il primo ministro ungherese Viktor Orban e il premier polacco Mateusz Morawiecki, leader sovranisti di due governi che secondo Amnesty International violano i diritti umani con misure anti immigrati, anti omosessuali, contro la libertà di scelta delle donne e sottomettendo il potere giudiziario a quello esecutivo. E dai due premier dell’est Europa sono arrivate solo lodi nei confronti dell’ex ministro dell’Interno: “Non è un segreto che chiamiamo Matteo Salvini ‘nostro eroe’ – ha spiegato Orban – perché quando qualcuno diceva che era impossibile fermare l’immigrazione clandestina, da ministro ha saputo arrestarla”.

Nel multilaterale si è parlato di vaccini (l’Ungheria ha già comprato migliaia di dosi di Sputnik e Orban si è vaccinato con il siero Sinopharm), di difesa dei confini (“serve una forza comune europea” ha detto Salvini) ma soprattutto della formazione di un unico gruppo sovranista e conservatore al Parlamento Ue dopo l’uscita di Fidesz dal Ppe. Un gruppo che metta insieme tutti i sovranisti, dai francesi di Marine Le Pen ai polacchi del Pis. Prospettiva teorizzata ieri da Salvini in conferenza stampa e che prevederà altri incontri a maggio, prima a Roma e poi a Varsavia: “È un percorso che inizia oggi, puntiamo ad essere la prima forza politica in Ue” ha detto il segretario del Carroccio. Ma questo progetto dovrà fare i conti con Giorgia Meloni, leader del gruppo conservatore Ecr, che non vuole perdere né i polacchi di Pis né la golden share del “sovranismo” a Bruxelles. “Il lavoro di Ecr non è in discussione” dicono da FdI.

Quella di ieri è un’inversione sovranista da parte di Salvini rispetto alla strategia di Giancarlo Giorgetti di portare la Lega verso il Ppe: il leader era accompagnato dal neo responsabile Esteri Lorenzo Fontana che ha preso il posto di Giorgetti e nel 2019 fu il tessitore dei rapporti europei con la destra estrema di Afd (Germania) e Alba Dorata (Grecia) e dal capogruppo del gruppo di Id a Bruxelles Marco Zanni, euroscettico e con ottimi rapporti nei gruppi sovranisti di tutta Europa.

“Rigenerare i 5S”: Conte riparte da verde e legalità

Lo aspettavano Giuseppe Conte, da un po’. Ed eccolo, ecco il suo ritorno al futuro. Nella sera in cui diventa ufficialmente un 5Stelle, l’avvocato pronuncia in diretta su Facebook il suo discorso all’assemblea del Movimento sui principi e contorni del nuovo M5S, “da rifondare”, anzi “da rigenerare”, a cui non può bastare un “restyling, un rinnovo superficiale”. Come se fosse ciò che non è, ovvero un grillino della prima ora, un po’ prima delle 22 di un giovedì pre-pasquale il rifondatore Conte rispolvera lo streaming, sepolto nella preistoria del M5S. Ad ascoltarlo ci sono innanzitutto gli eletti dei 5Stelle, dai parlamentari ai sindaci, e il Garante, Beppe Grillo, tutti collegati via Zoom. “Saluto tutti” esordisce l’avvocato, in giacca e con cravatta rossa. Sullo sfondo una libreria stipata. “Dovete essere fieri” inizia, elencando le battaglie del M5S diventate leggi, dal reddito di cittadinanza all’eco-bonus. Ma presto racconta il Movimento che vorrebbe, con “una razionalità organizzativa” e una “chiara identità politica”, racchiusa in una Carta dei principi e dei valori che sarà uno specchio dove riconoscersi. Lo dice in chiaro, che lavora a un Movimento con un cuore che batte a sinistra, europeista. E infatti ricorda subito: “Grazie ai vostri voti determinanti in Europa è stata insediata la commissione Von der Leyen”.

