Il salvatore della patria non esiste (e non ci serve)

Gesù ha detto: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8, 32). Questa è tra le frasi più disattese dell’intero Vangelo, la politica come esercizio del potere, ha fondato se stessa sulla perversione programmatica di questo principio. I regimi la verità la fabbricano. Al tempo in cui in Germania si instaurò il nazismo, poteva capitare di leggere sulla stampa ufficiale, notizie di questo tenore: “Ebreo rabbioso azzanna mansueto pastore tedesco!”. Mutatis mutandis, anche nelle democrature si tende, se non proprio a ribaltare le verità, a fare splendere l’ovvio, a far passare per novità luminosa la routine, a riciclare come idea innovativa il già visto e praticato, il merito della questione viene espunto dal confronto e sostituito dalla retorica del consenso a priori.

Ora, con il dovuto rispetto alla competenza in campo economico e finanziario del presidente del Consiglio Mario Draghi, questo non fa di lui un taumaturgo come è mostrato dall’evidenza e neppure l’uomo della provvidenza di cui peraltro non si sente, né si è mai sentito il bisogno, ma che viene evocato sempre per supplire ai deficit di realtà, di serietà e di assunzione di responsabilità di una classe dirigente mediocre e incapace di rimettersi in questione. Tale classe dirigente, pubblica e, in notevole misura privata, vuole mantenere i propri privilegi e per farlo acclama la figura prestigiosa di chi non teme di essere sottoposto al fuoco incrociato ostile e amico perché, per storia e vocazione, non teme i franchi tiratori armati di ordigni che non lo colpiscono. Erigendo detta figura a scudo e lustrandolo con incensamenti abbaglianti, i soliti noti si preparano a fare man bassa del gruzzolo annunciato dal Recovery Fund protetti dai superpoteri del super Mario nazionale, internazionale e globale. L’Italia ne uscirà verosimilmente con le solite diseguaglianze, le inesorabili sperequazioni, gli inguaribili vizi endemici: evasione fiscale, corruzione, mafie. Ma che importa, tanto c’è sempre la post-verità.

Mario è Pop, s’accontenta di una sedia di plastica

• Titolo: “I due Draghi e i nuovi mostri”. Svolgimento: “Ci sono le persone normali, come Draghi, che si è messo in coda per farsi vaccinare insieme alla moglie. (…) E poi ci sono loro, i Nuovi Mostri. (…) Parliamo del caregiver Andrea Scanzi. Di Matteo Renzi (…). Non siamo qui per condannare, ci accontentiamo di sorridere amaro sulla meschinità e sulla piccineria. Sperando che una risata prima o poi li seppellisca. Con la normalità di un Mario Draghi e consorte, seduti sulle seggioline di plastica”.
La Stampa

• “Non ha tempo per seguire i ‘giochetti di prestigio’ di chi nella maggioranza continua a equiparare la sua azione a quella del governo precedente, con l’intento di tenere alto nei sondaggi Giuseppe Conte (…). Ieri era all’hub della stazione Termini di Roma per vaccinarsi insieme alla moglie, con AstraZeneca contro il virus. Alla politica era già vaccinato.
Corriere della Sera

“Basta debolezze con gli evasori!” 15 anni di balle politiche e condoni

Esce oggi in libreria Parassiti – Ladri e complici: così gli italiani evadono (da sempre) il fisco”, il libro di Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti edito da Paper First.

Promettono, promettono ma sono tutti uguali. Dalle cariatidi della Prima Repubblica agli ultimi salvatori della Patria. Ugualmente compiacenti con gli evasori fiscali. Da Luigi Preti a Mario Draghi. “Basterà spingere un bottone e avremo i nomi degli evasori”, aveva giurato, agli inizi degli anni Settanta, l’allora ministro socialdemocratico delle Finanze, Preti, lanciando l’avveniristico Progetto Athena, il rivoluzionario embrione dell’anagrafe tributaria, rivelatasi poi un fiasco completo. La stessa guerra totale dichiarata, mezzo secolo dopo, dall’attuale presidente del Consiglio Draghi il 17 febbraio 2021 al Senato, promettendo “un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale”. Impegno smentito appena un mese dopo con l’ennesimo condono a favore dei furboni del fisco. E questa volta senza neanche nasconderlo: “Sì, è un condono…”, ha ammesso l’ex capo della Bce.

