Chiesto giudizio per Fuzio e Palamara Csm, Lanzi (FI) lascia la commissione

La Procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex Pg della Cassazione, Riccardo Fuzio, e di Luca Palamara, ex consigliere del Csm, accusati di concorso in rivelazione e utilizzo di segreto d’ufficio. Fuzio, costretto alle dimissioni dopo la pubblicazione di alcune intercettazioni con Palamara, secondo i pm, “su istigazione” di Palamara gli avrebbe rivelato l’arrivo al Comitato di presidenza del Csm di un esposto presentato dall’ex pm di Roma Stefano Fava in merito a comportamenti “asseritamente scorretti” dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. A Fava, invece, viene contestato l’accesso abusivo in archivi del ministero della Giustizia per prendere atti “per ragioni estranee” da quelle per cui era titolato: per screditare, con “l’ausilio” di Palamara, sia Pignatone sia il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Intanto al Csm, per un “corollario” all’audizione di Palamara, c’è stato un cambio che fa rumore, in Prima commissione, che si occupa dello scandalo nomine. Via Alessio Lanzi, laico di FI. Al suo posto l’altro laico di FI, Michele Cerabona, che era in Quinta, una commissione cruciale: propone le nomine. E lì ora è andato Lanzi. Presidente della Quinta, al posto di Cerabona, Giuseppe Marra, togato di AeI. Il prologo: il 24 marzo, il giorno prima dell’audizione di Palamara al Csm, Lanzi incontra l’avvocato Roberto Rampioni, difensore dell’ex pm. Il caso vuole che Lanzi venga visto dal Pg Giovanni Salvi, che abita nello stesso palazzo dello studio legale. Salvi informa gli altri membri del Comitato di presidenza e viene convocata una riunione urgente, riservatissima, su richiesta della presidente della Prima, Elisabetta Chinaglia, togata di Area, che era pure andata sotto quando è passata, 4 a 2, la proposta avanzata da Nino Di Matteo, per esigenze istruttorie, di sentire Palamara, ma solo su due fatti specifici, in modo da scongiurare “comizi”. Lanzi spiega che aveva incontrato Rampioni, amico di antica data, “alla luce del sole”, per motivi accademici. La maggioranza della Prima lo difende e quindi partecipa all’audizione. L’incontro Lanzi-Rampioni, però, viene fuori, al Consiglio monta il disagio, il vicepresidente David Ermini chiede a Lanzi di lasciare la Prima, ma lui ribadisce che non ha fatto nulla di male anche se ammette, e avrebbe potuto non farlo, che con Rampioni, ai saluti, si sono scambiati qualche battuta innocua sull’imminente audizione di Palamara. Ermini insiste e si trova la soluzione “politica”, che non mette Lanzi proprio in castigo: va all’ambita, da tanti, Quinta. Un trasferimento evitabile se, per opportunità, Lanzi non avesse incontrato l’amico-avvocato di Palamara, oppure se dopo avesse disertato l’audizione per apparire, oltre che essere, imparziale.

Superbonus, dati Enea: lavori +410% da inizio dell’anno

Superbonus al 110%: l’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, ha aggiornato i numeri sui risultati raggiunti negli ultimi mesi, sottolineando una forte accelerazione nelle ultime settimane. ll 23 marzo, il numero dei cantieri – secondo quanto riferito dall’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro e sulla base di un dettagliato rapporto dell’Agenzia – è passato da 6.900 a 8.353, con un aumento del 20%, mentre il valore totale dei lavori è passato da 733 milioni di euro a 877, con un aumento del 19,7%. In generale, da inizio anno il numero dei cantieri è aumentato del 410% (per la precisione da 1.636 a 8.353) mentre il valore degli interventi è cresciuto del 364% (da 189 a 877 milioni di euro). Aggiornando anche con l’ultima settimana, i cantieri salgono a 10.051, il valore a oltre il miliardo. L’ente fa anche una distinzione in termini di interventi nelle Regioni, con la Lombardia in testa la spesa, seguita dal Veneto, e viceversa per il numero di interventi. In sostanza, è la conclusione, considerando i lavori effettuati, si sarebbe generato un risparmio energetico annuo pari a 166 mila megawattora. Il tutto con ripercussioni anche sul livello di fiducia per le prospettive di crescita del settore (IHS Markit segnala un forte aumento in prospettiva) sia per il valore aggiunto che gli interventi edili portano al Paese (analisi impatto della Luiss Business School che lo stima in 30 miliardi nel prossimo decennio). “I dati – ha commentato Fraccaro che continua a chiederne una proroga – continuano a salire, dimostrando che è possibile conciliare crescita economica, inclusione e sostenibilità: le imprese lavorano in una fase economica difficilissima, le famiglie risparmiano sul costo dell’energia e il pianeta ne beneficia. Adesso più che mai serve dare certezza agli operatori per prorogare il più possibile l’orizzonte temporale entro cui poter ultimare i lavori”.

