Nessun “sostegno” al lavoro agricolo: partono le proteste

Nonostante un crollo di lavoro nei campi che nel 2020 ha toccato i tre milioni di giornate, come stimano i sindacati, il decreto Sostegni non ha destinato nemmeno un centesimo per i precari dell’agricoltura. Ci sono sgravi per le aziende, ma di indennità per gli operai nemmeno l’ombra. Ecco perché stamattina Flai Cgil, Fai Cisl e UilA manifesteranno a Roma: “Il governo ha dimenticato i braccianti – dicono – e noi facciamo sì che se ne ricordino”. La svista, se così si può dire, è un difetto ereditato dai precedenti provvedimenti, quelli approvati a fine 2020 quando al ministero sedeva Teresa Bellanova. I lavoratori impegnati nelle raccolte stagionali, infatti, hanno finora avuto solo due bonus: 600 euro dodici mesi fa, a inizio pandemia, e 500 euro un mese dopo. Dall’estate non sono più stati considerati, malgrado l’attenzione riservata ai lamenti degli imprenditori agricoli. Tra l’altro, i pochi contributi ricevuti hanno pure sbarrato la strada al Reddito di emergenza, in quanto incompatibili con il sussidio.

Prima di dimettersi e innescare la crisi di governo, la ministra renziana aveva puntato su due punti: la sanatoria degli irregolari, che ha fatto emergere quasi esclusivamente colf e badanti, e il bonus ristorazione del quale doveva beneficiare indirettamente il settore agricolo, ma che ha visto arrivare i decreti attuativi solo un attimo prima di disporre le chiusure dei ristoranti stessi. Insomma, due flop. Zero integrazioni al reddito per i dipendenti a termine di campagne e agriturismi, con i redditi colpiti soprattutto dalla crisi dell’ho.re.ca (hotel, ristoranti, catering e bar). “I braccianti hanno purtroppo tutte le carte in regola per essere i primi destinatari del provvedimento – fa notare il segretario Uila Stefano Mantegazza – ma non sono contemplati. Non per alimentare guerre tra poveri, ma ci sono misure per le partite Iva con riduzione di fatturato o appena aperte; ai braccianti nulla”. In agricoltura operano oltre 1 milione di persone, 900 mila a tempo determinato e, di questi, 600 mila superano le 51 giornate annue, il minimo per accedere alla disoccupazione a fine contratto: quest’anno, visto il calo delle giornate lavorate, molti non riusciranno a prendere l’assegno di disoccupazione. “Chiediamo di considerare le giornate lavorate nel 2019 anche per il 2020 – suggerisce il segretario Flai Giovanni Mininni – affinché possano raggiungere il livello minimo per avere l’ammortizzatore sociale”. La richiesta principale, però, è ammettere gli stagionali agricoli alle indennità previste per quelli del turismo.

Intanto, come ogni primavera, le aziende reclamano il ritorno dei voucher, quelli esplosi tra il 2015 e il 2016 poiché permettevano di pagare i lavoratori solo per le ore strettamente necessarie e senza contratto. Oggi esiste una nuova versione con molti più vincoli rispetto ai vecchi e proprio il settore agricolo è tra quelli autorizzati a farne uso. Alla Coldiretti non basta e il 19 marzo ha rilanciato, di nuovo parlando di carenza di manodopera straniera dovuta ai confini bloccati. I sindacati rispediscono la richiesta. “In questi giorni – dice il segretario Fai Cisl, Onofrio Rota – cominciano i raccolti di fragole e pesche e già sentiamo parlare di mancanza di manodopera. Come vogliamo rispondere? Rendendo ancora meno attrattivo il lavoro agricolo? Negando perfino un’indennità una tantum?”. Alle associazioni di datori, i sindacati chiedono piuttosto di rinnovare i tanti contratti collettivi provinciali scaduti da 15 mesi.

L’infornata: tutta la PA potrà assumere dirigenti a termine

Idirigenti della P. A. chiamati senza concorso dal privato raddoppieranno in pochi mesi: migliaia di posizioni che, nelle intenzioni, sono connesse all’attuazione del Recovery Plan italiano. “Faremo un grande reclutamento di high skill, di alte specializzazioni. Dobbiamo procedere nel selezionare i migliori nel più breve tempo possibile. Ci sarà un portale del reclutamento con grandi novità”, sostiene il ministro Renato Brunetta annunciando il relativo decreto per oggi.