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere di fronte ai numeri della grande vergogna: 107,2 miliardi di euro di evasione – 95,9 di mancate entrate tributarie e 11,3 di mancate entrate contributive – stando all’ultima relazione della Commissione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Tutto in perfetta linea con le dichiarazioni e proclami di capi di governo, ministri e presunti leader che si sono spesi in promesse roboanti salvo poi calare le braghe di fronte ai milioni di evasori i cui voti, evidentemente, fanno gola a tutti. Ecco qualche esempio delle tante balle rintracciabili negli annali parlamentari e sui giornali solo degli ultimi quindici anni.

Stabilità vo’ cercando: “Dobbiamo proporre una politica fiscale stabile, accompagnata da un rafforzamento della lotta all’evasione…”. Francesco Rutelli, 16 maggio 2005, vicepresidente del Consiglio dal 2006 al 2008.

Più o meno: “Venendo meno le una tantum e la stagione dei condoni, l’attenzione si sposterà alla lotta all’evasione…”. Domenico Siniscalco, ministro dell’Economia, 20 maggio 2005.

La Lega vede nero: “Abbiamo un ampio margine se ci impegniamo nella lotta all’evasione fiscale…”. Roberto Maroni, ministro del Lavoro, 26 maggio 2005.

Regole prima di tutto: “Rispettare le regole e fare una vera lotta all’evasione fiscale…”. Vincenzo Visco, 2 giugno 2005, pluriministro delle Finanze.

Feroci, miei Prodi: “Lotta feroce all’evasione e far emergere il sommerso”. Romano Prodi, 5 luglio 2005, due volte presidente del Consiglio.

Quel fenomeno del Cav: “L’evasione fiscale sarà una priorità per il governo”. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, 15 luglio 2005.

Chez Giulio: “L’evasione è mal contrastata. Si combatte abbassando le aliquote”. Giulio Tremonti, pluriministro dell’Economia, 8 novembre 2006.

Re Giorgio va alla guerra: “Basta debolezze nella lotta all’evasione”. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, 22 agosto 2011.

Mari e Monti: “Io penso che l’Italia si trova in difficoltà soprattutto a causa dell’evasione fiscale: siamo in uno stato di guerra…”. Mario Monti, presidente del Consiglio, 18 agosto 2012.

All’ultimo respiro: “La lotta senza quartiere all’evasione proseguirà e lo faremo con interventi di più lungo respiro”. Enrico Letta, presidente del Consiglio, 11 luglio 2013.

L’evasione secondo Matteo: “Meno si parla, più si agisce e più siamo seri”. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, 7 giugno 2014.

Meloni, presente!: “Se volete veramente combattere l’evasione, be’, allora andate a farlo dove sta davvero”. Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia 20 ottobre 2019.

La resa di Conte: “La politica non ha il coraggio di affrontare di petto la questione dell’evasione”. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 16 ottobre 2019.