Viareggio, colletta delle vittime per i ferrovieri ai quali Fs ha chiesto 80 mila euro di danni

Ottantamila euro: questo è il conto salato che sei ferrovieri si sono visti recapitare da Ferrovie dello Stato dopo la sentenza della Cassazione di gennaio sulla strage di Viareggio in cui era stata prescritta l’accusa di omicidio colposo plurimo. Secondo i giudici, quindi, la strage in cui persero la vita 32 persone non fu il risultato della violazione delle norme sul lavoro, contrariamente a quanto stabilito nei processi di primo grado e Appello. Così i sei lavoratori che si erano costituiti parte civile nel processo perché incaricati di tutelare e rappresentare i colleghi in tema di sicurezza del lavoro ora dovranno risarcire Fs con spese legali per 80 mila euro. Stessa cosa per quelle organizzazioni sindacali – dalla Cigl alla Ugl Toscana – che si erano costituite parte civile. “Non abbiamo mai richiesto né ricevuto neanche un euro dei risarcimenti riconosciuti nei primi due gradi di giudizio” dicono i ferrovieri. Così è partita una colletta da parte dell’associazione delle vittime della strage, “Il Mondo che Vorrei”.

Le veline di Repubblica sul decreto sostegni

Troppa grazia. Noi al Fatto, forse troppo tradizionalisti, pensavano che a un articolo si rispondesse con una replica. Invece Palazzo Chigi ha scelto un metodo innovativo: far rispondere agli altri giornali. Martedì, per dire, il Fatto ha riportato una serie di simulazioni della Fondazione dei consulenti del lavoro per confrontare i Ristori messi in campo nel 2020 (dal dl Rilancio ai decreti di fine anno) con l’ultimo dl Sostegni. Le simulazioni mostrano che quest’ultimo ha ampliato la platea (aumentando il tetto di fatturato da 5 a 10 milioni e superando i codici Ateco) e stanziato più risorse, ma che alle singole imprese in assoluto sono andati meno soldi, con quelle piccole più svantaggiate. Ieri Repubblica svelava invece uno “studio interno” dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui, udite udite, la platea si è sì allargata e le risorse sono maggiori, ma gli importi medi sono più alti dei Ristori. Come si arriva a questo risultato? Nessuno lo sa, aspettiamo il prossimo “studio interno”.

Consulta. Sì ai domiciliari per gli over 70 anche se recidivi

I detenuti ultrasettantenni potranno ottenere gli arresti domiciliari anche se condannati con l’aggravante della recidiva. La Corte costituzionale, relatore Francesco Viganò, ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario, che prevede per loro il divieto assoluto. La magistratura di sorveglianza dovrà valutare caso per caso se il condannato recidivo “sia in concreto meritevole di accedere” ai domiciliari, “tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale”. La misura, spiega la Corte, “si fonda su una duplice presunzione. Da un lato, il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, secondo, le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli”. Inoltre, aggiunge la Corte, la norma è stata ritenuta irragionevole “anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena” e in modo conforme “alla costante giurisprudenza che considera contrarie” alla Costituzione (3 e 27) “le preclusioni assolute”. Questa sentenza non riguarda i detenuti anziani mafiosi o terroristi. La Corte, però, ribadendo il suo no alle preclusioni automatiche per benefici o misure alternative potrebbe applicare lo stesso concetto quando, dopo Pasqua, deciderà in merito al divieto attuale per mafiosi ergastolani di accedere alla libertà condizionale se non hanno collaborato.