Secondo una bozza visionata dal Fatto Quotidiano, il meccanismo individuato è un ampliamento del meccanismo di reclutamento degli esterni: il dlgs 165/2001 che regola il pubblico impiego prevede che le pubbliche amministrazioni possano conferire incarichi triennali a esterni “entro il limite del 10% della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia” e “dell’8% di quelli appartenenti alla seconda fascia”; quel limite da oggi e per i prossimi tre anni dovrebbe passare al 20% e senza più l’obbligo di assicurarsi prima che le professionalità cercate siano già interne alla P.A. (è il sistema, per capirci, degli interpelli) se l’interessato ha già svolto ruoli dirigenziali pubblici o privati.

Secondo Brunetta, che mischia il reclutamento straordinario e la ripresa dei concorsi (forse), “si tratta di prendere alcune decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di giovani”. Ottimo proposito in un settore devastato da un blocco del turn over (la mancata sostituzione di chi esce) durato più di dieci anni, ma la procedura sembra eccessivamente sbrigativa e lascia ampio margine di discrezionalità alle singole amministrazioni, praticamente tutte: da quelle centrali giù giù fino agli enti locali, alle Camere di commercio e, per dire, agli enti che gestiscono le case popolari.

La confusione deriva dal fatto che un conto è assumere professionalità legate agli specifici progetti del Recovery Plan, un altro promuovere – come prefigura la bozza del decreto – un rinnovamento dei vertici della P.A. attraverso l’immissione di una massa di dirigenti a termine scelti con criteri oscuri (e discrezionali) e che in futuro non si saprà neanche come stabilizzare (perdendo competenze accumulate in anni di lavoro).

Anche i colleghi ministri, secondo quanto riferisce chi era presente, hanno notato una certa confusione di Brunetta sul tema nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana: una lunga dissertazione sulla necessità di abbandonare le assunzioni per concorso nella Pubblica amministrazione, che dovrebbero essere sostituiti da un’indicazione dei meritevoli da parte degli ordini professionali (sic). Una lunga dissertazione – silente, al solito, Mario Draghi – finita contro il muro dell’articolo 97 della Costituzione, il quale stabilisce che di norma “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”.

Sarà questo l’ostacolo che a 36 mesi dalle assunzioni di oggi si troverà di fronte lo Stato. Niente paura, sostiene sempre Brunetta: nel decreto che oggi entra in Consiglio dei ministri “abbiamo trovato la strada per fare tutti i concorsi in sicurezza”, che verranno dunque sbloccati usando “gli strumenti dell’era digitale”. Il tema è molto serio: tra quelli indetti nel 2020 e quelli precedenti fermati dal Covid si tratta di almeno 300mila posti a tempo indeterminato non attribuiti. Il ministro sostiene che “il Comitato tecnico scientifico, dopo un utile e attento processo di confronto sulla base di mie proposte, ha acconsentito a sbloccare tutti i concorsi della P.A. bloccati dal Covid”.

A quanto risulta al Fatto, però, le cose non stanno proprio così: il decreto conterrà vaghe indicazioni accettate dal Cts sulla scorta dell’idea già illustrata da Brunetta in Parlamento, ovvero organizzare mega-concorsi in grandi strutture (tipo fiere) in cui le prove scritte si fanno al computer.

Ad oggi, però, i concorsi in presenza – computer o penna e calamaio che sia – prevedono una presenza massima di 30 candidati per sessione: nel nuovo testo non ci sono ancora né il limite numerico dei presenti, né quante e quali siano le strutture in cui avverranno le prove o come dovrebbero essere trovate (si prevede però l’obbligo delle mascherine Ffp3, che hanno la non piccola controindicazione di ostacolare la respirazione). In sostanza, come fare i concorsi con le vigenti regole anti-Covid ancora non si sa, però ministeri, Comuni e ex Iacp potranno assumere dirigenti per tre anni senza concorso e senza vincoli: magari si dirà che così si premia il merito.

L’altra domenica e l’età dell’oro in tv

Mai dire mai. Sono 45 anni che sogno di scrivere dell’Altra domenica, il programma generazionale per eccellenza dei bambini che erano andati a letto dopo Carosello; e degli adolescenti che tornati da scuola si attaccavano alla radio per ascoltare Alto gradimento. L’altra domenica scorsa il momento è arrivato grazie alla maratona passata su Rai Storia a 45 anni esatti dal debutto del più arboriano tra i programmi di Renzo Arbore, miscela perfetta di parodia, goliardia, improvvisazione e genio. Alzi la mano chi non ha sognato di esplorare le cantine rock di Londra con Michel Pergolani, di sedersi a un bistrot di Parigi con Francoise Riviere, di fidanzarsi a Manhattan con Isabella Rossellini.