Sorpresa: due italiani su tre favorevoli alla patrimoniale

Secondo Matteo Salvini è “un crimine da arresto immediato”. Per Giorgia Meloni è “un furto sui conti correnti” e quelli che la propongono sono “nemici dei cittadini da fermare il prima possibile”. Silvio Berlusconi l’ha definita “un disastro”. Luigi Di Maio prima l’ha bollata come “inaccettabile”, poi ha corretto il tiro accodandosi a Beppe Grillo e avallando l’idea di una tassa per i milionari. Ma cosa pensano gli elettori di questi partiti della famigerata patrimoniale? È la domanda a cui dà una risposta per la prima volta un sondaggio condotto dall’agenzia di ricerca internazionale Glocalities e letto in anteprima dal Fatto.
La ricerca della società olandese, condotta in Italia su 1.046 persone intervistate online tra febbraio e marzo, mostra risultati sorprendenti. Soprattutto per i leader dei principali partiti citati sopra. Il 66% degli intervistati, vale a dire due italiani su tre, si è infatti dichiarato favorevole o molto favorevole alla proposta di introdurre una patrimoniale per i multimilionari. La domanda precisa era questa: “Le persone che possiedono più di 8 milioni di euro dovrebbero pagare un’imposta annuale aggiuntiva dell’1% del loro patrimonio totale per finanziare la ripresa dalla pandemia da Covid-19 e aiutare le persone bisognose?”.
Favorevoli con maggioranza bulgare gli elettori di Liberi e Uguali e Partito democratico, che una proposta simile – un’imposta progressiva a partire dallo 0,2% su patrimoni superiori a 500mila euro – l’avevano presentata lo scorso autunno attraverso un emendamento alla Finanziaria (primi firmatari Nicola Fratoianni e Matteo Orfini) ritirato dopo il parere negativo di governo e relatori per mancanza delle coperture finanziarie.
D’accordo nel tassare i grandi patrimoni, mobiliari e immobiliari, sono però anche gli elettori delle altre forze politiche. Favorevole o molto favorevole alla super tassa si è dichiarato il 77% dei sostenitori del Movimento 5 Stelle, il 66% di quelli di Forza Italia, il 65% dei leghisti e il 56% degli elettori di Fratelli d’Italia. Tutta gente che non considera la patrimoniale “un crimine” né “un furto”, tanto per usare le parole di Meloni e Salvini. Unici contrari alla sovrattassa sono i sostenitori di CasaPound, gli auto-definiti fascisti del Terzo millennio.
Il sondaggio è stato commissionato da Tax Justice Italia insieme a Milionaires for Humanity, un gruppo formato da un centinaio di multimilionari provenienti da varie nazioni del mondo (non dall’Italia) favorevoli all’idea di una patrimoniale imposta a persone come loro. Tra i membri di Milionaires for Humanity ci sono ad esempio Abigal Disney, ereditiera del colosso Walt Disney, e il regista britannico Richard Curtis, sceneggiatore di film cult come Notting Hill, Love Actually e Il diario di Bridget Jones. La patrimoniale ipotizzata nel sondaggio – secondo gli economisti Jakob Kapeller, Rafael Wildauer e Stuart Leitch – potrebbe generare per l’Italia un gettito aggiuntivo compreso tra 5,1 e 7,6 miliardi di euro all’anno.

E il ticket Giuseppe-Letta è al 40%

È uscito da Palazzo Chigi già da un mese e mezzo. Eppure la popolarità di Giuseppe Conte è ancora molto alta. Nonostante sia mediaticamente sparito. E un ticket Letta-Conte sembra essere assai gradito agli italiani. Parliamo di sondaggi, naturalmente. Gli ultimi di Nando Pagnoncelli (Ipsos), presentati su La7 a Di Martedì, indicano l’alleanza Pd e 5 Stelle come migliore strada per il centrosinistra.

Ma partiamo proprio da Conte, ancora il leader politico più gradito dagli italiani: è in testa con il 22%, seguito da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, entrambi col 12%, poi Enrico Letta col 10%, mentre a chiudere è Matteo Renzi col 2% (Draghi non è stato sondato). Ma la ricerca di Pagnoncelli per il programma di Giovanni Floris ha un altro dato interessante: la coppia Letta-Conte, alla guida di una possibile alleanza, raggiunge un gradimento del 40%, mentre il duo Salvini-Meloni si ferma al 35. “Sono numeri che un po’ sorprendono, perché poi il centrodestra come intenzioni di voto è in vantaggio”, ha osservato il sondaggista. Alla domanda “chi volete alla guida di una coalizione di centrosinistra con i 5 Stelle”, la risposta è stata Conte per il 39% e Letta per il 22. Sul fronte opposto, invece, a sorpresa Meloni (28%) supera Salvini (23%).