Camici e altri disastri: il leghista in Porsche “inventato” da Maroni

Èarrivato a Palazzo Lombardia quasi per caso, Attilio Fontana. Faceva l’avvocato, incassava ottime parcelle, più che al Carroccio pensava alla sua Porsche Carrera con cui girava per Varese; e al verde delle cravatte leghiste preferiva il green dei campi da golf. Leghista, certo, sempre fedele al leader, prima Umberto Bossi, poi Roberto Maroni, infine Matteo Salvini. Ma di quei leghisti che vogliono saper parlare anche a chi non si mette le corna da vichingo in testa. Fama di buon amministratore. Comincia a fare il sindaco a Induno Olona, poi è primo cittadino a Varese. Nel tempo diventa una vecchia volpe della politica, con sei anni passati al Pirellone come presidente del Consiglio regionale. Così, quando Maroni — inaspettatamente — decide di non ricandidarsi alla guida della Regione più ricca (e più leghista) d’Italia, tocca a lui. Lo sfida Giorgio Gori, per il Pd, sperando di poter vincere. “Ma Fontana non ha mai perso un’elezione”, sorridevano i leghisti. Infatti diventa presidente della Lombardia.

Si mette di buzzo buono a fare il “governatore”. Avvia la riforma delle società regionali. Studia la messa a punto della sanità lombarda. Di fronte a una macchina così complessa e a spinte ed equilibri così delicati, la sua fama di buon amministratore comincia a scricchiolare. Poi arriva la pandemia, e gli scricchiolii diventano gemiti, urla. La sua immagine-simbolo resterà quella della diretta Facebook del febbraio 2020 in cui, dopo giorni di sottovalutazione del coronavirus, annuncia il suo autoisolamento a causa di una collaboratrice contagiata dal Covid e s’infila in diretta una mascherina chirurgica sugli occhi, sbilenca e arruffata, senza riuscire a indossarla. È la scena-madre di tutto quello che succederà nell’anno successivo in cui, in fondo, non farà che ripetere cento volte quella scena. Comincia con il balletto scarica-responsabilità con il governo, a proposito del “cluster” infetto di Alzano Lombardo e Nembro, che sarebbe stato da chiudere subito in zona rossa, anche contro la volontà di Confindustria di Bergamo. Resta aperto, invece, come l’ospedale di Alzano. Parte così il micidiale focolaio che trasforma la provincia di Bergamo nell’area con più morti per Covid al mondo. Fontana va avanti imperterrito, davanti a un pubblico distratto soltanto dalla sua “spalla”, un Giulio Gallera perfino più inadeguato di lui.

Mentre il virus si diffonde e fa in Lombardia metà di tutti i morti in Italia, fallisce la campagna vaccinale contro l’influenza. Regione compra poche dosi (alcune tarocche), in ritardo, a prezzi troppo alti. Peggio ancora, il disastro bis di oggi, con le vaccinazioni anti-covid. Intanto era partita la strage dei nonni, favorita anche da un paio di delibere regionali che permettono di “alleggerire” gli ospedali mandando nelle Residenze per anziani i malati Covid “leggeri”. Poi salta il tracciamento degli infetti. Salta anche l’assistenza domiciliare, con centinaia di nuclei famigliari abbandonati in casa. Per recuperare, viene progettato un ospedale in Fiera per le terapie intensive che resta quasi deserto.

Molti dei donatori privati chiedono conto di come sono stati spesi i loro soldi. Intanto, centinaia d’appalti regionali vengono assegnati senza gara. Per far dimenticare il disastro, saltano alcune teste (tra cui quella di Gallera) e arrivano i rinforzi: Letizia Moratti e Guido Bertolaso. La sede della Lombardia Film Commission è comprata dalla Regione al doppio del suo prezzo, a incassare è la banda dei commercialisti della Lega.

Poi parte la vicenda dei camici comprati dal cognato, degna di una miniserie tv. Era una donazione, dichiara il presidente. Poi ordina un bonifico al cognato di 250 mila euro. Emerge così anche il conto svizzero Ubs in cui sono custoditi i soldi “sbiancati” dalla voluntary disclosure con cui Fontana nel 2015 ha regolarizzato 5,3 milioni detenuti da due trust alle Bahamas. Parte l’inchiesta. Fino a oggi.