L’altra domenica rendeva possibile tutto questo subito prima delle partite ancora invisibili, in un periodo della nostra storia in cui i sogni si erano complicati.

Correva l’anno 1976, la tormentata riforma della Rai era appena entrata in vigore; dopo avere inventato l’altra radio insieme a Gianni Boncompagni, Arbore si mette a scovare talenti porta a porta (ma quale talent show!) e si inventa una televisione dove la messa cantata dell’intrattenimento viene messa a testa in giù, gambe all’aria, e riletta da capo a piedi. “Nella vita non ci sono che inizi” a riprova di questa immortale verità, L’altra domenica è tutta un inizio: i primi inviati dalle Capitali, le prime “ragazze parlanti”, il primo quiz rivolto al pubblico da casa, (“Lei da dove chiama?”) i primi, ioneschiani siparietti con Mario Marenco (“Mi sente?” “No”), le prime Sorelle Bandiera, il primo Benigni critico cinematografico “che come tutti i critici cinematografici non capisce niente” (per non parlare dei critici televisivi). Faceva impressione rivedere tutti questi inizi mezzo secolo dopo, e la nostalgia si mescolava alla tenerezza per la povertà della televisione di oggi, che tuttora, a tempo abbondantemente scaduto, rincorre col fiato grosso quell’inconsapevole età dell’oro.

La linea duragiusta per l’Italia

Con ordinanza del 18 giugno 2020, la Prima sezione penale della Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario e altre norme che escludono la possibilità per il condannato all’ergastolo, per delitti commessi col metodo mafioso ovvero al fine d’agevolare l’attività delle associazioni mafiose, che non abbia collaborato con la giustizia, d’usufruire della liberazione condizionale.

La Corte costituzionale ha trattato la vicenda nell’udienza pubblica del 23 marzo 2021 e ha comunicato che la discussione proseguirà dopo le feste pasquali.

Alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, della tendenza delle alte Corti a confermare i propri orientamenti e delle conclusioni dell’Avvocatura dello Stato appare probabile che la Corte costituzionale dichiarerà illegittimo il divieto.

La sentenza n. 253 del 2019 ha infatti dichiarato incostituzionale l’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Ha inoltre esteso la dichiarazione di incostituzionalità a detenuti per reati diversi (sostanzialmente terrorismo) ove ricorrano le stesse condizioni.

Per comprendere la decisione della Corte costituzionale occorre considerare che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 13.06.2019 della Prima sezione nel caso Marcello Viola contro Italia, ha affermato i seguenti principi:

“137. Alla luce dei principi sopra menzionati, e per i motivi sopra esposti, la Corte considera che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente, in applicazione dell’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, detta ‘ergastolo ostativo’, limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione…

143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della ‘dissociazione’ dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente”.

La sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, apprezzabile, conteneva al minimo le conseguenze della giurisprudenza sovranazionale in quanto non ha introdotto un automatismo nella concessione dei benefici, ma anzi ha affermato che: “È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che – in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia – è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, che non è ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali… Ma… il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).

Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione”.

È ragionevole prevedere che la Corte costituzionale ribadirà tale posizione anche nella futura pronuncia. Allora va tutto bene? Temo di no.

Se la strada imboccata dalla Corte costituzionale è, a questo punto, probabilmente obbligata, bisogna domandarsi quanto siano efficaci le difese svolte dall’Italia innanzi alla Corte di Strasburgo.

Per altri Stati che hanno avuto fenomeni criminali di particolare gravità la Corte EDU ha ritenuto conformi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo modalità altrimenti non consentite: ad esempio è stato ritenuto legittimo che il Regno Unito usasse testimoni con identità di copertura nel procedimento penale: (Corte europea dei Diritti dell’uomo, 10.04.2012 Quarta Sezione, nel Caso Marcus Ellis e Rodrigo Simms e Nathan Antonio Martin contro Regno Unito; numero del Ricorso: 46099/06 46699/06).

Se la difesa dell’Italia ricordasse cosa è accaduto in questo Paese, mostrando, ad esempio, a Strasburgo le immagini della strage di Capaci, e documentasse l’accertata presenza di Cosa Nostra da oltre 150 anni, forse la Corte EDU capirebbe la differenza fra la realtà italiana e quella, ad esempio, dei Paesi scandinavi.

Certo che, in via di principio, è preferibile che decida il giudice caso per caso, ma quando si considera che cosa è accaduto a magistrati italiani nonostante le protezioni, sarà possibile far comprendere perché, qui e ora, sia preferibile che in questa materia la discrezionalità del giudice sia sostituita dal divieto di legge, per evitare minacce e pressioni irresistibili su coloro che devono decidere o sui loro familiari. Almeno finché ci saremo liberati dalle mafie.