La direzione di marcia per il M5S, e non a caso prima del discorso il segretario dem Enrico Letta benedice da Porta a porta: “Scommetto sull’evoluzione del Movimento, io voglio una coalizione”. La vuole, eccome, anche Conte. Ma innanzitutto vuole un M5S ambientalista oggi ancora più che ieri, nel nome della famosa “transizione ecologica”, e che promuova la “giustizia sociale” e la legalità. Spalancato alla società civile, con dei Forum, “piazze delle idee”, a fare da raccordo tra il Movimento con tutto quanto sta lì fuori. “Dobbiamo essere accoglienti, inclusivi verso l’esterno, ma anche intransigenti sui nostri valori” riassume Conte, come un equilibrista delle parole. Ma il nuovo M5S dovrà anche irrobustirsi, con una struttura fatta di “articolazioni interne” e perfino “dipartimenti”, che però non devono renderlo come gli altri, “come i partiti tradizionali”. Non pronuncia mai la parola segreteria, Conte, ma che non vuole le correnti lo dice dritto. “Ci saranno regole per impedirle” avverte, ed è il monito ai parlamentari che ne stanno creando a grappoli. Certo, provano a chiamarle associazioni. Ma l’avvocato si è proprio arrabbiato, e infatti sul finale insiste e precisa: “Non abbiamo bisogno di associazioni”. Come chiarisce che ci vorrà “più cura per le parole”. Soprattutto, ammette che l’uno vale uno “è la base della democrazia”. Ma quando bisogna scegliere persone per “funzioni di responsabilità” o “rappresentanti del popolo in posizioni di rilievo” allora servono quelli “competenti e capaci”. E forse è in quelle sillabe che si annida la soluzione al nodo che non fa dormire molti parlamentari, ossia il vincolo dei due mandati. Quando parla di scegliere per competenze potrebbe alludere all’ipotesi a cui sta lavorando, ossia che sia lui, da capo politico, a scegliere in base al merito chi verrà messo nelle liste. Non vuole e forse non può essere più chiaro di così. D’altronde non dice nulla di definitivo neanche sul rapporto ormai degenerato in guerra con la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Però mette paletti quando assicura che certo, “le nostre decisioni fondamentali passeranno ancora attraverso il voto su una piattaforma digitale”. Ma “una piattaforma” non è necessariamente Rousseau. Soprattutto, “la democrazia digitale viene da una tecnologia che non è neutra”. Ovvero, “chi possiede e gestisce i dati” svolge operazioni “sensibili e delicate”.

Traduzione, a decidere sarà sempre e solo il M5S. Quello a cui Conte promette un confronto, sul piano e sulla rotta. “Dopo la pausa di Pas qua avvierò incontri per raccogliere i vostri suggerimenti”. Ma l’ultima parola sarà la sua, quella del rifondatore.

Da Nord a Sud intoppi e scandali

 

Lombardia

Un altro regalo alle aziende private: gli hub

Non finiscono mai le sorprese dalle parti del Pirellone, che ora vuole dare il via libera al “vaccino aziendale”, con una novità: le aziende useranno gli hub pubblici pagati dalla Regione Lombardia, che ha già stanziato 48 milioni per i vaccini dei privati. Una svolta contraria alla delibera dello stesso Pirellone, nella quale si sanciva che le aziende avrebbero utilizzato solo strutture loro. Ora invece il pubblico paga gli hub; le aziende pagano il servizio ai privati; i privati incassano senza aver sostenuto alcuna spesa. E con l’arrivo di Poste (da oggi), intanto, anche in Lombardia, salvo ulteriori problemi, dovrebbe partire la vaccinazione di massa. Si inizia il 12 aprile con la fascia 75/79 anni. A dirlo, ieri, Guido Bertolaso, che ha illustrato il piano. Tante proiezioni che però scontano una valanga di se: se avremo i vaccini; se aumenterà la capacità vaccinale; ecc… Per i 75/79enni il vaccino terminerà il 26 aprile, stante l’attuale capacità vaccinale (35mila dosi al giorno). Ma solo se entro l’11 aprile tutti gli over 80 che ancora mancano avranno ricevuto la prima dose. Dal 27 aprile si partirà con i 70/74enni, e si terminerà il 12 maggio, all’attuale ritmo, o l’8 maggio se le dosi al giorno cresceranno fino a 65 mila. Dal 9 maggio toccherà ai 60/69enni le cui somministrazioni finiranno o il 13.5, o il 18, se si toccheranno le 144 mila dosi al giorno.