Fontana, altro conto a Lugano. Si indaga su 2 milioni sospetti

Una società aperta nel paradiso fiscale delle Bahamas controllata da una fondazione in Liechtenstein e nata con un capitale iniziale di due milioni di euro. La stessa società aprirà poi un conto in Svizzera presso la Ubs di Lugano affidando la gestione a due trust di Nassau. È il 2005. Poco dopo su questo nuovo conto atterrano altri tre milioni da un vecchio conto del 1997 aperto sempre presso la Ubs di Lugano. Totale: 5 milioni, circa. E’ denaro di una eredità materna, dichiarerà nel 2016 il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, facendolo emergere attraverso lo scudo fiscale. Tutto ok. Fontana aveva titolo per operare su entrambi i conti. Ma c’è un particolare rilevante: la madre del presidente nel 2005 era in pensione da almeno sette anni. E dunque, da dove arrivano i primi due milioni? Parte da qua l’inchiesta sui conti svizzeri del governatore lombardo indagato dalla procura di Milano per autoriciclaggio e false dichiarazioni in voluntary rispetto proprio alla vicenda dei 5,3 milioni scudati nel 2016. Reati che secondo i pm si sono consumati nel momento in cui Fontana, all’epoca ancora sindaco di Varese, ha compilato la voluntary disclosure per far emergere il denaro. L’iscrizione risale ormai a qualche settimana fa. Ora però i magistrati hanno inviato ai colleghi svizzeri una richiesta di rogatoria di 14 pagine. Il documento, girato per competenza anche al ministero di Grazia e Giustizia, è molto articolato e contiene diverse richieste.

I camici del cognato Da dove parte l’inchiesta

L’indagine sui soldi svizzeri nasce dal caso della fornitura di 75mila camici ad Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia, da parte di Dama spa, società che detiene il marchio Paul & Shark ed è riconducibile ad Andrea e Roberta Dini, cognato e moglie di Fontana. “La difesa di Fontana – è scritto in un comunicato della Procura di Milano – si è dichiarata disponibile a fornire ogni chiarimento in sede rogatoriale” e anche “se del caso, mediante produzione documentale” e “presentazione spontanea dell’assistito”. L’iscrizione del presidente leghista, già indagato per frode in pubbliche forniture rispetto alla parte dei camici, è arrivata dopo il deposito di una nota della Guardia di finanza e di due report dell’Agenzia delle entrate. Nel mirino ci sono due conti entrambi aperti presso Ubs a Lugano. Il primo, quello del 1997, è riferibile a Maria Giovanna Brunella, madre di Fontana, deceduta nel 2015. Su questo, è noto, aveva l’operatività lo stesso governatore che in quel periodo era sindaco leghista nel comune di Induno Olona. Ciò che invece appare come una novità rilevante è che su quel primo conto erano presenti tre e non cinque milioni. Nel 1998 la madre del presidente, di professione dentista, andrà in pensione. Nel 2005 nasce poi un nuovo conto e qui il contenuto della nota della Finanza svela un elemento inedito. In quell’anno Fontana è presidente del Consiglio regionale della Lombardia. Andiamo con ordine: poco prima dell’apertura del conto del 2005 viene costituita la società Montmellon Valley con sede alle Bahamas. Le quote, secondo la Procura, sono detenute da una “Fondazione Obbligo”, sede a Vaduz in Liechtenstein, dietro la quale, sostiene l’accusa, vi sono i beneficiari finali, ovvero i familiari di Attilio Fontana. A questo punto viene aperto il secondo conto sempre presso la Ubs, mentre “la fondazione dei Fontana” affida la gestione delle quote a due trust di Nassau. Una tripla schermatura.

Le richieste dei magistrati: di chi è quel denaro?

