Da Pomezia con furore

La spy story all’amatriciana del capitano di fregata Walter Biot da Pomezia, la spia che venne dall’Agro Romano arrestata a Spinaceto mentre vendeva terribili segreti Nato a due russi in cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe per pagarsi il mutuo e le medicine, un merito l’ha avuto: restituirci i nostri Le Carré preferiti, al secolo Paolo Guzzanti fu Mitrokhin (Giornale), Claudia Fusani fu Pompa (Riformatorio) e Jacopo Iacoboni (Stampa). Tutti e tre sgomenti per una notizia inaspettata: in Italia ci sono spie russe. Ora manca solo che scoprano quelle nel resto del pianeta. Noi non vorremmo sconvolgerli con troppe sorprese tutte insieme, peraltro reperibili al cinema, in edicola, sul web e in libreria, ma si sospetta che s’aggirino per il mondo anche spie americane, inglesi, tedesche, francesi, cinesi, financo italiane. E da sempre. I nostri eroi invece parlano della spia che venne da Pomezia come di un caso unico nella storia. Il commissario Iacoboni lo spiega così: “Lo spionaggio russo in Italia si è intensificato nel 2018 col governo Lega-M5S e ha avuto un punto di svolta ulteriore nei controversi marzo e aprile 2020” con “la missione degli ‘aiuti russi’ per il Covid” . Chissà cosa spiavano quei 32 medici russi mentre fingevano di aiutare l’ospedale da campo a Bergamo, oltre alle scollature delle infermiere. Feltri jr. non ha dubbi: “militari che scorrazzavano in Italia, convocati dal nostro governo con Di Maio a fare da dama di compagnia”.

Sì, è vero, gli stessi Le Carré de noantri accusavano Conte di aver venduto l’Italia a Trump, cioè agli Usa. Sì, è vero, negli anni 60 e 70 la Fiat (editore della Stampa) trescava con l’Urss e negli anni 80 fu scoperto un italiaco spione dei sovietici all’Olivetti di De Benedetti (editore di Rep). Sì, è vero, B. (padrone del Giornale) è pappa e ciccia con Putin. Sì, è vero – lo scrive il commissario Iacoboni – negli ultimi mesi sono state beccate spie russe in Bulgaria, in Francia e in Olanda, dove non risultano governi grillini. Ma il problema per Feltri jr. sono “Beppe e Luigino divisi a Berlino”, anzi al Cremlino. Il loro “governo populista ha reso l’Italia anello debole della Nato” (Rep). Infatti ora – denuncia Iacoboni – c’è un’“offensiva di influenza russa sul vaccino Sputnik”, che in ogni fiala nasconde una microspia per tenerci d’occhio. Fortuna che con l’“atlantista” Draghi non passerà. Ma solo qui. La stessa Stampa annuncia: “Parigi e Berlino, vertice con Putin: ‘Pronti a collaborare su Sputnik’”. Hai capito Giuseppi e Giggino? Han subornato pure Macron e Merkel. Intanto Stampubblica, capofila dell’atlantismo nostrano, s’è battuta come una leonessa per riportare al governo B. e Salvini, i migliori amici di Putin. In cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe? No, gratis. Furba, lei.

Vedi alle “Pagine Rossi”: gag e carriera di un istrione romano

Definirlo “frizzante” come l’acqua minerale del noto marchio ai cui spot veniva associato negli anni 90 potrebbe sembrare banale e scontato. Eppure la verve (auto)ironica dei suoi sketch sembra autorizzarci a reiterare questo vecchio parallelismo.

Attinge alla semplicità della vita quotidiana Riccardo Rossi, protagonista del nuovo episodio di Tutta scena – Il teatro in camera, da oggi in streaming su TvLoft. “Non sai che m’è successo ieri…” è l’incipit perfetto per aneddoti come quelli raccontati in Pagine Rossi, lo spettacolo con cui l’attore romano ci restituisce oltre vent’anni di carriera, riproponendo il titolo del fortunato esordio teatrale, poi divenuto anche apprezzato Manuale di sopravvivenza urbana (Mondadori). Il materiale a disposizione non manca: non c’è mai stata distinzione tra persona e personaggio in Rossi. Sul palco e sugli schermi, il protagonista è sempre stato lo sguardo dissacrante con cui passava in rassegna carrellate di situazioni, senza perdere quell’apparente ingenuità da comico della porta accanto in grado di abbattere ogni diffidenza. Altro che quarta parete. L’attore non è mai diventato vip, e il mondo dello spettacolo è rimasto semplicemente un bacino da cui attingere, nonostante una frequentazione ormai pluridecennale.

Gli esordi risalgono agli anni 80 e sono tutto un programma: varie comparsate a partire da College di Castellano e Pipolo, poi la partecipazione al successo de I ragazzi della 3ª C su Italia 1. Rossi non esce più dai radar, ma resta un ragazzo come altri che alla passione alterna i più svariati lavori: fattorino, commesso in un negozio di dischi, animatore nei villaggi vacanze (senza mai dimenticare la lettura del quotidiano al mattino, fondamentale per le sue gag), poi soprattutto impiegato nello storico ufficio stampa di Enrico Lucherini, dove arrivavano i rimproveri se chiedeva autografi ai suoi idoli che passavano di là. Vi lavorerà fino al 1995, anche se il salto l’aveva già fatto nel 1992 con Non è la Rai di Gianni Boncompagni. Per dire.