Il caso del “Fontana sbagliato”, ovvero la coscienza sporca del bavaglio leghista

Lo scorso 15 marzo, il consiglio di disciplina territoriale lombardo dei giornalisti, accogliendo le segnalazioni del deputato leghista Daniele Belotti e del presidente regionale (leghista) Attilio Fontana, ha ritenuto che un post, pubblicato sulla mia pagina Facebook il 9 novembre scorso, “Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera

, positivo. Il Fontana sbagliato…” venisse meno “all’obbligo deontologico di un pieno rispetto della dignità delle persone anche in relazione al dovere di astenersi dal porre in essere comportamenti che possono incitare o sollecitare sentimenti di odio e di discriminazione che, nella specie, erano indirizzati nei confronti di un noto esponente politico”. Quanto rumore per un’evidente battuta, giocata sull’omonimia (in Lombardia le famiglie Fontana sono 2.781), in cui non vi è alcuna istigazione all’odio o alla discriminazione, al contrario di chi ha commentato, attribuendo ciò che non è scritto. Battuta, peraltro, che ha radici nel repertorio petroliniano e in quello dell’avanspettacolo, sino alle perfomance

tv di Crozza. Uno, al massimo, può giudicarla di cattivo gusto, non invocare violazione di regole deontologiche inesistenti.

In realtà, tale spropositata e inaccettabile reazione, che ha trovato arrendevole sponda presso l’Ordine dei giornalisti lombardi, va contestualizzata nella drammatica situazione pandemica in cui le autorità regionali hanno dimostrato la loro insipienza, suscitando indignazione e rabbia. Dietro questo discutibile procedimento disciplinare, si cela l’inquietante tentativo di limitare la libertà d’opinione sancita dalla Costituzione. In un mondo di informazione capillare e istantanea, il Potere teme l’effetto dirompente della satira. La considera pericolosa, sovversiva e destabilizzante quando non la può controllare, proprio per la sua straordinaria forza irridente.

MailBox

 

Renzi non vuole critiche? Vada a vivere in Arabia

Renzi viene profumatamente retribuito da tutti noi per lavorare in Senato, non per andarsene a spasso. In Arabia Saudita, dal suo amico principe ereditario Bin Salman, ha percepito ben 80.000 euro. Bin Salman è il mandante dell’omicidio Khashoggi. L’Arabia Saudita è uno dei Paesi più arretrati in fatto di diritti delle donne. Le condizioni di lavoro sono simili alla schiavitù. Ma Renzi dichiara che vi è il Nuovo Rinascimento! Forse non ha studiato storia molto bene, forse si confonde con il Medioevo. Pentito? Nemmeno per sogno, dichiara che il principe è un suo amico da anni e lo discolpa dall’omicidio del giornalista saudita (in effetti potrebbe essere morto di vecchiaia ed essersi tagliato da solo in molti pezzi). Dichiara anche che più lo si critica più viaggerà (in pieno lockdown). Proposta: si trasferisca definitivamente in Arabia Saudita, così potrà vivere serenamente nel Nuovo Rinascimento, senza le noiose critiche che accompagnano tutti i suoi viaggi.

Albarosa Raimondi

 

“Mostro di Firenze”, la denuncia di Mazzeo

Caro Travaglio, lei scrive che “le notizie non hanno colore, almeno al Fatto. Le pubblichiamo tutte”. Allora provi a pubblicare questa. Sono l’avvocato difensore della signora Rosanna De Nuccio, sorella di Carmela De Nuccio, uccisa dal “mostro” insieme al suo ragazzo a Scandicci nella notte tra il 6 e il 7 giugno 1981. Sono stato incaricato di svolgere indagini difensive su quel delitto. La mia richiesta di accesso agli atti in prima battuta è stata accolta sia dal presidente della Corte di Assise sia dal dottor Luca Turco, sostituto Pm, presso il cui ufficio quegli atti si trovano. Nel gennaio scorso ho iniziato l’esame: in un “caso freddo”, l’esame di archivio è il primo atto possibile. Per inciso: sul delitto di Scandicci del 1981 non esiste nessuna sentenza di condanna; il processo sui “compagni di merende” si concluse con la condanna di Mario Vanni, di cui ero difensore, solo per gli ultimi quattro duplici omicidi del “mostro” (a partire dal 1982). Alla fine di gennaio scorso ho inoltrato al Pm una seconda richiesta di esame di atti relativi ad altri omicidi. Il dott. Turco, però, con decreto del 4 febbraio scorso, l’ha respinta: “Considerato che gli atti individuati a seguito della presentazione dell’istanza 22.12.20, nonché gli atti indicati nell’istanza 25.01.21, non riguardano il reato in esame, bensì altri fatti reato, respinge le istanze”. Significa: per indagare su un omicidio del “mostro”, non posso guardare le carte degli altri omicidi, tutti legati tra loro dal vincolo pertinenziale della stessa arma adoperata (la famosa Beretta cal. 22).