Ma c’è di più: stando agli accertamenti della Finanza, il secondo conto del 2005 nasce con in pancia già 2 milioni di euro che apparentemente nulla hanno a che fare con l’eredità della signora Brunella. Di chi sono e come sono stati messi insieme? A quella data la madre di Fontana è in pensione da otto anni. Sul conto del 2005 riferibile alla società appoggiata ai due trust triangolano così i primi 3 milioni del 1997 andando a comporre la provvista finale e mischiandosi con il deposito iniziale di 2 milioni. Per la procura di Milano, il vero nodo da sciogliere sono i due milioni. Di questo si occupa la rogatoria firmata dai tre pubblici ministeri titolari del fascicolo assieme al procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. La prima richiesta riguarda il chi ha aperto quel conto e chi ha portato i 2 milioni e in che modo. Stesso quesito rivolto alla banca per la posizione aperta nel 1997. La Procura ha chiesto di avere tutti gli estratti conto. Anche in relazione ad alcuni movimenti di denaro, che stando alla ricostruzione dell’accusa sono avvenuti tra il 2009 e il 2013. Si tratta di operazioni in entrata e in uscita tra i 129mila e i 400mila euro. Lo studio dei movimenti bancari, secondo i magistrati, potrà dare risposte definitive.

La vicenda del conto svizzero del presidente emerge fin dal maggio scorso dopo una segnalazione per operazione sospetta da parte della milanese Unione fiduciaria che ha il mandato di amministrare il conto estero. Il 19 maggio 2020, infatti, Fontana allerta la fiduciaria per disporre un bonifico di 250mila euro al cognato Andrea Dini. L’ipotesi della Procura è che il bonifico, mai andato in porto, fosse il risarcimento per Dini che aveva dovuto, su indicazione anche dello stesso Fontana, trasformare la fornitura ad Aria in donazione come attesta una mail del 20 maggio mandata da Dini all’ex direttore generale di Aria, Filippo Bongiovanni, lo stesso che il giorno prima invierà a Fontana l’Iban di Dini. Sia Bongiovanni sia Dini sono indagati per la vicenda dei camici, oltre che per frode come il governatore, anche per la turbata libertà nella scelta del contraente. La segnalazione della fiduciaria arriva così alla Banca d’Italia e alla Procura che inizia a indagare arrivando in poco tempo a rilevare una criticità nella fornitura di Dama ad Aria.

Grazie allo scudo risparmiati 50 mila euro

Tornando ai conti svizzeri, le due note dell’Agenzia delle entrate hanno studiato da un lato le capacità economiche dei familiari di Fontana rispetto alla presunta eredità da 5,3 milioni. Un tesoretto depositato in Svizzera che secondo gli esperti tributari non può corrispondere alle entrate dei genitori del presidente, medico condotto il padre, dentista la madre.

Oltre a questo si è studiato quanto Fontana ha risparmiato in sanzioni scudando i conti con la causale eredità. Il calcolo, secondo i pm, si avvicina ai 50mila euro. Il denaro dichiarato con la voluntary, in modo legittimo, è sempre rimasto in Svizzera. Ci sono poi le carte dello scudo che la Procura ha tentato di recuperare sentendo i professionisti che nel tempo si sono occupati dei conti esteri della famiglia Fontana.

Amnesie&uffici allagati Le carte non si trovano

Ma fin dall’inizio il tentativo di fare chiarezza da parte della Procura di Milano si è scontrato con amnesie, uffici allagati, carte che non si trovano e scarsa collaborazione da parte dello stesso Fontana. Una storia nella storia quella dei documenti della voluntary disclosure. La Guardia di finanza nei mesi scorsi ha fatto visita al commercialista di fiducia di Fontana e all’avvocato Valerio Vallefuoco. Stando a quanto viene spiegato in Procura, Vallefuoco, associato anche presso uno studio svizzero di Lugano, ha detto di non avere quei documenti, aggiungendo che nel suo ufficio c’è stato un allagamento. Il commercialista di Varese invece avrebbe detto di aver solo firmato i documenti e di non averli. Chi li avrebbe materialmente visionati è un terzo commercialista, però deceduto. Ma ora la Procura punta direttamente al bersaglio grosso: l’origine dei due conti e di quei 2 milioni presenti fin da subito sulla posizione aperta nel 2005 che per la difesa sono però solo un errore contabile.