Fan sfegatato di Alberto Sordi, a suo modo a suo agio col barista come con Carlo Verdone o il direttore generale della Rai, Riccardo Rossi è sempre rimasto se stesso. I successi – che si trattasse dei film con i Vanzina o del sodalizio con Fiorello, dei collegamenti a Quelli che il calcio o di conduzioni in prima persona come al recente Battute? – non l’hanno cambiato, ma la vena comica è innata. I racconti proposti per l’iniziativa di Loft Produzioni stanno lì a testimoniarlo: dallo sbarco sulla luna all’acquisto di una Filofax, dall’età dell’innocenza alla prima vacanza all’estero, vanno in scena i paradossi e gli assurdi di tutti i giorni. Immedesimarsi è un riflesso automatico. Come bere un bicchier d’acqua.

Beata solitudine, che abita in un “liquore generoso”

Beata solitudo, sola beatitudo si legge in molti chiostri e certose, a dire che solo separandosi dal mondo e dagli altri si può trovare tranquillità d’animo. Salvezza o maledizione, scelta o obbligo, la solitudine, racconta Aurelio Musi nel raffinato Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network, è da sempre temuta, ora più che mai, quanto ricercata.

Non va però confusa con l’isolamento, come racconta Adriana Zarri in Un eremo non è un guscio di lumaca in cui descrive la scelta di trasferirsi nel 1975 in una vecchia cascina piemontese per ritirarsi in un laico monachesimo. “L’isolamento è un tagliarsi fuori”, scrive, come fanno i moderni hikikomori, fenomeno d’origine giapponese, poi occidentalizzatosi, che si autoescludono da ogni forma di relazione, “ma la solitudine è un vivere dentro”, precisa. È ben diverso.

Tra le pagine sfilano monaci, anacoreti, santi e sante – una su tutte Santa Maria Egiziaca, vissuta nel 300 d. C., prostituta per scelta che poi si convertì –, ispirati da Sant’Agostino e dal suo binomio tra solitudine, intesa come abitare se stessi, e comunione con Dio e gli altri. Condizione tipica del cristianesimo, ma non della Grecia antica di Euripide per cui solitudine è negatività da superare, né di Eschilo per cui è fonte di sofferenza, angoscia, possibile anticamera della follia. Il suo Prometeo è incatenato da Efesto “a questa vetta deserta, dove non potrai udire voce umana né vedere l’aspetto di alcuno dei mortali”.

Musi attinge dalle arti, letteratura, filosofia, musica e anche pittura così, su suo invito, cerchiamo le immagini di quadri come L’assenzio di Degas, Solitudine di Van Gogh o il bianco e nero dell’americano Jason M. Peterson che mette sovente una piccola figura umana al centro di uno spazio enorme. Scopriamo poi che per Montaigne ritiro e solitudine sono il retrobottega in cui “sequestrarsi e raccogliersi in se stessi” senza per questo esagerare finendo per perdere “gaiezza e salute”, mentre per Pascal i buoni costumi vengono corrotti dai rapporti cattivi. Pertanto “bisogna restare in silenzio più che si può, e intrattenersi con sé soltanto di Dio”. Ciò non esclude godere di compagnia ma consapevoli che il prossimo, miserabile e impotente come noi, non ci darà aiuto.

Nel Don Chisciotte di Cervantes la solitudine è incarnata dall’eroe a cavallo “sulle tracce di un percorso iniziatico solitario, che attraversa luoghi avventurosi, ingaggiando duelli, affrontando prove difficili in onore del suo casto e cortese amore”, mentre il giovane Werther di Goethe, ritiratosi dal mondo borghese in cui non si riconosce, si rifugia nel contatto con la natura agreste che inizialmente pare essere l’optimum ma gradualmente, nella sua manifestazione più struggente, lo rende irrequieto.

Consapevole fu invece la scelta di Emily Dickinson, reclusa ma operosa nella sua stanza di Amherst, i cui versi sono immortali: “Ha una sua solitudine lo spazio/ solitudine il mare e solitudine la morte/ eppure tutte queste son folla/ in confronto a quel punto più profondo/ segretezza polare/ che è un’anima al cospetto di se stessa/ infinità finita”.

La riflessione più matura sulla solitudine, osserva Musi, vicina alla nostra attualità e anche alla dimensione dei social network, dove a esteriorizzarsi è l’immagine patinata di ciò che si vuole apparire, dimentichi dell’interiorità, completamente separati dall’altro, sta nelle pagine finali de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt secondo cui il problema dell’uomo moderno è l’estraneazione. L’uomo estraniato è circondato da altri, ma è privo di contatti reali ed è esposto all’ostilità del prossimo sconosciuto. L’uomo solitario è invece con se stesso, è due in uno. “Il problema della solitudine” spiega Arendt “è che questo due in uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno”, ma se manca “la compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili” scatta il cortocircuito. Bisognerebbe forse allora seguire Leopardi quando sosteneva che il disincanto della vita consente due vie di uscita: il nichilismo o, meglio, trascorrere l’esistenza fra sognare e fantasticare, abitando in “qualche liquore generoso”. Almeno quello possiamo ancora farlo senza chiedere permesso.