Numeri che assomigliano a quelli sempre di Pagnoncelli pubblicati sabato sul Corsera, secondo cui l’arrivo di nuovi leader alla guida di Pd e M5S, Letta e Conte appunto, ha fatto bene a entrambi i partiti, che nelle rilevazioni risalgono al 20,3% (dal 19), il primo, e al 18% (dal 15,4), il secondo. Anche in questa rilevazione l’ex premier risulta il leader politico più amato con 57 punti di gradimento davanti a Speranza, Meloni, Letta, Salvini e Berlusconi, e il solito Renzi a chiudere.

I numeri, dunque, incoraggiano il percorso comune di Letta e Conte, iniziato con un incontro la settimana scorsa che ha rappresentato la prima uscita pubblica dell’avvocato del popolo da quando ha lasciato il governo. “Si è aperto un cantiere”, hanno detto. Poi Letta ha continuato il suo giro di consultazioni incontrando altri leader, eccetto Renzi e Salvini. Conte, invece, è ora atteso a dire la sua sulle regole pentastellate e sui rapporti con Casaleggio, ma intanto oggi dovrebbe incontrare i gruppi parlamentari M5S. Per iniziare a dare la linea. Forte del fatto che i numeri sono ancora dalla sua parte.

Il debutto di Conte nei 5S che soffrono i veti di Grillo

Il primo discorso dell’avvocato da capo in pectore, ai 5Stelle che non si tengono più. E che oggi proveranno a chiedergli risposte sul loro futuro. Alle 21.30 di oggi Giuseppe Conte parlerà tramite Zoom a tutti gli eletti del M5S: da parlamentari e sindaci fino ai consiglieri comunali e regionali, per arrivare agli europarlamentari. Tutti assieme sulla piattaforma per ascoltare l’ex premier, che non ha ancora ultimato il suo piano di rifondazione del Movimento, ma che qualcosa deve già dire, perché il corpaccione del M5S come pure tanti i big non ce la fanno. Freme e quasi sbanda il Movimento nell’attesa del rifondatore, che da settimane lavora al suo progetto con un nuovo Statuto e una vera struttura per i grillini. E d’altronde ad aumentare il malessere ha provveduto Beppe Grillo, ribadendo che il vincolo dei due mandati “resta un pilastro”. Rogna inattesa quanto ingombrante per Conte, che stasera dovrà tenersi in equilibrio. Anche ieri, come fa da giorni, ha ignorato la pioggia di chiamate dei 5Stelle.

Gli unici con cui parla regolarmente sono Luigi Di Maio e il reggente Vito Crimi. Talvolta sente Grillo e qualche big di rito contiano. “Ma di dettagli non ne dà” sussurrano. Però stasera gli sarà più difficile tacere. Certo, nel discorso iniziale l’ex premier non si soffermerà sui punti del progetto. “Il suo sarà un intervento sulla visione e i principi del nuovo M5S” dicono. Però poi, oltre agli interventi di Crimi e dei capigruppo, dovrebbe esserci anche uno spazio per le domande degli eletti. Dove sicuramente pioveranno domande sui due mandati come sull’eterna guerra con Davide Casaleggio e la sua piattaforma Rousseau. E per l’avvocato a quel punto sarà complicato buttare la palla in tribuna. Per questo, ieri alcuni maggiorenti hanno chiesto che la videoconferenza venga blindata, eliminando le domande. “Ma così si rischierebbe l’insurrezione” riflettevano ieri dai piani alti. Tradotto, sarà molto difficile evitare una discussione, almeno parziale. Ed è quello il principale ostacolo per Conte, che avrà bisogno di altri 7-10 giorni per completare il suo piano. Di sicuro l’ex premier è molto disturbato dal proliferare di correnti nel M5S. Teme che possano rendere in gestibile un Movimento già frammentato in troppi pezzi, dove ora traballa perfino l’autorità di Grillo. Il suo veto alle apparizioni tv è già stato violato da diversi 5Stelle di rango, tra cui Di Maio.