Conte-Gualtieri, persino il Fmi promuove le loro misure

Per i riformisti, tutto ordine e liberismo non c’è pace. Anche il loro riferimento spirituale, il Fondo monetario internazionale, ha dovuto ammettere che “la risposta italiana alla pandemia è stata nel suo complesso efficace ad attenuare l’impatto sulla popolazione e sull’economia”.

È stata pubblicata da due giorni, infatti, la dichiarazione conclusiva della cosiddetta “missione art. IV” del Fondo monetario sull’Italia. Si tratta del documento che riassume l’esito della annuale visita degli economisti del Fondo nei diversi paesi membri, durante la quale si svolgono anche consultazioni con le istituzioni con i rappresentanti delle imprese, dei sindacati e della società civile, e che contiene una valutazione delle politiche perseguite e delle raccomandazioni per il futuro.

Insomma l’esame fatto dalla commissione più severa, componente di diritto della famigerata Troika che tra il 2010 e il 2015 ha svaligiato la Grecia. Diretta allora da una presidente, Christine Lagarde che a Yanis Varoufakis che non voleva saperne di mettersi sull’attenti rispondeva che “siamo adulti in questa stanza” quindi poche storie.

Alla testa della Bce Lagarde sta fronteggiando una crisi epocale con misure che dieci anni fa le avrebbero dato alla testa, e forse anche al Fmi si sono ammorbiditi. Secondo il documento sull’Italia, “le tempestive ed energiche” politiche adottate hanno contribuito a proteggere dall’impatto della crisi”, perché “ampie risorse di bilancio sono state allocate per contrastare l’emergenza sanitaria e i suoi effetti. Sostegno al reddito è stato assicurato ai lavoratori dipendenti, agli autonomi e alle imprese (…). Un credit crunch è stato evitato rendendo prestiti garantiti disponibili alle Pmi e alle grandi imprese”. “Come conseguenza, il reddito disponibile aggregato delle famiglie è si è ridotto solo in misura modesta”, e le imprese hanno generalmente avuto a disposizione “adeguata liquidità”. Ne gioisce l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che ha pubblicato il documento sul proprio profilo Facebook. E se la sua linea può essere discussa e criticata da “sinistra”, difficile possa esserlo dai “riformisti”.

Ora che succede? Calma, arrivano spot e call center

Quanti saranno non è noto. È certo solo quanto costeranno i centri vaccinali che ha in mente di realizzare il Commissario per l’emergenza Covid, Francesco Paolo Figliuolo: 1.000 euro al metro per complessivi di 180 mila metri quadri. Un’ipotesi previsionale che porta a quantificare la spesa a quota 180 milioni non un centesimo in più: se, come ha anticipato ieri Il Fatto, si dovesse rendere necessario anche un solo metro quadro in più si dovrà ricorrere alle sponsorizzazioni. Entrate nel mirino dei tecnici del Servizio bilancio del Senato che hanno preso a pallettate anche altre misure contenute nel decreto Sostegni a partire dagli 850 milioni di euro che potrà spendere Figliuolo per fronteggiare la pandemia e di cui non si conosce alcun dettaglio.

Per la verità il Servizio bilancio di Palazzo Madama bacchetta in più punti il governo di Mario Draghi infilzato tanto sulla congruità degli stanziamenti per garantire il reddito di cittadinanza e di emergenza, quanto per le misure sul Covid. A partire dal costo dei vaccini: il nuovo decreto autorizza una spesa di 2,1 miliardi, ma Palazzo Chigi non ha fornito un dato essenziale e cioè “il prezzo medio di acquisto e le quantità necessarie ancora da acquistare rispetto allo stanziamento (di 400 milioni, ndr) già specificamente previsto in legge di bilancio per vaccini e farmaci anti Covid-19”. Anche sui Covid hotel si naviga a vista: sono stati stanziati altri 51 milioni di euro per garantire il servizio per ulteriori quattro mesi ma senza ulteriori dettagli sull’evoluzione dell’epidemia, il numero di potenziali ospiti in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o le tariffe medie giornaliere praticate.