Andrea Sparaciari

 

Toscana

Giani è già pronto a “dimissionare” l’assessore

I ritardi in Toscana della campagna vaccinale sugli over 80 (10,3% i vaccinati) e la precedenza ad altre categorie – dagli avvocati ai magistrati passando per gli amministrativi – stanno producendo i primi effetti politici: ora traballa la poltrona dell’assessore alla Sanità della giunta Giani, Simone Bezzini, uomo di partito ma senza competenze in tema di salute. Come ha notato il deputato di Forza Italia, Stefano Mugnai, in alcuni casi è stata data la prevalenza a giovani amministrativi, avvocati e docenti (25-40 anni) in smart working al posto di vaccinare i più anziani. Bezzini è stato ascoltato dalla commissione Salute della Regione e ha ammesso “criticità” nella fascia over 80. Ma la pressione su di lui sale, anche nella maggioranza di centrosinistra: Lega e FdI hanno raccolto le firme per istituire una commissione d’inchiesta e il Carroccio ha presentato una mozione di sfiducia che sarà discussa il 7 aprile. Ma Giani prima di allora, potrebbe far saltare Bezzini e fare un rimpasto lampo, perché le critiche provengono anche dai sindaci Pd e dai renziani: “Chiediamo cambiamenti” dice Stefano Scaramelli (Italia Viva). E adesso sulla Regione pesa anche un altro macigno: sono già due, uno del Codacons e l’altro del professor Stefano Sandri, gli esposti in Procura.

Gia. Sal.

 

Sicilia

I conti non tornano. Fava: “Musumeci dimettiti”

Black-out e strafalcioni continuano a perversare all’assessorato alla salute in Sicilia, dopo i postumi dell’indagine della Procura di Trapani che ne ha azzerato i vertici politici e amministrativi. L’ex assessore Ruggero Razza si è dimesso dopo il deflagrare dell’inchiesta che coinvolge anche il suo vicario di gabinetto, Ferdinando Croce. Dall’opposizione Claudio Fava attacca: “Le dimissioni del presidente Musumeci e la chiusura di questa torbida stagione di governo sono la premessa su cui costruire e ricostruire”. Oggi ci saranno gli interrogatori di garanzia di Maria Letizia Di Liberti, dirigente generale dipartimento per le attività sanitarie, e Dario Palermo, referente unico in Sicilia per i dati Covid-19, finiti agli arresti domiciliari.
Per un giorno la Sicilia non ha addirittura fornito i dati per il bollettino quotidiano della pandemia, mentre mercoledì registrava 2.904 nuovi casi. La Regione Siciliana ha poi rettificato, spiegando che si trattava di un errore, i nuovi casi erano 1.673 suddivisi in due giorni, mentre il dato di ieri è, o dovrebbe essere, di 1.282 nuovi casi.
Nel frattempo, continua la campagna vaccinale nell’isola, che ha già somministrato 800 mila dosi (85,3%) delle 939 mila consegnate. Inoculate 224 mila dosi (28%) agli operatori sanitari e 184 mila (22%) agli over 80, mentre risultano 247 mila dosi (30%) nella categoria “altro”.

Saul Caia

 

Lazio

Astrazeneca terminata e domenica si rischia lo stop

Confida la Regione Lazio nell’ennesima promessa della casa farmaceutica anglo-svedese Astrazeneca: se entro domani non arriveranno le 120mila dosi attese da cinque giorni, domenica gran parte dei centri chiuderanno i battenti e la campagna di vaccinazioni sarà sospesa. L’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, ha passato la giornata di ieri col pallottoliere in mano. In magazzino sono rimaste meno di 1.400 fiale del siero di Oxford, pari a circa 15mila dosi da somministrare fra oggi e domani. Poi stop. Astrazeneca, infatti, ha bucato la consegna di 100mila dosi attese per il 29 marzo.
Ieri mattina, dopo il grido d’allarme dell’assessore D’Amato, il capo della struttura commissariale nazionale, Francesco Paolo Figliuolo, si è affrettato ad annunciare “l’arrivo di un milioni e 300 mila dosi” in tutta Italia, sabato sera a Pratica di Mare. Succederà davvero? Alla Regione Lazio ormai appaiono disillusi. La beffa delle beffe è che il vaccino viene infialato negli stabilimenti di Catalent, ad Anagni in provincia di Frosinone, per poi essere spediti in Belgio per il controllo documentale e rispediti quindi in Italia per le somministrazioni. “Un giro di Peppe inutile e dannoso”, commentano in romanesco dall’Unità di crisi regionale.