E il ritorno in primissima fila del Garante, con post quasi quotidiani e telefonate giornaliere a parlamentari di vario ordine e grado è vissuto con diffuso fastidio. In questo quadro, il nodo dei due mandati è stato benzina sul fuoco. Anche per Conte, che vuole trovare un punto di caduta, magari garantendosi come capo politico la facoltà di scegliere chi ricandidare in base anche a criteri meritocratici. Prima però deve rabbonire le truppe. Per questo stasera in collegamento ci saranno tutti gli eletti. “Comprese le sindache” fanno notare. Ossia Chiara Appendino, che assieme alla viceministra Laura Castelli lavora alla complicata tela per un accordo tra M5S e Pd a Torino. E Virginia Raggi, la sindaca di Roma, con cui Conte non si sente da tempo.

C’è un silenzio pesante, tra Raggi e l’ex premier. Ma la candidata nella Capitale sarà di nuovo lei: blindata da Grillo e decisa a giocarsela in una partita incertissima anche secondo i sondaggi. Secondo una rilevazione di BiDimedia, nelle intenzioni di voto la sindaca è stimata al 24,5 per cento. Ossia seconda, dietro al dem Roberto Gualtieri, dato al 26,3 per cento, ma sopra il possibile candidato del centrodestra Andrea Abodi, al 23,6, mentre Carlo Calenda è stimato al 15,7. Cifre che valgono come sospiri, perché ottobre è lontano. Anche per Conte.

Colabrodo. Dipartimento di Stato: nuovo attacco hacker

Hacker che agiscono per conto del Cremlino non danno tregua all’Amministrazione Usa: colpiscono i sistemi informatici degli apparati governativi e minacciano il processo democratico, inquinando, come un rapporto d’intelligence ha documentato a metà marzo, la campagna elettorale di Usa 2020. L’ultima incursione, in ordine di tempo, è quella condotta lunedì scorso contro il sistema email chiamato Solar Winds del Dipartimento della Sicurezza interna. Nell’attacco, sono stati carpiti messaggi dell’ex segretario ad interim Chad Wolf, nominato da Trump a fine mandato. Altre agenzie federali e imprese del settore privato che utilizzano sistemi mail analoghi hanno subito attacchi, non è chiaro se correlati l’uno agli altri. Ieri, invece, s’è avuta indicazione, da Politico, che i sistemi informatici del Dipartimento di Stato furono violati lo scorso anno: hacker che si sospetta fossero al servizio di Mosca hanno sottratto migliaia di mail, in particolare dall’ufficio degli Affari europei ed eurasiatici e dall’ufficio Asia orientale e Pacifico. Non ci sarebbe stato accesso, invece, alle informazioni riservate. Se confermato si tratterebbe del secondo attacco con lo zampino del Cremlino ai sistemi informatici del Dipartimento di Stato negli ultimi dieci anni. Un portavoce, interpellato da Politico, non ha né confermato né smentito l’informazione, trincerandosi dietro una formula di rito: “Non possiamo discutere la natura o l’ampiezza di ogni presunto incidente di cyber-security… Il dipartimento prende molto sul serio la responsabilità di proteggere le proprie informazioni e assicura costantemente che siano tutelate”. In realtà diversi episodi negli ultimi anni hanno alimentato dubbi sulla sicurezza del Dipartimento: dalle email sottratte e rese pubbliche da Wikileaks alla polemica sull’utilizzo di un account privato da parte di Hillary Clinton, quand’era Segretario di Stato. Alla Casa Bianca, Anne Neuberger, vice consigliere per la Sicurezza nazionale, con delega alla cyber-security, ammette che “ci sono ampie falle”.