Dettagliatissime invece altre voci. Come i 6,5 milioni di euro previsti per pagare gli straordinari dal 1º febbraio al 1º aprile ai medici e ai paramedici della sanità militare. O, tornando alla contabilità del commissario Figliuolo, i 16 milioni per allestire l’hub nazionale di raccolta dei vaccini negli spazi del ministero della Difesa a Pratica di Mare: di questa cifra 12, 2 milioni serviranno per materiali di consumo, 500 mila euro per le utenze e 600 mila per la progettazione dell’infrastruttura. 120 milioni serviranno invece per la logistica: 52 milioni per garantire le consegne dei vaccini dall’hub ai centri di somministrazione territoriale. 68 milioni invece serviranno per assicurare l’invio di siringhe, aghi e soluzioni fisiologiche per acquistare bisognerà sganciare altri 39 milioni.

Ma oltre che sui centri vaccinali, la partita di Draghi e Figliuolo si gioca anche su un altro fronte, quello del rapporto con le Regioni: finora, per tacere del resto, sono andate in ordine sparso persino sulle fasce di popolazione a cui assicurare prioritariamente le dosi. Stando al governo basteranno 33,3 milioni per rimettere le cose in ordine grazie a una cura fatta a colpi di apparati tecnologici e spot.

Stando ai piani, i terminali dell’hub di Pratica di Mare gireranno a pieni giri per governare il flusso logistico e le scorte di magazzino. Ma è anche previsto che ogni singola postazione degli hotspot territoriali sia dotata di un device per la registrazione immediata e automatica delle vaccinazioni: questo dovrebbe servire ad alimentare nella maniera corretta i sistemi informativi regionali e di conseguenza l’anagrafe nazionale vaccini: per questo serviranno 15 milioni per l’acquisto dei dispositivi e 1,6 milioni per gli sms per la gestione delle prenotazioni sui diversi servizi informativi regionali.

Per una cifra di 7 milioni di euro è inoltre prevista la costituzione di un call center nazionale per la gestione delle informazioni nei confronti dei cittadini. Altri 7 milioni serviranno “per una campagna di informazione e comunicazione nazionale, rivolta ai cittadini e alle diverse fasce di priorità stabilite dal Parlamento”.

“500mila al giorno”? Ma ne abbiamo la metà

Se il motto del generale Figliuolo è “vaccinare, vaccinare, vaccinare” la realtà dice che non è così.

La dichiarazione resa ieri sera dal presidente del Veneto, Luca Zaia, è emblematica: “Noi che al momento siamo primi per vaccinazioni, ne facciamo 35 mila al giorno, annunciamo che sospendiamo le vaccinazioni, a parte qualche richiamo. I vaccini non sono arrivati, quindi la macchina perfetta che abbiamo messo in piedi con modelli di accesso rapido, diretto, senza prenotazione in questo momento non riusciamo a garantirla, perché non abbiamo la materia prima. Ieri ci sono arrivate 83 mila dosi di Pfizer, considerando che facciamo 35 mila vaccini al giorno, è chiaro che in un paio di giorni le esauriamo”.

La campagna va avanti a rilento per ragioni di disorganizzazione, ma soprattutto per la ragione di sempre: mancano le dosi. Inutile girarci intorno, il problema rimane quello della produzione, come del resto ha segnalato lo stesso Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa. I dati sono evidenti.

Dosi in ritardo. Secondo la tabella pubblicata all’interno del nuovo Piano vaccinale del generale e aggiornata al 3 marzo scorso, l’Italia a fine marzo avrebbe dovuto ricevere 15,7 milioni di dosi: 5,35 milioni da Astrazeneca, 7,35 (più 1,66 aggiuntivi) da Pfizer e 1,33 da Moderna.

Secondo la tabella pubblicata dal sito ufficiale del governo, le dosi consegnate fino a ieri (al momento in cui scriviamo) sono 11,247 milioni. Ne mancano oltre 4 milioni nonostante il nuovo governo sia insediato da oltre un mese e il commissario-alpino sia operativo dal 5 marzo.

Le dosi future. Come si vede, dunque, i problemi sono più seri di quanto si sia voluto far credere con l’ossessiva campagna anti-Arcuri, utile solo a procacciare la caduta del governo Conte.