“Salvata dall’amico Vasco”

Vi mancano i live? Parlate con Noemi. A ogni domanda aggancerà una canzone, con relativa mini-esecuzione privata. “Cantare mi fa stare bene, è una colonna di energia che mi purifica dalle tensioni”. Così, se le chiedeste del primo pezzo intonato da bambina, inizia: “Non so che viso avesse/neppure come si chiamava…”.

Guccini…

Avevo sette anni, mia madre conservava un diario della sua adolescenza. Ci aveva scritto i testi de L’Avvelenata o de La Locomotiva. Le sapeva a memoria.

Un imprinting.

Mi sentivo già una musicista. Prendevo lezioni. Chiesi a papà di comprarmi un piano verticale. Ce l’ho ancora in casa (e lo mostra).

Doppio imprinting.

Mio padre era una potenziale star. Suonava la chitarra in un complesso, L’Incontro. Parteciparono a Castrocaro 71 con Barbara. La Fonit Cetra si fece avanti, nonna era contraria.

È toccato a lei esaudire i sogni genitoriali.

Un minuto prima di debuttare in tv a X Factor mi resi conto del guaio in cui mi ero ficcata. Ma dopo la prima strofa la paura era passata. Cantare per gli altri è un privilegio. Pittori e scrittori lavorano in solitudine, la musica ha il valore aggiunto della condivisione.

Che pezzo le aveva assegnato coach Morgan?

Un anno d’amore (lo esegue). Partenza col botto. Possiedo un vinile di Mina, i successi dei suoi primi quattro anni. Se telefonando (canta), La banda (accenna).

Un brano che la spaventa?

Glicine, quella dell’ultimo Sanremo. È complicata, volevo che uscisse bene. Anche per tutto il messaggio di trasformazione psicofisica al centro del mio nuovo album Metamorfosi. Negli ultimi anni ero diventata qualcosa di diverso da me stessa, mi sentivo fuori fuoco, non percepivo i miei obiettivi.

Un passaggio stretto.

La pandemia mi ha offerto l’opportunità di rallentare per farmi ritrovare. Chi non mi conosceva può vedermi cambiata, ma sono tornata come ero.

Affrontando “Glicine” al Festival…

Avevo paura di non cantarla come serviva. È stato fondamentale sentir dire che la mia voce è addirittura migliorata. Io sono la mia voce.

Quando ha capito di aver scoperto spazi inesplorati nella sua voce?

In studio, incidendo Glicine. Nella strofa ho azzardato un falsetto. Mi sono sentita ridicola. Invece il gruppo di lavoro mi ha incoraggiato: un altro brano, Limite, l’ho cantato in una tonalità altissima. Sono entrata nel mio giardino segreto.

Sanremo è stata la prova del fuoco.

Senza pubblico era un’esperienza spiazzante. La prima sera l’ho cantata in faccia a un tecnico Rai. Lui dopo mi ha detto: ‘M’ero quasi convinto di piacerti’. Un trucco che mi aveva insegnato Vasco: ‘Anche davanti a un milione di persone scegline una, trova un appiglio’.

Anni fa lei aprì i concerti di Vasco negli stadi.

Prima di salire sul palco pensavo: “Al tour di Buoni e Cattivi: ero in curva, da fan, e ora sono qui sopra”. Fui accolta con amore dai suoi fedelissimi, non era facile. Poi, dopo l’Olimpico, tornai a casa a pulire i vetri.

I vetri?

Non devi perdere il contatto con le piccole cose. Portare a spasso il cane, pulire le stanze. Questo è un mestiere basato sulla casualità, non puoi darlo per scontato. Però mi risparmiai i piatti.

In che senso?

Avevo promesso a Vasco e a Curreri che avrei lavato i loro piatti se avessero scritto un brano per me. Arrivò Vuoto a perdere (canticchia) ma quei due, da gran signori, mi esentarono dal vincolo.

Premesso che parlava di un amico bianco, Vasco potrebbe scrivere oggi una cosa come ‘S’è portata a casa il negro la troia’?

Temo di no, anche se pure in quegli anni Colpa d’Alfredo gli causò grane. Oggi è peggio, siamo più razzisti, e il corpo della donna resta un tema sensibile. Abbiamo perso l’autoironia, che è nel Dna degli italiani. Siamo dentro una commedia che non fa più ridere.

Vasco, Curreri, Moro, Fossati, Masini, ora Neffa. Uomini che l’hanno aiutata a cantare la sua natura femminile.

Uomini che amano le donne e che sanno scriverne grazie alla presa di distanza.

Ora chi le piacerebbe?

Vorrei cantare un brano scritto da Samuele Bersani.

A un certo punto lei si trasferì a Londra.

Il disco nato lì, Made in London, anticipava il mood creativo che è in Metamorfosi. Ora ho riallacciato quel filo. E ripenso al divano di Amy.

Il divano?