Da Berlino a Sofia: tutte le spiate di Putin in Ue

Le spie russe sanno come avvicinare e reclutare gli uomini in divisa dell’Unione: ieri è accaduto a Roma, ma nei mesi precedenti si è ripetuto da un lato all’altro d’Europa. Già l’estate scorsa, nel cono di luce degli inquirenti che indagano gli infiltrati dei servizi segreti russi attivi in Europa, era finito sotto indagine un tenente colonnello francese di stanza nella base Nato di Napoli.

Con le mostrine del tricolore di Parigi e croce cerchiata dell’Alleanza atlantica sulle spalle, l’ufficiale era stato avvistato insieme a un sospetto, poi identificato come un agente della Gru, servizi segreti russi, a cui ha passato “materiale ultra-sensibile” sulla sicurezza Nato. Lo ha riferito all’epoca il ministro della Difes,a Florence Parly, quando, con l’accusa di “spionaggio per una potenza straniera che mina i fondamentali interessi della nazione”, l’ufficiale è stato arrestato al suo rientro in patria per le vacanze.

All’intelligence russa interessano anche gli angoli più remoti del Bundestag. Seguito per mesi dai servizi segreti tedeschi prima che la sua abitazione venisse perquisita, Jens F., 55 anni ed ex ufficiale dell’esercito, lavorava per una compagnia addetta al mantenimento delle attrezzature elettriche del Parlamento di Berlino. Il cittadino della Repubblica federale – che secondo Der Spiegel, dal 1984 e 1990, ha avuto legami con la Stasi – ha consegnato le planimetrie dettagliate del Parlamento tedesco a un addetto dell’ambasciata russa nella Capitale, che le avrebbe allungate alla Gru nel 2017, anno di elezioni generali nel Paese della Merkel. A Berlino e poi più a est. Secondo l’ufficio del procuratore generale di Sofia, – come ha riferito poi la portavoce del dipartimento Siika Mileva –, “diversi membri dell’esercito bulgaro hanno passato informazioni classificate a un governo straniero”. Informazioni e dati militari riguardanti la Nato e l’Unione europea sono finiti a Mosca grazie a un network di spie composto da sei uomini in divisa: quando sono stati scoperti alcuni erano ancora operativi, altri già in pensione. Tra loro c’era un membro del ministero della Difesa bulgaro che si occupava di budget, un addetto alle valutazioni di minacce e rischi in arrivo dall’estero, – Russia compresa –, altri due ufficiali spesso incaricati di portare a compimento missioni oltre il confine patrio. Questo “gruppo criminale che ha messo a rischio la sicurezza nazionale” aveva a capo un alto grado diplomatosi molto tempo prima alla scuola militare di Mosca, quella nei cui corridoi spesso passeggia la Gru. Una moglie dalla doppia cittadinanza, russa e bulgara: tra le mani degli agenti di Mosca i documenti classificati di Nato ed Ue arrivavano grazie alla coniuge dell’ufficiale, che li trafugava in Ambasciata in cambio di denaro. In seguito all’indagine, in totale, da ottobre scorso, sono cinque i russi che dalla sede diplomatica di Sofia sono stati espulsi e costretti al rimpatrio.

Il primo della lista a essere scoperto per aver condiviso per almeno un decennio segreti militari e dettagli sulle sue attività nelle ex Repubbliche sovietiche è stato un ex ufficiale delle forze speciali americane, nato in America 45 anni fa, ma da madre russa. Peter Rafael Dzibinski Debbins, reclutato da Mosca nel 1996 prima ancora che entrasse nell’esercito a stelle e strisce, sposato dal 1997 con la figlia di un ufficiale della Federazione, quando è stato arrestato, al dipartimento di Giustizia americano invece di dichiararsi colpevole ha detto: sono un “figlio della Russia”.