Sempre secondo la tabella di Figliuolo la svolta avverrà nel secondo trimestre con la previsione di 52,48 milioni di dosi di cui, però, solo 7,35 provenienti da Johnson&Johnson e quindi monodose. Questo significa che a parte i fortunati della J&J (chissà come saranno distribuite) entro giugno saranno possibili poco più di 22 milioni di vaccinazioni tra i richiami da effettuare e le prime dosi. Ma il problema non è questo, l’aspetto più delicato è lo scarto tra gli annunci quotidiani, sempre più performativi e militareschi, e i fatti.

Già in ritardo. Utilizzando di nuovo i dati del governo, il Piano vaccinazioni appare già in ritardo. Secondo quanto annunciato in pompa magna da Figliuolo, infatti (come si vede dalla tabella pubblicata in pagina e tratta dal suo piano) a fine marzo si sarebbe dovuti arrivare a 300 mila vaccinazioni al giorno. L’ultimo dato disponibile (grazie al Sole 24 Ore), il 30 marzo, dice che sono state effettuate 243 mila vaccinazioni e il punto più alto è stato toccato il 26 marzo con 259 mila somministrazioni. La media dell’ultima settimana di marzo restituisce la cifra di 230 mila vaccinazioni al giorno contro le 300 mila annunciate, il 30% in meno.

Aprile a metà. Ma il problema è quel che accadrà ad aprile, anche perché chi fa gli annunci e chi li rilancia con enfasi sui giornali, non fa nemmeno di conto. Il governo ha annunciato che delle 52 milioni di dosi previste nel secondo trimestre ad aprile ne giungeranno solo 8 milioni. Da diversi giorni, però, si sente la promessa di arrivare a 500 mila vaccinazioni entro la metà di aprile. Il piano illustrato in tabella indica il raggiungimento di quell’obiettivo nella settimana tra il 14 e il 20 aprile. Bene. Ma quanto fa 8 milioni diviso 30, quanti sono i giorni di aprile? Non vi scomodate, il conto lo abbiamo fatto noi: 266 mila. Se il governo vuole onorare il suo obiettivo, creando “l’accelerazione” di cui parla Figliuolo, e giungere a 500 mila dosi somministrate a metà mese dopo, non avendo più dosi sufficienti, dovrà rallentare. In ogni caso, la media ottenuta sarà poco più alta di quella raggiunta nell’ultima settimana di marzo come Figliuolo sa bene e come lo sa anche Draghi.

Piano vaccini. Il problema, ripetiamo, è molto più complesso come tutti possono capire, solo che nel governo si sta giocando una strana partita. Invece di fare comunicazioni di serietà e verità si costruisce una narrazione “efficientista” salvo poi scaricare sul ministro della Salute, Roberto Speranza, gli aspetti negativi, come le chiusure o il vecchio piano vaccinale attaccato per aver lasciato troppe maglie larghe alle vaccinazioni di persone troppo giovani.

Docenti e polizie. Solo che si dimentica che inizialmente l’approvazione per Astrazeneca veniva raccomandata per le persone di età compresa tra i 18 e i 55 anni. In Germania la commissione di vaccinazione invitava a non utilizzare le dosi su persone di età superiore ai 65 anni; in Francia era destinato solo a persone di età compresa tra i 50 e i 64 anni.

Di fronte a queste limitazioni si decise allora, con un consenso diffuso, di vaccinare il personale scolastico e quelle delle forze di sicurezza. Solo successivamente Astrazeneca ha ampliato l’età di vaccinazione imponendo quindi altre strategie.

Oggi, in ogni caso, vige il decreto che ha varato gli “elementi di preparazione della strategia vaccinale” redatto il 10 marzo scorso. L’ordine di vaccinazione indicato è quello che vede al primo posto le categorie fragili, poi le fasce di età (da quella 70-79 in giù) ma, contemporaneamente, indica come prioritaria la vaccinazione del personale scolastico e universitario e tutte le Forze Armate e di Sicurezza. Della prima categoria si è raggiunto il milione di vaccinati su una platea di 1,4 milioni (ma si tratta per lo più di prime dosi) mentre tra Forze armate, di sicurezza, penitenziarie e altre si sono vaccinate finora 227 mila unità su 551 mila. E c’è chi sospetta che in questo caso si stia correndo un po’ troppo rispetto alle necessità di vaccinare chi sta davvero in prima linea.

La confusione non è stata risolta e in più i vaccini continuano a non arrivare.