Era in casa del mio amico produttore Stephen Duffy. La Winehouse sedeva lì e per settimane giocava a The Sims con le bambine di Stephen. Prodigiosamente rilassata, pur nella sua fragilità. Un mese senza scrivere niente. Finché, sul divano, nacque Back to black.

Che Roma ha ritrovato?

Un grande fermento indie e non solo. Nell’album c’è un pezzo scritto da Franco 126 e Dardust, S’illumina, che ha una radice molto romana; (ci pensa) rimpiango i pomeriggi di spensieratezza all’Ostiense, di quando studiavo Critica cinematografica all’università. E spero che Trastevere si riempia di nuovo presto di voci nelle strade, che mancano anche a chi tirava l’acqua dalle finestre. E poi i colori della Garbatella: mio nonno era in fissa con Vecchia Roma di Villa. ‘Sotto la luna non canti piùùù…”.

Bandi nella Cultura: restauro a spese tue. In cambio una targa

Nuovo record nella saga del lavoro culturale non pagato: il lavoro a spese tue. La provincia di Salerno cerca restauratori che lavorino in perdita. Il testo dell’avviso esplorativo, datato 24 marzo, è stato rilanciato da un comunicato stampa nella giornata di lunedì. La notizia ha poi iniziato a circolare sui social di professionisti e amanti dell’arte ed è poi deflagrata: il Settore Pianificazione Strategica e Sistemi Culturali della provincia di Salerno cerca restauratori “con cui progettare e realizzare il restauro a titolo gratuito di alcune opere d’arte costituenti il vasto e ricco patrimonio dell’Ente”. L’ennesimo annuncio di “lavoro volontario”? Di più.

Si legge ancora: “Le proposte progettuali e la realizzazione degli interventi non dovranno comportare oneri per l’Ente e pertanto saranno realizzate a cura e spese del restauratore”. Ripetiamolo: spese a carico del professionista incaricato. Attrezzatura, materiali, con costi che possono variare dalle poche decine alle centinaia di euro a seconda dell’intervento, supponendo che siano poco gravosi. Naturalmente alla domanda deve essere allegato “il curriculum vitae” dal quale “si evinca chiaramente, oltre al titolo di studio conseguito e ad ulteriori corsi di formazione, la pregressa esperienza lavorativa maturata nel campo oggetto della presente manifestazione di interesse, nonché l’iscrizione all’albo dei restauratori”. Una selezione per un incarico professionale in piena regola ma per un professionista che non solo offra la propria competenza gratuitamente, ma che di tasca propria provveda a tutto.

Dalla Provincia di Salerno, contattati dal Fatto, fanno sapere che avevano pensato il bando come una bella iniziativa, un modo per provvedere a restauri utili in un momento in cui la situazione finanziaria molto delicata non permette alcun investimento, e per far lavorare qualche giovane bisognoso di fare esperienza: non si aspettavano polemiche, e certo se andrà deserto, spiegano, lo accetteranno, perché era stato solo “un tentativo”. Naturalmente il bando specifica che sarà rilasciato “un riconoscimento di merito” e che sarà citato “il nominativo del restauratore affidatario, nelle eventuali pubblicazioni e nelle didascalie a corredo ai dipinti” oltre a “provvedere a dare diffusione e pubblicità dei restauri realizzati dandone massima diffusione e comunicazione”.

Si tratta di un bando che ha lasciato sgomenti gli addetti ai lavori. Certo, l’assegnazione di incarichi a titolo gratuito è diventata una triste regola per il settore culturale, soprattutto da quando una legge dello Stato (4/1993), mai modificata, ha sancito che fosse possibile utilizzare volontari a integrazione del personale della Pubblica Amministrazione in musei, archivi e biblioteche statali. Solo nelle ultime settimane si sono registrati avvisi per coinvolgere associazioni di volontariato nella gestione dei Musei Civici di Milano, o nei siti afferenti la Soprintendenza del Veneto.

Ma che ciò venga richiesto a un professionista abilitato, in particolare nel campo del restauro, e addirittura senza prevedere rimborsi spese e anzi lasciando tutte le spese a carico del restauratore, ancora non si era visto, come conferma anche Emanuela Tarsi, restauratrice e attivista dell’associazione Mi Riconosci, che da anni monitora questo genere di bandi per lavoro gratuito. “Ma se di bandi simili non se ne sono mai visti – spiega – non è raro assistere ad accordi informali, favori, tutte dinamiche che contribuiscono a rendere difficilissimo per un restauratore oggi, in Italia, vivere della propria professione”.

Persone disposte a offrire la propria professionalità alla pubblica amministrazione, infatti, ce ne sono e ce ne saranno, per i più svariati motivi ma soprattutto per ottenerne un vantaggio personale. Proprio per questo già nel 1907, a riguardo, l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Rava scriveva a tutti gli uffici che si occupavano di beni culturali che “per nessun motivo e in nessuna occasione i Direttori degli Uffici predetti accettino offerte di lavori a titolo gratuito” dato che “non è né giusto né decoroso che il Governo faccia compiere da chicchessia speciali lavori senza retribuzione”. Oggi invece non solo la pratica è legale, ma in più una sentenza del 2019 (Tar Lazio, n.11411) ha legittimato l’incarico professionale a titolo gratuito qualora vi sia occasionalità e un “arricchimento professionale” per il professionista. Difficile stabilire i confini dell’occasionalità, così come quelli dell’ “arricchimento professionale” quando il lavoro non solo non viene pagato ma addirittura dei professionisti ultra-preparati finiscono per rimetterci.