Avv. Antonio Mazzeo

 

De Luna sulla pandemia: niente è più scontato

Ho letto con attenzione l’articolo di De Luna del 28 marzo. Purtroppo il respiro non è il solo che manca in questa situazione. Ho mia madre in ospedale da 2 mesi per un banale femore rotto. E questi due mesi sono stati terribili: di mia madre ho perso la Voce, perché questi anziani già fragili non hanno dimestichezza con telefoni e tablet e quando riesci a sentirli per il buon cuore di qualche infermiere, capisci che se ne stanno andando più per la solitudine che per le loro patologie, perché perdono, in un giro di ambulanza, i loro riferimenti, gli affetti, le attenzioni di chi li ama. Anche la Parola ci rende umani, ci fa esprimere quello che siamo.

Carla

 

È così. È come se la pandemia ci abbia resi più consapevoli nei confronti di tutto quello che prima davamo per scontato… il respiro, la parola, il silenzio… Era tutto ovvio… ora non più…

Giovanni De Luna

 

C’è chi aspetta la dose e c’è chi salta la fila

Ho subito 4 interventi per l’asportazione del cancro. Solo nell’ultimo anno sono stato operato 2 volte e in una di queste ho praticamente perso l’uso del braccio destro. Sto aspettando il vaccino anti Covid ma non mi ha ancora chiamato nessuno; io non sollecito perché, tutto sommato, sto abbastanza bene e, se non mi chiamano, sarà perché c’è qualcuno che ne ha più bisogno di me. E infatti tante persone sono già state vaccinate perché appartenenti a categorie a rischio: avvocati che non esercitano, insegnanti che non insegnano, accompagnatori che non accompagnano, badanti che non badano, educatori che non educano, figli che l’ultima volta che si sono presi cura dei genitori avevano i pantaloncini corti. Un sonoro vaffanculo a tutti questi.

Gianni Ungarelli

 

Pd, non c’è discontinuità nei cambi di capigruppo

Caro direttore, leggo della Malpezzi al posto di Marcucci al Senato e del duello avvincente tra la Madia e la Serracchiani alla Camera. Mi risulta che le tre siano state tutte renziane. Ma non era meglio lasciare fuori tutte queste figure appartenenti al passato? Francamente non vedo grande “discontinuità”… Mi sarei aspettato piuttosto una bella purga staliniana in onore dei vecchi comunisti che, come diceva Montanelli “almeno erano persone serie”. Che ne pensa?

Giovanni Frulloni

Caro Giovanni, il guaio è che i capigruppo del Pd li eleggono i gruppi parlamentari del Pd, quasi interamente nominati da Renzi.

M. Trav.

Parlamento. Il caso Occhionero e il buco nero dei “collaboratori”

 

Il gup di Palermo ha condannato a 16 anni e 8 mesi Antonello Nicosia, accusato di associazione mafiosa e falso per aver sfruttato il rapporto con la deputata Giusy Occhionero, che gli aveva fatto un contratto da collaboratore parlamentare per entrare e uscire dalle carceri dove incontrava i boss detenuti e, secondo l’accusa, portava all’esterno i loro messaggi.

Fq

 

Caro Direttore, la condanna in primo grado del dottor Nicosia, ex collaboratore parlamentare della deputata Occhionero, a pochi giorni dal “caso Boldrini” sollevato da “Il Fatto” e ferma restando la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, mette ancora una volta sul banco degli imputati le istituzioni parlamentari e la – pressoché inesistente – disciplina delle Camere in tema di collaboratori parlamentari.

Come riportato da fonti di stampa mai smentite, dalle indagini sarebbe emerso che la deputata Occhionero avrebbe depositato alla Camera un contratto da 50 euro mensili, quale retribuzione da corrispondere al Nicosia. Non solo. La stampa siciliana, nel novembre 2019, ha riportato la risposta che l’onorevole Occhionero – sentita in veste di testimone – avrebbe dato ai Pm. Alla domanda su come fosse possibile annoverare fra i collaboratori una persona come Nicosia, con alle spalle una condanna a 10 anni e mezzo per traffico di droga, Occhionero avrebbe risposto che alla Camera nessuno fa controlli del genere sui collaboratori.