Vincenzo Bisbiglia

“Non abbiamo i vaccinatori per gestire milioni di dosi”

Il problema era già emerso nei giorni scorsi, quando di fronte alle commissioni Affari sociali di Camera e Senato il Commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo aveva detto che, con il ministro alla Salute Roberto Speranza, le stava “pensando tutte” per ampliare la platea dei vaccinatori. Pensava anche a biologi, ostetriche, tecnici di laboratorio.

Dopo i medici di famiglia e gli specializzandi, erano intanto arrivati (non senza polemiche) anche i farmacisti per aumentare il numero dei vaccinatori già insufficienti adesso in alcune regioni, come nel caso della Sardegna, dove ne mancano circa 220 per affrontare la campagna in base alla tabella di marcia stabilita dal governo.

Ma il punto è un altro, come rilevano gli stessi medici. Con i bassi quantitativi di dosi che oggi vengono consegnati il personale preposto alle vaccinazioni è ancora sufficiente, come dimostra il fatto che in quasi tutte le regioni (con l’eccezione di Calabria, Liguria e Sardegna) la percentuale di inoculazioni sul totale delle dosi consegnate è ovunque sopra l’80%

“La situazione sarà completamente diversa quando, come affermato dal governo e dal generale Figliuolo, arriveranno grandi quantità di vaccini – dice Chiara Rivetti, segretaria in Piemonte di Anaao-Assomed, sindacato dei medici dirigenti –. Il nostro timore è di non poter disporre di abbastanza vaccinatori per procedere con la vaccinazione di massa. Un timore che abbiamo espresso ai vertici della Regione”. Paura fondata, come dimostra la campagna lanciata dal governatore Alberto Cirio – un “I want you” di statunitense memoria con il volto di Camillo Benso di Cavour al posto dello Zio Sam – con cui la Regione fa appello a medici e infermieri in pensione, a odontoiatri, assistenti sanitari, a volontari, a strutture sanitarie private, case di riposo, centri medici disposti a mettersi a disposizione. Qui si sono messi in gioco gli specializzandi. Ma tutti aspettano anche gli effetti della circolare ministeriale con la quale, pochi giorni fa, il ministero della Salute ha eliminato il vincolo che imponeva per ogni vaccinazione la doppia firma del consenso informato: quella del medico e quella di un altro sanitario.

Vincolo che precludeva a tanti medici di famiglia che non hanno l’ausilio di un infermiere di partecipare alla campagna vaccinale. “Ma il problema è nazionale – dice Ester Pasetti (Anaao Emilia-Romagna) –. Il bando di Domenico Arcuri per reclutare medici e infermieri ha dato scarsi risultati. E il personale sanitario che c’è deve anche garantire le attività ordinarie. Senza contare che inizialmente ai medici in pensione richiamati non si proponeva nemmeno una soluzione per l’assicurazione, che dovevano pagare di tasca propria: solo grazie alle nostre pressioni adesso le compagnie garantiscono polizze calmierate”. C’è chi manifesta, in ogni caso, sicurezza. “Abbiamo reclutato 1.500 specializzandi – dicono dallo staff del governatore Vincenzo De Luca (Campania) – e il 90% dei medici di base ha aderito. Poi ci sono i farmacisti che scendono in campo: riusciremo a farcela”.

Ma la questione è aperta, come si evince dal decreto con il quale in Emilia-Romagna il presidente Stefano Bonaccini ha dato il via libera all’assunzione degli specializzandi fin dal primo anno di corso, con contratti di un mese, eventualmente prorogabili in base alle esigenze, per 12 ore di lavoro alla settimana. C’è poi il problema delle differenze tra i vaccini: solo quello di Johnson&Johnson (che è monodose e quindi non richiede il richiamo) può essere gestito con facilità e velocemente dai medici di famiglia.

“Il 70% non ha una segretaria per organizzare tutti gli appuntamenti – spiega Fabio Maria Vespa, segretario della Fimmg, sindacato dei medici di medicina generale dell’Emilia-Romagna –. Se avremo a disposizione grandi quantità di dosi Johnson&Johnson potremo dare un grosso contributo e nell’arco di due o tre mesi vaccinare solo in questa regione due milioni di persone. In caso contrario prevedo grosse complicazioni”.