Via due diplomatici da Roma. Mosca minaccia ritorsioni

Lo spionaggio e rivelazione di segreti sono “atto ostile e di estrema gravità”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha convocato ieri alla Farnesina Serghey Razov, ambasciatore russo in Italia, a cui ha notificato l’immediata espulsione dal Paese di due funzionari di Mosca “coinvolti in questa gravissima vicenda”. Prima di ringraziare l’intelligence e tutti gli apparati dello Stato italiano coinvolti nelle indagini, il ministro Di Maio ha trasmesso “la ferma protesta del governo” al plenipotenziario russo Razov, vecchio studente della prestigiosa Università statale di Relazioni Internazionali di Mosca ed ex viceministro degli Esteri della Federazione fino al 2005, ha iniziato la sua carriera diplomatica un anno dopo il crollo del Muro di Berlino: ambasciatore prima in Mongolia, poi in Polonia ed infine in Cina prima di arrivare in Italia, fino all’altro ieri era seduto alla Camera dei deputati in Commissione Esteri accanto a Piero Fassino per parlare del prossimo G20. Se l’Ambasciata russa nella Capitale italiana ha confermato il coinvolgimento di un suo membro senza aggiungere dettagli, l’onnipresente e baffuto portavoce del presidente Putin, Dmitry Peskov, a Mosca ha commentato dicendo che il Cremlino non ha a disposizione “informazioni su ragioni e circostanze” dell’incidente. Sono contrariate – perché ciò che è accaduto rimane comunque grave –, ma non sorprese o preoccupate le autorità italiane, riferiscono fonti vicine al governo. La notizia di nuove operazioni di intelligence russe su suolo europeo ha presto raggiunto anche i governi stranieri. Se Londra è solidale, Washington è preoccupata ma fiduciosa. Il premier Boris Johnson e il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab denunciano “l’attività maligna e destabilizzante della Russia, che ha lo scopo di minare un alleato Nato”. Secondo indiscrezioni, per gli Stati Uniti i documenti venduti alla Russia non sono particolarmente rilevanti, né per l’Italia né per l’Alleanza atlantica, ma costituiscono la prova che l’Unione e la Nato sono costantemente nel mirino dell’intelligence di Mosca.

Anche se per qualcuno la caccia alle spie russe è stata rinvigorita dall’insediamento dell’Amministrazione Biden oltreoceano, a Ovest sanzioni ed espulsioni di diplomatici di Mosca sono iniziate con l’annessione della Crimea nel 2014, si sono susseguite da Londra a Berlino dopo l’avvelenamento con la sostanza nervina novichok prima dell’ex spia Serghey Skripal, poi dell’oppositore Aleksej Navalny. Dopo Gran Bretagna e Germania però adesso “la spio-mania è arrivata anche in Italia”, ha detto il presidente della Commissione della Duma per gli affari internazionali Leonid Slutsky, secondo cui “l’espulsione dei diplomatici è un atto estremo, un tale gesto avrà un’impronta negativa sul dialogo russo-italiano”, finora più forte degli altri rispetto a quello degli altri Stati dell’Unione. L’asse Roma-Mosca che finora ha sempre mantenuto vivo il suo rapporto è ora a repentaglio e la Federazione è rammaricata: la scelta dell’Italia “non è conforme a livello delle relazioni bilaterali” ha riferito il ministero degli Esteri russo.

Il Paese dei servizi segreti di Putin, – ma anche del vaccino Sputnik, le cui fiale sono state promesse all’Italia –, ha ribattuto come suo solito alle dure misure in arrivo dalla Farnesina: “Risponderemo, la nostra reazione sarà simmetrica” e vi verrà comunicata in seguito. Accadrà forse molto presto: appena i due russi, protetti dallo status diplomatico faranno ritorno a casa.