Da allora nulla è cambiato, ancora nessuno fa i controlli sui collaboratori, i quali per le Camere esistono solo nel momento in cui devono avere accesso ai palazzi. Nessuna trasparenza sui Cv, nessuna pubblicità: la gestione dei collaboratori da parte dei parlamentari è completamente fuori controllo, con la benedizione delle Camere. Il Presidente Fico, la Presidente Casellati e i gruppi politici non hanno nulla da dire su questo stillicidio di “scandali” annunciati, frutto della barbarie contrattuale? Cos’altro deve accadere perché si decidano a intervenire adottando una disciplina che non faccia precipitare, ogni giorno di più, l’istituzione parlamentare nella considerazione dei cittadini? È arrivato il tempo che l’Europa ispiri, oltre alle manovre economiche, anche la disciplina dei collaboratori parlamentari.

José De Falco. Presidente Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp)

La selva oscurissima dell’informazione: storia di una bufala

Breve antefatto. Nel pomeriggio del Dantedì, venerdì scorso, il sistema dell’informazione s’è ritrovato in una selva oscurissima, smarrendo (e mica per la prima volta) la diritta via. Il sito di Repubblica spara nella home page (come apertura!) la violenta aggressione di un giornale tedesco contro il Sommo poeta. Con toni che manco una dichiarazione di guerra. Titolo: “Dante, l’incredibile attacco dalla Germania: ‘Arrivista e plagiatore’”. Cosa è mai successo? Apprendiamo da Rep che “C’è ben poco da festeggiare secondo la Frankfurter Rundschau, punto di riferimento degli intellettuali tedeschi engagé: in Italia si celebra oggi nient’altro che un poeta medievale ‘anni luce dietro a Shakespeare’, egocentrico e arrivista, che ha poco a che fare con la nascita della lingua italiana”. E ancora: “Ma quale padre della lingua italiana: Dante come poeta lirico è stato preceduto dai trovatori di Provenza, e quindi in realtà ‘la prima lirica in madrelingua italiana fu scritta in provenzale’”. Non si salva nessuno. “Dell’acredine della Frankfurter Rundschau viene gratificato anche il povero T. S. Eliot, autore di un famoso saggio su Dante e reo di equipararlo a Shakespeare”. Seguono a ruota tutti i maggiori siti d’informazione (La Stampa: “L’attacco che arriva dalla Germania: ‘Dante vale meno di Shakespeare, copiò tutto da un arabo’”; La Nazione: “Dante nel mirino tedesco, Schmidt: ‘Attacco isolato di un provocatore ignorante’”). L’eco innesca reazioni varie, tra cui un tweet del ministro Franceschini (“Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”) e dichiarazioni indignate di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni, che naturalmente si concentrano sulla valenza identitaria di Dante.

Ebbene, giunti qui vi dobbiamo dire che niente di tutto ciò risponde al vero. Se ne accorgono gli stessi lettori che, come riporta un articolato pezzo di Davide Turrini sul sito del Fatto già venerdì, sulla pagina Facebook di Repubblica fanno notare l’abbaglio. Dice un utente su Fb: “Ecco l’articolo: l’ho letto tutto. Sono allibito. Dove sarebbe ‘l’incredibile attacco a Dante?’. Si tratta di un noioso articolo che parte dalla poesia provenzale per poi parlare della Divina Commedia e arrivare a Shakespeare. Nulla di che. ‘Plagiatore’? Si cita un articolo del 1919 (!) dell’arabista Miguel Asin Palacios, secondo il quale Dante conosceva la storia dell’ascesa in cielo di Maometto e si sarebbe ispirato. Arrivista? Si parla di spirito agonistico invitando a ‘non sottovalutare’ Dante, non certo per attaccarlo”. Interviene anche Tobias Piller, corrispondente in Italia della Frankfurter Allgemeine Zeitung: “Non ho letto da nessuna parte né arrivista né plagiatore. Mi sembra un articolo che inquadra Dante nel suo tempo e ne spiega la grandezza ai tedeschi”. Lunedì esce una pagina di Roberto Saviano sul Corriere che ha il merito di spiegare per bene l’accaduto e di interpellare financo l’estensore della corposa analisi letteraria, il critico e scrittore Arno Widmann (traduttore di Eco e Malaparte). Il quale cade naturalmente dalle nuvole. A questo punto uno immagina che i siti che avevano dato con tanta enfasi la notizia la correggano. E non perché “errare è umano e perseverare diabolico”, ma perché capita a tutti di sbagliare, quel che non può succedere è violare coscientemente il patto di fiducia con i lettori. Invece no: l’incredibile attacco è ancora lì, a portata di motore di ricerca. Lasciate ogni speranza, cari lettori. E cari colleghi che vi riempite la bocca con le fake news, debunkizzate voi stessi prima che sia troppo tardi. I falsificatori di parola (Canto XXX) non fanno mica una bella fine…