Le Ong: “Questa è una mafia, prendo soldi sulle vite umane”

C’è una linea invisibile nel Mediterraneo oltre la quale niente è davvero ciò che sembra. Un confine oltre il quale Ong e scafisti sembrano quasi collaborare. È il 26 giugno 2017 e l’equipaggio della Vos Hestia – nave noleggiata dalla Organizzazione non governativa Save the Children – stenta a credere ai suoi occhi. In acque internazionali avviene un trasbordo di migranti. Sono scortati da “sciacalli”. I trafficanti di uomini che, nella zona franca fra lo specchio libico e le acque internazionali, sono perfettamente a loro agio. Chiamano gli attivisti “my friends”, sono “bravi e collaborativi”, notano due marinai imbarcati sulla Vos Hestia. Partecipano alle operazioni, poi si riportano indietro “motori e benzina”. “Ma ti rendi conto – commentano i due marittimi, personale stipendiato che non fa parte delle Ong –, sembra che ci stanno dando una mano con ’sti barchini, che collaborano con noi. Pensa se c’era un poliziotto o un carabiniere…”.

E in effettiun poliziotto infiltrato c’è davvero. Il suo nome di copertura è Luca Bracco, è un investigatore dello Sco. Scatta foto e video che diventeranno materiale d’inchiesta per la Procura di Trapani. Un’indagine conclusa all’inizio del marzo, in cui sono indagate 21 persone appartenenti a tre Ong: la tedesca Jugend Rettet, Save the Children e Médecins sans frontières (Msf). Nel fascicolo sono state depositate quasi 30mila pagine di atti, che il Fatto ha visionato. Le accuse sono a vario titolo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falsificazione dei rapporti sulle operazioni di search and rescue (Sar). La polizia non ha invece trovato alcun elemento su un tornaconto economico o passaggi di denaro. Gli aspetti più problematici, semmai, riguardano l’omertà sugli scafisti. Save the children elabora addirittura un decalogo interno in cui mette per iscritto “cosa fare e cosa non fare”, in cui in sostanza si invita a non segnalare scafisti alla polizia. E quando ci sono giornalisti embedded, il tentativo è quello di non far circolare video.

“Qui il comandante non comanda niente, sono questi che decidono”, lamentano due ufficiali di coperta, questa volta sulla Vos Prudence, gestita da Msf. È il 21 marzo del 2017. Sospettano del loro capo missione – il belga Matthias Kennes, rappresentante di Msf, fra gli indagati: “Sanno già il punto dove arrivano. Aveva tanta premura di partire e ora si vuole fermare”. E ancora: “Te l’ho detto che questi figli di puttana già lo sanno dove arrivano questi mambrucchi di merda”.

Nel picco del 2016 (180mila sbarchi, un’enormità se confrontati con i 34mila del 2020) le Ong passano da soccorrere il 5% dei migranti al 40%. Un aumento vistoso, secondo gli investigatori giustificato dall’esistenza di canali informativi paralleli, che consentono alle navi delle Ong di sapere in anticipo dove saranno abbandonati i naufraghi. C’è un fatto che va sottolineato: gli Stati hanno tirato i remi in barca e a salvare vite, come hanno ripetuto spesso, c’erano solo loro, le Ong. Tuttavia è un fatto anche che questi rapporti talvolta spericolati che rendono il clima a bordo sempre più pesante: “È una mafia – dicono sconsolati gli ufficiali di coperta Lorenzo Mazzarello e Marco Caronchia, a proposito delle operazioni della Vos Prudence – ma fatta anche male. Nel senso che io sto pigliando soldi, sulle vite umane, su bambini…”. In un altro dialogo intercettato, altri due marittimi si definiscono “la Franco Rosso agenzia di viaggi e turismo”. Il 26 giugno 2017 la Von Hestia effettua un soccorso in cui compaiono alcuni tra i più noti trafficanti libici: “Il clan Dabbashi, una delle famiglie più influenti di Sabrata. Gestiscono una milizia e varie safe house dove ospitano i migranti prima della partenza”. È un rapporto controverso, quello tra Ong e contrabbandieri. Una partita in cui spesso emerge, con un ruolo non sempre chiaro, la presenza della guardia costiera libica, finanziata dallo Stato italiano.

L’infiltrato non è l’unico a spiare. Due dipendenti di una ditta di security imbarcati con le Ong ambiscono a rivendere informazioni che mettano in cattiva luce le Ong a partiti di destra. È il caso di Pietro Gallo, ex poliziotto, figura già oggetto di un’inchiesta giornalistica del Fatto Quotidiano, e Floriana Ballestra, ex agente della Stradale di Imperia: “Da un lato si preoccupavano di portare ai livelli mediatici più alti le irregolarità notate a bordo della Von Hestia – scrivono gli inquirenti –. Dall’altro manifestavano l’intenzione di ottenere un posto di lavoro stabile grazie a un interessamento di Matteo Salvini”. Il 13 marzo 2017, Ballestra viene in effetti ricevuta dal leader della Lega nella sede milanese del partito. “Salvini si mostra interessato alle informazioni, soprattutto in merito a Save the Children, tanto da chiamare in sua presenza il giornalista Paolo Del Debbio”. Poi, racconta la donna, “telefona a un assessore regionale ligure per trovarle un impiego”. Gallo si rivolge anche ai servizi segreti interni italiani. “Se questi mi chiamano, facciamo un accordo con il ministero, ci mettete su una nave tipo Croce Rossa e vi famo da spioni”.