Reclutamento russo alla Difesa: “Segreti in cambio di denaro”

Documenti classificati come segreti passati di mano in cambio di denaro. Un’azione di reclutamento russa ancora in corso, avvenuta nella Capitale, con due protagonisti: un capitano di fregata della Marina militare italiana e un ufficiale accreditato presso l’ambasciata della federazione russa. Il primo avrebbe fornito documenti classificati come segreti in cambio di una somma di denaro di circa 5 mila euro.

Gli ingredienti di questa spy story – che ieri il ministro Luigi Di Maio ha definito di “estrema gravità” – sono ancora tutti da chiarire. Intanto il capitano di Fregata, Walter Biot, è stato fermato (è attesa per oggi l’udienza di convalida e lì potrà fornire la sua versione dei fatti), e il funzionario russo (insieme a un suo superiore) espulso.

L’attività degli 007 l’ufficiale seguito da tempo

Ma procediamo con ordine. L’attività di indagine è stata svolta dall’Aisi (i servizi segreti interni) e dallo Stato maggiore di Difesa, che da tempo tenevano sotto controllo i funzionari russi e l’ufficiale. Il capitano è Walter Biot, 56 anni, una carriera militare in Marina intrapresa da ragazzo e che dal dicembre 2010 all’agosto del 2015 ha anche lavorato nella sezione internazionale della Pubblica Informazione del dicastero della Difesa. Nel 2014 diventa ministro della Difesa dell’allora governo Renzi, Roberta Pinotti: Biot – precisano ieri dall’Ufficio stampa del gruppo del Pd al Senato – non ha mai fatto parte del suo staff.

Poi il capitano è diventato effettivo al III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa, un reparto che ha delicate mansioni come il coordinamento in ambito Stato Maggiore e per gli aspetti di competenza dei rapporti con organi esterni all’Amministrazione Difesa (compresa quindi la gestione di dossier classificati che riguardano comandi alleati, Nato e le ambasciate straniere).

Gli incontri Dal laghetto dell’Eur a Spinaceto

Da mesi, dunque, l’intelligence italiana teneva d’occhio gli incontri tra Biot e il funzionario russo. Quest’ultimo, secondo alcune ricostruzioni, dalla metropolitana al laghetto dell’Eur, zona sud della Capitale, prendeva l’autobus fino a Spinaceto, nella periferia romana. Qui faceva alcuni sopralluoghi, per controllare che l’italiano non fosse seguito, e poi i due si incontravano in un parcheggio. Gli scambi sarebbero avvenuti in auto.

L’ultimo incontro martedì scorso, quando però sono intervenuti i carabinieri del Ros che hanno fermato i due. Il funzionario russo, che ha evitato l’arresto grazie al suo status di diplomatico, è stato espulso. E con lui un suo “collega”, un uomo che – secondo quanto ricostruito dagli investigatori – gli impartiva ordini.

Le questioni il sistema di controlli alla marina?

La vicenda è finita ora al vaglio dei magistrati della Procura di Roma, che indaga per spionaggio e rivelazione di segreto. Ci sono ancora molti aspetti da chiarire. Innanzitutto bisogna comprendere l’entità dei documenti che l’ufficiale italiano ha consegnato. Secondo quanto riferiscono fonti di intelligence, il problema non è tanto il contenuto, ma il modo di raccogliere informazioni da parte dei russi sul territorio italiano. C’è poi la questione della sicurezza alla Marina militare: come è possibile che documenti classificati relativi alle telecomunicazioni militari, sensibili per la sicurezza nazionale e della Nato, siano portati all’esterno? Bisogna poi ricostruire se vi siano precedenti: quante volte Biot ha incontrato l’ufficiale russo? A quanto si apprende, l’ufficiale della Marina militare aveva seri problemi familiari e quindi il sospetto è che i russi possano aver fatto leva proprio su questo. L’indagine è solo all’inizio.