 

Differenza di “classe” Don Milani e Marx non ci hanno insegnato nulla

Per gli amanti dei testacoda, dei paradossi, dei ribaltamenti di senso, eccone uno straordinario: la proprietà dei mezzi di produzione – quell’antico progetto marxista – diventa un argomento attuale, che tocca quasi tutti, che ancora discrimina i cittadini del Paese. Partiamo da qui: il ministro dell’Istruzione Bianchi emanerà apposite circolari eccetera, ma l’orientamento dichiarato, manifesto e riportato da tutti i giornali è questo: si boccia anche con la Dad, la famigerata didattica a distanza. Lasciamo perdere il consueto sciame sismico: attenzione ai ricorsi… il parere dei presidi… rumore di fondo. Stringendo: anche in condizioni estreme, anche in clamorosa emergenza (migliaia di italiani sono andati a scuola per poche settimane), rimane indiscutibile il criterio del voto, della media del sei, insomma del “merito”.

Tutti conoscono l’accezione contemporanea della parola-feticcio “meritocrazia”: una gara di cui si indica solo il punto d’arrivo e non il punto di partenza. In sostanza: si corrono i cento metri, uno in scintillante tenuta da sprinter, e l’altro senza una scarpa, con lo zaino pesante e le mani legate. Trionfa il merito, bravo, promosso.

La didattica a distanza ha moltiplicato quest’effetto, evidenziando senza dubbio che le differenze di classe (wow!) passano oggi (che novità!) per la proprietà dei mezzi di produzione. Un buon tablet, un collegamento in fibra, magari un buon cellulare a portata di mano, un computer che non si incanta come i vecchi grammofoni, una stanza tutta per sé. Quanti studenti italiani hanno oggi queste condizioni di partenza? Una minoranza. Perlopiù il Paese abita in un’altra galassia, quella dove è cara grazia se c’è un computer in ogni famiglia, e quando c’è bisogna fare i turni. E stabiliti i turni, la rete va e viene, magari tocca seguire una lezione in avventuroso collegamento mentre qualcuno studia, o lavora nello stesso spazio (vale anche lo smart working, ovviamente).

Senza arrivare a Dickens (per quanto…), le condizioni di partenza in questa nobile gara per conquistare il sei e confermare le leggende su un ipotetico “merito”, sono stellarmente distanti. Chi ha di fronte una consolle superaccessoriata con potenza da spostare i satelliti e chi litiga coi parenti per l’uso di un cellulare a vapore del Settecento, corrono entrambi per lo stesso obiettivo. Che è esattamente come fare a gara per chi arriva prima in piazza del Popolo, ma uno parte con la Porsche da via del Corso e l’altro arriva a piedi da Udine, cinque, bocciato.

Ecco perché la proprietà dei mezzi di produzione diventa, come sempre è stato, il vero elemento di distacco tra classi sociali, motore di diseguaglianza. Ma capisco che tirare in ballo il vecchio Marx sia barbogio e démodé, va bene. Si vorrebbe supporre, però, che chi si occupa di scuola in Italia abbia almeno letto qualcosina di Don Milani, magari là dove dice che “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali”. Se la scuola in presenza attenua, pur in minima parte, certe distanze sociali, la Dad no, semmai le amplifica, le ingigantisce fino al grottesco, fornendo una buona caricatura delle due, tre, quattro Italie che esistono in natura. Ai tempi di Don Milani e di Barbiana si bocciavano proletari coi piedi scalzi, il moccio al naso e le famiglie analfabete, oggi si può bocciare chi non possiede un adeguato standard tecnologico (che significa standard di reddito). Come si vede siamo sempre lì, chissà, forse per un vero salto culturale cade la linea.