La polizia ha seguito anche la reporter d’inchiesta Nancy Porsia, collaboratrice del Fatto, intercettata nonostante non vi fossero a suo carico ipotesi di reato. “Non ne ho mai saputo niente – dice – anche se in certi momenti l’ho sospettato”.

Abusi a scuola, a BoJo non interessano

“I ministri hanno mollato sulla lotta alla violenza sessuale e il governo conservatore se ne frega”. Ci voleva la schiettezza di Jess Philips, tosta deputata laburista di Birmingham e ministro ombra per la violenza domestica, per risvegliare un Labour sedato dalla tiepida leadership di Keir Starmer e attaccare frontalmente i Tories, il partito di governo che siede da 5 anni su uno scioccante rapporto parlamentare bipartisan sulla violenza sessuale nelle scuole.

È la coda del brutale assassinio di Sarah Everard, che ha aperto il vaso di Pandora di molestie e violenze contro le donne a tutti i livelli sociali. La scorsa settimana è saltato anche il tappo più esclusivo: la “cultura dello stupro” prevalente, secondo un gruppo di studentesse, in una delle più ambite scuole private dei quartieri bene di Londra Nord: Highgate, college da 22 mila sterline l’anno, campus da favola, istituto storicamente solo per ragazzi ma accessibile da pochi anni anche alle ragazze. La situazione tipica di questi college? Hanno manager incaricati di occuparsi del benessere degli studenti, corsi obbligatori su rispetto reciproco e parità di genere, policies rigorose e verificate annualmente. Ma sono esercizi formali: a Highgate il problema era fuori controllo, e non si è capito se la scuola non se ne fosse accorta o avesse evitato di intervenire perché, si sa, la reputazione. Come sempre, quando salta il tappo della ipocrisia, la verità per un po’ diventa contagiosa: ora sul sito Everyone is Invited, creato da Soma Sara, studentessa a sua volta vittima di abuso, per dare voce alle tante come lei, le testimonianze sono oltre 11 mila, e la vittima più giovane ha 9 anni.

C’entrano anche le scuole statali, ma prevalgono quelle private, esclusivissime, i templi dell’educazione di una intera classe dirigente, quelli che promettono di proiettare vite direttamente a Oxbridge, e cosa vuoi che sia in cambio portarsi dentro il trauma più il silenzio. Tema direttamente politico, perché sono i conservatori e i loro finanziatori i grandi campioni dell’educazione privata; se la può permettere solo il 7% degli studenti, eppure da un bacino così ristretto esce l’élite che va a occupare le professioni, una certa politica, il giornalismo, la City.

La Philips nota che il governo sa da anni, e “deve agire urgentemente per assicurarsi che questi comportamenti non siano tollerati e gli studenti protetti”. E Starmer si è unito alla richiesta di una nuova indagine su quanto accade nelle scuole. Il governo creerà una nuova linea telefonica nazionale per raccogliere le denunce delle vittime, da passare poi alla polizia. Però martedì una inchiesta ha assolto i poliziotti che alla veglia per Sarah Everard hanno malmenato un gruppo di donne che partecipavano pacificamente. “Si sono comportati in modo appropriato” dicono le conclusioni. Bel cortocircuito.

Biden avvia il suo New Deal Ma al Congresso è battaglia

L’America del dopo pandemia come l’America che provava a uscire dalla Grande depressione negli anni Trenta, riuscendoci. L’America di Joe Biden come l’America di Franklyn D. Roosevelt, il presidente democratico del New Deal, colossale programma d’investimenti pubblici che dotarono l’Unione di infrastrutture di trasporti ed energetiche capaci di sostenerne la crescita per decenni, passando anche attraverso lo sforzo immane della Seconda guerra mondiale.