Intanto ieri sono stati rilevati 23.649 nuovi casi di Covid-19, a fronte di 356.085 tamponi, con un tasso di positività del 6,6% e 501 vittime. Per fortuna ancora col segno meno il saldo delle terapie intensive: -29.

Speranza circondato da Salvini e compari, ma Draghi non parla

Mercoledì sera, a Consiglio dei ministri ancora in corso, Matteo Salvini aveva capito che non avrebbe ottenuto niente di quello che aveva chiesto. Niente “automatismi” per riaprire in base ai dati, né tantomeno le due parole magiche “zona gialla” da ripristinare nel decreto di aprile. Così, dopo essere stato rimbalzato prima dal ministro della Salute, Roberto Speranza (“Nessuno si diverte a chiudere, ma le terapie intensive sono occupate al 41%”) e poi dal premier Mario Draghi in persona (“Non faremo scelte che rischiano di mettere in pericolo migliaia di persone”), il leader della Lega era tentatissimo di dissociarsi pubblicamente non solo dal titolare della Salute, ma anche dal premier.

Con i suoi fedelissimi, il furioso Salvini meditava di andare allo scontro totale: “Così non va bene, che differenza c’è con il Conte-2?”. Ma, alla fine, i vertici della Lega lo hanno fatto riflettere ed è andato giù duro “solo” con Speranza.

Così, a decreto approvato, Salvini ha attaccato il ministro di Leu che non può “rinchiudere fino a maggio 60 milioni di italiani” per una scelta “politica, non medica e non scientifica” mentre a Draghi ha dedicato un avvertimento: “La nostra lealtà ci impone di lavorare insieme per risolvere i problemi, ma anche di avere il coraggio di sottolineare e correggere quello che non va”. Che da oggi, è l’ordine di scuderia dato a parlamentari e amministratori leghisti, metterà nel mirino proprio il titolare della Salute per chiedere “un cambio di approccio”: secondo Salvini, l’esecutivo non può rimanere “ostaggio” dell’ala rigorista composta da Speranza-Franceschini-Patuanelli, ma la Lega deve fare asse con Forza Italia (“È passata la nostra linea” esulta Mariastella Gelmini) per convincere Draghi che “bisogna riaprire”.

Per adesso l’unica vittoria che il leader della Lega si può attribuire rispetto alle misure anti-Covid è l’occupazione dello spazio mediatico. Draghi non ha fatto una conferenza stampa dopo l’approvazione del decreto. La linea è quella di Speranza, ma a Palazzo Chigi preferiscono non entrare nella dialettica politica pura. Una scelta precisa, quella del premier, di non farsi trascinare su questo terreno: la sua fiducia nei confronti del ministro della Salute non è in discussione. Ma il metodo resta quello scelto dall’inizio: molto pragmatismo e poche parole. Peraltro, la battaglia principale resta quella delle vaccinazioni. Alla Salute raccontano come il rapporto tra Draghi e Speranza sia estremamente solido. E pazienza se alla fine è lui ad apparire come l’artefice delle chiusure. Comincia a soffrire la situazione il Pd: Enrico Letta attacca Salvini appena può (ieri ha definito “totalmente fuori luogo” le aggressioni a Speranza), ma i dem su Draghi sono schiacciati. “È il nostro governo”, ribadisce il segretario. Vari big, da Dario Franceschini a Graziano Delrio, pensano che bisognerebbe iniziare a differenziarsi. Mentre più d’uno nota che questo esecutivo (come il precedente) sul tema delle misure ha cambiato idea più volte. Letta si è posto il problema. E sta incontrando i sindacati e le associazioni di categoria. Mercoledì ha visto Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. L’idea è quella che il Pd debba ritrovare il dialogo con i ceti produttivi, essere il riferimento istituzionale post pandemia, diventare centrale per le categorie che più hanno sofferto le misure di contenimento. Dal tema delle chiusure e delle aperture Letta si tiene lontano. Rimanda al dopo un ruolo più dialettico con Draghi. Per ora un progetto. Mentre Salvini deborda.