 

Più del covid pagheremo la crisi psicologica

C’è una barzellettina divertente. Un automobilista telefona a Isoradio: “C’è un pazzo che in autostrada va contromano”. Dopo cinque minuti Isoradio riceve un’altra telefonata: “Non è solo uno, sono centinaia”. Il pazzo in questa stagione Covid-lockdown sono io perché ho un’opinione che va, sia pur parzialmente, contro le scelte fatte da quasi tutti i Paesi (Svezia a parte, ma per il mio bene sfioro solo l’argomento Svezia perché Travaglio va in convulsioni). Ma la Storia racconta che in qualche caso i pazzi che nel Medioevo si riteneva avessero uno speciale rapporto con Dio hanno avuto ragione sia pure sulla lunga distanza. Non sono né negazionista né complottista, due categorie che si intrecciano, tra l’altro contraddicendosi a vicenda (uffa, ogni volta che si parla di Covid-lockdown in modo diverso dalla communis opinio bisogna premettere che non si è negazionisti, come quando si critica Israele bisogna premettere che non si è antisemiti, così rafforzando la convinzione che si è proprio antisemiti). Il negazionismo va contro la realtà dei fatti. I morti all’anno per influenza sono mediamente 20.000, col Covid sono arrivati a 100.000 e sarebbero certamente moltiplicati, in che misura nessuno è in grado di dire, se non si fossero attuate le misure di contrasto. I complottisti sostengono che il Covid è un parto dei cosiddetti “poteri forti”, non mai ben specificati. Quindi per i negazionisti/complottisti il Covid non c’è ma anche c’è. Quale sarebbe il disegno dei poteri forti? Aumentare appunto il loro potere e la loro ricchezza. Ma che bisogno c’è se il potere e la ricchezza ce l’hanno già, oltretutto creando uno scompiglio tale che proprio questo potere e questa ricchezza potrebbe intaccare? Io non li ritengo così intelligenti da creare un complotto mondiale cui parteciperebbero evidentemente Usa, Russia, Cina, Brasile eccetera né così stupidi da darsi la zappa sui piedi. La mia posizione è diversa. Secondo me non c’è proporzione fra la pericolosità del Covid e le misure che sono state adottate per contrastarlo, fra cui la più decisiva e anche la più devastante è il “distanziamento sociale”. Sostengo anche che nel tentativo, onesto, sincero, di salvaguardare la nostra salute, la stiamo compromettendo. Sulla didattica a distanza tutti i governi all’inizio si sono concentrati sul fatto che interrompe la formazione degli studenti. Ciò è vero, ma fino a un certo punto. Io ho fatto tre prestigiosi licei milanesi, Parini, Berchet, Carducci, e c’erano ripetenti e gente che andava a ottobre con un mucchio di materie (io in seconda media con cinque, un record assoluto credo). Quindi studenti che non avevano studiato o lo avevano fatto malissimo. Eppure molti di costoro hanno avuto una buona riuscita nella vita, i “secchioni” spesso no. Solo di recente ci si è accorti che il vero e più profondo problema della didattica a distanza sta nel fatto che i ragazzi non possono conoscersi e socializzare fra di loro in un’età in cui questo è importante per il loro equilibrio. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. L’ambiente scolastico è solo uno dei luoghi della socializzazione giovanile, ci sono gli sport collettivi e, più semplicemente, la possibilità di incontrare amici e amiche o conoscerne di nuovi. Alcuni ospedali pediatrici hanno registrato che i ragazzi fra i dodici e i diciotto anni che, ovviamente spinti dai genitori, si rivolgono a psicologi o psichiatri in periodo Covid sono aumentati del 17%. Le patologie sono psichiche ma hanno anche conseguenze fisiche: stati depressivi e ansiosi, attacchi di panico, autolesionismo, tentazioni suicidarie, stati ipocondriaci, anoressia che colpisce in prevalenza le ragazze e che, com’è esperienza comune, può avere esiti letali. I pediatri ritengono che quel 17% in più sia solo una frazione del disagio adolescenziale, perché ovviamente non tutti, pur soffrendo di quei sintomi, ricorrono allo psicologo o allo psichiatra. La psicologa italiana Giorgia Lauro scrive: “L’epidemia e i conseguenti e ripetuti lockdown possono produrre e hanno prodotto molteplici conseguenze sulla vita degli adolescenti, stress cronico e acuto, preoccupazione per i loro famigliari, interruzioni scolastiche, aumento del tempo trascorso su Internet e sui social media, preoccupazione per il proprio futuro”. Non ci volevano équipe di pediatri, psicologi, psichiatri per capire che la reclusione in casa, per un anno e più, avrebbe devastato il mondo adolescenziale (e anche, sia pur in proporzione minore, quello adulto di cui qui non ci occupiamo), sarebbe bastata un po’ di esperienza e di senso comune. I conti per gli automobilisti che ritengono di andare nella direzione “giusta” si faranno solo fra qualche anno, solo allora si potrà fare un bilancio fra costi e benefici e se, come ci dicono gli esperti, l’epidemia diventerà endemica, è chiaro che non potremo continuare con dei lockdown stop and go, ma dovremo rassegnarci all’idea che, o bella, si può anche morire.