Nell’illustrare il ‘maxi-progetto’ per le infrastrutture fisiche e virtuali del presidente Biden, circa 2.000 miliardi di dollari in otto anni, l’eco del New Deal è presente su tutta la stampa Usa. Ma la Casa Bianca preferisce un termine di paragone diverso: “L’America – dice – torna a investire come non accadeva dalla corsa allo Spazio”, l’impegno, rispettato, di John F. Kennedy di portare un uomo sulla Luna entro gli anni Sessanta, un americano prima di un russo. Dopo l’American Rescue Plan da 1.900 miliardi per salvare l’economia Usa dalla pandemia, ormai legge con l’avallo del Congresso, Biden lancia la prima fase dell’American Jobs Plan, che prevede complessivamente spese per oltre 4.000 miliardi di dollari. L’obiettivo è non solo ammodernare e rafforzare la rete infrastrutturale a tutti i livelli, ma rimodellare l’economia Usa affrontando anche questioni collegate al clima e alle ineguaglianze sociali e razziali: investimenti per sviluppare le fonti rinnovabili e l’energia pulita, per promuovere la diffusione delle auto elettriche, per rafforzare l’edilizia residenziale. Per ammodernare e mettere in sicurezza la rete dei trasporti, oltre 32 mila chilometri di strade e autostrade, ponti e svincoli, ci sono 620 miliardi. Biden ha ieri presentato il suo piano a Pittsburgh, in Pennsylvania, una città e uno Stato simboli dalle molte valenze: la ‘capitale dell’acciaio’, un’industria vitale, ma per molti aspetti residuale e ormai sostanzialmente ‘migrata’ verso Paesi produttori a costi più bassi; e la culla dell’Unione, feudo democratico strappato da Donald Trump nel 2016 e riconquistato da Biden nel 2020, ricostruendo il ‘Blue Wall’ industriale e operaio dei Grandi Laghi. Prima che al pubblico, il ‘maxi progetto’ che prevede pure colossali investimenti nella banda larga e nella lotta contro il cambiamento climatico, è stato illustrato a senatori e deputati: Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, parla di un disegno “storico” per dotare l’America “delle infrastrutture del futuro”, creare “milioni di posti di lavoro ben retribuiti” e rendere gli Usa più competitivi verso la Cina, riprendendosi con decisione la leadership economica mondiale.

È un progetto, non ancora un programma: per diventarlo, dovrà superare le resistenze in Congresso dei Repubblicani. Il finanziamento del piano prevede, infatti, anche un aumento delle tasse: Biden dice che “si tratta di rendere il sistema fiscale più equo”; ma le imprese dovranno pagare più imposte sui loro guadagni, con l’aliquota che passa dal 21 al 28%. Il tasso – fa notare la Casa Bianca – rimarrebbe, anche dopo l’aumento, il minimo nel dopoguerra, a eccezione, però, degli anni trascorsi dopo la riforma fiscale di Trump approvata del 2017, che tagliò le tasse della Corporate America dal 35 al 21%. Per la Casa Bianca “è la fine di decenni di stagnazione negli investimenti federali, specie per ricerca e infrastrutture”. A completare l’American Jobs Plan giungerà, fra qualche settimane, un progetto di spesa analogo, dell’ordine di 2.000 miliardi, per sanità, assistenza e istruzione, finanziato dall’aumento delle tasse di chi guadagna oltre 400.000 dollari l’anno. Per l’ala progressista dem “ci vuole molto di più”, dice Alexandria Ocasio-Cortez. Biden dovrà negoziare su due fronti.

Bankitalia 2020: un bilancio mai così “grande”, ma meno utili

Inumeri illustrati ieri dal governatore Ignazio Visco nella relazione annuale sul 2020 certificano il ruolo di decisiva importanza che la Banca d’Italia ha avuto lo scorso anno nel contrastare gli effetti sull’economia del Covid. “La dimensione raggiunta dalle attività a fine 2020 è senza precedenti: il totale di bilancio ha sfiorato i 1.300 miliardi, 336 in più rispetto allo scorso anno”, sono state le sue parole.

I titoli di Stato in portafoglio sono arrivati a 539 miliardi e rappresentano circa il 25% del totale dei titoli di debito pubblico emessi. I prestiti a lungo termine alle banche sono aumentati di 158 miliardi raggiungendo quota 374 miliardi. Sul lato delle passività c’è da notare come siano cresciuti in modo considerevole i depositi delle banche (+198 miliardi), segnale che buona parte della liquidità immessa dalla banca centrale è rimasta all’interno del sistema finanziario italiano e non è interamente defluita all’estero, come succedeva negli anni scorsi.

Nonostante quest’espansione senza precedenti del bilancio, l’utile netto è calato di circa 2 miliardi rispetto al 2019, arrivando a 6,286 miliardi. Come avevamo ipotizzato qualche settimana fa, hanno pesato sulla redditività della banca centrale il più basso rendimento dei titoli acquistati e il migliore trattamento in termini di tasso d’interesse offerto alle banche sia dal lato dei loro depositi, che da quello dei prestiti a lungo termine. È stato inoltre deciso di accantonare 2,5 miliardi, 1 miliardo in più rispetto al 2019, per aumentare la dotazione di riserve contro i rischi, di durata e di tasso d’interesse, che un bilancio sempre più ampio comporta.

L’utile netto così realizzato verrà distribuito ai partecipanti privati al capitale solo per l’ammontare di 273 milioni. 40 milioni sono accantonati in una posta per la stabilizzazione dei dividendi. 67 milioni andranno in riserve straordinarie. La rimanente parte, circa 5,9 miliardi di euro, sarà girata allo Stato, che riceverà anche altri 1,4 miliardi come imposte dell’anno 2020. Nel complesso saranno ritornati così allo Stato 7,3 miliardi di euro, che, sebbene in calo di 1,94 rispetto al 2019, rappresentano ancora il livello più alto nella zona euro.

Deliveroo ko, Just Eat assume Parte la guerra del delivery

La quotazione alla Borsa di Londra di Deliveroo, colosso delle consegne online di cibo, è stata un disastro. Ieri i titoli hanno perso il 26,3% a 2,87 sterline rispetto ai 3,9 del collocamento. Già dall’apertura il calo superava il 15%, con ribassi sino al 30%. Che ci fossero problemi si era capito sin dai giorni scorsi, quando Deliveroo aveva ridotto il prezzo della quotazione a 3,9 sterline per azione, il minimo della forchetta. La settimana scorsa la società puntava a una capitalizzazione di 8,9 miliardi di sterline, per poi accontentarsi di 7,6. Ieri ne ha già persi due. Sono state collocate azioni per 1,5 miliardi: alla società sono andati i due terzi dell’incasso, il resto agli investitori preesistenti. La débâcle della maggior Ipo dell’ultimo decennio nel Regno Unito ha molte cause: sopravvalutazione del titolo, governance errata, fine dei rialzi per le azioni della gig economy. Ma ci sono anche motivi strutturali: l’avvicinarsi della fine della pandemia, che nell’ultimo anno ha gonfiato le consegne a domicilio, accrescerà la concorrenza nel settore del food delivery, mentre la fine dello sfruttamento dei rider selezionerà le aziende che sopravviveranno.

Molti grandi azionisti di Deliveroo, tra i quali il fondatore Will Shu e Amazon, ieri hanno venduto un decimo dei loro titoli. Shu ha incassato 26 milioni di sterline, Amazon 91 e altri investitori iniziali 380. Ora per sei mesi non potranno replicare, ma hanno già dissanguato i 70mila risparmiatori che avevano comprato azioni per 50 milioni e che sino al 7 aprile non le potranno rivendere. Deliveroo non è leader né nel Regno Unito né nella Ue, superato dai concorrenti Just Eat/Takeaway.com e Uber Eats, mentre negli Usa deve vedersela anche con i giganti locali Doordash, Yum Brands e Domino’s. L’azienda, fondata nel 2013, nel 2020 ha perso 262 milioni nonostante ricavi saliti del 54%, in linea con i concorrenti.

Nel mondo, la consegna online di cibo cresce grazie alla diffusione dagli smartphone e di Internet. Nella Ue la percentuale di chi acquista cibo online è passata dall’11% nel 2007 al 24% nel 2017. Nel Vecchio Continente nel 2019 il settore ha attirato investimenti per oltre 1,6 miliardi con lo sbarco di marchi Usa come Grubhub, Uber Eats e Doordash. La pandemia, che ha relegato i clienti dei ristoranti in casa, ha poi spinto i ricavi: tra Europa e Usa l’anno scorso sono stati pari a 66,4 miliardi. In Europa le app più installate sono state Uber Eat, Glovo, Delivery Club, Just Eat e Deliveroo.

Nonostante la crescita, sinora il settore ha lavorato in perdita, innescando un’ondata di fusioni come quella del 2020 tra Takeaway e Just Eat. La concorrenza crescente ha ridotto commissioni di consegna e paghe dei rider. Condizioni di lavoro precarie, controlli asfissianti affidati agli algoritmi, salari in calo hanno fatto esplodere la loro rivolta. Uber il 19 febbraio ha perso una causa a Londra e dovrà inquadrare i suoi 70mila rider britannici come dipendenti con diritto a pause e ferie. La sentenza riguarda oltre 620mila lavoratori nel Regno Unito. Just Eat l’ha anticipata, garantendo salari minimi e ferie pagate ai suoi corrieri britannici. In Spagna il 24 settembre scorso la Corte Suprema ha stabilito che i rider sono lavoratori dipendenti. Il 25 febbraio Procura di Milano e Ispettorato del lavoro hanno ordinato a Uber, Glovo, Just Eat e Deliveroo di assumere come dipendenti oltre 60mila rider impiegati dal 2017 al 2020 e pagare ammende per 733 milioni. Tre giorni fa così Just Eat ha rotto il fronte dell’associazione di settore Assodelivery: ha firmato un’intesa con i sindacati per assumere i rider con il contratto della logistica, con una paga oraria iniziale di 9,6 euro, e si è impegnata ad altre 4mila assunzioni entro l’anno.

Ma la questione è molto più ampia. L’economia delle piattaforme coinvolge milioni di lavoratori anche in altri settori. In Germania, il 2,3% della popolazione in età lavorativa svolge servizi taxi o di consegne e il 3,8% lavori domestici basati su piattaforme. In Francia si sale al 4,4%, in Italia all’8,9%. Dietro il boom della platform economy, secondo uno studio del 2020 della Rand, c’è Amazon. Il suo braccio sul cloud, Amazon Web Services, gestisce i software delle piattaforme di consegne. Non a caso Amazon è tra gli azionisti di Deliveroo.

OI clienti delle app torneranno a voler socializzare anche nei ristoranti. Il prevedibile calo della domanda di consegne a domicilio taglierà i ricavi e porterà a nuove concentrazioni tra le aziende. Grazie ai suoi margini positivi Just Eat imporrà ai concorrenti i suoi standard di regolarizzazione dei rider e un costo del lavoro maggiore. Con la fine della libertà di sfruttamento, l’avvenire di Deliveroo e soci si fa dunque incerto. Il loro modello può non sopravvivere ai diritti dei lavoratori.